Dai pini della Sila alle guglie del Duomo

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di Angela Bevilacqua Š La Dea Editori Via Tasso, 2 87052 Camigliatello Silano (CS) Italy tel. e fax +39 0984 578125 tel. +39 0984 570878 tel. mobile +39 335 6689611 info@ladeaeditori.it ladea1@alice.it ladea@tiscali.it www.ladeaeditori.it Direttore editoriale: Egidio Bevilacqua Direttore artistico: Elvira Pacenza Impaginazione e grafica: Dea Graphic Prima edizione: febbraio 2014 Camigliatello Silano (CS) Italy ISBN 978-88-88557-61-8 Š Tutti i diritti sono riservati di traduzione, riproduzione e adattamento parziale o totale, compreso microfilm o copie fotostatiche copertina realizzata da Well-adv Milano: Il protagonista in Sila sul dorso di un ciuccio, in alto sulla destra il Duomo di Milano 2


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Occhi da conquistatore, mani dalle quali era un piacere ricevere carezze, bocca dalla quale ti sentivi gratificata ricevere un bacio. La cosa più bella che io ricordo di questo uomo che ho avuto l’onore di avere come marito è stato quel suo meraviglioso cuore che ha donato a tutti: amici, familiari, figli e nipoti con un’intensità e generosità che non riesco con le parole a descrivere. Il tutto può cosi compendiarsi: Tu sei stato il magnifico dipinto, Io solamente la cornice. Questa è la dedica che faccio a mio marito Mario.

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Prefazione Un pò di tempo fa volevo scrivere la storia di Angela, avevo incominciato con qualche rigo, poi gli eventi hanno posto termine a questa iniziativa. Ora a distanza di quasi quattro anni, desidero raccontare la storia di un “Grande Uomo” di nome Mario un uomo generoso e stupendo che è venuto dalla Sila a Milano per crearsi un avvenire unendo le doti di intraprendenza, ingegno, generosità della sua Calabria, con l’operosità e la disponibilità di questa città del Nord.

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Mario nacque in un piccolo paese della Calabria, dove diceva Lui «Seminano ceci e nascono briganti», il paese era San Giovanni in Fiore, un delizioso centro urbano posto nel cuore dell’Altopiano Silano, ricadente nella Sila Grande in provincia di Cosenza. L’antico borgo è sorto verso il 1200 attorno all’Abbazia, edificata in località Fiore, zona sovrastante i fiumi Neto e Arvo, dall’Abate Gioacchino da Fiore, nato a Celico (CS) il 1130 e deceduto nel monastero di San Martino di Canale a Pietrafitta il 30 marzo 1202. Trentotto anni dopo il suo corpo fu traslato nella nuova Abbazia Florense di San Giovanni in Fiore, dove tutt’ora sono conservate le sue reliquie. Diventato Comune nel 1530, dopo un periodo di forte emigrazione, oggi vive una notevole espansione commerciale ed un’intensa attività culturale. Fiorente è l’artigianato e la lavorazione di tappeti, coperte armene, e di preziosi oggetti in oro. Era il mese di marzo del 1929. Donna Costanza, una giovane bella ragazza silana dagli occhi nerissimi e lucenti e dai capelli lunghi ed ondulati, che vestiva ancora il costume di San Giovanni in Fiore creato da un designer d’eccezione L’Abate Gioacchino amico dell’Imperatrice Costanza, dette alla luce il suo terzo genito che questa volta era maschio. Il costume della donna sangiovannese, pacchiana nel dialetto locale, consisteva in una gonna nera a pieghe, una camicia cammisa in dialetto di

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tela bianca dalla profonda scollatura impreziosito da un ricamo lavorato a tombolo e da corsetto di velluto nero. A contornare il tutto, gli oggetti tradizionali in oro come le stupende Jennacche, che riempiono la ricca scollatura, le tipiche spille che fermano il corpetto alla camicia, i numerosi orecchini abbinati al resto. In testa un copricapo in lino bianco detto rituortu fermato da uno spillone. La tradizione ce lo ripropone, ancora oggi, nella sua autenticità. La bellezza di Donna Costanza faceva risaltare il costume che, anche se austero, metteva in evidenza tutte le sue grazie. Da sempre le ragazze sangiovannesi hanno avuto la fama di belle donne, tanto da far dire a Vincenzo Padula, un sacerdote poeta di Acri, «Che bella razza noi Calabresi avremmo se tutta la Sila fosse popolata». Papà Francesco detto Ciccio, non sapeva come contenere la sua gioia, dopo due figlie femmine Pina e Yole, finalmente aveva il suo erede. Con i suoi colleghi andò a festeggiare il lieto evento e si prese, lui così morigerato, nel bere in quell’occasione, una bella sbronza. Era nato Mario il protagonista di questa storia. Papà Francesco non registrò la data di nascita del figlio a San Giovanni in Fiore ma, qualche giorno dopo, lo fece a Cosenza dove lui era il Capo dei Vigili Urbani.

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Non posso descrivere con pienezza di particolari la vita del protagonista nei suoi primi anni perché non ero ancora nata e perché sin da piccola vissuta nel Nord della nostra Italia. Lo farò attraverso i racconti registrati ed impressi indelebilmente nella mente – per filo e per segno, stravaganti ed avventurosi, attinti da Mario e dalle sue sorelle. Mario cresceva bello, aitante e soprattutto si distingueva per la sua spontaneità, intraprendenza, il suo carisma e il grande senso dello humor. Da piccolo frequentava l’asilo delle suore Canossiane e Suora Annunziata era la continua vittima delle sue marachelle. Spesso lui andava al fiume Crati a Cosenza a catturare delle ranocchie nascondendole sotto il berretto; quando Suora Annunziata gli diceva di toglierselo, perché non si poteva tenerlo in classe, le ranocchie, per come diceva Mario nel suo dialetto calabrese, zompavano da un banco all’altro suscitando l’ilarità di tutti i compagni della classe. In una di queste uscite, la Suora si arrabbiò tantissimo, rincorse Mario per tutto l’Istituto e, il piccolo monello per non farsi prendere pensò bene, lui con un fisico atletico e da scavezzacollo, di arrampicarsi su un 12


pino, con il risultato che non sapendo più come scenderne dovettero chiamare i pompieri. Dopo quella bravata Mario non si arrese; anche se fu ampiamente punito dal padre e continuò nelle sue birichinate. Molte volte nel silenzio del refettorio per la pausa pranzo si alzava in piedi e con quanto fiato aveva in gola si metteva a cantare la canzone “vivere“ (altro sfogo al suo vivere vivace e scanzonato). A quei tempi nel refettorio non c’erano tavolini, ma solo una grande tavola con dei buchi nei quali erano incastrate le scodelle. Mario, muovendosi per cantare, faceva rovesciare la panca e le pietanze preparate per il pranzo cadevano a terra, con il risultato che i bambini rimanevano digiuni. Anche il Parroco della Chiesa di San Francesco, Don Angelo, era una vittima di Mario. Egli lo aveva nominato chierichetto e durante le funzioni gli aveva affidato il pendolo per l’incenso, solo che Mario senza farsi vedere durante la Santa Messa sbocconcellava la sasizza piccante e non sapendo poi dove mettere il budello lo ficcava nell’incenso con il risultato che bruciando produceva un odore sgradevole. Don Angelo lo rimproverava con lo sguardo ma Mario rispondeva con il suo sorriso accattivante. Un’altra delle sue marachelle, consisteva nel procurarsi un filo di crine, strappandolo da una giacca del padre, col quale infilava quattro mosconi che riusciva a catturare, per poi farli volare mentre era in classe. I mosconi volando emettevano un suono simile a quello di un aereo di ricognizione. Papà Francesco ancora una volta doveva firmare le note per le marachelle del suo scavezzacollo. L’unica volta che papà Francesco non sgriderà il figlio, ma con lui scoppierà in una sonora risata è quando Mario, passeggiando in un caldo pomeriggio in Corso Mazzini, viene colpito dalla fioritura degli alberi di prunus selvatici, non riesce a trattenersi e pensando di fare un omaggio alla mamma, senza pensarci, stacca due rametti di Fiori, in agguato però c’è un vigile che gli farà una multa scrivendo con le mani rompeva gli alberi. Portando la multa al padre, questi, ridendo, dirà a Mario che non si era reso conto di avere un figlio così forzuto. Mario continua nelle sue marachelle e con un gruppo di amici decide di costruire un piccolo carretto di legno con quattro ruote, formate da cuscinetti, per fare le gare di velocità dalla famosa discesa che dal 13


Castello normanno-svevo, attraversando il quartiere di Portapiana, sotto passando l’Arco di Ciaccio, terminava nei quartieri alti della vecchia Cosenza. Non si sa come, ma, ingerisce una biglia di uno dei cuscinetti. Papà Francesco in quella occasione si prende uno spavento non indifferente pensando quali conseguenze la biglia avrebbe potuto provocare. Decide cosi tra le rumorose rimostranze di Mario di fargli ingerire due grossi bicchieri colmi di olio di ricino e per cercare di limitare le marachelle del figlio gli racconta una leggenda. La leggenda narra di un piccolo gnomo chiamato il Monachiello che si dice viva nelle soffitte di case d’epoca. È un personaggio un po’ particolare che appare certe notti a coloro che hanno un forte carattere, e sempre la leggenda narra che se qualcuno riesce ad agguantarlo per i capelli può chiedergli di esaudire un suo desiderio. Mario non è molto interessato alla realizzazione del desiderio, ma rimane invece colpito da quello che proverebbe se questo personaggio gli apparisse qualche notte. 14


Dorme in una cameretta che, vedi caso, è stata ricavata nella soffitta della casa. Il racconto del padre più che impressionarlo lo porta a riflettere per trovare un mezzo adatto alla difesa nel caso di visite inaspettate e per sentirsi più sicuro decide, da quel momento, prima di coricarsi, di mettere ai piedi del suo letto una accetta che papà Francesco utilizza qualche volta per tagliare la legna da bruciare nel camino. Quando papà Francesco si accorge del gesto del figlio capisce che nulla al mondo potrà far paura a quel meraviglioso ragazzo che in ogni occasione trova sempre la scorciatoia per uscire fuori da ogni situazione di scomodo. L’unica persona che incuteva un po’ di timore a questo simpatico monello era la nonna materna, nonna Rosa, un donnone con il fare da caporale alta un metro e ottanta vestita sempre con il costume sangiovannese, che quando Mario detto poi Maruzzo commetteva qualche marachella lo chiamava a rapporto e gli diceva «Tira fuori la lingua che devo darti la punizione». Mario cercava di sgattaiolare nascondendosi nei posti più impensati, ma nonna Rosa riusciva sempre a prenderlo e tenendolo fermo con le 15


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sue manone con la punta del fermaglio, che tratteneva il suo copricapo in lino, gli punzecchiava la lingua. Erano gli anni della guerra e anche la Calabria ogni tanto subiva dei bombardamenti sopratutto Cosenza dove Mario si era trasferito con la sua famiglia. Un giorno che papà Francesco era andato a prendere Mario a scuola, scoppiò un violento bombardamento e papà Francesco che si trovava con Mario vicino al cimitero, non sapendo come ripararsi, entrò nel cimitero e mise Mario in una cappella dove c’era un colombario vuoto. Per un’ora sentirono le bombe cadere sulla città e la ferrovia veniva continuamente mitragliata. Mario pur essendo coraggioso non si dimenticò più quell’esperienza e nel suo Io rimase sempre l’angoscia di essere rinchiuso in un colombario. Tanti sono gli aneddoti raccontati da Mario. Uno dei tanti è quando papà Francesco con tanti sacrifici riuscì a far fare da un suo amico, un abile ciabattino, con una pelle di vacca un bellissimo paio di sandali che a quel tempo di guerra rappresentavano un lusso. Raccomandò a Mario di averne cura e infatti lui oltre a vantarsi con i suoi amici che viaggiavano con gli zoccoli, ogni giorno puliva i sandali con 17


passione e amore, accorgimento che poi gli resterà per tutta la vita perché era solito dire «L’eleganza di un uomo incomincia da un paio di scarpe lucide». In una bellissima giornata di sole; quelle giornate con il cielo limpido e azzurro della Calabria da fare invidia all’azzurro del mare, l’amico del cuore di Mario che si chiama Dodaro lo convince ad andare al fiume per fare una nuotata. I due ragazzi si spogliano e felici entrano in acqua divertendosi. Nel loro ondeggiare le acque del fiume Crati lambiscono le sponde e nel movimento di ritorno uno dei sandali di Mario, non messi proprio al sicuro, viene trascinato a valle. Quando i due ragazzi tornano sulla riva si accorgono che il fiume ha inghiottito il sandalo e cercano di recuperarlo. Ogni loro sforzo si rivela invano e così Mario s’incammina verso casa con un sandalo solo, rimuginando quale scusa trovare da raccontare al padre. Ma il diavolo fa le pentole e non i coperchi, così sulla strada del ritorno, percorrendo il corso principale di Cosenza, Corso Mazzini, Maruzzo va a incappare in papà Francesco che, con occhio di falco, 18


al volo capisce la situazione e senza dire una parola fa continuare a Maruzzo la strada verso casa a suon di calci nel sedere incurante della gente che incontrano. Anche Mario, da quel giorno prova, come i suoi amici, cosa vuol dire camminare con un bel paio di zoccoli. Mario cresce bello, aitante, deciso sopratutto a farsi strada nella vita. Vuole evadere dalla quotidianità di una città di provincia del Sud per non essere condannato come i rimasti, a sentire l’influenza del «Lazzaronismo che l’avrebbe condotto all’inutilità». Queste sono le sue parole a chi gli chiede perché vuole salire al Nord. Con la sua proverbiale capacità al commercio, s’inventa un allevamento di maiali; perché a quel tempo la Regione dava la crusca a chi allevava maiali. Va a comprare la crusca al mulino e poi la rivende a chi ha veramente i maiali e con quei primi guadagni aiuta la famiglia che a causa della guerra vive momenti difficoltosi ed è nel dibattersi in questi problemi esistenziali che Mario si dà allo sport. Nel pugilato, trova la disciplina, la tenacia, l’onestà che gli sarebbero servite nella vita e che sono state le sue grandi virtù. 19


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Spesso a piedi o a dorso di un ciuccio va in Sila a Camigliatello Silano dove ci sono i suoi zii paterni che fanno i contadini e gli danno tanti prodotti agroalimentari caserecci (caciocavallo, butirri, mozzarelle, salsicce stagionate piccanti, capocollo e soppressate) che servono ad aiutare il sostentamento di papà, mamma, delle sue due sorelle e due fratellini che sono nati dopo di lui Gino e Franco. In uno di questi viaggi in Sila, non a cavallo di un ciuccio ma col cavallo di San Francesco, cioè a piedi, scoppia un violento temporale e Mario si ripara per un poco sotto un pino. Dopo una mezzoretta passa di li un contadino con un carretto, insieme a lui c’e la moglie che indossa una bellissima e larga gonna rossa. A quei tempi le tinture delle stoffe venivano realizzate artigianalmente in casa usando aniline naturali. Il contadino, impietosito da questo ragazzotto tutto fradicio, gli offre un passaggio sul suo carretto. La moglie premurosa, colta dall’istinto di mamma, cerca di ripararlo come meglio può con la sua lunga gonna rossa. Dopo un lungo viaggio arrivano a destinazione, nel caratteristico villaggio di Camigliatello Silano, dove finalmente splende il sole.

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Maruzzo in quel momento, si accorge che i suoi abiti sono tutti tinti di rosso, come il colore della gonna della contadina. Mario non si arrende alle avversità, le combatte e si fa beffa di loro, la sua tenacia è proverbiale in ogni situazione e in ogni momento della sua vita. Fa le sue prime esperienze di giovane uomo in amore, le ragazze gli fanno il filo perché vedono in lui il fisico di uno dei bronzi di Riace. Uno dei suoi primi filarini è una bella ragazza di 16 anni dai lunghi capelli neri e occhi scuri e profondi che fanno incantare il giovane uomo. Per lei Mario farà una delle sue bravate più avventurose. Papà Francesco è molto severo verso i figli anche se nutre per Mario molta ammirazione e orgoglio, ma su certi comportamenti non transige. Alla sera quando rientra per cena vuole tutti i suoi figli, comprese le due sorelle maggiori, a casa per pranzare insieme e se qualche volta, per motivi di lavoro, ritarda devono essere coricati. In una di queste sere che papà Francesco ritarda, anche Mario, preso dal suo filarino, non si accorge dell’ora tarda. La sorella maggiore Iole, che oltre ad essere la sua sorella preferita è quella che lo aiuta e protegge nelle sue marachelle, è preoccupata che papà Francesco al suo ritorno si accorga che Mario non è ancora rientrato. Va nella camera del fratello, che si trova al terzo piano della casa, apre la finestra e aspetta Mario. Mario arriva e non potendo salire in casa dal portone, perché nel frattempo papà Francesco è rientrato, si arrampica sui cornicioni arrivando così alla sua camera, con la sorella che per lo spavento della bravata quasi sviene e per la prima volta si arrabbierà tantissimo col fratello dicendogli che non l’aiuterà più. Un giorno che ritorna dal mulino con un sacco di crusca Mario incontra la sua ragazza e non vuole farsi vedere con il sacco pieno di crusca. Trovandosi sul ponte del fiume Crati, che attraversa Cosenza, finge di appoggiarsi al parapetto con la schiena, una mano è libera l’altra la fa penzolare tenendo il sacco. Rimane così diversi minuti flirtando con la ragazza che non si accorge di nulla. Questo era già da ragazzo il grande silano che poi nella vita affronterà sempre tutto con coraggio e determinazione. Il giovane uomo cresce sempre più atletico e bello e partecipa alle sfilate del fascismo come balilla. Tutte le ragazze gli fanno il filo ma lui è sempre più determinato a evadere dalla sua terra, che tanto ama, pur di crearsi un avvenire. 23


A 17 anni all’insaputa di mamma e papà trova la scorciatoia per andarsene da Cosenza. Presenta la domanda per arruolarsi nell’arma dei Carabinieri. Dopo un’attenta selezione viene considerato idoneo anche perché papà Francesco prima di lui ha fatto parte della benemerita. È arrivato il grande momento: il sogno di Mario sta per realizzarsi. È cosciente di lasciare la sua terra, la sua famiglia le sue tradizioni ma è anche consapevole che «L’uccellino deve lasciare il nido per dimostrare che sa volare». E un mattino del 14 Giugno 1947 lascia la sua terra, il suo cielo azzurro, gli alberi maestosi e secolari della sua Sila, i suoi amori, la sua famiglia e i suoi amici, per andare verso ciò che ha sempre sognato, il Nord. 24


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Ad accoglierlo, dopo un lungo viaggio su un carro merci trova, una Torino uggiosa che si rivelerà restrittiva verso questo meridionale. Viene assegnato alla caserma “Cernaia” dove frequenta un corso di addestramento; Mario a Torino non si trova bene, la mentalità di questa città è chiusa altezzosa come dirà lui «È sempre come se fosse rimasta al tempo di Francesco Giuseppe». Lui resiste, non si crea neanche amicizie, non lo interessano. Ha fretta solo di concludere il corso per andarsene. Viene mandato ad Ancona nel 1948 dove rimane per ben due anni. Entra a far parte della compagnia motocorazzata e diventa pilota carrista avendo in consegna uno “Spa 40”. Lui qui ad Ancona riprende gli studi di geometra e continua ad allenarsi nel suo sport preferito, quello del pugilato ed entra a far parte della squadra dell’arma. Eccelle anche in questa disciplina e incomincia a disputare incontri mandando i pochi soldi che guadagna alla sua famiglia. La sua categoria è il peso medi e si scontrerà con diversi pugili emergenti di quel tempo diventando caro amico del famoso boxer Festucci. Un bel giorno finalmente arriva la notizia del trasferimento alla Certosa 26


Sia la tua terra la Calabria, che tu hai ampiamente onorato e che ha avuto il privilegio di darti i natali, sia Milano, che tu hai amato con intensità come un vero milanese, devono ringraziarti ed essere fieri per essere stato il grande personaggio che sei. Grazie anche per questo. Una diceria dice che quando una persona lascia la terra nasce nel firmamento un nuovo astro. Guarderò quando il cielo è luminoso, la tua stella che sicuramente la saprò riconoscere da quanto brillerà. A presto silano Gegè.

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