7 minute read

Componimenti creativi

PAROLE DI ALTRI TEMPI

Non sono bravo con le parole

Advertisement

Come Leopardi,

Almeno sono onesto

Non come altri.

Non sono un filosofo

Come Platone,

Almeno non sono un buffone.

In poche parole,

Sono me stesso

In ogni momento

E non me ne pento

G. PITA

L’INSEGUIMENTO

Stavo camminando per la mia strada, e ad un certo punto la vedo. Lei mi guarda con un sorprendente misto di sorpresa e di soddisfazione, come se fosse stupita di incontrarmi, ma allo stesso tempo come se mi avesse atteso fino a quell’istante. Mi vuole parlare, ma io non la voglio ascoltare. Non so se le sue saranno parole dure o se saranno saggi consigli. Non voglio sentire la sua voce, non voglio neanche vederla. Piano piano indietreggio per allontanarmi. Il suo volto si irrigidisce, non riesco a capire se per la rabbia o per la paura. Per entrambe. Fa un passo avanti. Non mi lascerà andare via così facilmente. Non mi resta altra scelta se non quella di correre, di scappare. Lei mi lancia uno sguardo stupito, offeso, ma anche divertito. E mi insegue. Non so dove rifugiarmi. Non ho un luogo dove lei non mi possa raggiungere. Ho paura di lei, ho paura di quello che mi deve dire. Ma devo continuare a correre, piano piano forse si stancherà di correre prima che lo faccia io. Ma comincio a respirare a fatica e sento che sto per fermarmi. Imbocco un lungo vicolo, e temo il peggio. Lei mi raggiungerà. Ma mi volto, e lei si trova alla fine del vicolo. Vedo che si ferma, mentre si appoggia ad un muro ansimante. Ha finito di correre, ha rinunciato. Sono ferma, appoggiata al muro. Ho finito di correre. Peccato, l’avevo quasi raggiunta.

MARIA GUERRIERI

ATHAZAGORAFOBIA: PAURA DI DIMENTICARE

Io non sono mai nato, non ho ancora iniziato a vivere e, proprio nell’istante in cui stavo per nascere, sono morto. Il tavolo dell’obitorio è freddo. Ma lei… lei è così calda! Completamente nuda, sopra di me. Mi stringe, mi stringe in una morsa d’acciaio. Mi tiene steso e immobile sul tavolo di marmo mentre mi passa la lingua rovente. Biforcuta. Su tutto il corpo. Mi riempie la bocca con il suo calore. Fa male. Lascia cicatrici. Lascia ustioni. Rosse. Bruciano! Contro il tavolo freddo. Prendimi, ti prego! Prendimi, feriscimi, mordimi. Il mio cervello esplode in una danza di squisito piacere e atroce dolore. Prendimi e stringimi contro il tavolo freddo. Estrai tutto il mio sangue, estrailo tutto! Ma ti prego… non farmi dimenticare. Lei brucia e taglia e marchia e ustiona la pelle grigia. Rigida e morta. Io resto immobile con occhi di vetro. La mia coscienza, immersa in un fluido primordiale, denso e soffocante, ha reciso il cordone che la legava al feto dell’Uroboro. Il mio cervello è allo scoperto, bianco e freddo. Lei mi chiama. Io non penso, non ne sono più in grado. Ho dimenticato tutto.

B. DELLAGUERRA

FOGLIA D’ORO

La lunga fila di donne si disperdeva confusa intorno i banchi della frutta e del pesce. Le vesti opulente creavano disegni colorati che si andavano a mescolare con i grandi meloni gialli, i pomodori scarlatti, i fiori di lavanda nei vasi dei fiorai, con i tetti del paese e, infine, con il nudo cielo, tinto di un accecante blu cobalto.Tutti quei fazzoletti di lino annodati tra i capelli per tenere lontano il caldo e per proteggersi dal forte sole, danzavano frenetici tra le grida in dialetto e le offerte dell’arlecchineo mercato. La frizzante brezza marina, insinuandosi tra l’odore della cannella e dello zafferano, riusciva a portare un leggero conforto al fruttivendolo e al suo amico giornalista che sedevano sullo scalino di una bottega per un momento di pausa. Era solo la prima metà della mattinata e gli occhi del giornalista erano già stati assaltati dalle più violente luci e dalle tinte più brillanti. “Questo paese lo trovo davvero affascinante, come tutta la Sicilia del resto” sibilò con un filo di voce il giornalista passandosi un panno sulla fronte coperta da perle di sudore. “E’strano che non ti sia mai venuto a trovare prima”; poi fermò il suo sguardo su un gran palazzo, incassato tra le tondeggianti case e il cielo, preceduto da eleganti gradoni adornati di piante che si diramavano in una doppia scalinata. La facciata di un delicato rosa antico spiccava sulla salubre collina. “Che palazzo è quello?” chiese con un cenno del capo al fruttivendolo che con un occhio controllava il figlio alla cassa. “Quello è l’antico palazzo dei Crisafulli, beh, è una strana storia quella che accompagna quelle mura” . Preso un profondo respiro, diede un’ ultima occhiata al figlio e rivolse i suoi occhi scuri alla collina soprastante al paese. “In quel palazzo viveva un bambino, Ruggero Crisafulli, nato debole come uno spettro eppure animato da un grande spirito. I genitori, i nobili Lucia ed Egidio Santoro Crisafulli, sapevano che le speranze per il loro bambino non potevano essere molto alte, e cercarono fin da quando era piccolissimo di animare il suo cuore di grandi sogni e leggende, dandogli un’educazione che andava molto lontana da quella che si erano immaginati per il loro unico

figlio. Più volte gli avevano raccontato, mentre egli sedeva traboccante di emozione, l’origine dell’antico nome che aveva ricevuto e con esso la responsabilità di mantenere alto il suo onore. Tra le stoffe preziose e gli abiti di velluto gli narravano la storia che era stata tramandata di generazione in generazione sul capostipite della sua antica famiglia, il quale, per le sue grandi qualità umane, era stato chiamato Crisafulli, ovvero foglia d’oro. Gli occhi del bambino si illuminavano ogni volta quando il papà, con voce soffusa e grave, illuminato dalla morbida luce delle fiaccole, raccontava le gesta del suo antico avo bizantino Giorgio Maniace e i tesori che aveva depredato quando gli arabi avevano invaso la regione. Ruggero era sempre rimasto affascinato dal mistero e dal profumo degli agrumi e dei datteri che nelle calde sere estive le serve poggiavano in grandi cesti sulla tavola. Con il passare di pochi mesi però, il bambino stava peggiorando e fu costretto a passare le giornate nelle grandi stanze adornate con arazzi e statue. La madre fece chiamare uno speziale che viveva qua, tra le vie di questo paese; aveva sentito dire che era tra i migliori della Sicilia, fornito di erbe e pietre che nessuno aveva mai visto prima. Lo speziale arrivò dunque al palazzo insieme a un carro su cui aveva messo tutti i suoi materiali per visitare il bambino e rimanere con lui per ogni evenienza. Egli in breve tempo riuscì a far stare meglio il

piccolo ma annunciò ai genitori che si dovevano preparare a una morte imminente del figlio. Ruggero, da quando si era riuscito ad alzare dal letto, sentiva di volere un gran bene allo speziale e rimase stupefatto dalle maioliche così ben dipinte, dalle innumerevoli spezie, dai pestelli, dalle erbe odorose e dalle pietre colorate che avevano invaso la sua stanza. Il bambino faceva innumerevoli domande all’ unico nuovo viso che vedeva dopo tanto tempo e lo speziale dolcemente cedeva alle sue domande raccontandogli dei suoi numerosi viaggi, dei luoghi oscuri che aveva visto e delle persone che aveva curato.ARuggero piacevano soprattutto le storie in cui l’ uomo affermava di aver dovuto curare uomini che avevano perduto tutto il senno, perché gli era stato rubato dalle dolci ninfe che si nascondevano nelle campagne, e le storie di quando erano giunti antichi arabi portando una luna islamica sulle loro teste. I racconti di jinn dispettosi che mandavano all’aria amori di principi e principesse, le leggende siciliane sulle “truvature” e su uomini che reggevano l’isola con tutta la loro forza, trasformarono quelle stanze del palazzo in una caverna d’oro che il bambino non sentiva più tanto stretta ma al contrario vasta quanto l’intero mondo, inebriato dai segreti di luoghi lontani e dall’odore

delle spezie. Allora i sogni si mescolavano con leggende e antichi racconti, e anche per i mesi successivi queste parole gli facevano passare le notti a guardare il cielo che tesseva storie. Lo speziale capì che la morte era alle porte quando il bambino cominciò a diventare sempre più pallido e quasi trasparente. Quella speciale creatura era tuttavia ancora affamata di storie e quello che gli occhi ormai non riuscivano più a vedere lo speziale glielo faceva annusare e toccare. La stanza non solo era diventata il suo mondo, ma ora anche la sua cornice di senso, e qui veniva accompagnato dalla guida sicura delle storie del suo amico. Arrivò il giorno, e il bambino consapevole del destino che lo stava per portare in un altro luogo avvicinò lo speziale con una mano trasparente e gli sussurrò: “in un mondo in cui tutto è effimero come un breve racconto, sarebbe troppo superbo pretendere di durare per l’eternità, non me lo perdonerei” . Così tra le lacrime disperate dei genitori e dello speziale il bambino sparì nel suo lettino lasciando posto a una piccola foglia d’oro” . “Strana storia per davvero” sbuffò il giornalista, e si tuffò nel mare della piazza.

MOA

This article is from: