Patate e pipazzi

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Italo Scalese

PATATE E PIPAZZI (9.9.1943)

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Italo Scalese

PATATE E PIPAZZI (9.9.1943)

© La Dea Editori Via Tasso, 2 87052 Camigliatello Silano (CS) Italy tel. e fax +39 0984 578125 • tel. +39 0984 570878 tel. mobile +39 335 6689611 info@ladeaeditori.it • ladea1@alice.it • ladea@tiscali.it www.ladeaeditori.it Direttore editoriale: Egidio Bevilacqua Direttore artistico: Elvira Pacenza Impaginazione e grafica: Dea Graphic Prima edizione: marzo 2015 Camigliatello Silano (CS) Italy ISBN 978-88-88557-60-1 Finito di stampare nel mese di marzo 2015 presso la tipografia De Rose, Montalto Uffugo (CS) per conto di La Dea Editori di Egidio Bevilacqua © Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in nessun modo o forma, sia essa elettronica, elettrostatica, fotocopie e altro ancora senza il permesso scritto dell’Editore. Copertina: Nina Tyler Zeta

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A te perchĂŠ ti piace leggere, sognare, pensare.

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Alcuni dei fatti narrati sono, purtroppo reali, altri pura invenzione narrativa.

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PATATE E PIPAZZI (9.9.1943)

8 settembre1943: Armistizio 9 settembre 1943: una squadriglia di aerei ’mericani insegue i tedeschi in ritirata. Credono di vederli, accampati a Petronà. Li attaccano. Muoiono due soldati italiani. Perde la vita un bimbo di sei anni. ... era contento di vedere gli aerei così vicini. Correva per mano a due giovani donne. La prima raffica sollevò molta polvere... e lui non vide altro. Le bombe cadevano. La gente scappò. Fuori, in campagna, nelle caselle, per alcuni giorni. C’era molta paura e, per pensare ad altro e per restare svegli, ognuno parla e parla, racconta un po’ di sé. A migliaia moriranno in Italia per i bombardamenti, sotto il fuoco amico, spesso solo numeri, nei libri di Storia. Questa è solo una delle tante, una storia minuscola, marginale, ormai quasi dimenticata. “Ho trovato un pretesto per scrivere, forse perché una delle due donne col bambino per mano, diventerà mia madre. E, nei vaghi ricordi dell’infanzia, mentre quel mondo lontano spariva, sentivo, fra le tante, questa storia...”

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OTTO NOTTE

Mi alzo ed esco a prendere un po’ d’aria, non si riesce a dormire stanotte. Un lento cigolio, un rumore di legno e la porta si chiude. Buio e silenzio intorno. Lentamente si accendono le stelle, a una a una e gli occhi imparano a vedere. Le sagome leggere delle colline qui sotto, il grande spazio aperto della marina con rari, piccoli fuochi lontani. La linea del mare si intravede dolce e silenziosa. Improvvisa una stella taglia il cielo, si tuffa e va a spegnersi in acqua: è una notte speciale, sarà scritta sui libri di Storia. Mi rimbombano dentro i pensieri e le voci dei volti felici che ho visto stasera. Abbiamo un po’ bevuto coi ragazzi di qui, amici sognatori, mai sazi di parole, di risate. C’era un’aria nuova, dopo il comunicato alla radio, tutti quanti hanno inteso che la guerra è finita… e se ancora dovesse durare, finirà, finirà. C’era la voglia di fare progetti, voglia di vivere liberi, liberi. Hanno contagiato anche me con le loro speranze, fra poco potrò tornarmene a casa, libero di essere me stesso. I visi rossi di freddo e di fuoco mi appaiono come fermi per sempre in una fotografia, assaporo il vino e il momento solenne. Tornerò nella mia cara città, potrò riabbracciare i miei figli, mia moglie e guardare insieme lo stesso cielo. Credo mi mancheranno all’inizio questi spazi selvaggi, infiniti, questa gente tenace, amorevole e crudele. I ragazzi stasera mi hanno detto che vogliono andare, partire, vivere nel mondo civile e non più fra muri e futuro di

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sassi. Vogliono andare in America, come i loro parenti e mettere le scarpe fini e il vestito nuovo, di domenica. Si dice che dopo la guerra riapriranno le frontiere e il vino gli fa attraversare l’oceano… è già festa e passeggiano fieri fra palazzi di vetro a gustare profumi stranieri. Per un po’ gli dò corda e li aiuto a sognare un futuro diverso. Poi il vino ci prende la mano e riaffiora la vita, di oggi e di ieri, le tristezze, le pene, l’incertezza del dopo. Si raccontano piccoli, banali episodi di saggezza contadina come pietre miliari di una strada soltanto in salita. Vedevo in quei semplici volti il destino del popolo intero che si accontenta di niente, che si scanna a parole con gli stessi suoi pari e non vede e non pensa che la vita può, dev’essere migliore! E non è solo al Sud, dappertutto è così, ci hanno abituati a sentirci inferiori, abituati a essere ignoranti, a subire la vita come eterno dovere e dolore. Abituate, se donne, a sentirsi più in basso degli uomini, con umiltà, per consolarli di tanto patire. Donne madri, donne forti, schiave per compassione, per dare a figli e mariti l’illusione di un po’ di potere. Il loro sguardo mansueto e fiero bruciava come una ferita sempre aperta. Ci lasciammo così, frastornati e confusi, con la bocca impastata, aspettando domani come un giorno di sole, come un giorno di festa. Sento un cane che abbaia e un altro, lontano, che raccoglie il messaggio, e risponde ed avvisa gli amici. Dopo poco è un latrare incessante, torno dentro, comincia a far freddo.

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LE SCARPE NUOVE

Oggi finalmente avrò anch’io un paio di scarpe! Belle, con la tomaia di cuoio ben ingrassato e lucido, la suola di legno duro, rinforzate con le punte di ferro, per farle durare di più. Ho dovuto aspettare tre anni prima di averle, ché adesso il piede non mi cresce più tanto come prima. E gli altri bambini, che mi prendevano in giro per i piedi troppo sporchi e tagliati, adesso si staranno zitti e con gli occhi sbarrati e le labbra strette dall’invidia. Andiamo da zù ’Ntoni il calzolaio e cammino orgoglioso e dritto seguendo i lunghi e svelti passi di mia madre. Cerco di toccare coi piedi gli stessi sassi, non sempre ci riesco e saltello sbandando. Le scure gambe e le ombre m’imbrogliano gli occhi. Lei continua scandendo col passo le stesse parole che dice da mesi, le conosco a memoria. − Queste scarpe devono durarti finché non vai soldato. Le puoi mettere per la scuola e a messa la domenica. Non ti permettere di andarci in campagna a giocare con quei perditempo dei tuoi amici, tanto loro se ne fregano e ne consumano un paio all’anno. Non hanno rispetto per niente e per nessuno, li ho visti prendere a calci i sassi, solo per giocare. Consumano le cose e le persone senza pensarci, quelli vanno

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a finire malamente, poveri genitori che non si sa chi ti capita per figlio... Ho chiesto a zù ’Ntoni di usare il legno più duro che ha e ho fatto fare punte e tacchi al meglio fabbro del paese. − Sì, mà, non ti preoccupare, so tutto, le tratto bene, come una persona, un animale di casa, però, adesso, appena le prendo, posso metterle e camminarci? − Vabbè, ma attento a dove metti i piedi che con tutti questi sassi storti si fa presto a rompere anche le scarpe migliori. Guardo la via che stiamo facendo e riconosco le pietre che si avvicinano, a una a una. Ecco, su quella lì scura e lucida sono scivolato due settimane fa, correndo per andare a dire allo scarparo che mi poteva prendere la misura − che caduta! Sono arrivato alla bottega zoppicante e zù ‘Ntoni voleva farmi le stampelle, altro che le scarpe. − Attento Cicciù che se voli così a piedi nudi, figuriamoci con le scarpe che sono più difficili da guidare! Quella sera ho fatto finta di niente ma la notte mi lamentavo nel sonno e mamma ha scoperto che avevo un ginocchio spaccato e sanguinante. Per fortuna anche lei era scivolata, tempo fa, proprio su quella stessa pietra così non ha potuto darmi la colpa che correvo e non mi ha punito. Mi lavava il ginocchio con aceto e mi teneva una mano sulla bocca per non far sentire i miei lamenti agli altri che dormivano. Come bruciava! Saliamo i tre gradini assolati ed eccoci in mezzo a un profumo di cuoio e di cera, di chiodi e di muffa, a una puzza di piedi e di

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caldo. Coi suoi pochi denti, aperti in un sorriso cordiale e con gli occhi lucenti, zù ‘Ntoni saluta mia madre, si gira e mi lancia un’occhiata d’intesa, strizza appena un occhietto vivace, poi si alza e comincia a parlare. − Marì, tu sei giovane e forte e devi pensare alla famiglia, alla terra, agli animali. Hai fatto bene a comprargli le scarpe, non per me che lavoro, ma per lui ch’è ormai un ominicchio e adesso che il padre non c’è deve essere lui il capo di casa. E un capo senza scarpe non lo ascolta nessuno. Hai visto il Duce e i suoi compari che stivaloni lucenti che hanno? − Mio figlio non diventerà certo come questi qua anche perché conosce la fame e il sudore e non vorrebbe mai umiliare qualcuno. − Non ti agitare, dicevo così per scherzare, e poi gli stivaloni ormai non sono più così lucenti come prima. − Sono sempre gli stessi, presuntuosi e prepotenti. Lo sono di razza e qualsiasi cosa succede al mondo quelli restano sempre gli stessi. − Passeranno anche loro, passeranno, tutto passa. Passerà anche questo prima di quanto riusciamo a immaginare. Ho sentito alla radio che arrivano i ’mericani e quelli tengono i fucili e le bombe meglio dei tedeschi. − Non mi interessano questi discorsi, siete tutti esaltati con ’sti ’mericani. Secondo me non cambierà mai niente, noi dovremo sempre faticare, nessuno potrà cambiare il nostro destino.

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Pensate a mio marito che finalmente, dopo tante sofferenze, si era sistemato. Abbiamo la casa, piccola ma comoda e pulita, siamo vicini alla fontana e abbiamo l’orto proprio dietro. Non c’erano problemi. Vincenzo lavorava tutti i giorni e c’era gente che se lo prenotava da un anno all’altro, ché come zappa lui non zappa nessuno: preciso, veloce e sapiente. − Per questo i padroni lo volevano a lavorare! − Ancora oggi, dopo tre anni, mi parlano bene di lui, per strada. − Chissà come se la passa? – continuò il mastro mentre impeciava un pezzo di spago. − L’ultima volta che mi ha mandato una lettera era in Albania, chissà dov’è, e faceva da attendente a un ufficiale di Frosinone molto bravo, che lo tiene così e gli fa fare piccoli lavoretti di tutto riposo per uno come lui. Il tono sicuro e orgoglioso rimbombava nella mia testa mentre cercavo con gli occhi avidi le mie scarpe. Se attaccano a parlare si scordano di me e io sono stufo di sentire parole sempre solo parole che si rincorrono, non si toccano, che non muovono niente. Io voglio le scarpe, voglio le mie scarpe! − Sono tre mesi che non so altro – continuò ansiosa mia madre − speriamo non sia successo niente… Avete saputo del fratello di don Mico? Era così giovane e bello. Tutte le ragazze se lo mangiavano con gli occhi. Aveva soldi e proprietà, perché mai è andato volontario… aveva tutto qua ma è andato, forse per restarci. − Mari’, non ti angustiare, vedrai che il tuo Vincenzo torna

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presto sano e salvo, non è certo in giro a fare il gagà come questi signorotti di paese. Lui è un uomo come si deve, non gli può succedere niente di male. − Come se le bombe guardassero la bontà delle persone… Anche per Tommaso dicevano così, che era bravo, ma intanto è arrivata una lettera dal fronte, dicono che è un eroe ma è morto. E che se ne fanno i tre figli e la moglie di un eroe morto, non sanno più come tirare avanti, avrebbero certamente preferito un uomo vivo − disse con amarezza la mamma. − Ognuno di noi ha una croce da portare, ma non per tutti è così pesante. Tu non ti preoccupare Marì, sono sicuro che non avrai problemi, hai dei bravi figli e tuo marito è un giovane forte e onesto. Vedrai che fra poco tornerà e non ci saranno più questi prepotenti a comandare. − Eh, zù ’Ntò, voi siete vecchio e potete dire quello che vi pare, tanto nessuno vi dà retta. Ma vi ricordate quanto olio di ricino ha dovuto bere mio marito per colpa di don Luigi, che l’aveva preso in caccia. È partito soldato anche per evitare quelle umiliazioni. − Marì, Marì, stai calma, qui ogni uno ha avuto a che fare con questa gente, anch’io ho avuto guai. Vedrai che passerà, passerà anche questa! Ma non ne parliamo più, vedo che tuo figlio sta fremendo. I giovani non amano molto le chiacchiere, vogliono i fatti e Cicciuzzu vuole le scarpe, vero? Adesso vado e le prendo. − Finalmente, zù ’Ntò − riuscii a dire, seguendo con gli occhi i

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movimenti del mastro. − Eccole qua! Ti piacciono? − e le teneva in mano rivolgendosi un po’ a me, un po’ a mia madre − guarda, guarda Marì, prendile. Le accarezzavo con gli occhi mentre mamma le rigirava fra le mani con lo sguardo severo. Fece un movimento lento del capo, poi torse le labbra in segno di approvazione. Zù ’Ntoni sorrise nuovamente guardandomi e mi fece cenno di sedermi e provarle. Mi tremavano le mani dalla cuntentizza e perdevo tempo per restare sempre così, con lo sguardo dolce di mia madre felice della mia felicità. Non la vedevo sorridere da quando Tata era partito. − Ti è passata la fretta delle scarpe? Vedete zù ’Ntò, questo figlio mio ogni tanto si incanta e pensa alle ciaule! − Eh, Marì, sono giovani, devono essere così. Noi non ci ricordiamo che eravamo come lui adesso. Col pensiero libero che si incanta su tutto e su niente − sospirò il mastro. Avevo infilato le calze di lana e la scarpa destra e sentivo il piede protetto e prigioniero. Dopo aver legato anche la sinistra mi sentivo i piedi bollire dal caldo. − Alzati e prova a camminare… come ti senti? – chiese mamma. − Mi sento in alto, quasi mi gira la testa e ho paura di perdere l’equilibrio, però sono bellissime! Grazie ma’ e anche a voi zù

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’Ntò, siete un vero mastro! Mi sento come affogare dai piedi, mi manca l’aria… è giusto? − All’inizio è così − sospirò lo scarparo − non ci sei abituato, ma fra qualche giorno vedrai che bellezza andare in giro senza tagliarsi sempre i piedi. Ti abituerai, ci abituiamo a tutto. Provo a muovere piccoli passi e mi sembra di essere incollato al pavimento, non si muovono bene le dita, bisogna stare attenti a non darsi calci negli stinchi… non è così semplice come sembra guardando gli altri, dovrò imparare un po’ alla volta. − Allora per il pagamento restiamo d’accordo così, tre ruvaci di mele adesso che maturano − disse mia madre alzandosi in piedi. − Io e i miei nipoti ci passeremo l’inverno. Quei bambini sono sempre affamati e un poco di frutta ci fa davvero comodo. − Guardate che le nostre mele sono le migliori della zona, crescono al fresco della montagna e sono più saporite di queste del paese – aggiunse mamma levando gli occhi al cielo. Si sentiva un rumore come di apparecchi e sembrava venissero da questa parte. Dalle case vicine spuntavano persone a chiedere cosa stesse succedendo. Si stagliò nel cielo azzurro la sagoma di un aereo, seguita da un altro e un altro ancora, iniziarono a girare sul paese come fanno i falchi in attesa di una preda. Poi, improvvisamente, ne arrivarono altri e si sentì un rumore spaventoso di spari e di bombe. Mamma era rimasta impietrita e zù ’Ntoni cominciò a gridare dicendo a tutti di correre a rifugiarci nello scantinato della

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sua casa. In pochi attimi fummo in cantina e si sentivano i colpi ovattati e coperti dalle urla delle donne. Restammo lì per tutta la durata del mitragliamento, quasi un’ora, a immaginare chissà quali disastri, impotenti e rassegnati al nostro destino, con la sirena dell’edificio che non smetteva più di suonare.

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RICETTA

A tutti quelli che sono arrivati fin qui, alla fine di questo libricino, immersi in una dimensione lontana e con la gola impregnata di cibo bruciato, ho pensato di regalare la ricetta per preparare nel presente un piatto del passato, buono anche nel futuro, un sapore che può viaggiare nel tempo e nello spazio, che non ha confini. Come la musica, come le parole. Ingredienti: Olio d’oliva extra vergine, patate (tante), peperoni (pochi), sale, peperoncino rosso macinato (o paprika dolce). Per stabilire dosi e quantità, come nelle ricette da manuale, bisognerebbe pesare tutto e stabilire le proporzioni degli ingredienti. Qui andiamo a occhio. Penso che ci vogliano almeno due patate per ogni persona, un peperone di quelli colorati può bastare per 4/6 persone. La qualità dell’olio è molto importante, dovrà cuocere le patate per almeno mezz’ora. In Calabria è molto diffuso il peperonino dolce o piccante, seccato e macinato. Si usa molto nella salumeria. Anche la paprika può andare bene, serve a dare un po’ di colore. Non è comunque un ingrediente necessario. Le patate a pasta gialla vanno tutte bene, io preferisco quelle con la buccia rossa coltivate in Sila perché le conosco e conosco chi le coltiva, ma questo non è fondamentale. Ognuno di voi troverà le patate giuste. Sulla quantità bisogna regolarsi a occhio, direi 2 o 3 patate a persona. Per i peperoni circa 1/5 delle patate, un peperone di quelli colorati può bastare per 4/6 persone.

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La fase piĂš importante consiste nel tagliare le patate: bisogna affettarle a rondelle con uno spessore di 2/3 millimetri, dopo averle sbucciate, lavate e asciugate. Il taglio dei peperoni può essere piĂš grossolano, meno meticoloso. Preparazione: Versare l’olio in una padella e lasciare scaldare per un paio di minuti. Aggiungere i peperoni e farli rosolare, poi svuotare il piatto con le patate, il sale e il peperoncino macinato. Lasciarle cuocere e girarle spesso con un cucchiaio di legno. Dopo circa 25 minuti dovrebbero essere pronte, assaggiatele e, se pensate siano buone, servitele nei piatti e mangiatele accompagnandole a un buon bicchiere di vino rosso. Buon appetito!

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’U TIRATURU - IL CASSETTO Tema: zu Liginu Saporito - Testo: Italo Scalese Musica: Sabatum Quartet e Giuseppe Capocasale

Scattaria lu tiraturu se stendicchia e se strangìa cumu quandu a primavera era arvulu e criscìa.

Scricchiola il cassetto si risveglia e si stiracchia come quando a primavera era albero e cresceva.

Scattaria lu tiraturu e… le vena a’ mente chillu jurnu a primavera ch’era arvulu e criscìa.

Scricchiola il cassetto e gli viene in mente quel giorno a primavera ch’era albero e cresceva.

Scattaria llu petramune senta l’acqua chi se ’mbia penza a quando era muntagna e ’do mare sinde jia...

Scricchiola il grande sasso sente l’acqua che scorre pensa a quando era montagna e dal mare andava via…

Scattaria llu petramune …joi se quartaria petre, cuti, vricciu, sabbia e ’ntra mare sinde jia...

Scricchiola il grande sasso …si sbriciola (in mille pezzi) pietre, sassi, ghiaia, sabbia e verso il mare se ne va...

Ciarmunia llu vecchiariallu caminandu scattaria parra ccu llu quatrariallu chi mò jioca ammianz’a via.

Brontola il vecchietto camminando scricchiola parla col bambino che gioca in mezzo alla via.

- Tu sì cumu signu statu tu si cumu signu mo tu sì cumu signu statu tu sì cumu signu mo tu sì cumu signu statu signu cumu tu si mò.

- Tu sei come sono stato tu sei come sono adesso tu sei come sono stato tu sei come sono adesso tu sei come sono stato sono come ora sei tu.

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’U TIRATURU

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