CINEMA >> SORRENTINO, L'AMERICA A TUTTI I COSTI ANNO 2
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Rivista on-line Gratuita ------------------------------------------------------------------------------------------
DIRETTORE RESPONSABILE Pasquale Ragone DIRETTORE EDITORIALE Laura Gipponi HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Marco Faioli, Diana Ghisolfi, Giuseppe Pastore,Nicola Guarneri, Luca Romeo, Gianmarco Soldi,Gianluca Corbani, Simone Zerbini, Marta Ettari, Gaia Bonvini, Gianluca Bertoni, Francesco Cianciarelli. DIREZIONE_REDAZIONE_PUBBLICITA’ AURAOFFICE EDIZIONI S.R.L. a socio unico 26013 Crema (Cr) _ Via Diaz 37 Tel 0373 80522 _ Fax 0373 254399 edizioni@auraoffice.com GRAFICA E IMPAGINAZIONE Stile Libero adv_Francesco Ettari_Cremona www.lineastilelibero.it ©Testi e foto non possono essere riprodotti senza autorizzazione scritta dell’Editore. Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori dei quali si intende rispettare la piena libertà di espressione.
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MUSICA >> BERSANI AL SETTIMO CIELO
STORIA >> AL CINEMA PER CAPIRE LA STORIA AMERICANA
NATURA
ANIMALI
>> LA FORNACE ATTIVA: L'ETNA
TELEFILM
>> L'ALPACA, ANIMALE DALLA LANA DIVINA
LIBRI
>> La graphic novel e' morta? Viva la graphic novel! >> Ferzan Ozpetek, meglio tardi che mai
>> CASTLE
POLITICA
SPORT
>> PRENDI LA POLITICA E DIMENTICALA
SPORT
>> Wawrinka, ovvero l'altro svizzero: il trionfo all'Australian Open 2014
>> L'OLIMPIADE NEL MIRINO Chi smette di fare pubblicità per risparmiare soldi è come se fermasse l’orologio per risparmiare il tempo. Henry Ford
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NATURA | LA FORNACE ATTIVA: L’ETNA
La fornace attiva:
l’Etna
Imponente, minaccioso e con quel tocco di quiete imprevedibile data dal fumo che sbuffa dalla cima, l’Etna, la Montagna siciliana per eccellenza, è il complesso vulcanico attivo più alto d’Europa con i suoi 3.350 metri. Il processo di costruzione e distruzione dell’Etna ha avuto inizio 600 mila anni fa. L’attrito tra la zolla euro-asiatica e quella africana ha provocato la nascita di coni vulcanici e quindi le successive fasi di attività eruttiva. Attualmente il Mongibello (dalla lingua
araba) è composto da quattro crateri attivi sulle sommità: il cratere centrale (Voragine), quello subterminale di nord-est (dal 1911), la Bocca Nuova (dal 1968) e il cratere subterminale di sud-est (dal 1971). Ci sono poi i crateri avventizi, piccole bocche laterali sparse e i centri eruttivi collegati al bacino magmatico e non al condotto del vulcano principale, come i monti Rossi e il monte Mojo. La fama di pericolosa “fornace”(dalla lingua fenicia) è dovuta alle numero-
NATURA | LA FORNACE ATTIVA: L’ETNA
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se eruzioni devastanti esplose nei secoli. La più lunga, avvenuta nel 1614, durò dieci anni. La più distruttiva, durata 122 giorni, fu quella del 1669, 950 milioni di metri cubi di lava annunciati da un assordante boato e da un terremoto. Durante il XX secolo altri episodi hanno minacciato le cittadine in provincia di Catania. L’eruzione del novembre 1928 annientò il comune di Mascali, quella del 1971 spazzò via l’Osservatorio Vulcanologico e la funivia dell’Etna. Nel 1983 ci fu il primo tentativo di deviazione della colata lavica per mezzo di esplosivo, mentre nel dicembre 1991 iniziò l’eruzione più lunga del secolo: 473 giorni di flusso lavico, contrastato da cariche esplosive al plastico (C4). Senza alcun danno, l’ultimo parossismo risale al 29-31 dicembre 2013. Urbanizzato sui versanti est e sud, selvaggio e brullo a ovest, il territorio dell’Etna è costituito da diverse tipologie di ambiente. Le zone coltivate e boschive raggiungono i 1500 metri (sopra il livello del mare), la zona abitata invece arriva ai 1000 metri, oltre questa altitudine si trova la neve, che spesso rimane fino alla stagione estiva. Per tutelare e conservare il patrimonio naturale è stata istituita un’area protetta nel 1987, dando vita così al Parco dell’Etna. Grazie alla fertilità dei detriti vulcanici le terre permettono la coltivazione di una ricca varietà agricola tra
cui le ciliegie rosse dell’Etna, i pistacchi (Bronte), le noci, le pere, le pesche e le fragole. Nella zona collinare poi si trovano i vigneti di Nerello dai quali si ricava il vino Etna DOC. Piante come il pino loricato, l’ulivo, il castagno, il faggio si incontrano fino ad un’altezza di 2000 metri, al massimo la flora si sviluppa fino ai 2400 metri con la saponaria, la camomilla dell’Etna e l’astragalo siciliano. Non solo specie vegetali ma anche animali: l’istrice, la volpe, il gatto selvatico, la lepre e il riccio popolano i territori del vulcano. Il Parco si occupa anche di regolamentare e coordinare lo sviluppo delle attività turistiche. Un’escursione da non perdere è quella alla Grotta del Gelo, la cui temperatura interna non supera i -6°C in estate. Un’altra curiosità riguarda lo sport: parecchio rinomata è la gara automobilistica Catania-Etna, che si disputa sulle strade del versante sud dal 1925. L’Etna è stato anche una tappa del Giro d’Italia svariate volte, senza dimenticare poi la Super Maratona dell’Etna o l’Etna Trail. Un’altra emozione viene suscitata in coloro che apprezzano gli sport invernali: sciare sull’Etna, con la vista del mare davanti agli occhi, è un’esperienza indimenticabile. Suggestivo e ricco di risorse, l’Etna ha ricevuto il titolo di Patrimonio dell’Umanità il 21 giugno 2013. di Diana Ghisolfi
ANIMALI | L’ALPACA, animale dalla lana divina
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L’ALPACA, animale dalla lana divina Morbido e mansueto, l’alpaca (pronuncia àlpaca) è un animale dall’aspetto divertente che viene allevato per la sua lana. Originario del Sudamerica, negli ultimi anni si è diffuso anche in Europa; in Italia esiste la Società Italiana Alpaca Sialpaca alla quale fanno riferimento gli allevatori e coloro che sono interessati a far parte di questa realtà. Innanzitutto è bene sapere come è fatto un alpaca. Assomiglia a una pecora dal collo molto lungo: interamente ricoperto di lana, con collo e orecchie allungati, una coda corta e soffice, due dita per ogni zampa e provvisto di cuscinetti anziché zoccoli. È un mammifero appartenente alla famiglia dei camelidi, il cui nome scientifico è Vicugna pacos, poiché discendete della vigogna: i due animali si somigliano per stazza, altezza e qualità della lana. Circa 4.000 anni fa venne addomesticato in Perù e negli allevamenti degli Inca, i quali consideravano la lana degli alpaca “lana degli dei”. Abituati a pascolare a un’altitudine compresa tra i 3.500 e i 5.000 metri sulle Ande, si adattano alle basse temperature notturne (arrivano fino ai -20°C) e al picchiante sole di montagna durante il giorno. È un ruminante e possiede tre stomaci per
ANIMALI | L’ALPACA, animale dalla lana divina
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la digestione della fibra, dato che necessita di un chilogrammo di vegetali al giorno e di acqua in abbondanza. Nella specie Vicugna pacos esistono due razze: l’alpaca Huacaya e l’alpaca Suri. Il primo è più diffuso (3 milioni di esemplari nel mondo) e la sua lana è più densa e cresce perpendicolarmente alla pelle. Il secondo conta circa 50 mila esemplari nel mondo e la sua lana, più lucente, cresce verso il basso in modo attorcigliato. Per secoli le due razze si sono mescolate e c’è la possibilità che da due Huacaya nasca un Suri o viceversa. La riproduzione può avvenire quando le femmine hanno un anno di età e pesano minimo 40 chilogrammi, i maschi invece sono sessualmente maturi a 2 anni e mezzo. Dal momento in cui la femmina rimane incinta e mantiene la gravidanza, allontana il maschio attraverso lo sputo, gesto solitamente utilizzato nei rituali di corteggiamento. Così, se si vuole intraprendere l’al-
levamento degli alpaca è bene sapere che questi animali vengono allevati unicamente per la lana e non per la carne o per farne animali da soma. Ogni alpaca produce in media dai 2,5 ai 4 chilogrammi di lana all’anno, la quale viene quotata in base alla resistenza, finezza, lunghezza e all’uniformità e colore delle fibre, la lana può assumere una ventina di colori naturali diversi così che la tintura non venga adoperata. Non ci sono tracce di lanolina, quindi si tratta di un materiale anallergico e in più non infeltrisce. La fibra del dorso è valutata di prima scelta mentre quella di gambe e collo passa come seconda scelta. La finezza della fibra viene misurata in micron, cioè in millesimi di millimetro. La lana più pregiata resta comunque quella dei cria, i cuccioli nati da meno di sei mesi, grazie alla sua brillantezza e leggerezza; la migliore in assoluto è quindi quella ricavata dalla prima tosatura di un cria. Il vello viene tagliato una volta all’anno, in primavera, per alleggerire gli
alpaca prima dei mesi estivi e l’operazione non provoca nessun fastidio all’animale. Colui che è intenzionato ad allevare alpaca deve acquistare inizialmente due o più femmine gravide. Dopo di che è consigliato acquistare dei castroni, maschi castrati che servono solamente per far numero, affinché si formi un branco. Molto importante è non lasciare mai un animale solo, data la loro abitudine a vivere in gruppo. Prendersi cura di un alpaca è abbastanza semplice rispetto ad altri animali da allevamento, ma lo svantaggio è che per cinque alpaca serve più o meno un ettaro di terreno, circa 10 mila metri quadrati. Il guadagno poi si ottiene vendendo la lana alle aziende tessili o i cuccioli ad altri allevatori e la grande richiesta permette di rientrare in tempi brevi nei costi iniziali. Insomma allevare alpaca conviene se si possiede del terreno e una buona dose di amore e rispetto per le creature da accudire.
di Diana Ghisolfi
di Diana Ghisolfi
CINEMA | Sorrentino, l’America a tutti i costi
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SORRENTINO,
l’America a tutti i costi La sera americana del 2 marzo 2014, tra poco più di un mese rispetto al momento in cui scriviamo, ci sono buone probabilità che La grande bellezza di Paolo Sorrentino vinca l’Oscar come miglior film straniero, venendo così incoronato come il film extra-americano più importante del 2013. Vi sembra un concetto un po’ eccessivo, un inutile sfoggio di patriottismo a difesa di un film molto meno memorabile di quello che può sembrare, vista la grancassa mediatica delle ultime settimane? Siamo d’accordo con voi. Sì, siamo d’accordo, ma è necessario un chiarimento. Già in questo momento - agli occhi di centinaia di milioni di appassionati di cinema in tutto il mondo, che pendono dalle labbra di Hollywood - La grande bellezza è uno dei film più importanti della scorsa annata. Uno dei film più importanti al mondo, per il semplice fatto di aver già vinto il Golden Globe, sbaragliando concorrenti più qualificati e forse più meritevoli come il francese La vie d’Adèle, vincitore dell’ultima Palma d’Oro a Cannes. Tutto questo è innegabile, a prescindere dall’effettivo valore del film, e dovrebbe rallegrare chiunque abbia un minimo di affetto o partecipazione alle sorti del povero cinema italiano. Detto ciò, è indiscutibile che La grande bellezza sia l’ultimo e più fortunato esempio di quel nostro cinema-cartolina che da sempre affascina gli americani, ancora indissolubilmente legati allo stereotipo da Vacanze Romane quando si tratta di immaginare il nostro Paese. Sì, quando si addentra nelle tematiche esistenziali ed esplora il male di vivere di una borghesia annoiata e improduttiva, La grande bellezza rasenta spesso il plagio de La dolce vita, il capolavoro di Federico Fel-
lini che nel 1961 fruttò al genio romagnolo la prima candidatura all’Oscar per un italiano come miglior regista. Il Jep Gambardella di Servillo è giornalista e scrittore fallito come il Marcello Rubini di Mastroianni; le beghe familiari, i bisticci rancorosi, le drammatiche solitudini sono le stesse di Emma, Maddalena, Steiner; i riferimenti alle alte sfere vaticane, tra l’ironico e l’onirico, sono gli stessi (all’epoca molto più scandalosi) di mezzo secolo fa. Anche l’apparato tecnico è quasi all’altezza dell’originale: Sorrentino è un regista tecnicamente sontuoso e ci tiene a ribadirlo in continuazione, con scorci di cinema e di romanità che sono una gioia per gli occhi, tra carrelli, plongée e insistiti piani-sequenza. E veniamo al nocciolo fondamentale del discorso: è l’Italia, quella raffigurata da Sorrentino, o solamente una versione chic, edulcorata e semplificata a uso e consumo dei giurati di oltre Oceano? Ricorderete forse in molti la ruffianeria insita in un film peraltro commovente e decisamente ben riuscito come La vita è bella, che nella penultima scena faceva vestire i panni dei liberatori di Auschwitz ai carri armati americani, invece che – com’era stato in realtà - ai loro alleati russi. Ricorderete il tono decisamente nostalgico e anti-storico di una perla come Nuovo Cinema Paradiso che, opportunamente accorciato e rimontato, trovò in America quella considerazione di cui non aveva goduto nei cinema italiani qualche mese prima. Ricorderete il clima da gita scolastica che permeava tutto Mediterraneo di Gabriele Salvatores, che privò dell’Oscar addirittura un capolavoro come Lanterne rosse del cinese Zhang Yimou, uno “scippo” di cui
a Hollywood si parla ancora oggi. O i luoghi comuni sull’italianità di cui sono infarciti pietre miliari come Ieri, oggi e domani di Vittorio De Sica. Tutti film che hanno vinto l’Oscar, assecondando – volontariamente o meno – l’idea che hanno di noi gli americani che si sa, hanno questo vizio di ritenersi padroni e potenziali colonizzatori del mondo intero, specialmente di Paesi come il nostro verso i quali si sentono, non a torto, creditori. Veniamo al punto: Paolo Sorrentino alla conquista dell’America sarà sicuramente un gran bel film, che ridarà slancio e ossigeno al nostro asfittico cinema che fuori dall’Italia sembrava pressoché desaparecido; ma del regista napoletano continueremo a preferire L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore, Il Divo, i suoi film più autentici insomma. E chissà che, dopo essersi tolto il peso e la soddisfazione del massimo riconoscimento mondiale possibile per ogni regista, non torni a regalarci un altro gioiello come quelli citati appena due righe sopra.
di Giuseppe Pastore
TELEFILM | CASTLE
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CASTLE
La crime fiction è un genere letterario sempre fiorente, oltre a un genere televisivo centrale nel sistema seriale: in Castle le due vocazioni si incontrano, essendo l’eroe eponimo un autore di gialli best-seller che, a un certo punto, per caso, per noia o per altro, si trova ad abbeverarsi alla realtà metropolitana partecipando come consulente ad alcune indagini della polizia di New York. La serie è prodotta negli USA dalla ABC e va in onda dal 2009: il 27 gennaio appena trascorso si è conclusa la quinta stagione. La struttura della serie è basata sulla separazione tra due mondi: lo scrittore varca la soglia archetipica per vedere cosa succede nelle strade vere (riprendendo così il mito di Siddharta) trovando lungo il suo percorso una detective - che gli fa da guida – che a sua volta ha vissuto un percorso simile. Non era destinata, infatti, a occuparsi di morti e sparatorie, bensì a far parte della classe
dirigente, dopo un percorso di formazione altolocato. I due mondi non si limitano certamente ai personaggi principali ma si ramificano negli ambienti familiari e professionali: la famiglia di Castle vive di contrasti, con gli eccessi dell’anziana madre e il regime raziocinante della giovane figlia; la stazione di polizia è invece un elenco di caratteristi. Oltre alla linea verticale del caso da risolvere, la serie trova una linea orizzontale sia nella relazione fra i due protagonisti, che si sviluppa come un’amicizia affettuosa che vorrebbe diventare altro, sia in una detection privata che riguarda un elemento di epos, il delitto della madre della poliziotta, avvenuto diversi anni prima. L’elemento narrativo più interessante, in ogni caso, è proprio quello che determina in apertura della prima stagione il carico della soglia da parte dello scrittore: nel pilot si racconta di vari delitti com-
piuti imitando il setting di altrettanti delitti di finzione, tratti dai romanzi di Castle; quindi è il percorso di andata e ritorno fra realtà e rappresentazione a creare un cortocircuito che solo il narratore d’origine potrà risolvere. Il fatto notevole è che, mentre nel mondo narrativo della serie si pubblicano i romanzi di Castle ispirati casi che segue come consulente, nel mondo reale quei romanzi escono davvero, a firma Richard Castle, con vendite ragguardevoli (finora quattro volumi e un graphic novel). Buona visione.
di Francesco Cianciarelli
LIBRI | La graphic novel è morta? Viva la graphic novel! / Ferzan Ozpetek, meglio tardi che mai
La graphic novel è morta? Viva la graphic novel!
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La graphic novel è morta, firmato: uno dei migliori (forse il migliore) fumettista underground italiano. Un’autobiografia, “una commedia”, dice lui, una riflessione costante sulla vita accompagnato dal fedele pappagallino domestico Pepito: tutto questo è Graphic novel is dead, l’ultimo lavoro editoriale di Davide Toffolo, uscito da alcune settimane in libreria. El Tofo, voce dei Tre Allegri Ragazzi Morti, si lancia in un’avventura a disegni scombinata e a tratti disordinata, coinvolgendo il lettore nei suoi dubbi da pre-cinquantenne (classe 1965, ha da poco compiuto i 49). La graphic novel interroga e si interroga sull’uomo, sulle sue maschere e sulla mercificazione dell’identità, tanto per cominciare. Dopo vent’anni divisi tra disegno e musica, sono pochi quelli che conoscono il volto dell’artista di Pordenone, certamente più conosciuta è la maschera da teschio che ne nasconde il volto durante i concerti. “Una maschera che copra la mia immagine, se non hai un’immagine da gettare in pasto alla mercificazione, tu stesso non puoi diventare merce”. Parla con il padre, che gli propone continuamente di mollare l’attività di rocker, parla con quel Pier Paolo Pasolini che ha disegnato in un’ottima graphic novel precedente, parla (molto più spesso) con “l’inseparabile” uccellino Pepito, sempre al suo fianco in aneddoti di vita giovanile in una Pordenone che si affacciava al punk, come nei più recenti concerti negli stadi, avvenuti la scorsa estate in tour con Jovanotti. Chi conosce El Tofo, lo sa: zero banalità. Non ci si può aspettare un’autobiografia classica da lui, quanto un continuo spunto di riflessione quasi filosofico sui linguaggi che utilizziamo, sull’identità che assumiamo, su come il mondo fuori cerca di appropriarsi e forgiare questa identità.
Graphic novel is dead, urla Toffolo in copertina, “lunga vita alla graphic novel!”, scrive già nella prefazione. Come a dire: se uccidi la tua immagine, questa non può essere comprata. Ecco l’arte, bruciare e ricostruire. E il buon Davide, in vent’anni di musica e più di disegni, ci ha abituati molto bene. Voto: 10.
Ferzan Ozpetek, meglio tardi che mai Prendi uno dei registi più attivi in circolazione, mettilo a scrivere un libro e vediamo che cosa succede. La nuova penna, presa in prestito da una mano abituata alla cinepresa, è quella Ferzan Ozpetek, italo-turco, 55 anni, tra i protagonisti in libreria con il romanzo Rosso Istanbul. Sembrava un flop totale, dopo che il libro era passato praticamente inosservato dallo scorso autunno, quando è uscito in tutte le librerie, con scarsi risultati di vendita. “Il libro di Ozpetek? Perché, scrive anche libri?” avrebbero risposto i lettori, anche i più incalliti, interpellati sull’insolita opera. Ma tutto questo, fino a qualche settimana fa. Già perché da gennaio, Rosso Istanbul, ha cominciato a ingranare, finendo nella top 10 dei libri più venduti. Proprio quando il buon Ferzan stava per cominciare a concentrasi sul suo nuovo film (Allacciate le cinture, prossimamente nei cinema), ecco il tardivo successo editoriale. Chissà come si dice in turco, “meglio tardi che mai”. Nel romanzo Ozpetek indaga soprattutto i livelli dell’intimità e dell’introspezione, disegnando una doppia parabola che si incrocia con quella di sua madre. Una madre uscita cambiata da un intervento medico sbagliato e che da questo brutto evento ha saputo guardare il mondo con occhi diversi. Innanzitutto scoprendo i colori, a cominciare da quel rosso, presente nel titolo al fianco della città dove il Ferzan bambino è cresciuto, la capitale turca Istanbul. “Il rosso è lo smalto che mia madre ha cominciato a usare. Rosso è il vestito della ragazza che si è scagliata contro i poliziotti nella rivolta di piazza a Gezi Park”, giusto per citare l’autore, che intervistato da Arianna Boria ha anche affermato: “Oltre a mia madre, sono molto legato alle mie zie; tutte donne elegantissime e molto emancipate. Mia nonna, per dire, mi ha fatto scoprire il cinema” e non può scappare un elogio alle donne che l’hanno cresciuto: “Ho avuto un’educazione femminile, per fortuna”. Rosso Istanbul porterà senz’altro nei lettori il
profumo dell’Europa Orientale, con i suoi fascini e i suoi misteri, ma offrirà ovviamente anche un po’ di Italia, per un artista ormai adottato dal nostro Paese. Non Roma, dove Ozpetek vive, bensì Lecce: “Il Salento lo amo, per le persone”, dice lui. E allora, in attesa di rivederlo al cinema, ci caliamo con piacere in questa lettura personale e sincera, soprattutto incuriositi da un romanzo che ha fatto flop per due mesi e mezzo, per poi esplodere ed essere ora il libro del mese. A proposito, in turco, si dice “geç olsun guç olmasin”, meglio tardi che mai, caro Ferzan.
di Luca Romeo
MUSICA |BERSANI AL SETTIMO CIELO
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Bersani al settimo cielo
Il 2013 è alle spalle e l’inverno nel pieno della sua fredda maturità. Forse non è un caso che Samuele Bersani attenda proprio marzo, il mese che abbraccia la primavera, per lanciare il tour di presentazione del suo ultimo lavoro, Nuvola Numero Nove, uscito a settembre dell’anno passato. La primavera, appunto. Perché il senso di rinnovamento è evidente, quasi abbagliante, rispetto ai toni e ai temi trattati negli ultimi lavori. Una rinascita che permea tutto l’album, e in qualche modo si contrappone fervidamente a Manifesto Abusivo, l’ultimo lavoro completamente costituito da inediti (pubblicato nel 2009) che, con ogni probabilità, rappresenta il capitolo meno conosciuto e apprezzato dal grande pubblico, pur essendo, forse, l’opera più riuscita e musicalmente ardita della discografia del compositore di Cattolica. Nuvola Numero Nove, modo di dire anglosassone traducibile in “settimo cielo”, arriva dopo un lungo silenzio, durato oltre quattro anni, interrotto soltanto dalla partecipazione a Sanremo 2012 con il (poco fortunato) brano Un Pallone (che gli ha fruttato comunque il premo della critica per la seconda volta in carriera) e dall’uscita del greatest hits Psyco – 20 anni di canzoni, nel quale l’unico inedito, oltre al brano sanremese, era Psyco, canzone cupa e autobiografica incentrata sul rapporto del cantautore con la psicanalisi. A quasi cinque anni di distanza, Nuvola Nu-
mero Nove riconsegna un Bersani con una rinnovata vena artistica, concentrato su testi che vanno dalla sfera privata, mai così sotto i riflettori, all’Italia di oggi, definita “stivale ridotto a pantofola” nell’irriverente singolo Chiamami Napoleone, argomento piacevolmente satirico e mai abbandonato durante la sua carriera ultraventennale. L’intero album è caratterizzato da una spiccata preponderanza delle parti cantate su quelle strumentali (forse il punto debole del nuovo sgargiante abito del mood “bersaniano”), avvicinando Nuvola Numero Nove alla tradizione cantautorale italiana più di quanto fosse avvenuto negli ultimi tre dischi. Fervida e pungente è la critica sociale, filtrata dallo stile estroverso ed efficace che resta uno dei tratti distintivi e più apprezzabili del cantautore romagnolo; ma la novità principale fuoriesce dal piacevole mutamento delle tematiche relative all’amore. Come forse mai prima d’ora, sono i sentimenti, vissuti in prima persona da Bersani stesso, a far breccia come raggi di sole tra le burrascose nubi dell’ultimo decennio. En e Xanax ne è l’esempio più lampante: una canzone autobiografica, già diventata hit, incentrata sulla sua recente storia d’amore, nata paradossalmente dalle incomprensioni e fondata sulla condivisione delle paure più profonde, sfociate nell’uso e abuso di ansiolitici. E questo amore cristallino e a tratti lancinante traspare indelebilmente dallo sviluppo snello e leggero dell’album,
MUSICA |BERSANI AL SETTIMO CIELO
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grazie anche a brani deliziosi come Desirée (intitolata, appunto, alla compagna), Ultima Chance e D.A.M.S. (simile a molte canzoni del maestro e amico Lucio Dalla, a cui è dedicato l’intero disco). E così, con la riscoperta di arrangiamenti minimal in stile Battiato e testi vicini alla produzione dei primi Baustelle e Jannacci, Samuele Bersani aggiunge un ulteriore capitolo alla propria produzione discografica, avvalendosi di numerose collaborazioni con artisti emergenti e, soprattuto, della ritrovata ispirazione dopo lunghi periodi di silenzio e lontananza dai palchi. I palchi, appunto. Perché con l’arrivo della primavera il cantautore romagnolo sarà nuovamente in tour, accompagnato dall’ormai consolidato quintetto di strumentisti capitanato da Tony Pujia. Il tour prevede date lungo tutta la penisola, concentrate tra i mesi di marzo e aprile, in cui verrà presentato il nuovo album insieme ai celebrati brani del passato, molti dei quali diventati hit di culto col passare degli anni.
Con Nuvola Numero Nove e la nuova serie di concerti, Samuele Bersani torna dunque a librarsi in quel settimo cielo ritrovato, inteso come punto di svolta di una già encomiabile carriera artistica, riproponendosi, a più di vent’anni da quell’indimenticabile Chicco e Spillo, come una delle più eclettiche, estroverse figure del panorama musicale italiano.
di Gianmarco Soldi
POLITICA | PRENDI LA POLITICA E DIMENTICALA
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Prendi la Politica e DIMENTICALA. Siamo ormai abituati a sentire di tutto nella politica italiana. C’è chi ancora ci rinfaccia di avere ufficialmente decretato che Ruby è la nipote di Mubarack con una votazione parlamentare e chi invece diffida dagli italiani perché credono in leader che neanche siedono in Parlamento. Eppure, non c’è mai davvero limite al peggio. Nell’ultimo mese c’è stata un’escalation di frasi, insulti e iniziative che forse non hanno precedenti. Il grido grillino di «Napolitano boia» rende l’idea del clima politico del momento e rappresenta probabilmente il punto più basso della discussione odierna, anche perché potrebbe essere giudicato come vilipendio. A rasserenare gli animi ci prova Matteo Salvini (Lega Nord) che, in tema di odio-amore, ricorda a tutti come in cameretta avesse tre poster: uno era quello di Baresi, un altro quello della Trevisan. E l’altro? Di Umberto Bossi, è ovvio. Restando sulla sponda centrodestra, anche Giovanardi ha qualcosa da dire sulle passioni, stavolta altrui. Parla infatti della propria figlia e “denuncia” come quest’ultima si fosse messa in testa di amare un uomo «rasta, di colore, forse gay e sposato con un altro uomo». Dal suo punto di vista, altro che Napolitano boia! Non appena però la parola “gay” risuona nel centrodestra, qualcosa si muove. Temendo attacchi personali o alla propria famiglia, Michela Biancofiore (FI) mette subito le mani avanti e afferma pubblicamente: «Dudù non è gay! Ci prova con Puggy». L’onore è salvo.
Sull’altra sponda, invece, i problemi sono ben altri. Il segretario Pd Matteo Renzi comincia una vera e propria rivoluzione nel centrosinistra, a cominciare dal modo di comunicare. No, nessuno pensi al tentativo di emulare Berlusconi. Stavolta i propositi sono un po’ meno alti e più “macchinosi”: quale sarà il primo atto? Ovviamente «proporremo in Direzione che il patto di coalizione sia un file excel». Della serie “chi ben comincia...”. Eppure, nei propri files, Renzi sembra non avere scritto bene proprio tutto. A fare le spese di questa superficialità è Stefano Fassina. Alla domanda su cosa pensasse del rimpasto di governo chiesto dal collega Pd, Renzi si rivolge ai giornalisti con uno spiazzante: «Fassina chi?». È un altro segno dei tempi che cambiano nel mondo della comunicazione politica? In un certo senso Matteo Renzi fa tendenza e qualcuno, negli altri partiti, è tentato di seguire la sua stessa formula comunicativa. È di questo parere Francesco Campanella (M5S) che cerca di spiegare, con la sapienza tipica dei senatori del nostro tempo, quale sia la differenza tra Grillo e Casaleggio. Secondo Campanella, passare dal primo al secondo «è come passare da Scarlett Johansson a zì Teresa!». In effetti, guardando i capelli di Casaleggio, qualcosa l’avevamo intuita anche noi. Grazie al Senatore CinqueStelle per avere reso più evidente il concetto. Si tratta però di una sorta di “linea congiunta” nel Partito. Quella della “chiarezza” è un po’ una linea programmatica studiata a ta-
volino. O almeno, così sembra trasparire dalle affermazioni di Massimo De Rosa (grillino) che invece cerca di far comprendere quale sia la differenza più evidente tra le deputate del Pd e quelle del Movimento. Per farlo si lascia andare ad un esempio che è tutto da interpretare: «Voi donne del Pd siete qui perché siete brave solo a fare i pom....». I puntini li abbiamo messi noi ma il concetto è tutto di De Rosa. Probabilmente la colpa è tutta della legge elettorale. In tempi non sospetti, solo qualche giorno prima della frase grillina, Formigoni (Ncd) era stato chiaro: «Non voglio che si torni ai listini bloccati, sennò le liste saranno piene di Minetti». Quelli e quelle del Pd sono avvisati. Pare che l’intenzione comune sia di tornare ad una leggere elettorale con sistema proporzionale, un po’ un vecchio cruccio ai tempi della Balena bianca. E qualcuno già prova a ricordare la bontà dei tempi andati, magari proponendo un nuovo modello da seguire. Renzi, Berlusconi? Giammai: Kim Jong è l’uomo moderato per eccellenza. A dirlo è il senatore Antonio Razzi (Fi) che vede nel dittatore della Corea del Nord «un moderato», tant’è che «sembra un vecchio democristiano». Dopo certe affermazioni, vista la “scuola d’origine”, Letta è apparso un po’ preoccupato. Ma è stato Nitto Palma, esponente del centrodestra, a far tornare il buon umore in aula ricordando il film Grand Hotel. Perché mai? «Sa, gente che viene, gente che va...» è la sua piccata allusione. D’altra parte è difficile non dargli ragione, tra “pom....”, “zì Teresa”, cani omosessuali (o presunti) e segretari che “dimenticano” il nome dei propri Ministri. Il 2014 politico è cominciato bene, a quanto pare.
di Pasquale Ragone
SPORT | Wawrinka, ovvero l’altro svizzero: il trionfo all’Australian Open 2014
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Wawrinka, ovvero l’altro svizzero: il trionfo all’Australian Open 2014 Tranquilli, non è stato il caldo di Melbourne ad affumicarvi il cervello o a crearvi strane allucinazioni. Avete letto bene: Stanislas Wawrinka ha vinto il suo primo slam in carriera. Niente male per un tennista svizzero che aveva lo 0,00000001% di possibilità che nascesse nello stesso stato e negli stessi anni un Dio del tennis come King Roger e che si è fatto tatuare sul braccio la frase di Samuel Beckett: “Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better” (“Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio.”). Sembrava quasi non ci credesse più nemmeno lui, doversi sempre confrontare contro tennisti del calibro di Nole, Roger, Rafa e Andy per poter vincere qualcosa di serio. E invece stavolta ha messo in riga Djokovic e Nadal, il primo nel match forse più bello dell’intero torneo, il secondo in una finale abbastanza condizionata dall’infortunio alla schiena al maiorchino (senza nulla togliere a Stan ovviamente!). Tanto per dare un’idea dell’impresa di Wawrinka, l’Australian Open 2014 è il primo Slam a non essere vinto da uno dei Fab Four dal lontano 2010. Le altre note felici del torneo sono state il ritorno ad alti livelli di Federer e il giovane Dimitrov, che dopo l’annus horribilis 2013 sembra aver ritrovato la solidità e i colpi di una volta, non ci è dato sapere se grazie alla racchetta nuova, a coach Edberg o all’aria australiana. Roger ha eliminato Tsonga e un irriconoscibile Murray, ma dovrà impararsi a memoria questa frase pre-
sa dal film di Guy Ritchie “The Snatch – Lo Strappo”: “Conosci il significato della parola “Nemesi”? La giusta e logica imposizione di un castigo terribile che si manifesta attraverso l’opera di un agente adeguato, personificato nella fattispecie da un terribile figlio di p*****a...Nadal!”. Eh si, Federer proprio non riesce a digerirlo lo spagnolo, che pur di portarsi a casa il match contro l’ex numero uno si riduce a brandelli le mani. Il giovane bulgaro Grigor Dimitrov, eliminato ai quarti da Nadal dopo un grande match, ha dato l’impressione che ci sia ancora qualcosa da limare e che debba metterci ancor più cattiveria, ma scommettiamo che questo sarà l’anno della sua esplosione e di una possibile entrata nella top 10. Torneo di chiaroscuri per gli italiani: Fognini per una volta non fa il matto, vince quando deve vincere e se ne esce a testa alta al quarto turno contro Djokovic. Andreas Seppi riesce in una vera e propria impresa: eliminare Lleyton Hewitt, fresco vincitore a Brisbane contro Federer e idolo di casa, per poi farsi estromettere dallo statunitense Donald Young (chi???). Per Volandri questo Open è stato invece poco più di una scampagnata dall’altra parte del mondo: eliminato da Tsonga al primo turno. Ora non ci resta che aspettare maggio e l’arrivo dell’estate, sperando che nei prossimi tre tornei dello Slam ci sia un nuovo Wawrinka pronto ad interrompere nuovamente la supremazia dei Fab Four.
di Simone Zerbini
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L’OLIMPIADE NEL MIRINO Quelli di Sochi sono i Giochi più costosi di sempre. Ma lo spettro del terrorismo ceceno e tante ombre interne minacciano la grande festa voluta da Putin Annunciata dalle bombe di Volgograd, l’Olimpiade più costosa di sempre si presenta come un gigantesco caso internazionale. Vladimir Putin ha preteso i Giochi invernali per offrire al mondo un’immagine possente della nuova Russia, ma scavando un po’ sotto le ragioni di propaganda (e con neanche troppo sforzo) le vie che portano a Sochi si scoprono torbide e pericolose. Nel pentolone c’è davvero di tutto: danni ambientali gravissimi, l’ombra della corruzione, le nuove leggi russe contro gli omosessuali, la vicinanza di Sochi alla Cecenia. Un detonatore pronto a esplodere. Giusto per aumentare il livello d’allerta, già vertiginoso di suo, lo scorso 30 dicembre un kamikaze suicida è salito su un filobus di Volgograd con quattro chili di tritolo addosso e s’è fatto saltare in aria, provocando 14 morti. Meno di 24 ore prima, sempre a Volgograd – porta del Caucaso a 600 km da Sochi – la vedova di un altro ‘martire’ della guerriglia islamica si era fatta esplodere all’ingresso della stazione ferroviaria, uccidendo altre 17 persone. A due mesi dalla cerimonia d’apertura. Ora che ci siamo, Sochi è una città in stato d’assedio. Nonostante la violenta repressione scattata dopo gli attentati di fine dicembre la Jihad cecena è uscita allo scoperto, puntando i kalashnikov contro la manifestazione. Il terrorismo islamico vuole insanguinare la festa di Putin con un attentato di
dimensioni pari all’11 settembre. Tira questa aria: lo scorso agosto il leader Doku Umarov – detto il Bin Laden russo – si è autoproclamato Emiro del
Caucaso, invocando una guerra di religione: ‘’Noi mujahiddin useremo tutti i mezzi consentiti da Allah per impedire che si svolgano i Giochi sulle ossa dei nostri antenati e delle migliaia di musulmani sepolti nelle nostre terre’’. E non è finita. A Sochi si combatte pure un pezzo di guerra siriana: Putin appoggia con forza Assad, ceceni e daghestani stanno coi ribelli. Sono state prese misure imponenti: sull’Olimpiade blindata vigilano trentasettemila addetti alla sicurezza - in media otto
militari per ogni atleta – e le unità cinofile sono ovunque. Il governo russo, inoltre, ha allestito un sistema di difesa capillare. Tutto sarà sorvegliato: rete fognaria, tombini, tweet, mail, telefonate. Anche perché non si può fallire. Il Cremlino sta coltivando un preciso disegno di propaganda globale legata allo sport, e tra 4 anni la Russia aprirà di nuovo le sue porte al mondo per ospitare i Mondiali di calcio. Di fatto, il test è un passaggio cruciale per il futuro di una superpotenza che regge i fili dell’equilibrio internazionale. Per ottenere la grande vetrina olimpica (e finanziarla) Putin è ricorso a forze senza precedenti: 51 miliardi di dollari dichiarati – otto in più rispetto alle Olimpiadi cinesi del 2008 -, un esercito in assetto di guerra a difesa dell’evento, il più grande Centro Stampa della storia. Addirittura, in Russia, si parla di ‘’Olimpiada Vladimorovna’’: l’Olimpiade di Vladimir. Al netto di un esborso colossale, però, di limpido resta ben poco. A poche decine di chilometri da Sochi, salendo verso Krasnaja Poljana (che ospiterà sci e snowboard), l’aria del mare si mescola a quella della montagna. E solo le vette brulle e ripide del Caucaso – ai 2.300 metri delle piste – hanno la bellezza delle Alpi. Ma in Russia ci sono anche altre montagne. Più sicure. Perché, quindi, allestire i Giochi nell’unica città subtropicale del continente russo? Putin, che nel 2012 ha riconquistato il Cremlino tra i sospetti (in pratica, ‘’tagliando’’ gli oppositori dalle liste elettorali), ha portato le Olimpiadi che gli stanno tanto a cuore in un’area di genocidi e instabilità politica. Trasformando Sochi nel più grande cantiere europeo. Le vittime del progetto faraonico sono i lavoratori stranieri (uzbechi, kirghizi) sottopagati o non pagati affatto, gli abitanti sfrattati con la forza per far spazio alle nuove costruzioni, o l’ambiente naturale deformato per le costruzioni olimpiche. Autostrade, ferrovie, alberghi: la zona è stata in gran parte cementificata, ingrigendosi progressivamente in maniera inquietante. Trentamila tonnellate di detriti olimpici sono finiti in discariche illegali, probabilmente insieme al dissenso della popolazione locale – messa a tacere e calpestata senza troppi complimenti, come del resto i diritti degli omosessuali. Lo scempio ambientale ha prodotto un giro d’af-
fari clamoroso: oltre ai 51 miliardi di dollari per la preparazione dell’evento (il triplo del bilancio di Londra 2012!), il Cremlino ne ha stanziati 50 aggiuntivi per la sicurezza. Il sistema-Putin è molto semplice: tanto denaro (e tanto potere) nelle mani di pochi, minoranze ridotte al silenzio e un pieno oligarchismo intransigente. Ecco perché – avvicinandosi ai Giochi – Putin ha lasciato le poltrone o le principali sponsorizzazioni dello sport russo agli uomini più ricchi del mondo. Mikhail Prokhorov, primo non americano a possedere una squadra Nba; Andrei Bokarev, magnate dell’industria mineraria; Vagit Alekprov, presidente di Lukoil, secondo azienda petrolifera del mondo per riserve. In breve, ottenuti i Giochi nel 2007, Putin ha imposto una sorta di tassa per la partecipazione dei magnati. In Russia, dicono, se vuoi fare affari devi pagare. Il problema è che i costi pubblici per l’organizzazione dei Giochi sarebbero stati sovrastimati da una a due volte e mezza, mentre i principali investitori privati erano gli oligarchi amici di Putin. Tradotto, Sochi è stato un grasso luna park per gli affari di pochi eletti. Ora il luna park è nel mirino del terrorismo islamico. E un detonatore pende minaccioso sull’Olimpiade più costosa di sempre.
di Gianluca Corbani
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Al cinema per capire e scoprire la storia americana Dopo i film Lincoln e Django del 2013, è giunto sugli schermi cinematografici nel mese di gennaio il coinvolgente The Butler, un maggiordomo alla Casa Bianca, ambientato nello sfondo tumultuoso dell’America del Novecento. E’ la storia di Cecil Gaines, un maggiordomo afro-americano che ha servito la Casa Bianca sotto sette diverse presidenze a partire dal 1957 fino al 1986. Il film è tratto da un articolo del 2008 firmato da Wil Haygood per il Washington Post, poi diventato libro, edito in Italia dalla Newton Compton, in cui si racconta la storia reale dell’ex maggiordomo alla Casa Bianca, Eugen Allen, la cui vita aveva attraversato le drammatiche lotte per i diritti civili della popolazione di colore, lotte che alla lunga si sarebbero rivelate utili per permettere all’afroamericano Barack Obama di divenire presidente degli States nel 2008. Il 20 febbraio, uscirà ancora un film sullo stesso argomento “12 anni schiavo”, anche questo tratto da una biografia, quella di Solomon Northup, edita in Italia sempre dalla Newton Comton. Il film parla delle condizioni degli schiavi nelle piantagioni di cotone. All’epoca non era raro che neri nati liberi negli stati del nord fossero rapiti e venduti come schiavi al sud, ed è proprio questo che successe a Solomon Northup. Ma andiamo a ripercorrere gli eventi che vogliamo accennare brevemente in questo articolo, per meglio capire i film di questo periodo, nonché le vicende politiche del grande paese che è l’America
con tutte le sue complesse contraddizioni interne. Era il 1926 quando nel film The Butler, Cecil Gaines che viveva in una piantagione di cotone in Georgia, capisce che la madre viene ripetutamente violentata dal padrone e il padre viene ucciso sotto i suoi occhi per aver protestato e difeso la moglie, era un mondo dove la schiavitù pareva non fosse mai stata abolita. Successivamente il ragazzino divenne un piccolo “negro di casa”. Il suo compito era servire a tavola, stando in silenzio e senza creare problemi, come se non esistesse. Già dal XIX secolo la legge impediva che gli schiavi venissero ammazzati e mutilati. Il padrone era obbligato a corrispondere un minimo di vestiario e cibo agli schiavi, ma la stessa legge proibiva agli schiavi di imparare a leggere, anche se ogni tanto qualcuno ci riusciva di nascosto, di portare armi da fuoco e di uscire da soli dalla proprietà. Lo schiavo poteva essere venduto, barattato, affittato, ereditato o dato in garanzia per un prestito. La legge non gli riconosceva nessun diritto: non poteva sposarsi, a meno che il suo padrone glielo concedesse, non poteva avere una proprietà, non poteva testimoniare in tribunale. Gli schiavi domestici si sentivano più importanti di coloro che lavoravano nei campi. Poteva capitare che gli schiavi venissero frustati in pubblico per dare l’esempio. Nel 1860 la parte degli stati del sud più vicina al confine con il nord e quindi con il fiume Ohio, non aveva quasi più nessuno schiavo, mentre nel sud il modo per diventare ricco era avere schiavi. La-
voravano anche le donne incinte o che allattavano, con i bambini piccoli sulle spalle e lavoravano anche i bambini piccoli con mansioni più leggere, alcune volte però giocavano con i figli dei padroni, per questo molti bambini non si rendevano conto del proprio status. Lo schiavo Douglas raccontò che quando prese coscienza del suo stato di schiavitù, rimase sconvolto e incredulo di fronte a tale contraddizione, dato che gli americani erano così fieri della libertà e dell’uguaglianza, che era assurdo pensare che nel contempo potessero credere alla schiavitù. Douglas fuggì al nord e diventò un giornalista e un editore, fondando il suo giornale. I matrimoni fra schiavi non avevano diritti e protezioni legali, ma costituivano comunque un rifugio psico-affettivo vista la situazione. Lo storico americano Howard Zinn, nella sua Storia del popolo americano racconta: “nel 1858 uno schiavo di nome Abream Scriven fu venduto dal padrone e scrisse alla moglie: “Dì a mio padre e a mia madre che gli voglio bene e digli addio per me, e se non ci rivedremo in questo mondo spero di rivederti in cielo”. Le relazioni sessuali fra uomini bianchi e donne nere erano ufficialmente condannate, ma praticamente molti padroni, o figli di padroni, o sorveglianti bianchi, usavano le donne nere a loro piacimento. Questo abuso sessuale umiliava le donne nere, faceva infuriare gli schiavi neri e imbarazzava le donne bianche. Ma contemporaneamente a questi terribili fatti, crescevano e si andavano sempre più delineando vari movimenti antischiavisti. Cominciò quindi a emergere questa differenziazione fra Nord e Sud. Quando fu fatta la legge North West Ordinance che ordinava di abolire lo schiavismo nei territori a nord del fiume Ohio, questa differenza di mentalità si accentuò e questo portò successivamente alla guerra civile, anche se dobbiamo dire che i motivi che spinsero Lincoln a dichiarare guerra agli stati del sud non erano tutti finalizzati a sconfiggere lo schiavismo, bensì ad arricchire il Nord che in quel periodo era più povero del Sud, dato che il cotone veniva esportato in buona parte del mondo. Quando al Nord, gli schiavi furono liberati e diventarono operai, vennero pagati meno dei bianchi, senza una casa dove vivere e spesso venivano trattati male, non avevano né un’educazione, né un lavoro rispettabile, ma vive-
vano quasi sempre nel degrado più totale. La schiavitù rimase legale a New York fino al 1827 e nel Connecticut fino al 1848. I neri liberi, essendo diventati un punto di riferimento per gli schiavi, formarono la ferrovia sotterranea, Underground Rail Road con l’aiuto anche dei bianchi, per far fuggire quante più persone potessero, dalle piantagioni. La scrittrice Harriet Beecher Stowe, figlia di uno dei fondatori dell’associazione abolizionista, pubblicò “La Capanna dello zio Tom” storia di uno schiavo fuggitivo. Gli stati del sud si ritirarono dall’Unione fra il 1860 e il 1861 perché nel frattempo era stato eletto Lincoln Presidente degli Stati Uniti, il quale aveva emanato leggi che andavano contro gli interessi del sud. Gli stati del sud si sentirono traditi dal nord perché si proibiva di venire a cercare gli schiavi fuggiti ai padroni nel Nord. L’altro motivo era relativo ad una nuova legge attuata da molti stati settentrionali, per la quale ogni nero che fuggiva al nord era libero per sempre. Addirittura molti stati avevano leggi che proibivano la riconsegna degli schiavi fuggiti, anzi gli ufficiali dovevano aiutarli, quindi il sud poteva contare solo sul governo federale. Nel 1840 il Texas venne annesso all’Unione mentre c’era la guerra con il Messico. Nel 1850 arrivò una legge federale un po’ più a favore del Sud la quale sosteneva che gli agenti federali potevano andare al nord a riprendere gli schiavi fuggitivi e avevano il potere di obbligare i cittadini ad aiutarli. Questa legge era parte di un compromesso del Congresso, che permise in cambio alla California di entrare nell’Unione come stato libero. In conseguenza di ciò alcuni nordisti misero in atto azioni di disobbedienza civile per protesta. Nel 1854 alla festa del 4 luglio, molti membri dell’associazione anti schiavista, Garrison, Weldon Phillips e alcuni neri liberi, bruciarono questa legge federale e la Costituzione. Lincoln al suo secondo giuramento nel 1864 in piena guerra civile(12-4-1861 / 26-5-1865) affermava: “La schiavitù americana è un’offesa a Dio, questa terribile guerra è una punizione per questo grosso peccato”. I matrimoni misti erano proibiti, ma Garrison, un leader abolizionista fece togliere tale normativa nello stato del Massa-
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chusetts nella prima metà dell’800. Fu questo un fatto eccezionale e straordinario se pensiamo che nel resto del paese queste leggi furono abolite solo nel 1967. Ma continuando l’analisi, nel film The Butler si accenna ad una sentenza del giudice Warren del 1953 a proposito dell’integrazione scolastica. Fino agli anni ’50 infatti esistevano scuole per neri e scuole per bianchi. Vi erano molte cause portate avanti da gruppi che si battevano per i diritti civili e che chiedevano che i bambini neri potessero frequentare le stesse scuole dei bambini bianchi. Il giudice capo Warren affermò che tutte queste cause provenienti da stati diversi, avevano in comune un filo conduttore e quindi la Corte Suprema decise per tutti nello stesso modo. Alcuni uomini neri chiesero l’ammissione dei loro figli alle scuole dei bianchi. La causa precedente aveva negato tale ammissione, ma la Corte Suprema la concesse. Fu infatti riconosciuto che le scuole bianche erano migliori, quindi i bambini dei neri, per effetto del 14°
mune incriminò cento leader del boicottaggio. I segregazionisti bianchi passarono alla violenza: in quattro chiese di neri scoppiarono bombe e qualcuno sparò contro la porta di Martin Luther King. La situazione era così preoccupante che lo stesso New York Times del 24 febbraio 1956 cercò di mediare dichiarando:”… Questo boicottaggio è ora al 3° mese. I neri stanno protestando contro il concetto giuridico espresso da alcuni giudici del separato ma uguale….Questo giornale crede che il popolo dell’Alabama abbia fede nella democrazia e che abbia l’intelligenza di capire che uguali diritti non impongono contatti con i neri, i quali non vengono imposti come amici. Aspettiamo e confidiamo che la nostra fiducia nelle persone dell’Alabama non venga delusa.” Nel novembre 1956 la Corte suprema dichiarò illegale la segregazione nei trasporti urbani. In quegli anni era risorto il Ku Klux klan, la famosa associazione politica segreta degli incappucciati bianchi, soprattutto dopo i provvedimenti contro la
emendamento, potevano andarci. Questo emendamento promulgato nel 1787 quando nacque la Costituzione americana, fu possibile applicarlo solo a partire dal 1953, 166 anni dopo. Ma nonostante le leggi federali, negli anni 50 e 60 spesso organizzazioni razziste impedivano l’accesso ai licei e alle università agli studenti di colore, al punto che nemmeno l’appello del Presidente Kennedy riuscì a dissuaderli tanto che lo stesso decise di mandare i militari davanti a quelle scuole anche per proteggere gli studenti neri. Anche nei bar e negli autobus vi erano posti per neri e posti per bianchi. I neri non potevano entrare in un teatro, in un ristorante o in un albergo. Una sera, alla fine del 1955, a Montgomery, capitale dell’Alabama, la signora Rosa Parks, una sarta di ritorno dal lavoro, essendo stanchissima e non essendoci posti liberi riservati ai neri, si sedette in un posto riservato ai bianchi. Per questo fu arrestata. L’episodio scatenò la rivolta civile dei neri americani che cominciarono a boicottare tutti gli autobus cittadini evitando di usarli. Misero in comune le automobili per recarsi al lavoro, ma la maggior parte vi si recò a piedi. Per ritorsione il co-
discriminazione razziale adottati dall’amministrazione Kennedy, anche se la sua attività criminosa nacque nel sud dopo la guerra civile, in opposizione al Congresso. Ma le battaglie contro la segregazione razziale si susseguirono incessanti in quel periodo, come racconta il film The Butler. I Freedom Riders, un gruppo di attivisti bianchi e neri per i diritti civili, nel 1961 iniziarono una forma di protesta che consisteva nel viaggiare a bordo di autobus attraverso diversi stati del Sud, contravvenendo alle leggi di questi paesi che richiedevano ancora una netta separazione tra bianchi e neri a bordo degli autobus. L’iniziativa dei Freedom Riders era partita da una sentenza della Corte Suprema che l’anno prima aveva dichiarato illegali i provvedimenti di segregazione razziale, in vigore in diversi stati del Sud e quindi in contrasto con essi. Per testare la validità della suddetta sentenza, i Freedom Riders il 4 maggio iniziarono una serie di viaggi in autobus, attraversando la Virginia, le due Caroline, la Georgia, il Tennesee, l’Alabama, il Mississippi e la Louisiana, con promiscuità a bordo di bianchi e neri, subendo per questo violenze di vario genere
come veicoli incendiati e bersagliati con pietre e mattoni e tagli di pneumatici. Il tutto culminò con aggressioni con pugni di ferro e mazze da baseball il 21 maggio a Montgomery in Alabama e il 24 maggio con l’arresto di massa a Jackson nello stato del Missisipi. Ma il leader più importante e simbolico dei movimenti contro la segregazione negli States è stato indubbiamente Martin Luther King che dal carcere di Birmingham dove era stato arrestato per una manifestazione pacifica, rispose con una bellissima lettera agli otto pastori che lo accusavano di essere un estremista e in quel contesto spiegava che in una campagna non violenta c’erano 4 passi: 1) raccogliere dati e informazioni sull’ingiustizie, 2) Negoziare, 3) Autopurificazione(preparare la mente e il cuore ad essere maltrattati senza rispondere e reagire), 4) Azione diretta come una manifestazione ed altre cose. Nel film infatti si vedono scene di giovani che protestano e non reagiscono alle violenze fisiche e verbali, come si assiste però anche alla nascita delle Pantere nere fondate dal Musulmano Malcom x, che a differenza dei gruppi fondati da Martin Luther King, erano invece estremamente violente. Memorabile il discorso che King fece il 28 agosto 1963 al Lincoln Memorial di Washington D.C davanti a migliaia di persone e seguito da milioni di telespettatori:”Cento anni fa Lincoln firmò la proclamazione di emancipazione per i neri, …ma cento anni dopo i neri non sono ancora liberi…Siamo qua per incassare un assegno, la Costituzione, la dichiarazione di indipendenza e la dichiarazione di emancipazione, sono promesse per noi. Ma c’è una cosa che devo dire al mio popolo, non dobbiamo abbandonarci all’odio perché abbiamo sete di giustizia… Io ho un sogno….io sogno che un giorno in Georgia i figli degli schiavi siederanno tranquillamente insieme ai figli dei proprietari…..e che i bambini neri e bianchi potranno unire le mani come fratelli.” Lo stesso anno, due mesi prima, esattamente l’11 giugno 1963, il Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy afferma di fronte alle telecamere: “Ci troviamo di fronte ad una crisi morale di un paese e di un popolo, la quale non può essere risolta da azioni repressive della polizia…..questo pomeriggio è stata necessaria la presenza della Guardia Nazionale dell’Alabama per far rispettare un’ordinanza della Corte distrettuale. A due persone chiaramente qualificate ma che per caso sono nate nere, è stato impedito di entrare all’Università….. Spero che ogni americano faccia un esame di coscienza su questo e altri casi simili. Questa nazione è stata fondata da uomini e donne provenienti da vari paesi e nella dichiarazione di indipendenza si afferma che tutti gli uomini sono creati uguali e che i diritti di ogni uomo diminuiscono quando i diritti di un solo uomo sono minacciati….Abbiamo il diritto di aspettarci che la comunità nera rispetti la legge e sia responsabile, ma la comunità nera ha il diritto di aspettarsi che la legge sarà giusta e che la costituzione non sappia più distinguere i colori”. Pochi mesi dopo il 22 novembre 1963 a Dallas in Texas, Kennedy fu ucciso. Cinque anni dopo, il 4 aprile 1968 a Memphis (Tennessee) il premio Nobel per la pace Martin Luther King fu ucciso. Stranamente i due indiziati per gli omicidi di Kennedy e King furono a loro volta uccisi. Dopo una lunga storia di soprusi, di violenza contro i neri e di negazione dei loro diritti, pochi avrebbero immaginato che alla Casa Bianca potesse giungere un presidente di colore. Obama in occasione del comizio ai Democratici iniziò a parlare come già avevano fatto King e Kennedy, della Costituzione ameri-
cana e di Lincoln, di unione delle persone, ascoltandolo sembrava volesse continuare l’opera di Martin Luther King e di John F. Kennedy. Obama infatti affermò: “Tutti hanno diritto di lottare per i loro diritti….Possiamo andare avanti solo con l’unione di tutti gli americani di qualunque colore e razza. Nella mia campagna elettorale non voglio che si parli di razze, ma di unione fra la gente…Molti politici alimentano l’odio fra razze per un pugno di voti. Per esempio molti bianchi sono arrabbiati perché ci sono le quote riservate ai neri o ai latino americani e credono che sia per questo che rimangono senza lavoro, ma i veri colpevoli sono gli imprenditori che solo per aumentare il loro profitto portano le loro aziende in Asia….. La soluzione è unire i problemi che fanno soffrire sia i bianchi che i neri. Dobbiamo formare un’alleanza fra bianchi, neri, asiatici e latini, ricchi e poveri per lavorare insieme. Certamente se Obama avesse dichiarato che solo i neri erano poveri e trattati male, non so se avrebbe vinto le elezioni presidenziali il 4 novembre 2008. Poco dopo la sua elezione, Obama leggendo l’articolo sull’ex maggiordomo Eugen Allen, volle riceverlo alla Casa Bianca con tutti gli onori. Nemmeno Martin Luther King avrebbe mai sognato quel lontano giorno del 1963, quando al Lincoln Memorial di Washington dichiarò: “Io ho un sogno che è profondamente radicato nel sogno americano. Io sogno che un giorno questa nazione vivrà il significato del suo credo: tutti gli uomini sono uguali.”che dopo 45 anni ci sarebbe stato un inquilino di colore alla Casa Bianca. “I have a dream that is deeply rooted in the American dream” Di Donatella Daini
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