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2. Il FIume Storia geologica ed umana

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Il terrItorIo

Il terrItorIo

Il Po rallenta la sua corsa progressivamente, uscendo dalla valle montana. Convenzionalmente si assume che inizi il percorso di pianura all’altezza di Martiniana, dove a nord termina il contrafforte della valle e si riduce la pendenza del conoide, sfociando sul terrazzo di Saluzzo. Dalla relazione di accompagnamento del Piano di assetto idrogeologico: “Nel tratto Martiniana Po-Staffarda la morfologia dell’alveo, è caratterizzata da un letto largo, a canali intrecciati, molto instabile; nell’area golenale si hanno canali secondari abbandonati sia in destra che in sinistra. Le caratteristiche prevalenti sono quelle di un alveo torrentizio con accentuati fenomeni di trasporto solido anche connessi alla formazione di banchi e/o isole. Verso la parte finale del tratto il corso d’acqua assume caratteri di transizione tra alveo torrentizio e alveo fluviale e cominciano per tratti opere di difesa spondale. La sezione ha geometria molto variabile, con larghezza mediamente compresa tra 20 e 100 m e profondità modesta (1.5-2.0 m); diventa maggiormente incassata, restringendosi, man mano che si procede verso il ponte della SS 589, in prossimità dell’Abbazia di Staffarda. Nel tratto tra Staffarda e confluenza Pellice l’alveo è monocursale sinuoso, con tratti a tendenza meandriforme; in prossimità dell’immissione del Pellice vi sono diversi meandri fortemente irregolari, con una maggiore instabilità. La golena è interessata da numerosi paleoalvei, sia in sinistra che in destra. I processi erosivi di sponda sono di entità relativamente modesta a eccezione della zona di confluenza del Pellice. La geometria è piuttosto regolare, con larghezza media di 3040 m e profondità di 4-5 m. Le opere di difesa spondale sono limitate alla protezione di alcune infrastrutture viarie e delle curve più pronunciate. Nel tratto successivo l’alveo è monocursale meandriforme fino alla confluenza del Varaita, caratterizzato da una marcata instabilità parzialmente controllata da difese spondali, in particolare immediatamente a valle della confluenza del Pellice, confermata dalla rapida evoluzione a cui sono andati soggetti i meandri (vedi la pagina seguente, con le riproduzioni di carte IGM 1880 e 1960, da cui emerge il movimento dei meandri nel tratto di Po riquadrato nella carta a fianco). La sezione si mantiene di dimensioni pressoché uniformi, con larghezza compresa tra 60 e 100 m e profondità di 5-7 m. A valle dell’immissione del Varaita (Casalgrasso, Pancalieri) l’alveo diventa prevalentemente rettilineo, a seguito del taglio artificiale di numerose anse e meandri attuato nel secolo scorso, per allontanare il corso d’acqua dai centri abitati. La sezione ha una geometria abbastanza regolare; con quote di fondo vincolate da una briglia a valle del ponte di Casalgrasso.” corso d’acqua porto ponte

2007

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[Ortofoto Geoportale Naionale, volo 2007]

1991

[Carta tecnica Regionale, 1991]

1960

[Carta IGM - Impianto storico, 1955 - 1969]

1854

[Carta Degli Stati Sardi in Terraferma di Sardegna, 1854]

1816

[Gran Carta degli Stati Sardi in Terraferma, 1816-1830]

Paleoalvei

Divagazioni del Po 1816-2007 leggibili attraverso il confronto tra carte storiche

Divagazioni del Po e del Pellice alla confluenza, confronto tra carte IGM 1880 e 1960

Le variazioni planimetriche dell’alveo del Po possono essere ricostruite mediante un esame della documentazione cartografica apparsa in questi ultimi due secoli.

I primi documenti in grado di consentire una certa ricostruzione dei tracciati fluviali sono costituiti dalla “Carta degli Stati Sardi di Terraferma”, alla scala 1:50.000, redatta dall’esercito regio nel primo quarto del XIX secolo. Comunque una sufficiente precisione, che assicura la confrontabilità di diverse carte, si ottiene solo dopo l’Unità d’Italia: a partire dal 1880 l’IGM pubblica la cartografia topografica ufficiale, in scala 1:25.000.

L’IGM ha aggiornato sistematicamente le proprie carte, per la serie diacronica qui sovrapposta a quella del 1880 si è scelta la carta dei primi anni ’60 del ‘900, riportando i tracciati sulla base della Carta tecnica regionale (CTR) dei primi anni ’90, e completando la serie con il tracciato degli alvei desunto dall’ortofoto disponibile presso il Geoportale nazionale, del 2007.

La carta inquadra il Po e le confluenze con il tratto terminale del Fiume Pellice (affluente di sinistra) e del Varaita (di destra). Come risulta evidente nel tratto il Po è incassato e non ha energia sufficiente per imporre pesanti divagazioni, che invece caratterizzano il tratto terminale del Pellice, e di conseguenza il fiume maggiore nei primi chilometri dopo la confluenza.

Dal confronto tra i diversi assetti degli alvei nel tempo risultano chiaramente i segni che i movimenti dei fiumi lasciano sul terreno, costituendo un ambito lineare, che coinvolge una fascia ampia, ben maggiore di quella costituita dagli attuali alvei. Il paesaggio della fascia fluviale è caratterizzato dalla presenza di elementi curvilinei, ben distinguibili quando sottolineati da alberature, che sono i segni relitti ma ancora leggibili dei paleoalvei (le linee curve in verde), anse una volta percorse dal fiume.

La fascia fluviale è priva di insediamenti, poco percorsa da infrastrutture che non siano connesse alle attività spondali o ai transiti obbligati, con ponti o traghetti.

Il tratto d’alveo rettilineo, a valle della confluenza del Varaita, è frutto di un allineamento, voluto nella prima metà dell’800, per assicurare dalle alluvioni il Ponte di Casalgrasso.

Infatti più il corso d’acqua è rettilineo e preme meno sulle sponde laterali. Ma dove il fiume non è confinato artificialmente, l’energia diversamente distribuita delle acque e la diversa resistenza dei terreni facilitano i cambiamenti di direzione, in prima fase casuali, e poi segnati da incisioni sempre maggiori. Nelle curve di cambiamento di direzione, la forza centrifuga della corrente è maggiore verso l’esterno, con il risultato di erodere la sponda, mentre si depositano limi e ghiaie all’interno, dove la velocità è minore. Quindi i meandri comportano naturalmente una progressiva erosione nei punti più fragili, fino al “salto”, che comporta un nuovo allineamento del corpo idrico, con maggiore energia, e quindi lo spostamento della pressione più a valle, a formare nuove sinuosità.

Il salto di meandro fa passare la maggior parte del corpo idrico lungo il nuovo percorso, più breve e quindi più pendente, provocando nell’ansa abbandonata dalla corrente un progressivo impaludamento: la formazione di lanche che nel periodo di 50/70 anni si riempiono e vengono infine utilizzate a scopi agricoli, residuando solo la forma curvilinea della sponda antica (i paleoalvei evidenti lungo la fascia).

E’ evidente che l’ampia fascia laterale all’alveo, percorsa dal movimento recente dei meandri ospita i depositi alluvionali più accessibili dal piano di campagna, pur insistendo su un “materasso” di ghiaie di profondità omogenea, del tutto simile a quello che si registrerebbe scavando direttamente in alveo. Questo spiega la disponibilità a rilocalizzarsi lungo la fascia delle attività estrattive, allontanate qualche decennio fa dall’alveo, per la pericolosità delle alterazioni di quota lungo il percorso delle acque vive.

I confini comunali, quasi sempre secolari, sono collocati sull’andamento del fiume in epoche passate e rivelano oggi l’ampiezza della fascia di divagazione dell’alveo, contrappuntati dai piloni votivi e dalle cappelle, tradizionalmente poste sul primo contrafforte non toccato dalle inondazioni, quasi a segnare il bordo delle terre abitabili, ancora verificato, alla luce delle recenti alluvioni catastrofiche, e quindi il fronte delle terre “di mezzo” non più del fiume e non ancora completamente dell’uomo.

Infatti le aree abbandonate dal fiume si interrano lentamente. In una fase di grande interesse per la biodiversità e di nessun interesse per le attività umane le zone umide si coprono di vegetazione spontanea e vengono prima colonizzate da coltivi, a basso reddito (in particolare pioppete), per la bassa fertilità e la troppa umidità della cotica superficiale, mentre si integrano pienamente con il resto della piana solo nel secolo successivo. Continuamente percorse da processi trasformativi potenti, tra uomo e natura, le fasce fluviali sono storicamente poco interessate da processi insediativi stabili. Era comunque necessario dotare di attrezzature per lo scavalco del fiume le vie di comunicazione che collegavano i centri maggiori (tutti in sicurezza, sui terrazzi argillosi pedemontani o sui loro relitti di “vauda”).

Dove la strada intercettava un fiume trovando un sito favorevole per la posizione e la potenza delle acque, si predisponevano passi da guadare. Dove la potenza delle acque riduceva troppo il periodo sicuro per i guadi, come lungo il Po, erano attrezzati traghetti (e i relativi attracchi, chiamati “porti”).

Le tracce dei “porti” sono spesso ancora leggibili e in alcuni casi gli attracchi sono ancora utilizzabili. Un traghetto tipo “era formato da due barche accostate o da una sola, grande, sulle quali veniva costruito un impalcato con una baracca. L’ancoraggio era effettuato tramite un pilotto di legno piantato al centro del corso del fiume, al quale era legata una corda collegata alle baracche del porto sull’una e l’altra riva. Una barca sussidiaria, più piccola, veniva posta a metà del tiro di corda” [dal museo civico di Carignano]

Dove l’importanza della strada imponeva una transitabilità permanente, si sono realizzati ponti, prima in legno, poi, in muratura, in modo diffuso solo a partire dal secolo XIX. In questo periodo talvolta si interviene pesantemente sul fiume, come accade a Casalgrasso per la strada militare, assestando e rettificando l’alveo a monte e a valle, per garantire la sicurezza e la durabilità del ponte.

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