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OTTOBRE 2021
Periodico d’informazione locale - Anno I n.8
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CHRISTIAN GRECO
Capitale cultura grande occasione per Vicenza PARLA CASTAMAN
Acqua, la Tav ci obbliga a rifare le tubazioni
QUEL PARCHEGGIO AL MUSEO È UN… MACELLO: VA SPOSTATO MA È POLEMICA “Bisogna smettere di portare auto in centro”
GIOVANE VICENTINA
servizi alle pag 8-9
PALAZZO STORICO ABBANDONATO DA 15 ANNI E NESSUNO LO VUOLE
Rifiutata in Italia ora insegna ad Harvard NUOVA BIBLIOTECA
Bocciato il bando per il progetto all’ex tribunale MONUMENTO ALPINI
“Sembra uscito da un film di Totò” OSTERIA DEL GUÀ
I bigoli all’arna del cuoco palladiano
L’incredibile caso in contrà Oratorio dei Proti
Tra Gioventù obbligobruciata e libertà, l’ultima sfida
Antonio Di Lorenzo >antonio.dilorenzo@givemotions.it<
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Nicola Stievano >direttore@givemotions.it<
a “gioventù bruciata” degli anni Cinquanta si immedesimava nel James Dean, bello e dannato, del a più di un anno e mezzo un gruppo di studiosi film omonimo, che è diventato un modo di dire taldell’Università di Padova si occupa di misurare mente liso quanto resistente. Eppure il titolo americail grado di “coesione sociale” nei confronti dell’eno è molto più efficace, perché “Ribelle senza motivo” mergenza Covid e delle soluzioni messe in atto per racconta molto di più dell’inquietudine di una genecontrastare la pandemia. Nelle ultime settimane il razione che cercava nelle auto, nella velocità e nelle barometro della tenuta sociale registra un sensibile assurde prove di coraggio un antidoto, o meglio un calo, dovuto per lo più alla reazione nei confronti del motivo di protesta, contro la cultura benpensante che green pass e della campagna vaccinale. trionfava anche negli Usa. segueaapag segue pag 5
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Facciamo il punto
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5 Gioventù bruciata Antonio Di Lorenzo >redazione@givemotions.it<
Madame diventa testimonial antimafia M
adame, la giovane cantante di Creazzo rivelazione al festival Sanremo, diventa testimonial antimafia. Lo fa senza dimostrazioni o slogan, ma semplicemente con la musica. È, infatti, della diciannovenne Francesca Calearo, così è registrata all’anagrafe Madame, la canzone dei titoli finali del film “A Chiara” di Jonas Carpignano, vincitore del premio “Europa cinema label” al festival di Cannes. Naturalmente la canzone è “Voce” che proprio a Sanremo ha ottenuto il premio della critica. “A Chiara” racconta la storia di Chiara Guerrasio, una quindicenne che si scontra con la realtà della ‘ndrangheta: il padre, infatti, scompare il giorno del suo compleanno e lei inizia a farsi delle domande su di lui, sulla sua famiglia, ma soprattutto su di sé: chi sono io, cosa voglio dalla mia vita e dal mio futuro? Si tratta di un film – il terzo di una trilogia che ha visto anche Martin Scorsese come produttore – che “è un racconto di formazione, di ricerca della verità, di sopravvivenza e di possibilità di scelta, con uno stile travolgente del regista”, come ha sottolineato Art Tribune. Il film termina con un messaggio di liberazione e speranza, sulla voce di Francesca Calearo. Di lei la giuria di Sanremo ha detto tutto: “Un talento precoce, con imprevedibili risorse, che potrebbe offrire novità alla bellezza musical-letteraria delle canzoni italiane”. Dario Salvatori, che a Sanremo era nella giuria del premio fondato a suo tempo da Fernanda Pivano e Fabrizio De Andrè, ha commentato così la sua canzone: “Una lirica basata su sentimenti adolescenziali, sfumati tra follia e grandezza: sopravvivi a te stessa e diventerai quello che sei”.
è un marchio proprietà di
È un periodico formato da 21 edizioni locali mensilmente recapitato a 408.187 famiglie del Veneto. Questa edizione raggiunge la città di Vicenza per un numero complessivo di 43.000 copie. Iscrizione testata al Tribunale di Vicenza n. 4194/2020 V.G. del 23.11.2020; R.S. 17/2020; numero iscrizione ROC 32199
Srl
Chiuso in redazione il 15 ottobre 2021
La canzone “Voce” di Madame è la sigla finale di “A Chiara” film su una giovane e la ‘ndrangheta
Direzione, Amministrazione e Concessionaria di Pubblicità Locale: via Lisbona, 10 · 35127 Padova tel. 049 8704884 · fax 049 6988054 >redazione@givemotions.it< >www.ilvicenza.com<
A sessantacinque anni di distanza rischiamo invece di bruciare una generazione: quella che guarda oltre i confini – il che non è sbagliato – ma che non torna qui a far fruttare studi e lavoro. Basta leggere alcuni articoli che trovate in queste pagine: il ballerino che va a danzare in Germania perché qui non c’è sicurezza di contratti, la violinista orgogliosa di Vicenza ma che sceglie la Norvegia perché investe nei giovani e nella musica, l’incredibile storia di Sara Elettra Zaia che è rifiutata da quattro università italiane e adesso insegna ad Harvard, primo ateneo del mondo. Per non parlare del più illustre degli ex giovani, quel Christian Greco che ha girato tra Usa, Inghilterra e soprattutto Olanda prima di arrivare alla direzione del museo egizio di Torino. Commenta in un passaggio dell’intervista: “Noi in Italia non abbiamo idea di cosa siano le scuole del nord Europa. Ho insegnato otto anni in una scuola al porto di Rotterdam, ne ho ancora il ricordo ben vivo”. Quanto sia centrale la “questione giovanile”, come si sarebbe chiamata un tempo, l’ha ben spiegato Laura Dalla Vecchia, presidente di Confindustria, che al tema ha dedicato la sua relazione all’assemblea degli associati. Un intervento di alto livello e di ampio respiro, che per una volta ha messo da parte le rivendicazioni sindacali della categoria (pur legittime) e ha lanciato l’idea di un patto tra privati ed enti per dare un futuro alle nuove generazioni, perché di loro abbiamo bisogno: non solo nelle aziende, ma soprattutto nella società. Non possiamo perderli. I cardini di questo patto sono tre: scuola (soprattutto gli Its, autentica nuova frontiera dell’incontro fra cultura e impresa), università e infrastrutture sostenibili. Qualcosa su questo fronte si sta muovendo. Sempre in questo numero trovate un servizio su Vicenza città universitaria, dimensione che non riguarda solamente la città, ma tutto il territorio. Non siamo più un “polo” universitario, sono lontani gli anni degli iscritti scaricati a Vicenza, ma diventiamo protagonisti del futuro. Abbiamo passato anni a protestare perché le infrastrutture mancavano. Giusto, ma pensavamo ai Tir e alle merci. Adesso dobbiamo pensare a trasportare qui i cervelli, a rendere attrattivo il territorio. È una scommessa da vincere per non bruciare quei giovani che non ne hanno colpa.
Redazione: Direttore responsabile Nicola Stievano >direttore@givemotions.it< Antonio Di Lorenzo >antonio.dilorenzo@givemotions.it<
CENTRO STAMPA QUOTIDIANI S.p.A. Via dell'Industria, 52 - 25030 Erbusco (BS) Tel: +39.030.7725594 Periodico fondato nel 1994 da Giuseppe Bergantin
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L’intervista
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Il personaggio. Christian Greco, vicentino e direttore del museo egizio, sostiene il progetto del capoluogo verso il 2024
“Candidatura a capitale cultura, Vicenza ha una grande occasione da sfruttare” “A prescindere dal risultato, per il quale entrano in gioco altri fattori, significa mettersi attorno a un tavolo e ragionare su una progettazione culturale complessiva. Vicenza ha enormi potenzialità. Deve invertire la rotta del passato e imparare a investire in cultura. Come ha fatto anche Brescia”. E sul suo museo di Torino: “Entro cinque anni voglio abolire il biglietto di ingresso”
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a un obiettivo in mente: entro cinque anni abolire il biglietto d’ingresso al museo egizio di Torino, del quale Christian Greco è diventato direttore a 39 anni, nel 2014, dopo una lunga esperienza professionale tra Italia, Usa e Olanda, specialmente all’università di Leida. Nel 2019, dopo cinque anni della sua gestione, il museo egizio è arrivato a 850mila visitatori, quasi triplicandoli rispetto all’inizio del mandato. Greco, vicentino con scuole in via Riale e maturità al Pigafetta, torna spesso nella sua città: questa volta è venuto a festeggiare con una relazione d’alto livello i 40 anni della Società teosofica, presenti il segretario nazionale Antonio Girardi e il presidente della sezione vicentina, Enrico Stagni. Se abolisce il biglietto, la sua presidente Evelyn Christillin, non sarà felicissima. Lei pensa ai bilanci. “Anch’io. Vedrà che i conti torneranno, anzi. Se una persona non paga il biglietto è più motivata a spendere, che so, per l’audioguida che altrimenti lascerebbe da parte. E poi rifletta sulle entrate del bookshp: quelle del British Museum, dove appunto non si paga il biglietto, sono aumentate del 480 per cento”. Quanto pensa di restare al museo egizio? “Possibilmente fino alla pensione”. Cosa vuol dire essere direttore di un museo, oggi? “Quando sono andato a lavorare in Olanda il mio direttore mi disse: se tu hai avuto un posto qui significa che altre venti persone sono rimaste fuori. Quindi devi essere attento a tutti, anche al bambino di otto anni che ti scrive una mail. Insomma, se vieni qui per fare la tua carriera e pubblicare, quella è la porta”. Un benvenuto con i fiocchi per un ricercatore. “Aveva ragione e ho imparato la lezione. Mi sento davvero un civil servant: faccio un lavoro per la collettività e devo entrare in rapporto con il pubblico. Del resto, in Olanda
Christian Greco nella foto grande nel suo museo a Torino e a Vicenza con Antonio Girardi ed Enrico Stagni della Società teosofica
ho insegnato per otto anni in una scuola al porto di Rotterdam. Se sono sopravvissuto a quello… Avevo nove classi e 280 allievi dai 12 ai 18 anni. Le due ore di greco le avevo al venerdì dalle 15 alle 17. Non so se mi spiego”. Secondo lei, il pubblico da cosa è rimasto colpito rispetto alla sua gestione? “Penso abbia apprezzato un rapporto diretto, di condivisione. Ho introdotto l’idea della licenza creative commons, la condivisione delle immagini, la passeggiata con il direttore, che è molto gradita. Siamo passati da zero a 89 stagisti l’anno. Insomma, il museo è diventato un posto aperto”. Con la cultura si mangia, d’accordo, ma quanto? “Si mangia se la cultura diventa ricerca. I musei devono avere tre caratteristiche: ricerca, innovazione e formazione. Senza ricerca il museo è morto. Perché il museo non sta fermo: è il luogo in cui la società lo ha deputato a essere un istituto della memoria per la comunità. Ma la memoria va preservata, coltivata, studiata. Il museo deve diventare innovativo: non è possibile che se scrivo un libro su Caravaggio sia più facile avere immagini dal Metropolitan che non dai musei italiani, che devo anche pagare. Ecco perché ho insistito sulla licenza creative commons”. E la formazione? “La mancanza di formazione nei musei
mi fa letteralmente arrabbiare. Vorrei finirla con la deportazione delle scolaresche nei musei. Abbiamo 4667 musei che non fanno formazione, parlo dalla scuola d’infanzia all’università sino alla formazione continua. In Olanda i deputati dopo essere essere stati eletti vanno al Rijksmuseum a informarsi, perché loro ragionano così: se vuoi prendere decisioni sul tuo Paese prima a studiarne la memoria, se no che decisioni puoi prendere?” Perché parla di deportazione? “Vada al Nordiska museet di Stoccolma: le famiglie, che entrano senza pagare il biglietto, hanno una grande sala con frighi e tavoli; le mamme vanno nelle sale con i bambini, i papà fanno da mangiare, poi pranzano tutti assieme. Il museo è casa. Da noi non è così” Come vede la sua Vicenza da Torino? “Sono molto felice di questo progetto su Vicenza capitale della cultura in Italia perché a prescindere dal risultato, significa sedersi attorno a un tavolo e ragionare su una progettazione culturale e sul futuro di questa città. Credo che Vicenza abbia un enorme potenziale ancora inespresso. Spero che non voglia seguire l’esempio di Venezia e Firenze, dicendo ‘abbiamo bisogno di turisti’ che in realtà portano un valore aggiunto, anche economico, pari a zero. Spero che Vicenza torni al modello di Palladio, quello della fab-
brica. Una fabbrica di costruzioni, una fabbrica di welfare, in cui la cultura diventi una parte ingente di questo progetto”. Perché secondo lei è importante? “Le rovescio la domanda: quanti vicentini vanno a Santa Corona o al criptoportico romano? Quanti vicentini sanno che l’Olimpico è il teatro coperto più antico al mondo? Quanti sanno che noi siamo la vera città tardo rinascimentale, tenuta quasi intatta? Io ho fatto le scuole a Vicenza e la mia insegnante di storia dell’arte, Sabadin, in via Riale non ci ha mai tenuto in classe, ma si andava fuori, ci si sedeva per terra. C’è bisogno di persone così”. Vicenza ce la farà a vincere la concorrenza delle altre candidate? “Non so se ce la farà, i competitor sono forti, poi ci sono giochi politici. Se c’è Bergamo e Brescia nel 2023 è difficile che nel 2024 ci sia un’altra città del Nord. Ma non questo il punto. Io dico: impariamo da loro, che hanno anche investito molto: prenda il nuovo museo a Brescia, che senza puntare sull’allestimento ha invece chiamato Marcello Barbanera, che è uno dei più grandi archeologici che abbiamo. Insomma, spero che questa candidatura possa essere un percorso che porti Vicenza a investire e invertire la rotta”. Senta, ma le piramidi le hanno costruite gli alieni? “No, naturalmente no”. E va bene. Ma perché nella cultura popolare gli egizi sono collegati a questa idea? “Perché è colpa nostra. Siamo noi che diamo adito a queste interpretazioni. Noi egittologi non siamo capaci di comunicare i risultati della ricerca e quanto l’Egitto abbia ancora da dire. E quindi lasciamo libero spazio a chi, come Wilbur Smith vende 190 milioni di libri scrivendo, dal punto di vista egittologico, delle scorrettezze dall’inizio alla fine. Il pubblico, da Omero in poi, che trova molto affascinante il mistero, se non le trova da noi cerca le informazioni in un altro modo”. Antonio Di Lorenzo
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La polemica. Contro la destinazione dell’ex macello a parcheggio, il centrosinistra ribadisce la sua posizione
“Meglio creare un mercato coperto in viale Giuriolo, un piccolo Eataly” I consiglieri Rolando, Selmo e Asproso sostengono che non si deve attrarre altro traffico di auto in centro: “Il vicino parcheggio di via Bassano, che offre anche il bus navetta di collegamento, è sempre sottoutilizzato”
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l centrosinistra è schierato contro il parcheggio all’ex macello. “Abbiamo votato no a quella delibera - afferma un consigliere veterano della sala Bernarda, Gianni Rolando del Pd - in parte perché ha cancellato un percorso maturato durante la precedente amministrazione, ma soprattutto perché va contro una visione più generale legata alla mobilità”. Spiega: “Andrebbero ripresi e sviluppati i parcheggi scambiatori abbinandoli al bikesharing e al centrobus. In centro storico conclude il consigliere - bisogna cominciare a diradare la presenza delle auto e a dare gambe ad una mobilità alternativa e ciclabile”. Concetti ampiamente condivisi dal resto dell’opposizione a palazzo Trissino.
“Liberare piazza Matteotti è comunque un obiettivo importante - spiega un altro consigliere del Pd, Giovanni Selmo - ma non a costo di portare i parcheggi a pochi metri dai gioielli palladiani. Uno spazio per la socialità all’ex macello sarebbe stata la destinazione maggiormente auspicabile!” Ciro Asproso di Coalizione civica per Vicenza spiega che “c’è più di una ragione per essere contrari alla trasformazione dell’ex Macello in parcheggio e, paradossalmente, è proprio lo Studio sul Pums avviato da questa amministrazione a fornirci il supporto scientifico”. “I dati sulle rilevazioni di traffico dimostrano che vi è un’elevata offerta di stalli per la so-
Il mercato coperto Albinelli di Modena: poteva essere così l’ex macello a Vicenza. I due consiglieri comunali di centrosinistra, Giovanni Selmo e Ciro Asproso
sta - continua Asproso -, il che induce i vicentini a preferire l’auto privata al mezzo pubblico, nell’assoluta convinzione di trovare comunque una piazzola libera”. Fa notare il consigliere: “C’è poi la concorrenza diretta col vicino Park Bassano-Stadio (che fornisce anche il servizio di bus
navetta) il quale è costantemente sottoutilizzato, mentre il nostro interesse è quello di sfruttarlo al massimo della capienza”. “Infine - conclude Ciro Asproso -, ma non meno importante, valuto di primario interesse utilizzare tale contenitore (in posizione strategica e vicino al
Chiericati, uno dei più bei palazzi della città), per ricavarne uno spazio dedicato alla cultura del territorio e all’enogastronomia italiana. Credo infatti, che la realizzazione di un mercato coperto sull’esempio dell’Eataly di Torino potesse essere la scelta vincente”. Ma si farà il parcheggio. (f.b.)
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La auto soffocano il museo. È un problema che affligge piazza Matteotti da trent’anni. Ora c’è la soluzione a pochi passi
Quel parcheggio è un Macello. Va spostato Q
uel parcheggio davanti a palazzo Chiericati è un… macello. E va spostato. Le auto soffocano il museo civico, rappresentano un problema per la circolazione, perché il parcheggio è un polo di attrazione che provoca intasamenti. A spostarle ci pensano da trent’anni almeno, dai tempi del concorso per il nuovo look di piazza Matteotti, ma la soluzione non s’è mai trovata. Perché il problema è legato a doppio filo al recupero dell’ex Macello, a due passi in viale Giuriolo. Che non s’è mai sbloccato e che, anzi, sta cadendo letteralmente a pezzi. Che sia la volta buona? C’è una delibera del Consiglio comunale che trasforma l’area dell’ex Macello in via Giuriolo (verso piazza Matteotti) dalla precedente destinazione ricettiva-alberghiera alla destinazione a parcheggio pubblico. Quindi viene definitivamente revocata l’ipotesi di trasformare l’ex macello in un mercato coperto, idea della amministrazione Variati. Il parcheggio potrà contenere fino a 120 posti auto circa. Cosa che permette anche di liberare completamente piazza Matteotti: gli stalli a rotazione attualmente previsti sotto palazzo Chiericati sono appena 48, anche se fanno sapere dal municipio che si tratta del parcheggio in città che rende di più. “L’autorimessa all’ex Macello - commenta il sindaco Francesco Rucco - ci permetterà di recuperare l’edificio degradato da decenni, liberando contemporaneamente piazza Matteotti dalle auto: una soluzione eccellente per una città che si appresta a candidarsi a capitale italiana della cultura”. Il sindaco anticipa che si sta individuando il progettista: “Solo con il progetto in mano riusciremo a essere più precisi sulle risorse necessarie - continua Rucco Per ora ipotizziamo che possa costarci 4,8 milioni di euro”. Caspita, per 120 posti: sono 40 mila euro a posto auto! E solo con il progetto in mano si potrà sapere se verrà realizzato a due o tre piani (andando sotto il livello della strada) e come sarà fatto l’eventuale silos automatizzato che troverà posto su una porzione dell’area di cui racconta l’entusiasta assessore Ierardi. I finanziamenti non sembra-
Si tratta appena di 48 posti che fruttano però l’incasso maggiore al Comune dei vari parking in centro. Il loro futuro è segnato perché sta per partire la progettazione per il recupero della struttura in viale Giuriolo, un lavoro almeno da 4.8 milioni che era in attesa da trent’anni almeno
no proprio preoccupare l’amministrazione, comunque, perché gli interventi all’ex macello saranno finanziati con i fondi del Pnrr. A dire la verità, transitano nel Piano quei 15 milioni di euro che dovevano arrivare con il bando governativo della qualità dei quartieri, quello che ha già finanziato gli interventi al Villaggio giuliano a Campedello con un importo identico e che ha finanziato, sempre con 15
Un’immagine del parcheggio di fronte al museo, perennemente intasato, e la foto aerea dell’area dell’ex macello in viale Giuriolo, a due passi da palazzo Chiericati. Nelle altre foto, il sindaco Rucco e l’assessore Mattia Ierardi
milioni, il maxi intervento all’ex Fiera al Giardino Salvi, recuperando una vasta zona dall’ex scuola elementare Giusti sino all’ex cinema Arlecchino. Francesco Brasco
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Parla il presidente di Viacqua. Giuseppe Castaman spiega che l’alta velocità muterà le infrastrutture anche sottoterra
“La Tav ci farà cambiare le tubature È un programma da novanta milioni” Nel suo programma al primo posto c’è il nuovo maxi depuratore di Casale, un appalto da 80 milioni. Punta anche a gestire le risorgive del Bacchiglione a Dueville, per migliorare la ricerca scientifica con l’università di Padova. La società dà da bere a mezzo milione di vicentini
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e oltre mezzo milione di vicentini, quando apre il rubinetto, si trova sulle mani acqua di qualità, è merito di un’azienda, Viacqua, che ne immette ogni giorno in oltre 1500 chilometri di tubature. Non solo, e questo è l’aspetto tanto sconosciuto quanto importante, ma si occupa delle fognature e della depurazione di ben 68 Comuni della provincia, con l’ausilio di oltre 320 operatori e specialisti, spina dorsale di un’azienda che ha un bilancio di quasi 75 milioni di euro. A capo di questa realtà, è stato nominato Giuseppe Castaman, 64 anni, docente di lettere al “Da Vinci” di Arzignano, per oltre sette anni, sempre in quota Lega, presidente del consorzio Medio Chiampo, azienda sorella di Viacqua per la dorsale ovest del Vicentino con i comuni di Gambellara, Montebello e Zermeghedo. Come ha trovato l’azienda e qual è il suo programma? “Ho trovato una solida realtà, dinamica e moderna, che gioca un ruolo importante e significativo nel panorama delle aziende pubbliche, e su un territorio vastissimo. Il mio impegno è di continuare su questa strada, dando priorità all’azione di salvaguardia e tutela di quel bene prezioso che è l’acqua, preservandolo il più possibile da insidie sempre latenti o sfruttamenti illeciti”. È difficile mettere d’accordo 68 campanili? “Potrebbe sembrare un’impresa ardua, lo temevo anch’io, ma poi la realtà mi ha felicemente smentito. Il tema della distribuzione di un bene alto e sempre più minacciato, assieme alla scommessa di una gestione lungimirante, rispettosa e insieme economica degli scarichi, in particolare di quelli delle aziende più a rischio, mette d’accordo tutti gli amministratori che sanno superare barriere ideologiche e, con intelligenza e senso pratico. Questo vale sia per i problemi contingenti sia per la necessaria programmazione a lungo respiro. In questo senso, ad esempio, stiamo chiedendo alla Provincia
di affidarci già ora la gestione diretta delle risorgive della zona di Dueville in comodato d’uso gratuito, considerato che la concessione scadrà nel 2036. In questo modo potremo fare ricerca con l’università, ma anche iniziative
nella direzione dell’economia circolare”. Dall’acqua da bere, all’acqua da depurare. “Il precedente cda ha approvato un progetto molto impegnativo, per oltre 80 milioni di euro di
Giuseppe Castaman, 64 anni: dopo la società omologa “Medio Chiampo” è diventato presidente di “Viacqua”, succedendo ad Angelo Guzzo
lavori, che dovrà dotare tutto il sistema di Viacqua di un moderno depuratore a Casale, alle porte di Vicenza. La gara per l’appalto sta facendo il suo iter, peraltro complesso vista la delicatezza dell’impianto che stiamo delineando, ma che risponderà ai criteri moderni del trattamento idrico integrato. Collegato a questo storico intervento, nei prossimi anni saremo concentrati su quello che succederà attorno all’alta velocità, alle nostre molte infrastrutture che dovremo modificare per accogliere il nuovo progetto. Abbiamo già presentato progetti previsionali per otre 90 milioni di euro, che saranno ovviamente a carico dello Stato”. Buona parte del territorio vicentino galleggia sopra un mare d’acqua: come preservare questo tesoro? “Secondo me non dobbiamo mai aver paura di fare ricerca, di sondare strade nuove. Ad esempio, per ridurre o gestire meglio i fanghi che al momento, a mio avviso, sono eccessivi. E non parlo solo di quelli delle aziende conciarie che rappresentano percentuali modeste. È il tema di come gestire lo scarto della depurazione in un’ottica di circolarità. Essiccarli richiede tecnologie e impianti all’avanguardia che necessitano investimenti e nuova progettualità. Per questo ci daremo da fare per cercare fondi europei attraverso proposte mirate”. Silvio Scacco
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Il caso. Lo storico immobile Serbelloni di 2700 metri quadrati si trova in contrà Oratorio dei Proti: è di proprietà dell’Ipab
Quel palazzo è abbandonato da 15 anni E non interessa a nessuno comprarlo C
’è un palazzo storico in pieno centro abbandonato da 15 anni. È un immobile di pregio, non fosse altro per la sua imponenz e la sua posizione, di proprietà dell’Ipab che l’istituzione non riesce a vendere. A giugno, infatti, è andata deserta l’asta di palazzo Sale Serbelloni di contrà Oratorio dei Proti a Vicenza: il prezzo era fissato a 2,6 milioni di euro. Verso la fine dell’anno si tenterà un’altra asta con un prezzo ribassato a 2 milioni circa. Lo conferma il presidente dell’Ipab, Ermanno Angonese. Si tratta di uno stabile di 2706 metri quadrati sfitti: 77 vani tra scantinato in mattoni, piano terra, primo (piano nobile) e secondo piano, ammezzato e terzo piano. La destinazione d’uso è in gran parte per uffici, ma c’è anche un appartamento di 132 metri quadri e un garage da 71 metri quadri. Gli ultimi ad abitare il palazzo sono stati gli sportivi del Coni e delle altre federazioni provinciali che lo abbandonarono per la mancanza di parcheggi in centro all’inizio del 2006. Sono passati 15 anni. Franco Barbieri ha dimostrato che il palazzo è stato progettato dall’architetto Francesco Muttoni che nel 1709 inviò al marchese Antonio Nicolò Sale due ipotesi per la ristrutturazione del palazzo precedente. Muttoni è responsabile dell’inserimento della serliana nel prospetto e del progetto di decorazione interna. Il palazzo poi passò ad un erede dei Sale, Roberto Sessatelli di Imola e nel 1814 venne acquisito da Marin Giò Galeazzo Serbelloni. I suoi figli, morti giovani e senza eredi, nel 1841 lo lasciarono all’ospedale civile di Vicenza. Passò poi all’Ospizio Proti nel 1869. Dal 1871 il palazzo divenne sede degli uffici della Congregazione di carità, destinazione d’uso che rimase in
Il presidente dell’Ipab, Ermanno Angonese, e alcune immagini di palazzo Serbelloni in contrà Oratorio dei Proti: è abbandonato da 15 anni. Prima era sede delle associazioni sportive, come si vede dai campanelli che riportano ancora i nomi dei vecchi inquilini
Fino al 2006 era sede delle associazioni sportive che l’hanno abbandonato perché non ha parcheggi. L’Ipab l’ha messo all’asta inutilmente a 2.6 milioni. Il presidente Angonese: “Potrebbe essere un albergo di lusso” essere fino al 1990. In seguito, alcuni locali vennero utilizzati per finalità istituzionale da parte dell’Ipab e, dalla fine degli anni ’90, venne affittato al Coni e alle federazioni sportive che vi rimasero fino al 2006. Il palazzo è rimasto vuoto per ragioni legate ai
costi di gestione e al rinnovo degli impianti. Inoltre grava il vincolo storico architettonico imposto dal ministero della Cultura. “Il palazzo è un patrimonio importante ma non funzionale all’attività istituzionale delle Ipab - afferma il presidente Angonese, che se ne intende perché di professione è ingegnere - Noi vorremmo venderlo il prima possibile per togliere dal degrado un bene che potrebbe essere un valore aggiunto per la città di Vicenza e portare ossigeno alle casse dell’ente. È però necessario trovare un investitore che abbia un’idea vincente: ci vedrei bene un albergo di super lusso che in questo mo-
mento a Vicenza manca”. Le Ipab, oltretutto, non possono investire nel restauro di un palazzo storico: la loro mission è quella dell’assistenza agli anziani e tutti gli investimenti devono essere finalizzati a quell’attività. Già con la manutenzione vengono spese diverse migliaia di euro ogni anno. Il presidente precedente delle Ipab, Lucio Turra, nel 2017 aprì il palazzo grazie alle giornate di primavera del Fai. Affermava Turra al tempo: “Riapriamo in questa occasione un bene splendido nella speranza che qualcuno se ne innamori e contribuisca al restauro. Con l’aiuto del Fai stiamo cercando di valorizzare tutto il nostro patrimonio e anche palazzo Serbelloni sarà di nuovo accessibile magari per concerti”. Le cose andarono in modo diverso: l’amministrazione cambiò e ora il palazzo, assieme ad altri beni storici viene considerato alienabile dall’ente di assistenza e beneficienza comunale. Francesco Brasco
Il personaggio
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Il ritratto. Il consigliere comunale è salito alla ribalta nazionale per le sue polemiche sui gay ricevendo critiche da tutta Italia.
Naclerio, vero uomo della resistenza
Per le sue parole sull’ordine del giorno in appoggio al ddl Zan, l’esponente di Fratelli d’Italia s’è trovato al centro di polemiche a raggio nazionale, alle quali lui e il suo partito, Fratelli d’Italia, hanno fatto fronte senza retrocedere. E ha mantenuto la sua qualifica di consigliere delegato per la sicurezza
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icenza è salita alla ribalta delle cronache nazionali per il video di Nicolò Naclerio, consigliere comunale di Fratelli d’Italia, che nel commentare una mozione dell’opposizione finalizzata a sostenere il disegno di legge contro l’omotransfobia, ha detto cose “gravi e alluncinanti”, come le hanno definite immediatamente Ennio Tosetto (Idea Vicenza) e Sandro Pupillo (Da adesso in poi). “Noi consideriamo gli omosessuali e tutte le persone che si vorrebbero tutelare con questa legge uguali a ogni altro cittadino, e pertanto già tutelati dal codice penale, a differenza delle sinistre che li considerano degli esseri in via di estinzione”. Così ha esordito Naclerio, consigliere delegato dal sindaco per la sicurezza. E ha continuato: “I dati evidenziano centinaia di aggressioni fisiche e verbali in dieci anni a soggetti Lgbt ... Quindi non è da considerarsi un’emergenza in nessun modo”. Come se la gravità di un reato si misurasse dal punto di
vista quantitativo e basta. Naclerio spiega le ragioni a modo suo: “Considerarla un’emergenza sarebbe un insulto a tutte le forze di polizia e a tutti i cittadini che quotidianamente vengono aggrediti accoltellati e a colpi di machete da immigrati irregolari in tutta Italia... giornalmente... non in dieci anni”. Insomma una mattanza degna di un film di Dario Argento. Poi una perla di fantastatistica: “Tutti gli ultimi casi di aggressioni a gay e lesbiche sono derivate da genitori islamici con i propri figli”. E per chiudere la colpa di chi è? Ovviamente degli immigrati, come da copione dei sovranisti e della destra: “E allora forse questa immigrazione forzata che voi di sinistra imponete al Paese senza essere stati eletti non è che forse sia portatrice di violenza e morte?” Subito sono giunte le reazioni sbalordite ma lucide dei due consiglieri di opposizione citati che l’hanno invitato a vergognarsi. Il giorno dopo una pioggia di
Nicolò Naclerio con Giorgia Meloni
critiche da tutto il centrosinistra e non solo a Vicenza; la presa di distanza del sindaco (che però non gli ha tolto la delega, come chiedeva l’opposizione) e la difesa del capogruppo di Fratelli d’Italia Roberto D’Amore, secondo il quale: “Ha espresso concetti giusti ma in modo sbagliato”. Sulla stessa linea anche Ierardi e l’interessato, che s’è scusato genericamente ma ha confermato la tesi del suo
capogruppo. A dir la verità Nicolò Naclerio era balzato agli onori della cronaca locale quando nell’estate del 2013 depositò in Comune una domanda per organizzare un convengo dal titolo “Il caso Priebke e la giustizia giusta”. Il capitano delle Ss, considerato un criminale di guerra nazista e condannato per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, era ancora vivo e i suoi avvo-
cati si davano da fare per “allentare” gli arresti domiciliari a cui era sottoposto. Il giornalista Paolo Berizzi proprio alla fine dello scorso settembre su Repubblica ricordava che lo stesso Naclerio definì una “menata” quella strage. Ebbene il convegno previsto per il 7 settembre del 2013 fu cancellato per ovvie ragioni. Altro elemento da ricordare: Naclerio è stato presidente della sezione vicentina dell’associazione “Progetto Nazionale” di cui è presidente nazionale Piero Puschiavo (fondatore negli anni ‘80 del Veneto Fronte Skinheads). Come dice Zaia, ragionateci sopra. E comunque, aver resistito a un’ondata nazionale di critiche sulla sua ultima uscita, fa di Naclerio un vero… uomo della resistenza. Anche se a lui questa definizione non piacerebbe. Francesco Brasco
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Giovani, studio e lavoro. Un salto in avanti per i corsi vicentini, dopo l’inaugurazione della nuova sede e la nuova laurea in design
Vicenza è città universitaria nel logo ma ha bisogno di studentato e mensa Non siamo più solo un “polo”, bensì protagonisti del futuro. Legami sempre più stretti con il territorio, a partire dal capoluogo e dalle aziende. I problemi aperti che attendono soluzioni da Venezia e dagli enti locali
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e trentun anni fa, quando iniziarono i corsi di ingegneria gestionale a Monte Berico, qualcuno avesse pensato a Vicenza come “città universitaria” sarebbe scappato un sorrisetto di compatimento, con molte scuse all’illustre inquilina del santuario. Erano tempi in cui per convincere i professori a venire a Vicenza a insegnare ai pochi studenti bisognava pagarli il doppio, come mi confidava l’amico professore Renzo Bernardi. Le Missioni estere di Monte Berico, sede così disagiata e decentrata che le lezioni si tenevano praticamente in un grande scantinato, potevano essere solo uno sfogatoio per i troppi iscritti dell’università di Padova. Sei lustri dopo, una Vicenza orgogliosa dei traguardi tagliati nel settore, inalbera un logo che sbandiera la scritta “Vicenza città universitaria” attorno al profilo della sede di viale Margherita, il cui raddoppio è stato inaugurato a fine settembre, celebrando un impegno di spesa complessivo di circa 28 milioni di euro, finanziati in massima parta dalla Fondazione Cariverona e dalla Provincia. Non siamo più un “polo”, l’accento è spostato dai luoghi al cuore, dalla topografia alla sostanza. È un po’ una sfida a Padova e Verona, tant’è che il presidente della Fondazione studi universitari, Mario Carraro, s’è premurato di avvertire le due università che sostengono i corsi vicentini, cioè Padova e Verona, che Vicenza – con quel logo – non vuole annunciare il tentativo di costituirsi
in ateneo autonomo. A dire la verità, un sasso in piccionaia in questa direzione l’ha lanciato, proprio all’inaugurazione della sede, un illustre addetto ai lavori come Alessandro Mazzucco, 83 anni splendidamente portati, già rettore a Verona e adesso presidente della Fondazione Cariverona: “Puntate all’autonomia – ha spiegato – il pubblico blocca tutto”. L’idea di sfidare le due città che da sempre hanno schiacciato Vicenza rimane: è una sfida tutta giocata sul piano dell’attrattività esterna, da un lato, e del coinvolgimento del territorio, dall’altro. Sotto il primo profilo, c’è da tenere presente che dei 5.000 studenti che oggi fanno riferimento a Vicenza, il 52% giunge da fuori provincia. È un attestato di valore scientifico ai corsi di ingegneria, economia e sicurezza alimentare che si tengono a Vicenza: non va dimenticato che i laureati in ingegneria gestionale, dipartimento coordinato dal prof. Marino Quaresimin, hanno un tasso di occupazione attorno al 98%. Sotto il secondo profilo, quello del coinvolgimento del territorio, c’è invece da sottolineare che l’università restituisce a Vicenza oltre 15 milioni di euro, secondo le stime diffuse proprio dal presidente Carraro, delle quali non si può dubitare. Adesso sbarcherà a Vicenza anche il corso di laurea in design industriale, una scelta maturata dopo anni di lavoro, che apre un fronte di collaborazione con lo Iuav veneziano dalle insospettate possibilità di sviluppo.
La presidente di Confindustria, Laura Dalla Vecchia e il prof. Alessandro Mazzucco, presidente di Fondazione Cariverona. Mario Roberto Carraro, presidente della Fondazione studi universitari e il nuovo logo che identificherà le attività dell’università a Vicenza
Ci sono tutte le condizioni, quindi, perché il legame con il territorio, già saldo, si irrobustisca sempre di più. Che vuol dire rapporti con le imprese e impegno nella ricerca, marciando nella direzione indicata da Laura Dalla Vecchia, presidente di Confindustria, che nella sua relazione all’assemblea di Confidustria ha indicato l’università a Vicenza come uno dei cardini dello sviluppo, fulcro dell’impegno che deve riportare i giovani nelle aziende. Definiti i presupposti dell’impe-
gno, restano all’orizzonte due problemi, sui quali si dovrà misurare la capacità degli enti e della fondazione di Carraro a offrire risposte: lo studentato di San Silvestro, prima di tutto, che da nove anni è impraticabile per problemi strutturali dopo il terremoto in Emilia. Qualche mese fa, alla cerimonia di annuncio dei corsi Iuav, l’assessore regionale Elena Donazzan si diceva fiduciosa di poter risolvere il problema, perché in materia la competenza è regionale, non comunale. I fondi, infatti, arrivano da Venezia che finanzia gli Esu secondo le priorità che definisce. E adesso, ha promesso Donazzan, è l’ora di Vicenza. Il secondo problema è invece la mensa: in questo caso i tentativi falliti (caserma ex Borghesi a Borgo Casale) e quelli rimasti nel limbo (l’area vicino a viale Margherita) stavolta chiamano in causa gli enti locali per una soluzione rapida. Anche Napoleone sapeva che i migliori soldati non valgono nulla se non possono mangiare. (a.d.l.)
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Il caso. Vicentina di Breganze, archeologa, trova a Boston nel più prestigioso ateneo del mondo il posto che l’Italia le ha negato
Rifiutata da quattro università italiane s’è presa la rivincita: insegna ad Harvard L’incredibile vicenda di Sara Elettra Zaia, che ha provato a Napoli, Bologna, Padova e Torino a ottenere un posto di dottorato. Ma inutilmente. C’è riuscita negli Usa, senza raccomandazioni ma grazie a un curriculum di alto livello, costruito con le sue campagne di scavo nel mondo. “Qui nessuno regala niente – sottolinea – i ritmi di lavoro e studio sono altissimi. E io sono tosta”
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stata rifiutata da quattro università: Napoli, Padova, Torino, Bologna. In Italia non è mai riuscita a vincere il concorso per il dottorato. Ma lei, che è archeologa e dunque ha la determinazione di Indiana Jones, non ha mollato. Così adesso Sara Elettra Zaia da Breganze, insegna all’università più prestigiosa al mondo, quella di Harvard. La sua è una storia incredibile che da un lato rende merito al suo talento e al carattere, dall’altra solleva i già pesanti dubbi sulla capacità del sistema universitario italiano di valorizzare i propri giovani. Sara ha 37 anni e lavora ad Harvard da sei, cioè da quando ha vinto il dottorato. Ha alle spalle un diploma allo scientifico “Brocchi” di Bassano, una laurea triennale in archeologia a Padova e specialistica a Bologna, città in cui risiede quanto torna in Italia dagli Usa o da qualche scavo in giro per l’Africa o l’Asia. La passione per l’Egitto e l’archeologia è nata da bambina: non sapeva neanche leggere quando i genitori, Bruno e Dina Lievore, che l’hanno abituata a girare per i musei, le regalarono un libro sull’antico Egitto e la Libia: le divinità colorate con le teste di animali e le mummie affascinarono gli occhi e la mente della piccola. “A dir la verità le cose schifosette mi hanno sempre attratto – confessa – Se oggi qualcuno mi chiede che lavoro faccio, rispondo: scopetto morti. La verità è che mi piace stare fuori, sul campo, piuttosto che leggere geroglifici in biblioteca”. La tesi di dottorato che sta preparando è centrata sul modello di spostamento delle navi egiziane attorno alla mitica Terra di Punt, che non si sa esattamente dove si trovasse: si ipotizza nel Corno d’Africa, ma era ben presente agli antichi egizi perché la citano nei documenti. Quindi il raggio d’azione di Sara coinvolge il Sudan orientale, l’Eritrea, Gibuti, lo Yemen perché gli egiziani da quei luoghi portavano a casa incenso, mirra, avorio, pelle di leopardi. Navigavano vicino alla costa e poi attraversavano un deserto, non esattamente una passeggiata. Come ci riuscissero e dove fossero
diretti è un piccolo grande mistero che sta esplorando. Quel mondo ha iniziato a frequentarlo già da studentessa a Padova (quando scavava a Rotzo sull’Altopiano di Asiago e a Nora in Sardegna) e poi, con gli anni, il suo passaporto ha collezionato i timbri delle dogane più impensate: in Egitto ad Assuan, Luxor (con l’università di Yale) e nel Mar Rosso con la Sorbona, poco più a sud di Suez. Quindi Khartoum in Sudan, Eritrea, Oman, Kazakistan: “Quando ho lavorato in Sudan – racconta – per due mesi ho vissuto in una casetta senza acqua corrente. Lavoravo finché non finiva l’energia. Mi lavavo nel Nilo e bevevo l’acqua della secchia, o quella attinta dal fiume con filtri in ceramica”. Così ha trascorso sette anni, dalla laurea specialista all’inizio del dottorato, periodo che ha impiegato specializzandosi in rilievi topografici e fotogrammetria: insomma ha acquisito altre competenze tecniche, imparando a pilotare anche i droni. I viaggi di lavoro, naturalmente, non arrivano dal cielo: bisogna cercarseli. E lei scavava d’inverno, a motivo del caldo meno soffocante, mentre d’estate, per mantenersi, dava una mano all’azienda della sorella Giulia, che offre servizi per l’automotive, ma siccome non è schizzinosa è diventata anche guida del museo di Bologna. Nel frattempo Sara tentava i
concorsi di dottorato in Italia, in quattro università, come detto senza fortuna. “Prova negli Usa”, le suggeriva Kimball Banks, amico e collega americano. Gli rispondeva: “Figurati, è un sistema diverso dal nostro. Si vede che l’università non è la mia strada”. Il suggerimento però le resta in un angolo della memoria e rispunterà al momento giusto. Siccome la Nostra non molla, infatti, tra uno scavo e l’altro Sara trova il tempo di frequentare un tirocinio di tre mesi al “Fine art museum” di Boston: glielo procura il professor Peter Der Manuelian, al tempo docente alla Tufts, università privata di Boston. È il 2010, un anno dopo la laurea specialistica. L’idea del docente è creare un archivio on line su Giza: lei risponde all’appello, riesce a ottenere del materiale scavato da Schiaparelli dal museo di Torino (naturalmente stiamo parlando di immagini, non dei reperti reali) e inizia un rapporto di collaborazione con il professore. Quando, seguendo il suggerimento dell’amico Banks, nel 2015 spulcia il sito di Harvard per frequentare un dottorato, scopre che nel frattempo il professor Der Manuelian è diventato ordinario proprio in quell’università. “Che faccio? – gli chiede – Provo oppure è fantascienza?”. Lui le consiglia di tentare, anche se i posti sono tre all’anno su centinaia di domande
presentate. Ma, inaspettatamente, la domanda di Sara è accettata. Il che non è un traguardo da poco: vuol dire, per esempio, ottenere anche una borsa di studio che copre le tasse, vale a dire 42 mila dollari l’anno. Gli italiani subito pensano che nell’ammissione di Sara sia contata la raccomandazione del professore, ma in realtà non è così: bisogna avere un curriculum pesante per convincerli. C’è un motivo molto tecnico che ha favorito Sara: nelle università americane il dottorato è frequentato subito dopo la laurea triennale e, quindi, la stragrande maggioranza di chi è ammesso non ha uno straccio di esperienza sul campo. Lei, come abbiamo visto, ne aveva moltissima. Tra i compiti del dottorando, c’è quello di produrre tre saggi inediti ogni anno e dal terzo anno si diventa assistenti del docente: quindi, c’è anche l’obbligo di insegnare agli studenti oltre a seguirli nei loro percorsi e vistare la loro produzione scientifica: “Qui nessuno regala niente – spiega Sara – I ritmi sono molto duri, soprattutto nei primi due anni. Sono parecchi che non ce la fanno e lasciano. Io studiavo dalle sei del mattino alle due di notte e i week end erano comunque destinati a studiare. Tanto per dare l’idea, avevo 1500 pagine da leggere alla settimana solo di un corso e dovevo seguirne
Sara Elettra Zaia mostra un attestato-premio rilasciatole da Harvard per le sue capacità di insegnamento. Nelle altre foto, è impegnata in alcune campagne di scavo in Asia e Africa. Elettra non è un vezzo, ma il secondo nome con cui è registrata all’anagrafe di Breganze
quattro. Poi ci sono anche i compiti settimanali, quindi le attività extra corso: gli interventi “talk” fanno parte della formazione. Ma io sono una persona che non molla”. Sono pochissimi gli europei ad Harvard: nel suo dipartimento di antropologia sono tre su 35 dottorandi. Lei è l’unica italiana. Con la borsa di studio da studenti si riesce a vivere, certo, ma comunque è vietato svolgere un altro lavoro. In cambio, le facilitazioni sono notevoli: sia quelle materiali (l’università contribuisce alle spese di viaggio per recarsi in giro per il mondo negli scavi) sia i contatti d’alto livello che procura. Senza dire che un dottorato ad Harvard apre moltissime porte, anche nelle aziende private. E il futuro? Sara non si chiude nessuna porta: “Vedremo Potrebbe essere un master post-doc in California, potrei proseguire nella carriera accademica. Magari anche in Europa. In Italia no, non penso di rientrare: diciamo che l’ambiente accademico italiano non è molto amichevole”. Antonio Di Lorenzo
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È la massima esperta in Italia. Antonella Agnoli spiega che al bando del Comune manca il cuore, cioè il progetto culturale
La nuova Bertoliana all’ex tribunale riceve una prima (illustre) bocciatura Antonella Agnoli ha spiegato che oggi la biblioteca deve diventare un luogo dove le famiglie possano perfino trovarsi per mangiare assieme la domenica o i bambini dormire alla notte come nei film. Deve dare la possibilità agli anziani di avvicinarsi alla tecnologia e insegnare a difendersi dalle fake news. Ma nel bando del Comune a Vicenza manca questo “progetto culturale”: per questo hanno risposto in pochi Antonella Agnoli è la massima autorità in fatto di biblioteche in Italia: ha parlato di recente a Vicenza. All’ex tribunale a Santa Corona (nella foto) l’amministrazione Rucco vuole realizzare la nuova Bertoliana
L
a nuova Bertoliana, di cui si vagheggia da tre anni, che dovrebbe nascere dentro il carapace del vecchio tribunale a Santa Corona, riceve una prima bocciatura. È Antonella Agnoli, probabilmente la massima esperta di biblioteche in Italia, ad esprimere una valutazione negativa del bando che è stato emanato dal Comune ad aprile. Lo fa a margine di un incontro che s’è tenuto al centro Lagorà a Laghetto, durante il quale Angoli ha spiegato quale fisionomia deve avere una biblioteca oggi in Italia. E quindi anche a Vicenza. Lei sulla materia ne sa più di tutti, visto che ha iniziato a occuparsi di biblioteche nel 1972 a Spinea, città che non possedeva una biblioteca, che poi lei ha fatto nascere. Ha proseguito a Pesaro, ha lavorato a Lecce, ha scritto un libro “Le piazze del sapere” che è ritenuto il vangelo del settore. Sia chiaro: lei si interessa meno dell’architettura e assai più dei contenuti, in linea con la sua filosofia secondo la quale “la biblioteca oggi non è il luogo dei libri ma delle persone”. Strano? No, perché se già tra gli addetti ai lavori s’è fatta strada l’idea della “public library”, di un luogo ibrido, aperto, centro di attrazione dei cittadini, in contrapposizione alla vecchia immagine polverosa della biblioteca-archivio, adesso l’onda ha preso ancora più vigore, perché “la pandemia ha cancellato ogni reticenza al cambiamento”. “La biblioteca – ha spiegato Agnoli – deve essere un luogo neutro, nel quale poter entrare senza un bisogno specifico. A Milano i cittadini hanno chiesto di trovarsi in biblioteca per stare
insieme a mangiare la domenica. Quando una domanda del genere la rivolgono negli Usa, gli americani che sono pratici rispondono: perché no? E si fa”. Da noi, invece, rischiano di vincere i burocrati, i mansionari, i calepini che non prevedono. E così si perdono le occasioni. “Bisogna rompere l’idea che i luoghi della cultura non siano alla portata dei cittadini. Ricordo che le persone un tempo entravano in biblioteca ingobbite, con un senso di timore ed estraneità. Viceversa, la biblioteca apre i confini, attira le persone dai più diversi ambiti”. Per di più, il covid ha portato un grande cambiamento: molti entrano in biblioteca perché è l’unico luogo nel quale c’è Internet, perché non è detto che una famiglia abbia tre computer per i figli o possa pagare 30 euro al mese di collegamento veloce. “La biblioteca deve ripensare la propria utenza – spiega Agnoli – deve preoccuparsi di come far accedere alle tecnologie, a come far accedere ai contenuti e come insegnare alle persone a non essere fregate dalle false informazioni in Rete. Insomma, la biblioteca deve diventare la “casa di tutti”, nella quale i bambini possono anche giocare e dormirci la notte, come fossero nel film di Ben
Stiller e Robin Williams”. Ecco, se questa è la filosofia delle biblioteche moderne, secondo Agnoli nel bando di concorso di Vicenza per la nuova Bertoliana di questi concetti non c’è traccia. Manca, spiega, quello che tecnicamente si chiama il progetto biblioteconomico. Più in generale, manca il progetto culturale di “cosa” si intenda fare dentro il nuovo edificio. Il che ha reso il bando poco attrattivo, tant’è vero che sono stati otto o nove, comunque meno di dieci, gli studi che hanno risposto all’invito, quando un obiettivo di questa importanza avrebbe dovuto attirare moltissimi professionisti. Detto questo, Angoli ha anche aggiunto che il luogo nel quale far sorgere la nuova Bertoliana, cioè Santa Corona, potrebbe essere anche interessante, vista la sua localizzazione in centro. Certo, bisognerà dotare la struttura di servizi, prima di tutto parcheggi. Ma questo è un nodo che riguarda tutto il centro storico. Antonella Angoli, che di definisce un’ottimista, confida comunque nei lavori dei professionisti: vedremo come – conclude – seppur pochi e senza grandi input, avranno saputo interpretare e risolvere i problemi posti, riuscendo a dare quell’anima alla struttura alla quale il bando non ha molto pensato. Altro problema che dovrà affrontare l’amministrazione sarà quello di trovare otto milioni che mancano dal conto economico per affrontare la spesa di 16-17 milioni per realizzare la nuova Bertoliana. Come farà? Lo scopriremo solo vivendo.
L’inchiesta
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I dati allarmanti. Le dimissioni sono scese da 2600 a 2.200 all’anno, ma si tratta sempre di un numero alto
Giovani, operaie, impiegate: costrette a lasciare il lavoro per seguire i figli Sono le meno abbienti che pagano un prezzo più alto. Accanto alle giovani che si dimettono per i bambini, c’è anche il fenomeno, in aumento, delle donne più mature che lasciano il lavoro per accudire i genitori anziani e inabili. Il protocollo siglato tra Provincia e Ispettorato del lavoro
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ono giovani e non particolarmente benestanti: si tratta di impiegate e operaie. Ma sono “costrette” a dimettersi dal lavoro per badare alla famiglia: in gran parte ai figli, perché l’asilo nido costa troppo, oppure i genitori anziani e malati. Questo è il quadro che esce dai dati della consigliera di parità della Provincia, Francesca Lazzari, riguardo alle dimissioni delle donne nel mondo del lavoro vicentino: “La pandemia ha esasperato una situazione che, anche in tempi normali, purtroppo è la regola, cioè la difficoltà per le donne di mantenere un lavoro una volta che diventano madri”. “La differenza di genere tra uomini e donne è abissale – prosegue Lazzari – Nel 98% dei casi se un uomo lascia un lavoro succede perché trova un posto migliore. Nel caso delle donne, no. Anzi, è vero il contrario. Una volta che la donna è uscita dal mondo del lavoro per motivi familiari quando rientra è demansionata, cioè viene assegnata a un incarico di minor valore rispetto a quello precedente”. Nel Veneto, riferisce Lazzari, che ha un passato di docente universitaria di economia e quindi con i numeri ci sa fare parecchio, i dati sono allineati a quelli nazionali: parlano di un 92% di dimissioni a motivo familiare che riguarda le donne tra i 29 e i 44 anni. Nei primi dieci anni, cioè nella fascia tra i 29 e i 39, le donne rappresentano il 78% delle dimissioni; e di queste dimissioni a motivo dei figli, tre su quattro se ne vanno dal lavoro perché hanno un secondo figlio. C’è poi l’altra faccia del fenomeno, ancora più difficile da quantificare che riguarda le donne oltre i 44 anni che si dimettono dal lavoro perché devono seguire i genitori o i parenti ammalati. Intuibilmente, questa casistica è in crescita. Proprio per avere maggiori dati sul fenomeno delle dimissioni a motivo dei figli da 0 a 3 anni, l’ufficio della consigliera
La consigliera di parità della Provincia, Francesca Lazzari, assieme ad Andrea Moglie, a capo dell’Ispettorato del lavoro di Vicenza
di parità ha stretto un protocollo di intesa con l’Ispettorato del lavoro per contrastare le discriminazioni di genere. “Si tratta di un protocollo – spiega Lazzari – a tutela del diritto di ogni lavoratrice, e più in generale di ogni lavoratore, a non dovere rinunciare ad un lavoro all’arrivo di un figlio o quando si constata la difficoltà di gestire un bambino. Il tema è quello della conciliazione e condivisione dei tempi di vita e di lavoro. Tema che in Italia evidenzia ancora molte criticità. Purtroppo”. I dati sono allarmanti. In tutto il Vicentino sono state contate oltre 50 dimissioni per maternità alla settimana durante la pandemia: è questo il dato che ha messo in allarme la consigliera di parità e che l’ha spinta a prendere contatti con l’Ispettorato del lavoro. Un contatto proficuo, tanto da diventare un protocollo di intesa sottoscritto nella sede della Provincia tra la consigliera Lazzari e Andrea Moglie, responsabile dell’Ispettorato del Lavoro di Vicenza. “I numeri parlano chiaro – sottolinea Lazzari – Nel 2019 si contavano una media di 50 dimissioni alla settimana di genitori, perlopiù madri, con figli da 0 a 3 anni. Il che vuol dire circa 2600 all’anno. Nel 2020 la banca dati dell’Ispettorato del Lavoro di Vicenza registra dati in miglioramento, con un totale di 2.220 dimissioni, pari a quasi 42 a settimana. Bene il calo, malissimo che il numero rimanga ancora molto alto”. “L’importanza di questo protocollo d’intesa – commenta Moglie – è di offrire uno strumento di collaborazione tra l’organo deputato a ricevere le convalide di dimissioni per i figli sotto i tre anni e a verificare il rispetto delle norme a tutela dei lavoratori , cioè l’Ispettorato al Lavoro, e il soggetto che sul territorio tutela le lavoratrici e i lavoratori contro le discriminazioni di genere, con compito di promuovere e controllare l’attuazione dei principi sul luogo di lavoro, cioè la consigliera di parità. Oltre a fornire un flusso continuo e periodico di informazioni, l’Ispettorato si impegna a inviare alla Consigliera anche i casi di rilevata gravità, in modo da intervenire con provvedimenti specifici”.
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Mondo
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Il personaggio. Erik Berdy, a Vicenza tra il 2017 e il 2019, è l’ufficiale di collegamento tra Pentagono e Casa Bianca
Il colonnello che ha comandato la Ederle al centro del “caso” Biden-Afghanistan Il col. Berdy è consigliere del generale a tre stelle Milley che in udienza davanti al Senato ha smentito il Presidente Usa: “Ha deciso lui il ritiro completo. Noi gli avevamo consigliato di lasciare 3000 soldati a Kabul. Il disastro è colpa sua”
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pesso ci si chiede dove e come proseguano la carriera i comandanti della “Ederle” o meglio dell’Us Army Garrison Italy dopo i due anni trascorsi a Vicenza. Di solito fanno carriera, questa è la risposta, e qualcuno arriva parecchio in alto. È il caso del colonnello Erik Berdy, che ha comandato la “Ederle” tra il 2017 e il 2019. Ora è l’ufficiale di collegamento tra i vertici del Pentagono e il Campidoglio e consigliere del generale a tre stelle Mark Milley, capo dello stato maggiore congiunto. Un incarico delicato e di responsabilità, che ha avuto un momento di alta tensione nelle scorse settimane, quando i generali del Pentagono hanno smentito il presidente Biden sul disastroso ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan. Hanno definito il ritiro da Kabul un “successo logistico ma un fallimento strategico” e smentito alcune affermazioni rilasciate dal presidente Joe Biden dicendo che gli avevano consigliato di lasciare almeno 2500 soldati in Afghanistan. Con questi toni decisi, pronunciati davanti alla Commissione Forze armate del Senato, il capo del Pentagono (tecnicamente è il segretario alla Difesa degli Stati Uniti) Lloyd Austin, il capo di Stato maggiore Mark Milley e il capo del comando centrale Frank McKenzie, hanno risposto alle domande dei senatori, schierandosi in aperto contrasto con la Casa Bianca. Durante il confronto, duro e asciutto, i vertici delle Forze armate statunitensi hanno smentito alcune notizie diffuse dal presidente Joe Biden sull’evacuazione delle truppe americane da Kabul, criticandone le scelte sul ritiro dal Paese e mettendo in guardia sugli effetti negativi di queste come nuovi possibili attacchi terroristici. È chiaro che, in questo quadro, il ruolo del colonello Berdy di ponte fra il Pentagono e la Casa Bianca è stato nevralgico. Un compito svolto natural-
mente con discrezione, ma che non ha avuto esiti felici, come dimostra l’udienza dei generali di fronte alla commissione del Senato. Come riportato da “Repubblica”, nel corso dell’audizione il generale McKenzie ha spiegato ai senatori: “Non vi dirò cosa ho consigliato personalmente al presidente, ma ho raccomandato di mantenere 2.500 soldati”. “Ero convinto - ha aggiunto - che il ritiro di tutte le forze avrebbe portato al collasso delle forze militari afghane e del governo”. Il generale Milley ha confermato la cifra, aggiungendo che “i soldati sarebbero potuti arrivare a 3.500 in modo da procedere a una soluzione negoziata tra talebani e governo afghano”. “Il Pentagono – ha spiegato McKenzie – aveva ben chiaro dall’autunno 2020 almeno che lasciare l’Afghanistan avrebbe significato consegnarlo in mano ai Talebani”. Il segretario della difesa Lloyd Austin ha aggiunto: “L’input era stato ricevuto dal presidente e certamente considerato”, ma ad agosto in un’intervista alla ABC in cui gli veniva chiesto se avesse ricevuto consigli sul non ritirarsi, Biden aveva smentito di essere stato consigliato dicendo: “Nessuno me lo ha detto, che io possa ricordare”. Per i vertici militari dell’esercito statunitense la necessità di lasciare un piccolo contingente di stanza a Kabul era emersa durante la presidenza Trump ed era diventata un’urgenza dopo la notizia della rapida avanzata dei talebani. Biden invece ha sostenuto il ritiro delle truppe dall’Afghanistan. “Il capo di Stato maggiore Mark Milley ha ribadito: “I talebani erano e restano un’organizzazione terroristica. Un’Al Qaeda ricostituita o un Isis con l’aspirazione di attaccare gli Usa è una possibilità molto concreta e potrebbe presentarsi nei prossimi 12-36 mesi”. Sara Panizzon
Due immagini del colonnello Erik Berdy, la prima ufficiale in tenuta mimetica e l’altra in alta uniforme quando è andato in visita al comando dei carabinieri, dall’allora comandante Alberto Santini
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La memoria
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Il ricordo del campione. Dallo stadio al cinema, sono numerose le iniziative per celebrare un vicentino speciale
Una piazza, un film e il premio Basilica Paolo Rossi è sempre vivo a Vicenza Walter Veltroni era presente all’inaugurazione della piazza di fronte al “Menti” per registrare alcune sequenze che gli serviranno per il film. La Pro loco di Sandrigo ha voluto dedicargli il riconoscimento che è stato appannaggio finora di grandissimi nomi
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uello biancorosso è un cuore sportivo grande che di più non si può. È grande perché pulsa da quasi 120 anni (nel marzo 1902 il primo consiglio direttivo, debutto della squadra il 18 maggio 1903), perché è affezionato al suo stadio, alla sua squadra nella buona e nella cattiva sorte. Ma, soprattutto, perché da generazioni sa coltivare ha un affetto smisurato e inossidabile per i propri giocatori. In cima alla lista, ovviamente, c’è il nostro Pablito, “simbolo di semplicità: quando ebbe il mondo ai suoi piedi, cercò di non calpestarlo” recitava la felicissima motivazione del 57° premio Basilica palladiana, consegnato alla memoria di Paolo a Federica Cappelletti, moglie del campione. La cerimonia del premio, organizzata da 57 anni dala Pro loco di Sandrigo e officiata dal suo presidente, il cuoco Antonio Chemello, s’è svolta all’interno del gioiello palladiano grazie alla collaborazione con il Comune di Vicenza. Da un capo all’altro della provincia di Vicenza, ma anche dello Stivale e non solo, gli estimatori di Pablito sono innumerevoli, ed era doveroso che, dopo la cittadinanza onoraria conferitagli dall’amministrazione comunale del capoluogo il 18 febbraio dello scorso anno; dopo il commiato commosso e infinitamente doloroso di quanti lo hanno amato a partire dai suoi compagni, i campioni di Spagna 1982 che ne hanno sorretto il feretro in duomo a Vicenza il 12 dicembre, rimanesse in città anche un segno indelebile, tangibile e fortemente simbolico dell’impareggiabile numero 9. Felice quindi l’iniziativa del sindaco Francesco Rucco, con la sua “R” di Lanerossi tatuata sul braccio, di intitolargli lo slargo di fronte all’accesso principale dello stadio Menti. Ora, oltre alle già molte silhouette biancorosse di Paolo con la maglia del Vicenza
che appaiono in tutta Vicenza, del mite Pablito ci sarà per tutti un cartello che ricorderà anche al passante distratto, qualora vi sia mai, che sta calpestando l’area che ha visto e salutato, in anni mitici e indimenticabili, il ragazzo che sarebbe diventato il beniamino di una nazione, l’eroe umile che è bello imitare, dentro e fuori il campo. L’intitolazione è solo il primo passo, perché l’area davanti al “Menti” sarà curata con aiuole pensate ad hoc e anche una statua di Pablito. Ma l’ammirazione per Paolo Rossi, se è certo che non sarà offuscata dal tempo, prende forme e strade in sintonia con gli strumenti che la tecnologia ci offre. Vale la pena ricordare, il gruppo Facebook “Paolo Rossi sempre con noi”, organizzato da Silvio Quartarone e Luca Viero, e quello degli “Amici di Paolo Rossi”, animato da Vladimiro Riva che ha organizzato anche la festa di compleanno davanti al “Menti” il 23 settembre per brindare ai 65 anni anni del campione. E non è finita. La Palomar, nota casa di produzione, ha affidato a Walter Veltroni la regia del docu-film su Paolo Rossi che è stato girato nella sua Prato ma anche a Vicenza, tant’è che Veltroni era presente all’inaugurazione della piazza di fronte al “Menti”. Il film racconterà la vita di Paolo da quand’era ragazzo, con scene di vita quotidiana che ritraggono Pablito da giovane. Il resto, al momento, è ancora velato di riservatezza e un po’ di mistero. Quel che è certo, invece, è la dolce e sincera ammirazione di estimatori dell’uomo, ancor prima del professionista del pallone, che lo porteranno nel loro cuore sempre, anche quando il presente è amaro e avaro. Perché al cuore biancorosso non si comanda. Silvio Scacco
L’immagine esultante in Spagna di Pablito nel 1982, Walter Veltroni con la senatrice Daniela Sbrollini e Vladimiro Riva, artefice del gruppo Facebook “Amici di Paolo Rossi” e Antonio Chemello che consegna a Federica Cappelletti il premio Basilica intitolato a Paolo Rossi
Scienza
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Il personaggio. La prof. Antonella Viola lancia l’allarme: “Attenzione, fra trent’anni saranno la prima causa di morte”
“Il nuovo nemico sono le infezioni”
Ha parlato alla presentazione del suo libro e ha spiegato qual è la nuova frontiera della ricerca: “I batteri stanno diventando sempre più resistenti agli antibiotici”. Sul covid ha ripetuto la sua posizione: “Vaccinarsi è l’unico modo per vincere la pandemia”
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on la sua pacatezza, la voce che non sale mai di tono, il suo sorriso elegante e sincero, è capace di emettere anche vaticini preoccupanti. Non è solo consolatoria, Antonella Viola, anche se ha un’immagine televisiva rassicurante: del resto la scienza è raramente consolatoria, perché insinua sempre dubbi. Mentre stiamo ancora combattendo la battaglia contro il covid - spiega, è meglio prepararsi ad affrontare una nuova guerra. Più terribile: “Nel 2050 – spiega la professoressa – la prima causa di morte non sarà l’infarto o il cancro, bensì saranno le infezioni. I batteri stanno diventando sempre più resistenti agli antibiotici”. Loro, vale a dire i ricercatori, lo sanno cosa c’è scritto nel futuro prossimo venturo dell’umanità. E questa volta la professoressa non commette l’errore di qualche anno fa. Vuole parlare a tutti, perché alla fine gli scienziati si rivolgono solo agli “addetti ai lavori”, ai loro studenti e ai colleghi. Lo spiega dal palco di Villeggendo a Barbarano, la rassegna letteraria organizzata da Antonio Prando, dove ha presentato il suo libro “Danzare nella tempesta” – Viaggio nella fragile perfezione del sistema immunitario” pubblicato da Feltrinelli. Racconta infatti: “L’anno scorso sono stata intervistata da un giornalista, al quale ho spiegato un aspetto che davo quasi per scontato, cioè che noi scienziati sapevamo benissimo che una pandemia sarebbe scoppiata. E sapevamo anche che sarebbe stato un coronavirus il responsabile. Il giornalista ha alzato gli occhi dal blocchetto di appunti e mi ha domandato: ma se lo sapevate perché non ce l’avete detto? Come – ho risposto – noi l’abbiamo sempre detto! In realtà poi ci ho ripensato. E mi sono accorta che in effetti noi queste cose le abbiamo ripetute a lezione, con i nostri studenti, nei nostri convegni… ma eravamo sempre fra di noi”.
La professoressa Antonella Viola ha parlato a Barbarano alla rassegna letteraria “Villeggendo” dove ha presentato il suo libro
È anche questa preoccupazione – ammette – che l’ha spinta a essere presente in televisione (“sempre gratis”, tiene a precisare): vuole informare, divulgare, far capire e quindi far progredire la scienza. Non è una passione recente. Il grande pubblico l’ha conosciuta in questo anno e mezzo grazie soprattutto a Lilli Gruber che l’ha scoperta, ma il suo curriculum di divulgatrice era già ricco: Antonella Viola è stata volto dell’Airc per anni, è iscritta e attiva con il benemerito Cicap di Piero Angela e Massimo Polidoro, è stata chiamata dal Presidente Napolitano nel 2011 a spiegare cosa ha rappresentato la Liberazione per la scienza. Insomma, la divulgazione la vede attiva da tempo. Sul covid, naturalmente, la sua posizione è netta e l’ha ripetuta anche a “Villeggendo”: niente di differente da quello che sostiene da mesi, ovvero che le possibili controindicazioni del vaccino sono molto, ma molto meno rischiose della malattia. Non fosse altro che per vantaggio personale, quindi, vale la pena vaccinarsi.
A “Città della Speranza”, di cui è direttore scientifico, la prof. Viola vuole creare un nuovo dipartimento per la ricerca sui mitocondri: potrà contribuire a cercare cure contro il cancro Ma è sulle prospettive della ricerca che la professoressa si sofferma: da un lato, s’è detto, ha avvertito che la nuova frontiera è approfondire il lavoro sugli antibiotici e la resistenza dei batteri. E questo è un impegno planetario. Dall’altro, lei punta a creare il nuovo dipartimento di medicina mitocondriale a “Città della Speranza”: per la Fondazione, di cui la professoressa è direttore scientifico, accanto alla “Torre della ricerca” Antonella Viola punta a creare una nuova struttura che sia dedicata a questa nuova specializzazione, appunto la medicina mitocondriale, che trova a Padova uno dei punti di forza nel mondo. Studiare i mitocondri, spiega, consentirà di cercare una cura contro i tumori.
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Scienza
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Il personaggio. Il prof. Massimiano Bucchi collabora con l’Innovation Lab di Confartigianato e porta a galla un fenomeno sommerso
Internet è sconosciuta per uno su cinque “Gli esclusi dalla Rete si possono salvare” U
n italiano su cinque non è mai entrato in Internet. Vuoi perché non ne è capace, vuoi perché non ha i mezzi tecnologici. È il fenomeno che i tecnici chiamano “tecnoesclusione” che è in progressiva diminuzione ma che, col passare del tempo, diventerà sempre più emarginante. Vale a dire che coloro che non avranno dimestichezza con la tecnologia non potranno ottenere un certificato, entrare in rapporto con le amministrazioni pubbliche, risolvere i problemi di sanità e così via. In Italia ed anche a Vicenza però, esistono luoghi in grado di ridurre al minimo l’impatto che questo fenomeno sociale ha sulla vita di molte persone. Uno di questo è l’ innovation lab ideato da Confartigianato a Vicenza: si tratta di spazi, fisici e mentali, ideati per sviluppare la cultura digitale, ovvero una nuova consapevolezza nell’utilizzo delle tecnologie ed in particolare di Internet. Visti i dati raccolti e pubblicati dal centro di ricerca “Observa” nell’annuario di scienza e tecnologia, ce n’è ancora bisogno. Oggi in Italia, infatti, ci sono ancora circa 7 milioni e mezzo di “tecnoesclusi”, ovvero persone tra i 16 e i 74 anni, che non hanno mai effettuato un accesso ad internet: né da pc o tablet ma addirittura nemmeno da smartphone. A rivelarlo è Massimiano Bucchi, docente di scienza, tecnologia e società dell’università di Trento. La media europea di chi non ha mai avuto esperienze in Rete si attesta al 9%, mentre in Italia la percentuale è del 17%. Ancora nel 2015 questa percentuale era del 40%. In sei anni il divario s’è fortemente ridimensionato, ma siamo ancora lontani dalla percentuale europea. “È un problema di competenze – spiega Bucchi – e interessa persone tendenzialmente poco scolarizzate e di età avanzata. Si osserva prevalentemente al sud ma non è sempre così”. Per esempio, la percentuale delle famiglie senza accesso ad Internet da linea fissa relativo al nordest è del 20% su una media nazionale del 24%. In una realtà sempre più digitalizzata e ancorata alla Rete, c’è da domandarsi quali conseguenze possa avere l’esclusione da questo mondo, cioè da e-commerce, pubblica amministrazione, formazione online, siti istituzionali, prenotazioni mediche, servizi bancari digitali e Spid sono solo alcune delle attività non accessibili ai “tecnoesclusi” se non grazie all’aiuto di qualcun altro. Attenzione però: siamo sicuri che chi corre in nostro soccorso sia veramente in grado di muoversi con in sicurez-
La percentuale dei “tecnoesclusi” è doppia in Italia rispetto all’Europa: si tratta di persone che non hanno pc, tablet e nemmeno smartphone. “Queste persone rischiano di essere tagliare fuori dalla vita”. Una cifra che arriva a sette milioni e mezzo di cittadini
za nel mondo digitale? Purtroppo, no: anche chi è in grado di usare le nuove tecnologie non è sempre consapevole dei rischi che nasconde la rete. I due terzi degli italiani non fa nulla per proteggere la propria privacy su internet. In questa categoria rientrano spesso anche gli insospettabili nativi digitali. A questo proposito c’è un altro dato di cui tenere conto: scolarizzazione e tecnoesclusione sono correlate, all’aumentare dell’una, diminuisce l’altra, e viceversa. Bucchi sottolinea, quindi, che educazione e formazione sono l’unica strada possibile per l’acquisizione delle competenze digitali. Se i più giovani possono contare sul sostegno della scuola, i più anziani possono fare affidamento sui servizi messi a disposizione dagli innovation lab, tra cui le “palestre digitali”. Si tratta di luoghi che sono attrezzati con postazioni di lavoro che hanno accesso a Internet, dove si può imparare ad usare il computer con l’assistenza di esperti. La finalità è accompagnare nell’utilizzo delle tecnologie digitali, gli anziani che faticano a servirsi delle risorse offerte dalla Rete e che, di conseguenza, appaiono vulnerabili di fronte ai possibili rischi. Anche di truffe. Roberto Meneghini
Massimiano Bucchi insegna all’università di Trento e collabora con l’Innovation Lab di Confartigianato. È direttore di “Observa – Science in society”
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Attualità
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Consegne in ritardo. Le vendite delle vetture sono ancora in calo del 25%, i tempi di attesa sono lunghi, da sei mesi a un anno
Mancano i componenti elettronici Il mercato dell’auto ha il freno tirato Quei “chip” che sono andati a ruba per produrre smartphone e computer durante i mesi più acuti della pandemia, adesso non sono tornati ai massimi livelli nella produzione di auto. Pertanto il settore è ancora in sofferenza. Meglio invece gli ordini di auto ibride ed elettriche, grazie ai vari incentivi
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uto ferme sui piazzali delle case costruttrici. Componenti che non arrivano. Ordini scarsi, del 25% inferiori all’epoca pre covid. Attese di sei mesi, fino a un anno, per chi ha ordinato l’auto nuova. Questo è il quadro, a tratti ancora sconfortante, del settore commerciale dell’auto, che non è ancora uscito dalla crisi pandemica. Sono proprio i componenti elettronici, spariti durante la pandemia per produrre pc e smartphone, a mancare: per questo motivo il mercato è lento. Viceversa, gli incentivi di Stato e case costruttrici, la maggiore sensibilità verso l’ecosostenibilità ha spinto in su il settore delle auto elettriche e ibride, che conoscono un buon momento. Intanto, come spiega la Confocommercio di Vicenza, siamo ancora a meno 25% di auto immatricolate nel 2021 rispetto ai livelli pre covid. Secondo i dati ministeriali, infatti, nel periodo gennaio-settembre 2021 nel Vicentino sono stati immatricolati 17.982 veicoli, contro i 15.662 dell’anno precedente e i 24.056 del 2019. Quindi, si parla di +14,81% rispetto all’anno scorso, anche se il dato 2020 è fortemente condizionato dal lockdown, mentre si calcola un -25,25% di registrazioni pari a 6.074 veicoli in meno rispetto allo stesso periodo di due anni fa. “In valori assoluti il settore è in crisi, poiché le mancate consegne hanno il loro peso sui bilanci – spiega Bruno Oliviero, presidente della categoria Concessionari auto di Confcommercio Vicenza – In realtà nelle concessionarie d’auto della provincia gli ordini non mancano e i clienti dimostrano una buona propensione all’acquisto, soprattutto verso veicoli più green. Il problema sta nella carenza di veicoli da consegnare ai clienti, per colpa sostanzialmente di due fattori: da una parte la penuria, a livello mondiale dei microchip, dall’altra quella di materie prime, tanto che alcune case produttrici hanno i piazzali pieni di auto incomplete e hanno dovuto ricorrere alla cassa integrazione. In questa situazione, l’attesa tra
Bruno Oliviero, presidente dei concessionari di Confcommercio, traccia un quadro ancora fatto di luci e ombre del settore
l’ordine del cliente e la consegna dell’auto si aggira mediamente intorno ai 6-8 mesi, con punte di un anno per alcuni modelli. Del resto, all’aumento della domanda di microchip, conseguente alla forte richiesta di pc e di smartphone per comunicare on line durante la pandemia, ha determinato una carenza della componentistica che, secondo le nostre previsioni, continuerà almeno fino a fine primavera del 2022”. Guardando l’aspetto positivo, si può dire che con la ripartenza dell’economia, il consumatore guarda al mercato dell’auto con più volontà rispetto al passato di sostituire la propria auto con una nuova a bassi consumi e a basse emissioni o addirittura elettrica. Una tendenza che fa bene all’ambiente e va a svecchiare il parco veicoli italiano, notoriamente datato e inquinante. “In questo senso hanno avuto un ottimo successo gli ecobonus per l’acquisto di auto elettriche e ibride plug-in – spiega Oliviero – tanto che i fondi disponibili sono stati esauriti prima del previsto. Sicuramente per il cliente erano un bel vantaggio in quanto, sommando il bonus statale agli incentivi della casa madre, il risparmio sul prezzo d’acquisto dell’auto poteva arrivare agli 8mila euro. Gli incentivi si sono rivelati quindi molto efficaci per vendere questi veicoli, altrimenti ancora poco appetibili in termini di prezzo rispetto alle auto tradizionali. L’auspicio – conclude il presidente dei concessionari d’auto della provincia – è che davvero si dia corso nel nostro Paese a efficaci politiche di transizione ecologica attraverso lo stanziamento di adeguate coperture finanziare anche per il nostro settore; fondi che andrebbero in primo luogo a favorire il consumatore nell’acquisto di veicoli meno inquinanti, a realizzare infrastrutture ecocompatibili e anche a togliere la discontinuità degli incentivi, consentendo alle aziende del settore una programmazione di medio-lungo periodo più stabile, e al mercato di ripartire con più continuità”.
Spettacoli
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Il personaggio. Filippo Valmorbida, 26 anni, è solista a Kiel, dopo aver danzato in Nuova Zelanda e in Florida
“Qui la danza non è un lavoro sicuro” E il ballerino vicentino va in Germania D
a San Vito di Leguzzano ai palcoscenici del mondo. Per Filippo Valmorbida, ballerino di 26 anni, sin da quando era un bambino la musica ha sempre guidato i suoi passi. Incoraggiato dalla mamma Noemi e dalla nonna Marilinda, le prime a notare il suo talento, a cinque anni Filippo ha iniziato a prendere lezioni di danza avviando così una carriera che l’ha portato sui palcoscenici prestigiosi: dalla Scala di Milano al New Zeland Ballet, dal Sarasota Ballet in Florida e ora a Kiel in Germania, dove è diventato ballerino solista. Dalla Florida è tornato nella sua San Vito a causa della pandemia. Come s’è trovato? “Mi sono messo in gioco cercando soluzioni per allenarmi e continuare a danzare. Ho avuto la possibilità di insegnare agli alunni della scuola Orizzonte Danza di Schio, che mi ha concesso anche lo spazio per continuare ad esercitarmi, di collaborare anche con Studio Danza a Castelgomberto e con il quartetto di pattinaggio su quattro ruote Habibi per la realizzazione di alcune coreografie. Sono state esperienze gratificanti sia dal punto di vista lavorativo che umano”. Quando è arrivata la chiamata da Kiel? “A maggio 2021 ho inviato il mio portfolio in Germania e sono stato chiamato per un provino. Ho fatto l’audizione per il ruolo di solista: è stata una sfida, soprattutto perché per un anno mi sono sempre allenato senza maestri cercando ogni giorno di migliorarmi. È stata una vera sorpresa ricevere la chiamata della compagnia e l’offerta di lavorare in Germania per la stagione 2021- 2022”. Ora come si svolgono le sue giornate? “Lavoriamo dalle otto alle nove ore al giorno perché stiamo provando le coreografie per portare in scena a Lubecca “Il ritratto di Dorian Gray” e successivamente “Solitar” una produzione creata per raccontare, attraverso musica e movimenti, l’impatto del Covid sul mondo della danza e sul nostro lavoro di ballerini. Nel tempo libero, invece mi piace esplorare la città che è molto graziosa e tranquilla”. Quali personaggi vorrebbe interpretare? “Il mio ruolo di solista prevede che, durante uno spettacolo, io debba non solo danzare insieme a tutto il corpo di ballo ma eseguire anche delle coreografie da solo sul palco. A Kiel sto sperimentando anche altri stili di danza, come il neoclassico e il contemporaneo, che vorrei continuare a provare lavorando qui o in altre compagnie”.
È tornato nel Vicentino a causa della pandemia e s’è mantenuto in esercizio insegnando ai bambini. Ora è stato scritturato dal teatro della città tedesca ma resta l’amarezza per la situazione del suo Paese: “L’Italia non offre sicurezza e stabilità lavorativa e noi dobbiamo andare all’estero”
Tornerebbe a danzare in Italia? “Purtroppo l’Italia non offre molta sicurezza e stabilità lavorativa. Dopo il diploma all’Accademia di danza della Scala nel 2014, ho sempre cercato di lavorare con compagnie straniere: ho danzato in Nuova Zelanda, Australia e Stati Uniti sempre con contratti annuali, rinnovabili ad ogni stagione. In Italia, invece, avrei ricevuto solo proposte a termine per tre o sei mesi”. A Milano ha mai incontrato alla Scala Carla Fracci? “Certo, al termine di uno spettacolo al teatro Carcano di Milano. Era l’essenza della danza sul palco e nella vita. Una fonte di ispirazione e un punto di riferimento per noi ballerini. Indimenticabile è stata la sua interpretazione di Giselle che arrivava sempre al cuore del pubblico. A pochi giorni dalla notizia della sua scomparsa le ho reso omaggio sul palco di Villa Fabris a Thiene danzando con i miei allievi in uno spettacolo dedicato alle icone femminili dei nostri tempi”. Sara Panizzon
Un primo piano di Filippo Valmorbida, vicentino di 26 anni. Originario di San Vito di Leguzzano, ha girato il mondo per lavoro. Adesso danza al teatro di Kiel, nel nord della Germania
Spettacoli
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Il personaggio. Maria Ines Zanovello è un altro talento vicentino in giro per il mondo. Ma resta orgogliosa di Vicenza
La violinista che ama il Cinquecento ha trovato in Norvegia il suo Eden Dopo il diploma a Padova, ha studiato in Germania e ha suonato nei teatri di mezza Europa. Spiega con amarezza: “Sono sempre contenta di suonare in Italia, ma qui è tutto così complicato, la vita per gli artisti è quasi impossibile. Il teatro a Oslo destina ai giovani molte risorse”
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n violino barocco in una custodia rossa e tanta musica nel cuore: ecco l’identikit di Maria Ines Zanovello, vicentina, che gira mezza Europa con i suoi ventotto anni per raccontare il suo amore per il repertorio del Cinquecento. Maria è figlia d’arte: sua mamma è Margherita Dalla Vecchia, conosciutissima a Vicenza come organista e direttore d’orchestra. La sua figura calza perfettamente nella cornice di quei giovani di cui il nostro Paese non sa valorizzare talento e assicurare possibilità di carriera. Diplomatasi al “Pollini” di Padova, perfezionata a Castelfranco, città in cui ha trovato il corso che le interessava, ha dovuto sfruttare un Erasmus per ritrovarsi a Trossingen, in Baden - Württemberg in Germania, universalmente conosciuta per il suo Istituto Musicale specializzato in musica antica. Corsi, seminari con docenti provenienti da tutto il mondo, proposte di lavoro, bandi di concorso, aule studio modernissime, orari di apertura senza limiti, strumenti di altissimo valore a disposizione degli studenti: insomma, un vero e proprio Eden del pentagramma. Maria Ines termina il master in Italia ma si iscrive immediatamente ad un’altra specializzazione, sempre a Trossingen. Cominciano le audizioni: dal 2015 arrivano lusinghiere proposte di collaborazione da numerose formazioni in Italia, Germania, Austria e Svizzera. Con qualche bella soddisfazione: vince un posto per l’Orchestra Barocca Europea (Eubo) e per un intero anno gira con l’orchestra mezza Europa ospite dei più bei teatri europei. Ora vive tra Vicenza e la Norvegia, perché in Germania ha conosciuto Jadran Duncumb, che è diventato suo compagno di vita e di professione, liutista con riconoscimenti di tutto rispetto e con due cd all’attivo, croato-inglese cresciuto però con la famiglia ad Oslo. “Per me è sempre una grande soddisfazione poter lavorare e suonare in Italia – commenta Maria Ines – ma qui è tutto così com-
plicato, con una ridda di leggi e di sistemi di tassazione che rende la vita degli artisti, già non semplice di suo, sempre più contorta e complessa. Nei Paesi nordici è curiosamente tutto più lineare:
Maria Ines Zanovello ha 28 anni, un violino dalla custodia rossa e una grande passione er la musica antica che l’ha portata a suonare in giro per l’Europa
dopo alcuni mesi di permanenza ad Oslo, ad esempio, ho subito iniziato a collaborare con diversi ensemble e ho ottenuto un posto nell’orchestra barocca norvegese”. Un libero professionista in Norvegia, continua Maria Ines, ha la possibilità di partecipare a molti bandi di concorso per progetti e per borse di studio. Anche la divulgazione di autori e di opere considerate minori sono incoraggiate, liberi dall’assillo della notorietà, dei numeri e delle mode. Il teatro dell’Opera di Oslo, per esempio, è all’avanguardia e destina un’enorme quantità di risorse per la realizzazione di opere e balletti d’avanguardia. “I miei amici, quando indicano la loro provenienza ad un amico straniero, balbettano “I come from Vicenza, a city close to Venice”. Io invece mi sono imposta di dire sempre “I come from Vicenza, the city with the most beautiful theatre in the world”. Sulle prime mi prendevano in giro, ma poi sono venuta a sapere che molti miei colleghi d’orchestra hanno voluto scoprire il motivo della mia ostinazione e verificare se veramente quello che sostenevo fosse vero. Molti poi mi hanno riferito di aver scoperto, grazie a me e con grande sorpresa, l’insuperabile bellezza del teatro Olimpico, il genio del Palladio e di tutti i suoi palazzi, molti proprio nella mia piccola e sconosciuta Vicenza. E in viaggio in Italia, mi hanno confermato di aver fatto tappa a Vicenza proprio grazie a quella mia curiosa presentazione”. In giugno, Maria Ines e Jadran hanno registrato alcuni un video, subito divorati dai social, interpretando Paganini, Weiss e Bach nella solenne cornice dei locali di Villa Zileri, alle porte di Vicenza, in particolare nella celebre e sontuosa sala affrescata da Gianbattista Tiepolo. Un grande gesto di deferente ammirazione per l’architettura e l’arte di casa nostra, un modo per pubblicizzare e rendere ancora più “beautiful” il nostro territorio agli occhi del mondo. Silvio Scacco
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#Regione
Partito Democratico. Entro l’anno la scelta del nuovo segretario veneto
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Lega. L’analisi del voto alle amministrative
Bisato pronto a passare Stefani guarda al 2022: il testimone: “Necessario “La Lega è una e salda, un percorso di rigenerazione” conquisteremo le grandi città”
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rchiviate le elezioni amministrative di ottobre, il Partito Democratico veneto si interroga sul futuro e si prepara al congresso che entro la fine dell’anno poterà all’elezione del nuovo segretario regionale. Luigi Alessandro Bisato, dopo quattro anni alla guida del partito, è pronto per il passaggio delle consegne dopo un mandato impegnativo e tutt’altro che facile. Partiamo dall’attualità, che messaggio viene dal voto di ottobre? “Ancora una volta emerge come il Partito Democratico tiene nelle grandi città, dove in questa tornata non si è votato, mentre nelle realtà medio piccole il risultato non è certo favorevole. Poi, dove il centrodestra si presenta unito, in Veneto non c’è partita. La Lega conferma il suo successo e occupa tutti gli spazi grazie alla convivenza fra le due anime, quella salviniana di lotta e di protesta con quella moderata e di governo di Zaia. Il Partito Democratico deve lavorare per trovare il proprio spazio, lembo per lembo, e imporsi come una valida alternativa senza lasciarsi scoraggiare”. Quanto possono essere utili le esperienze di buona amministrazione in alcune realtà locali? “I risultati positivi ci vengono riconosciuti ma bisogna dire che non sempre il buon amministratore riesce ad avere un ampio seguito. Da tempo il vento soffia da un’altra parte ma questo non ci deve scoraggiare. Dobbiamo lavorare per rappresentare pezzi della società che oggi si sentono esclusi e raggiungere anche chi guarda altrove. Dobbiamo fare delle riflessioni profonde”. Un’occasione sarà il congresso regionale?
“Certo, dovermo analizzare non solo la storia più recente ma tutto l’ultimo ventennio e in particolare il periodo in cui ha governato Zaia, riuscendo a tenere insieme tutto e il contrario di tutto. Dobbiamo partire dai nostri punti di forza, mettere a frutto il nostro successo nel cuore delle città per radicarci nelle periferie urbane e nel Veneto diffuso nei tanti poli che caratterizzano il nostro territorio. Questi ambiti urbani che rappresentano una grande città diffusa vanno messi in connessione. Dobbiamo ritornare a stare dentro il vissuto della gente, parlare ai giovani ma anche al Veneto che produce che sta guardando ad un futuro di transizione ecologica. In una regione iper cementificata come la nostra dobbiamo saper proporre un modello di sviluppo sostenibile e proiettato al futuro e alle nuove opportunità offerte proprio dalle risorse che ci arrivano dall’Europa. Per fare tutto questo il Pd deve affrontare un percorso di rigenerazione a medio lungo termine anche della propria classe dirigente. Possiamo vincere quando lo schema è largo e il Pd svolge una funzione di perno e di locomotiva intorno ad una candidatura, tenendo insieme anche pezzi della società civile che in ambito amministrativo sono disposti a sostenere le nostre proposte”. Ma non è la Lega che in questi anni è riuscita a far coesistere realtà diverse sotto la stessa bandiera? “Infatti, sarebbe la vocazione del Pd invece per paradosso lo ha fatto la Lega. Ma ormai penso che in quel partito sia imminente la frattura, come una faglia sotterranea che prima o poi sprigiona la sua energia. Arriverà il punto di rottura tra chi strizza l’occhio alle destre sovraniste e la parte più moderata che ha un approccio più pragmatico”. Intanto il gruppo consiliare del Pd ha inserito il leone marciano nel proprio logo. Che ne pensa? “E’ una scelta che approvo, perché il nostro statuto prevede che ogni ambito territoriale si determini con le sue specificità. Il leone marciano non è di una parte politica ma di tutti, anche se da solo il simbolo non basta. Dobbiamo fare una riflessione su come deve essere il Pd in Veneto, oggi chiamato a rappresentare chi decide di essere riformista, democratico e solidale, con uno sguardo all’Europa e al mondo. Il primo passo è avere una rappresentanza glocal, che sappia ragionare globalmente e agire localmente”. Nicola Stievano
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entuno nuovi sindaci, quasi un centinaio di nuovi amministratori, otto primi cittadini su otto riconfermati dalle urne il 3 e 4 ottobre scorsi. È un bilancio decisamente positivo quello tracciato dall’onorevole Alberto Stefani, coordinatore della Lega del Veneto all’indomani dell’ultima tornata elettorale. Un partito che sta già scaldando i motori in vista dei prossimi appuntamenti tra cui le elezioni amministrative che, nel 2022, vedranno al voto grandi città tra cui Padova e Verona. Il Veneto è una delle regioni in cui la Lega, alle ultime amministrative, ha registrato risultati importanti e lusinghieri a partire dai numeri. “Abbiamo vinto in tutti i Comuni – afferma con soddisfazione il coordinatore Stefani –. Siamo risultati primi in tutti i Comuni piccoli e grandi con risultati storici, toccando l’80 per cento a Cittadella, superando abbondantemente il 65 per cento a Montebelluna, conquistando Oderzo al primo turno. Storica la vittoria di Chioggia, dove per la prima volta ha vinto il candidato sindaco della Lega e con la Lega saldamente primo partito. È stato il frutto di un grande lavoro, condotto a testa bassa sul territorio con i nostri militanti, ascoltando la gente”. A quanti attaccano sottolineando le divisioni interne al partito, Stefani replica senza mezzi termini: “La Lega è una. E questi risultati elettorali sono stati raggiunti isolando alcuni polemisti, che peraltro hanno dimostrato scarso peso elettorale decidendo di correre contro il partito”. Il coordinatore interviene sulle scadenze elettorali più attese: Padova e Verona “Abbiamo avviato i primi tavoli a più voci proprio perché è nostra intenzione mettere in campo i programmi e le candidature migliori. A Padova è al lavoro il Tavolo del Centrodestra: la città ha bisogno di voltare pagina e avere, finalmente dopo anni, una visione a lungo termine. L’amministrazione Giordani si è distinta per una forte caratterizzazione ideologica, pochi i progetti realizzati, tanti, invece, quelli fermi a riprova dell’immobilismo e di una visione pressoché assente riguardo al futuro della città. La Lega vuole per Padova la miglior squadra possibile, fatta di professionisti, persone capaci di mettere a disposizione competenze e specializzazioni, anche differenti, di altissimo livello. La città merita amministratori in grado di governare bene e, prima ancora, di pensare in grande, di
avere una prospettiva di grande e alto respiro almeno per i prossimi trent’anni, ciò che finora è mancato. Francesco Peghin è una figura civica di indiscusso spessore, un ottimo candidato ma, a oggi, non ha ancora sciolto la riserva”. Tra i temi sul tappeto la Lega ne ha già individuati alcuni da tempo all’ordine del giorno. “Accanto alle battaglie “storiche” della Lega su sicurezza, lotta al degrado e allo spaccio, ce ne saranno molte altre sulle quali sono gli stessi cittadini a sollecitarci, a fermarci per strada chiedendo soluzioni e non promesse. Ripartiremo dai quartieri, ascolteremo la voce di chi vive in zone troppo a lungo considerate, e trattate, come periferie. I quartieri rappresentano, invece, il cuore pulsante della città, sono tra le aree più densamente popolate dove riscontriamo ogni giorno la maggiore necessità di ascolto”. Stefani interviene, poi, sulla partita Verona, in vista del test elettorale per il quale si rincorrono i nomi dell’attuale sindaco Federico Sboarina e dell’ex Flavio Tosi, ma in corsa ci sarebbero anche altri nomi. “Nella città scaligera la competizione elettorale è come un rigore da calciare a porta vuota – afferma il coordinatore regionale –: siamo al lavoro per un centrodestra unito e, ancor più, per un centrodestra vincente già al primo turno. Forti di questa convinzione, stiamo operando per coagulare, intorno a figure di spicco, questa larga coesione e convergenza”. La forza della Lega? “La concretezza, i fatti più delle parole, l’ascolto, lo stare tra la gente più che nei palazzi”. Nicoletta Masetto
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Regione
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Economia. Da un primo bilancio del 2021 alle dinamiche dei prezzi: parla il direttore Emanuele Mazzaro
Ripartenza al Mercato Ittico di Chioggia “Il nostro pescato apprezzato per qualità” I
l Mercato Ittico all’ingrosso di Chioggia non ha bisogno di grandi presentazioni. Già molto conosciuto in tutto il Veneto, è infatti in questo luogo che transita una buona parte del pesce che finisce nelle tavole dei consumatori del nord Italia. La città, forte di una marineria tra le più consistenti e attrezzate dell’Alto Adriatico, è intimamente legata a questa eccellenza che, oltre ad essere un vanto per i cittadini, “fa da traino” per l’economia locale. Abbiamo intervistato il suo direttore, l’avvocato Emanuele Mazzaro. Anche se siamo un po’ in anticipo, è possibile fare un sommario bilancio di come è perseverare nella promozione della pesca di andato l’anno 2021 per il Mercato Ittico? Chioggia e più in generale in Veneto”. “Il 2021 è stato sicuramente un anno difficile Ci può spiegare quali sono le dinamiche per tutto il settore ittico e per la pesca in gene- che legano il prezzo del pesce all’ingrosso con rale. La progressiva uscita dalla pandemia sta quello del mercato al minuto? facendo registrare dati positivi sul consumo “I meccanismi di definizione del prezzo del e la vendita di pesce su scala europea, ma i prodotto ittico sono legati ad alcune variabiproblemi da risolvere sono ancora numerosi e li che dipendono solo marginalmente dalla complessi. In generale, però, il clima è positivo catena di produzione. Ci spaventa molto in e la marineria di Chioggia – dopo il tradizionale questo momento lo scenario di aumenti genefermo pesca biologico – è ritornata in piena ralizzati e spropositati del costo dell’energia. I attività, offrendo un prodotto eccezionale che pescherecci utilizzano ancora il gasolio e solo in molti, anche all’estero, ci inper un’uscita di pesca (che vidiano”. non sempre va a buon fine) un “Riforniamo mercati Esiste qualche progetto o armatore può spendere anche ittici come quello aspetto specifico sul quale c’è 1500/2000 euro. Poi c’è la quel’intenzione di puntare per all’ingrosso di Milano, stione relativa alla domanda migliorare ulteriormente l’ofche pur essendo in crescita, è ma anche in Spagna, ferta? sempre soggetta alla mutazioGermania ed Europa “Abbiamo in cantiere un venne di mode, abitudini alimendell’Est. Ai nostri taglio di progetti ambiziosi retari e quantità di prodotto sul lativi al nostro brand che si sta mercato. I pescatori non sono pescatori sta a cuore affermando non solo su scala come gli agricoltori che semila salute del mare” nazionale. Il pescato dell’alto nano un campo a fagioli e racAdriatico viene percepito dal colgono fagioli, nella rete un consumatore e da tutta la filiera ho.re.ca. come giorno puoi trovare sgombri, un altro sardine, un prodotto di primissima qualità e la nostra un altro chissà”. persistente attività di comunicazione digitale Dove arriva prevalentemente il pescato noe mediatica sta svolgendo la funzione di cata- strano? lizzatore d’interessi anche della Gdo grande “Il nostro pescato fa anche dei viaggi moldistribuzione. Sulla scia delle nostre campa- to lunghi. Noi riforniamo anche altri mercati gne di comunicazione sono nate iniziative di ittici come quello all’ingrosso di Milano, che promozione del nostro pescato nei reparti del pur essendo dimensionalmente più grande del fresco o freschissimo di più catene di ipermer- nostro, tratta anche fiori, carni, verdure e non cati. Da questo punto di vista è fondamentale ha ovviamente una flotta di pescherecci. Quo-
Maestro artigiano e botteghe scuola
Emanuele Mazzaro
tidianamente arrivano tir da Spagna e spesso anche da Germania ed Est Europa a fare il pieno di pesce azzurro sulle nostre banchine”. Il settore tutto è sicuramente in fermento. Cosa non piace ai pescatori locali delle norme europee di settore? “Il mondo della pesca nella sua globalità sta subendo un attacco manifesto e non solo dal punto di vista delle norme restrittive messe in campo dalle istituzioni comunitarie, ma, da un punto di vista quasi esclusivamente ideologico. Sta crescendo una sorta di moda da parte di alcuni creatori di contenuti a livello mondiale (a partire dall’uscita di Seaspiracy il discusso docufilm di Netflix) di mettere alla berlina e criminalizzare un intero comparto economico che poi è anche strategico dal punto di vista sociale, storico e simbolico. La riduzione dello sforzo della pesca nei nostri mari così com’è stato prospettato a stretto giro comporterebbe una vera catastrofe sociale con migliaia di posti di lavoro persi e una catena di effetti negativi a cascata nei nostri territori. Solo il distretto ittico di Rovigo e Chioggia fattura quasi 1 miliardo di euro per capirci… Quando si parla di pesca sostenibile deve essere tenuta in debito conto tutte le variabili, non solo quelle che fanno comodo per partito preso. I nostri pescatori poi assolvono ogni giorno un ruolo fondamentale per gli ecosistemi marini: per noi sono i veri e propri Custodi dell’Adriatico. Se ci sono persone a cui sta a cuore sinceramente la salute del mare sono di certo i pescatori”. Luca Rapacciuolo
Da un lato le azioni di promozione della figura del “Maestro artigiano”, dall’altra l’istituzione delle “Botteghe scuola” rivolte sia ad artigiani che aspirano al titolo di Maestro artigiano, sia agli aspiranti artigiani che potranno beneficiare di un’esperienza di tirocinio finalizzata a favorire il loro inserimento nel settore. Prende il via così il progetto a valenza regionale che punta a definire, come prima sperimentazione, le modalità di svolgimento di percorsi formativi, finalizzati all’acquisizione dei requisiti minimi per l’attribuzione del titolo di Maestro artigiano e a realizzare esperienze di tirocinio presso le Botteghe scuola. “L’artigianato è uno dei settori che dimostrano maggiore necessità di figure professionali qualificate – commenta l’assessore regionale al lavoro Elena Donazzan -. I maestri artigiani saranno formati per diventare perni dell’evoluzione di un settore essenziale per l’economia regionale, anche in chiave turistica e di valorizzazione delle tipicità”. “Questa iniziativa rientra tra quelle previste dalla Legge regionale sull’artigianato – aggiunge Roberto Marcato, assessore allo sviluppo economico -. Solo attraverso la valorizzazione delle professioni che rappresentano le radici del nostro modello economico veneto possiamo offrire al sistema dell’artigianato regionale la via per rinnovarsi ed evolvere in un mercato sempre più orientato alla qualità dei prodotti e dei servizi”.
Regione
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Il dibattito. Proposta di legge del gruppo consiliare regionale di Forza Italia
“Un garante per i diritti delle persone anziane”
Venturini: “Un veneto su quattro ha più di 65 anni, dobbiamo affrontare la questione” Zuin: “Necessaria una figura che si interessi e possa coordinare le azioni per la terza età”
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on una proposta di legge già depositata in consiglio, il gruppo Regionale di Forza Italia ha posto all’attenzione del dibattito il tema della presenza delle persone anziane all’interno della società e del Veneto in particolare, proponendo l’istituzione di una figura che ne tuteli i diritti. “Attualmente in Veneto circa il 25% della popolazione ha più di 65 anni vale a dire oltre un milione di persone – spiega la capogruppo Elisa Venturini – Oggi l’aspettativa di vita è di 81 anni per gli uomini e 85 per le donne: la percentuale di over 80 è pari al 7% della popolazione. Le proiezioni al 2.050 vedono un aumento di questi dati: l’aspettativa di vita passerà per le donne a 90 anni e per gli uomini a 85, la proiezione è di avere il 14% dei veneti con almeno 80 anni. A questo punto è indispensabile affrontare la questione perché c’è un grande lavoro da fare sotto il profilo sociale, sanitario ed economico, anche
contando che le esigenze degli anziani del 2.021 sono diverse da quelle degli anziani del 1.980 e di conseguenza anche gli strumenti per soddisfare le esigenze delle persone devono essere diverse. Il suo compito sarà quello di vigilare sull’attuazione delle politiche regionali dirette agli anziani e di intervenire in caso di eventuali abusi”. Forza Italia, anche accogliendo le indicazioni dell’organizzazione Mondiale della Sanità che ha raccomandato di mettere al centro dell’azione politica la figura dell’anziano con un ruolo attivo, ha quindi deciso di proporre l’istituzione del garante. “Le persone anziane sono le colonne della nostra società – ha aggiunto il coordinatore regionale Michele Zuin sono quelle che hanno costruito il mondo di oggi, che hanno fondato la nostra società e le nostre città. Tra loro ci sono persone che possono ancora essere molto utili, con la loro
esperienza e con le loro competenze, e altre che invece sono in difficoltà ed hanno bisogno di aiuto. In entrambi i casi, una figura che si interessi di questo mondo e sappia coordinare le attività rivolte alla popolazione anziana è assolutamente decisivo e direi anche lungimirante per programmare il futuro nel miglior modo possibile”.
Elisa Venturini
“Subito risorse a favore di chi si prende cura di persone con disabilità” “La Regione Veneto prenda esempio dalla Lombardia e stanzi risorse proprie a favore di interventi di supporto per i caregiver familiari che si mettono a disposizione di persone con disabilità grave o gravissima”. Il portavoce dell’Opposizione in Consiglio regionale, Arturo Lorenzoni, e i consiglieri regionali Erika Baldin, Anna Maria Bigon, Cristina Guarda e Elena Ostanel hanno depositato una mozione denominata “La Giunta regionale si attivi a sostegno dei caregiver familiari”. Ancora a marzo scorso, spiegano, la stessa Lombardia ha messo a bilancio oltre 10 milioni di euro a favore di questo particolare capitolo, così delicato soprattutto durante la pandemia. Tali risorse verranno erogate “una tantum” ai caregiver familiari, prioritariamente di persone con gravissima disabilità (70%) e disabilità grave (30%). “Si tratta di una buona pratica da imitare – spiegano i consiglieri – In tutto il Veneto sono interessati più di 100mila cittadini: ogni giorno, nel silenzio e nel nascondimento, si prendono cura dei loro famigliari arrivando a sollevare, almeno in parte, il Servizio Sanitario Nazionale da molte incombenze pratiche”. Motivo per cui, puntualizzano, “serve subito un segnale forte a loro sostegno da parte dell’amministrazione regionale. Non le tradizionali pacche sulle spalle, ma fondi concreti che aiutino queste persone nello svolgimento delle diverse mansioni”.
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OTTOBRE 2021
on-line:
Diagnosi precoce, il primo gesto per difendersi dal tumore al seno
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Salute Ottobre rosa
Le strategie migliori contro il tumore al seno
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ul tumore al seno non possiamo permetterci di abbassare la guardia. Solo nel 2021 si stimano oltre 55.000 nuove diagnosi, un numero impressionante che l’emergenza Covid non ha fatto che aggravare: troppi gli screening saltati, le terapie, gli interventi e i controlli rimandati. Per questo, come Lilt, oggi più che mai siamo attivi sul territorio attraverso le nostre associazioni provinciali per supportare concretamente le donne, garantendo informazione, servizi ambulatoriali, assistenza tanto a chi sta lottando contro la malattia, quanto a chi mette in pratica i principi della prevenzione e della diagnosi precoce: la prima arma per difendere la nostra salute”. Sono le parole con cui Francesco Schiuttulli, presidente Lilt Nazionale, ha presentato la campagna Nastro Rosa Lilt for Women” a fine settembre, in occasione dell’avvio dell’edizione 2021 di Ottobre rosa. Prosegue alla pag. seguente
Medici fisiatri e strutture riabilitative, verso una rete Ospedale-Territorio a pag 46
L’importanza della vaccinazione anti Covid in gravidanza a pag 48
Ambienti chiusi, con mascherine e ricambio d’aria il rischio di trasmissione è basso a pag 49
Salute
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Medici fisiatri e strutture riabilitative, verso una rete Ospedale-Territorio
Riabilitazione, la pressione del Long Covid porta a ridisegnare le risposte del pubblico e del privato
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azienti diversi, da affrontare ciascuno con modalità pertinenti, mettendo a sistema tutte le competenze a disposizione e tutte i servizi che possono favorire la riabilitazione. E questo va fatto in un momento storico in cui la carenza di medici e di personale specializzato pesa fortemente anche nell’ambito della riabilitazione. “L’obiettivo è la migliore organizzazione del Dipartimento di Riabilitazione Ospedale-Territorio. Significa che siamo impegnati a costruire la più piena efficienza della rete che mette insieme i medici, infermieri, fisioterapisti, logopedisti, terapisti occupazionali, ma anche gli Ospedali pubblici e quelli privati accreditati, e gli ambulatori sul territorio, e le strutture ambulatoriali private accreditate. Portiamo nel territorio dell’Ulss 3 Serenissima i principi ispiratori del Piano Nazionale di Indirizzo della Riabilitazione che nella regione Veneto sta dando vita ad un potente sistema di percorsi di diagnosi, di cura e, appunto, di riabilitazione”. L’organizzazione in una rete di tutte le risorse a disposizione è il compito che il direttore generale dell’Ulss 3 Serenissima Edgardo Contato ha affidato a Stefano Bargellesi, “Specialista fisiatra di grande esperienza – lo presenta Massimo Zuin, direttore generale dei Servizi sociosanitari – E’ stato direttore della Medicina Fisica e Riabilitativa all’Ospedale di Treviso, e prima ancora a Motta di Livenza”. Anche il Covid-19, con le conseguenze che i pazienti gravi portano con loro a lungo dopo il ricovero nei reparti per acuti, impegna a fondo i medici fisiatri e le strutture riabilitative. “E’ diventata molto impegnativa, per chi opera nell’ambito della riabilitazione - sottolinea lo stesso Bargellesi - la gestione dei pazienti che colpiti dal virus. Quelli che sono stati malati in forme gravi, in particolare, portano con loro tutta una serie di menomazioni, che sono sì respiratorie, ma anche cardiologiche, neuro-
L’Ulss 3 Serenissima affida allo specialista Stefano Bargellesi la riorganizzazione nel Veneziano
Anche il Covid 19, con le conseguenze che i pazienti gravi portano con loro a lungo dopo il ricovero nei reparti per acuti, ha impegnato ulteriormente medici e strutture motorie, neurocognitive. Il paziente che ha subìto in forma grave la malattia del momento diventa un nuovo soggetto a cui occorre dedicarsi. Nell’Ulss 3 Serenissima lo stiamo facendo attraverso gli ambulatori Long Covid, realtà che operano con successo sia nell’Ospedale di Dolo che nell’Ospedale HUB dell’Angelo. Questi ambulatori, che continuano a seguire pazienti dimessi da mesi ma che portano ancora appunto le conseguenze della malattia acuta, pongono la nostra Ulss in prima linea nella gestione di questo ambito particolare della riabilitazione, e sono un esempio della più corretta interazione tra Ospedali e territorio”. Nominato Direttore della Fisiatria per tutto il territorio del Veneziano e del Miranese, al centro dell’attenzione del Primario Bargellesi ci sono i pazienti che vivono una condizione di disabilità spesso temporanea, ol-
tre ai pazienti post-Covid, anche la persona che ha avuto un ictus e che ha superato la fase acuta, chi porta le conseguenze di un grave trauma midollare, o di una patologia cardiaca, o di un importante intervento ortopedico, per fare alcuni esempi. “Sono affidati a noi persone che hanno prospettive di miglioramento della loro menomazione, ma anche quelle che vivono una situazione di disabilità inemendabile, destinata quindi a non essere mai superata, sulle quali il nostro lavoro tende a ridurre per quanto possibile le conseguenze di questa disabilità. Ancora, vengono affidati a noi sia i pazienti che sono degenti nei reparti per acuti delle varie strutture ospedaliere, sia quelli che sul territorio, usufruiscono di cure riabilitative negli ambulatori, nei centri servizi per anziani e per disabili, nei centri extraospedalieri di riabilitazione intensiva e anche al loro domicilio”.
Ottobre rosa
Le strategie migliori contro il tumore al seno
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il primo gesto per difendersi, fin da giovani, dal tumore al seno è la diagnosi precoce. E quindi, quando si tratta di prevenire il cancro al seno, conoscere il proprio corpo, i segnali che manda (e anche quelli che non manda) è fondamentale per la diagnosi precoce. È bene cominciare sin da giovani: c’è una prevenzione giusta per ogni età. La prevenzione dà un vantaggio fondamentale sul cancro: lo anticipa sul tempo. Perché questo accada bisogna essere previdenti, consapevoli, attente e, soprattutto, serene. Anche osservare poche buone abitudini di vita può essere utile per proteggersi: mangiare in maniera equilibrata, evitare il fumo e l’alcol, fare attività fisica, sottoporsi agli esami per la diagnosi precoce, eseguire frequentemente l’autovalutazione del seno. Con la pandemia, la prevenzione oncologica è stata messa in secondo piano: è importante che ritrovi il suo ruolo da protagonista. L’impegno per rendere guaribile il cancro al seno, attualmente intorno all’80% a cinque anni dal trattamento, deve proseguire con ancora maggiore energia. Sono diversi i fattori che incidono sullo sviluppo del cancro al seno: alcuni si possiamo tenere sotto controllo, altri non dipendono da noi. E comunque la prevenzione è un grande alleato, in ogni caso. PREVENZIONE PRIMARIA Con la prevenzione primaria possiamo individuare e, quando possibile, rimuovere le cause che possono contribuire allo sviluppo di un tumore, quelli che vengono di solito chiamati “fattori di rischio”. I principali fattori di rischio non modificabili sono l’età, la storia riproduttiva della donna, la familiarità per tumore al seno e/o ovaio, neoplasie e trattamenti pregressi, mutazioni di specifici geni. La buona notizia è che ci sono altri fattori di rischio che sono modificabili: se vengono rimossi dalla nostra vita, possono nettamente ridurre il rischio di sviluppare il tumore al seno. La terapia ormonale sostitutiva, ad esempio, rientra fra questi fattori di rischio modificabili per le donne in menopausa. Anche l’obesità può contribuire ad aumentare il rischio di sviluppare il cancro al seno, per questo è fondamentale fare attenzione anche al proprio stile di vita: una scorretta alimentazione, sedentarietà, fumo, alcol possono avere un impatto negativo sulla prevenzione del cancro ma anche sulla nostra salute in generale. Per una prevenzione quotidiana è quindi importante seguire uno stile di vita sano. PREVENZIONE SECONDARIA I fattori di rischio che non possiamo tenere sotto controllo richiedono una efficace strategia di azione, tutta basata sulla prevenzione secondaria. La prevenzione secondaria ha l’obiettivo di ottenere la diagnosi il più precocemente possibile. La scoperta del tumore (in genere con la mammografia e l’ecografia) nella sua fase iniziale permette terapie chirurgiche meno aggressive, con maggiori possibilità di guarigione. Oggi costituisce l’arma vincente nella lotta al cancro della mammella, che può essere curato nella maggior parte dei casi diagnosticati precocemente. È importante scoprire il tumore al suo inizio. La probabilità di guarigione per tumori che misurano meno di un centimetro è di oltre il 90%. Gli interventi sono sempre conservativi e non procurano seri danni estetici alla donna. LE BUONE REGOLE PER LA DIAGNOSI PRECOCE La prima buona regola di prevenzione è sicuramente la visita annuale ginecologica. Ogni donna dovrebbe inserire nella propria agenda questo appuntamento non rimandabile. È proprio la visita con lo specialista che, a partire dal proprio caso individuale, permette di avere certezze rispetto agli esami e ai controlli da effettuare periodicamente per la diagnosi precoce. Inoltre, ogni donna dovrebbe mettersi un appunto sul calendario per dedicarsi, almeno una volta al mese, all’autovalutazione del seno. Ottobre è il mese dedicato alla prevenzione del tumore al seno. Lilt for Women – Nastro Rosa è l’iniziativa che invita tutte le donne a rivolgersi al numero verde Sos Lilt 800998877 per ricevere informazioni e prenotare una visita senologica gratuita presso il più vicino ambulatorio Lilt aderente. (Dal sito della pagina Facebook nazionale Lilt)
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Il dottor Enrico Busato, primario di Ginecologia ed Ostetricia dell’Ospedale Ca’ Foncello di Treviso, risponde alle domande più frequenti
L’importanza della vaccinazione anti Covid in gravidanza Un video realizzato dall’Ulss 2 Marca Trevigiana, nel contesto di una campagna di informazione e sensibilizzazione più ampia, per rassicurare le mamme in attesa o che stanno allattando
“Punto rosa” all’Ulss 2, per informare le donne in gravidanza sulla vaccinazione contro il Covid
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o visto gli effetti del Covid 19 su neomamme e neonati e, per questo, consiglio vivamente la vaccinazione”. Sono le parole del dottor Enrico Busato, primario di Ginecologia e Ostetricia dell’ospedale Ca’ Foncello di Treviso, a conclusione di un video di sensibilizzazione sull’efficacia e la sicurezza della vaccinazione anti Covid anche in periodo di gravidanza e durante l’allattamento. Molte donne temono possibili effetti avversi, non tanto su se stesse, quanto piuttosto sui loro neonati. Molte sono le domande che si pongono e a cui cercano risposta per essere rassicurate. “Vaccinarsi contro il Covid è sicuro sia per le future mamme che per il bambino che portano in grembo”, ripete più volte lo specialista in questo appello #vacciniamoci rivolto nel mese di ottobre in particolar modo alle mamme in dolce attesa, per la protezione di loro stesse e dei propri bambini. Perché questo pressante appello in questo momento? “Abbiamo avuto – risponde il dottor Busato – un numero di gravide positive in questo ultimo mese che rappresenta un terzo di tutte le donne che, invece, abbiamo avuto nella precedente ondata. Ciò è dovuto al fatto che la nuova variante Delta ha un tasso di diffusione più altro rispetto alla variante precedente e anche gli effetti, colpendo donne più giovani, sono più gravi. In questo periodo, abbiamo avuto ricoveri di mamme in gravidanza in Neurologia, Malattie infettive ma anche in Rianimazione”. Il dottor Busato nel video diffuso dall’Ulss 2 risponde alle domande più ricorrenti. La prima di queste senz’altro è relativa al periodo della gravidanza in cui è consigliato vaccinarsi. “La vaccinazione – specifica il primario – può essere effettuata in qualsiasi periodo della gravidanza. In alcune circostanze, magari, è preferibile evitare il primo trimestre ma questa è una scelta che si fa col medico al momento della vaccinazione, che può essere rimandata al secondo trimestre per evitare alcune possibili complicanze in donne a rischio per determinate patologie”. Possono fare la vaccinazione anche le neomamme che stanno allattando? “Anche durante l’allattamento – è la risposta del dottor Busato – la vaccinazione è consigliata, anzi
è importante perché, oltre a proteggere la mamma, sappiamo che vi è un passaggio nel latte materno che garantisce quindi una protezione, anche se minima, al neonato. E’ logico che la vaccinazione durante la gravidanza ha i suoi risultati migliori, perché al bambino passeranno poi gli anticorpi che lo proteggono durante tutto il periodo in cui può venire eventualmente in contatto con una persona affetta da Covid 19. Sappiamo comunque che non è necessario interrompere l’allattamento in caso di vaccinazione della mamma. La mamma che fa la vaccinazione può continuare tranquillamente ad allattare”. C’è una correlazione tra vaccino anti Covid e sterilità? “Su questo siamo molto tranquilli e sicuri: non è vero che il vaccino determina una riduzione della fertilità. Tutti i dati a nostra disposizione ci dicono che non c’è stata nessuna riduzione della fertilità nelle donne che hanno effettuato il vaccino. Anzi, sappiamo che molte mamme lo hanno fatto nel periodo preconcezionale ed hanno avuto una tranquilla gravidanza”.
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Sotto il dottor Enrico Busato
ettere a disposizione delle donne in gravidanza Punti informativi sulla vaccinazione contro il Covid in ogni Distretto: questo l’obiettivo dell’iniziativa dell’Ulss 2 e che ha esordito a fine settembre, con l’attivazione del “Punto rosa” al Centro vaccinale di Villorba. “Il Punto rosa ospiterà un ginecologo che farà consulenza, e anamnesi, alle future mamme spiegando l’importanza della vaccinazione contro il Covid, per la protezione di sé stesse e del nascituro – spiega il primario del reparto di Ostetricia-Ginecologia del Ca’ Foncello, Enrico Busato -. Saremo a disposizione per rispondere a tutti i possibili dubbi che nel caso delle donne in gravidanze riguardano, nella maggior parte dei casi, il bimbo che portano in grembo. A tutte loro posso assicurare che la vaccinazione è estremamente importante e sicura: il recente ricovero di tre donne incinte all’ospedale di Treviso, una delle quali purtroppo in Terapia intensiva, ha confermato come gli effetti del Covid possano essere molto gravi, sia per le future mamme che per i bimbi per cui il mio invito non può che essere alla vaccinazione”. Il “Punto rosa” all’ex Maber sarà attivo ogni mercoledì dalle 15.00 alle 19.00. “Oltre al box dedicato nel Vax Point di Villorba attiveremo, negli altri due Distretti, canali informativi dedicati con i reparti di Ostetricia dell’ospedale di Montebelluna per l’ex Ulss 8 e con il nosocomio di Conegliano per l’ex Ulss 7 – spiega il direttore generale, Francesco Benazzi -. A Montebelluna le donne in gravidanza potranno inviare una mail con tutti gli eventuali quesiti a ostetriche. montebelluna@aulss2.veneto.it o telefonare il mercoledì dalle 15.00 alle 17.00 al n. 0423.611660. A Conegliano, invece, il Punto informativo per le gestanti sarà attivo tutti i giorni dalle 15.00 alle 17.00, contattando lo 0438.663128”.
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La ricerca. A fine 2020, durante la massima diffusione della seconda ondata di pandemia in Italia
Ambienti chiusi, con mascherine e ricambio d’aria il rischio di trasmissione è molto basso E’ stata analizzata la concentrazione delle particelle virali nell’aria in diversi ambienti di comunità operativi anche durante le restrizioni
Funghi, i consigli utili per chi li raccoglie nei boschi
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onsumare solo funghi controllati da un vero micologo (e diffidare dagli esperti improvvisati); consumarli in quantità moderate, solo in perfetto stato di conservazione e ben cotti; non somministrarli ai bambini né alle donne gravide; sbollentarli prima del congelamento e consumarli entro 6 mesi; non consumare funghi raccolti lungo le strade o vicino a centri industriali; non regalare i funghi raccolti se non controllati; nei funghi sott’olio si può sviluppare la tossina del botulino. Sono le buone regole che il Ministero della Salute ha messo a punto per gli appassionati della raccolta di funghi, nella stagione che ha preso il via, quest’anno anche in anticipo a causa delle abbondanti piogge, e che proseguirà fino ad autunno inoltrato. Le raccomandazioni sono varie, per evitare i pericoli legati ai rischi di intossicazioni o avvelenamenti, ma il più importante è quello di far analizzare i funghi raccolti da un ispettore micologo dell’Asl della zona, un servizio peraltro che viene fornito gratuitamente. Il pericolo di prendere per buone delle varietà che, al contrario, possono causare avvelenamento o intossicazioni alimentari non è così raro, soprattutto per coloro che sono occasionali raccoglitori di funghi. Per avere la certezza della commestibilità di quanto si è raccolto, dunque, è necessario rivolgersi a dei professionisti dell’ispettorato micologico che esegue quotidianamente perizie e controlli. Pertanto è assolutamente necessario evitare di mangiare funghi di cui non si conosce la provenienza. L’errore più frequente è quello di confondere specie di funghi commestibili con i loro “sosia” velenosi. Altro errore in cui si incappa frequentemente è quello di consumare funghi commestibili ma in stato di avanzata maturazione, marcescenti o infestati da parassiti o muffe. C’è poi la tendenza a dare retta alle credenze popolari, che a volte sono solo false leggende. Ad esempio è falso credere che i funghi che crescono sui ceppi e cui tronchi di alberi vivi siano tutti buoni, così come è altrettanto falso pensare che i funghi dei nostri prati non siano mai velenosi. E’ bene dunque evitare di affidarsi a queste prassi e far controllare i funghi raccolti. Come fare? Intanto conservando i funghi in adeguati contenitori, quindi procedendo ai controlli al più presto possibile. I funghi vanno portati completi, così come sono stati raccolti, senza prima aver provveduto alla toelettatura e all’esportazione di parti che possono essere utili all’identificazione e va portata tutta la quantità raccolta per evitare errori di identificazione di specie simili. In caso di sospetto avvelenamento, tuttavia, o di disturbi che insorgono dopo aver consumato dei funghi è bene recarsi immediatamente al più vicino Pronto soccorso, evitando terapie o manovre autonome. E’ bene, se possibile, portare con sé residui dei funghi utilizzati. Questa la sintesi delle buone abitudini da osservare del Dipartimento di prevenzione dell’Ulss 6 Euganea.
on mascherina, distanziamento e ricambio d’aria, nei luoghi pubblici al chiuso il rischio di trasmissione in aria del Covid è risultato inferiore al minimo rilevabile. Lo evidenzia uno studio condotto per la prima volta in Italia, dagli Istituti di Scienze dell’atmosfera e del clima e di Scienze polari del Cnr, Università Ca’ Foscari Venezia e Istituto Zooprofilattico sperimentale della Puglia e della Basilicata, pubblicato su Environmental Science and Pollution Research. LE MISURE ADOTTATE La rapida diffusione del Covid-19 nell’autunno 2020 durante la seconda ondata della pandemia ha portato all’introduzione di specifiche misure restrittive a carattere regionale basate sulla classificazione del rischio con una scala di colori. Per una definizione più precisa possibile del rischio, è estremamente importante rispondere agli interrogativi sul ruolo della trasmissione in aria (detta airborne) in specifici ambienti di comunità al chiuso, come supermercati, ristoranti, mezzi pubblici. “Il ruolo della trasmissione airborne dipende da diverse variabili tra cui la concentrazione delle particelle virali, che è stata studiata principalmente in ambienti ospedalieri o destinati alla cura dei pazienti Covid-19”, spiega Daniele Contini dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isac) di Lecce. “Tuttavia, i dati riguardanti gli ambienti di comunità pubblici al chiuso sono ancora scarsi; per questo, e per la complessità dell’argomento, abbiamo condotto uno studio specifico in diverse città italiane”. LA RICERCA La ricerca, che si è svolta tra novembre e dicembre del 2020, durante la massima diffusione della seconda ondata di pandemia in Italia, ha analizzato la concentrazione delle particelle virali nell’aria in diversi ambienti di comunità operativi anche durante le restrizioni: la stazione ferroviaria di Mestre e due supermercati nell’area metropolitana di Venezia; la mensa Cnr dell’area della ricerca di Bologna; un centro commerciale, una farmacia, ed un salone di parrucchiere a Lecce. I dati raccolti hanno quindi interessato aree del Paese con diffusione del virus e condizioni atmosferiche significativamente diverse. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Environmental Science and Pollution Research, a firma, oltre che del Cnr-Isac, dell’Istituto di scienze polari del Cnr, dell’Università Ca’ Foscari Venezia e dell’Istituto zooprofilattico sperimentale della Puglia e della Basilicata (Izspb). “La presenza del virus nei campioni di aerosol è stata verificata raccogliendo particolato atmosferico, PM10
e polveri totali sospese, e determinando la presenza del materiale genetico (RNA) del Sars-CoV-2 con tecniche avanzate di laboratorio” prosegue Contini. “Tutti i campioni raccolti sono risultati negativi e non sono state osservate differenze relative a orari di apertura, presenza di persone e chiusura degli ambienti. Questo significa che il virus è assente o in concentrazione inferiore alla rilevabilità e conferma come, con le limitazioni osservate (distanziamento fisico, contingentamento degli ingressi ed uso delle mascherine), la probabilità di contagio airborne appare molto bassa”. “I risultati delle misure sono compatibili con i risultati delle simulazioni svolte tenendo conto della situazione epidemiologica nelle diverse aree di studio e che ha evidenziato il ruolo importante della ventilazione negli ambienti indoor e dell’utilizzo delle mascherine nel ridurre i rischi di trasmissione in aria del virus”, precisa Franco Belosi, Cnr-Isac. “Ciò rafforza l’importanza di osservare negli ambienti chiusi le norme su mascherine, distanziamento e controlli, incrementando quanto possibile, la ventilazione”. “Un rischio maggiore potrebbe infatti verificarsi in ambienti indoor ventilati più scarsamente, dove le goccioline respiratorie possono rimanere in sospensione per tempi più lunghi e depositarsi sulle superfici, incrementando la possibilità di contaminazione per contatto indiretto (mediato dalle superfici) rispetto al contatto diretto tra gli individui”, conferma Andrea Gambaro docente Università Ca’ Foscari Venezia. “Lo studio suggerisce anche l’importanza di sviluppare un protocollo standard per la valutazione della presenza del Sars-CoV-2 in aria, per migliorare i limiti di rilevabilità e omogeneizzare i risultati di studi diversi” conclude Giovanna La Salandra, della Struttura ricerca e sviluppo scientifico dell’Izspb.
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Trentino-Alto Adige
Val di Cembra, paesaggi di vigneti eroici di Renato Malaman
Sugli audaci terrazzamenti della valle trentina, sostenuti da oltre 700 chilometri di muretti a secco (i primi dei quali costruiti secoli fa dai monaci), si producono il Müller Thurgau e altri famosi vini di montagna
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errazzamenti sull’impossibile. Le prime pietre di quei muretti a secco le posarono a mani nude i monaci, all’insegna dell’hora et labora. I contadini della valle, poi, completarono l’opera, tanto da metterne in fila ben 700 chilometri. Oggi la Valle di Cembra, profonda incisione creata dalle acque dell’Avisio - che collega la Valle di Fiemme con Trento e con la Piana Rotaliana - è uno dei più bei paesaggi rurali storici d’Italia, tanto da meritarsi dieci anni fa l’iscrizione nel Registro Nazionale di questi beni. Nello sguardo d’insieme i vigneti, quelli del Müller Thurgau e degli altri buoni vini della valle, sono disposti in armoniose linee lungo le curve di livello e sembrano abbracciare, quasi per proteggerli, i piccoli borghi abbarbicati sul pendio. Si chiamano Giovo, Ceola, Lisignano, Cembra, Faver, Valda, Grumes. E dall’altra parte Sover, Segonzano (sì, quello delle famose ‘piramidi’ naturali, altro monumento simbolo della valle), Piazzo, Lona, Lases, poi la Albiano delle cave di porfido, croce e ricchezza di questo angolo di Trentino. In Val di Cembra si pratica una viticoltura eroica, perché il lavoro di raccolta e trasporto delle uve deve essere effettuato esclusivamente a mano. La qualità dei vini premia la tenacia dei contadini, angeli custodi del patrimonio ambientale della valle. Vino, porfido e fatica. La Valle di Cembra è terra di valori antichi, dove il sacrificio è il prezzemolo di tutto. Anche degli indimenticabili trionfi di Francesco Moser (oggi peraltro produttore di vino), orgoglio di tutti i cembrani. Immagine vincente che in anni più recenti Gilberto Simoni ha contribuito a rafforzare. E’ proprio la bici oggi uno dei mezzi migliori per apprezzare la Valle di Cembra. La e-bike in particolare, perché aiuta ad affrontare meglio i tratti più ripidi.
Fra borghi e vigneti sono stati tracciati sentieri di particolare suggestione, molti dei quali sono gli stessi che i contadini utilizzano per recarsi nei propri vigneti. Sentieri lungo i quali il paesaggio, ad ogni curva, strappa espressioni di stupore. I vigneti enfatizzano il lavoro secolare dell’uomo per coltivare queste erte scoscese che, essendo in gran parte baciate dal sole, assicurano all’uva un’esposizione ideale. Ecco perché il Müller Thurgau e gli altri vini cembrani sono così famosi e si meritano la ribalta di una mostra enologica fra le più antiche d’Italia. Quest’anno a Palazzo Maffei di Cembra – Lisignano è stata celebrata la 74esima edizione di questo evento, dedicato non solo al Müller (come lo chiamano qui) ma anche al vino di montagna. Un’occasione per apprezzare la specificità di questi vini. Il Müller Thurgau (incrocio nato nel 1882 fra il Riesling Renano e il Madeleine Royal per mano del professor Hermann Müller) ha trovato in Val di Cembra il suo habitat ideale, perché il territorio è riparato da boschi e montagne ed è caratterizzato da terreni porfirici e forte escursione termica. Un vino bianco paglierino con una componente aromatica evidente, con sentori di erbe aromatiche, sambuco, frutta tropicale e agrumi. Müller che si sta rivelando anche sorprendentemente longevo. Un capitolo a parte merita la grappa, perché a Faver, da Pilzer, nel 1956 è iniziata una rivoluzione che, grazie ad esperienze parallele avvenute in altri angoli del Trentino, ha modificato profondamente l’arte di produrre questo distillato. Bruno Pilzer, figlio del fondatore Vincenzo, è considerato uno dei maestri in questa arte, figlia del ‘lambicar’ di un tempo. Il segreto? La scelta delle materie prime giuste, il farle fermentare bene, il saper distillarle con l’alambicco discontinuo a
Alcuni spettacolari paesaggi della Val di Cembra, inserita a pieno titolo nel Registro Nazionale dei Paesaggi Rurali Storici. Qui accanto una bottiglia di Muller Thurgau. Sotto: le Piramidi di Segonzano, Palazzo Maffei a Cembra-Lisignano durante la rassegna enologica e l’ex ciclista Francesco Moser tra le sue vigne
E’ la terra di Moser e Simoni dove il ciclismo è simbolo di sacrificio ed è un valore da sempre
bagnomaria… Bruno Pilzer è stato invitato anche in Giappone per far da consulente per un nuovo impianto di distillazione La Val di Cembra oggi è meta ideale per un turismo di prossimità. Propone molte attività per famiglie come le fattorie didattiche e gli incontri con i produttori, le uscite a cavallo o per scoprire l’habitat dei cervi o il mondo delle api. Per gli amanti dell’avventura e delle attività all’aperto sono infinite le possibilità di percorrere sentieri a piedi o in bicicletta (normale o elettrica), di dedicarsi alla pesca o agli sport acquatici. Anche alla raccolta di funghi. Non v’è dubbio che la prima tappa
d’obbligo è quella alle Piramidi di terra di Segonzano, arditi pinnacoli frutto dell’erosione. Poi c’è solo l’imbarazzo della scelta: i castelli e i forti, antiche chiese, i musei (uno è dedicato al porfido), i molini e le torbiere.. Gli amanti della natura trovano molte ispirazioni nella Rete di riserve Val di Cembra – Avisio. Imperdibile la Cascata del Lupo, i tanti laghi di montagna, i masi, il sentiero dei vecchi mestieri, l’Ecomuseo dell’Argentario e infine gli itinerari del gusto che si snodano fra cantine, distillerie, malghe e rifugi. La Val di Cembra resta appiccicata come una calamita nel cuore di chi l’ha visitata.
Stili di vita
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La vita a Vicenza vista con ironia . Le mostruosità in giardino, ma anche nelle rotatorie e davanti alla stazione Fs
Quel monumento degli alpini è uscito dalle scene di “Totò contro Maciste” Quale futuro avranno i nani da giardino? È un bel problema in tempi di mostri e supereroi. Finiranno sostituiti da una scultura brutta come quella della rotatoria di Ospedaletto, premio all’horror. Oppure come quel monumento progettato in viale Roma al quale mancano solo Totokamen e Nino Taranto
C
i occupiamo oggi di una questione che occupa molte pagine nelle agende istituzionali internazionali, insieme al riscaldamento globale, alla transizione ecologica e all’emergenza covid: i nani da giardino e il futuro dell’arredo da giardino in genere. Può sembrare bizzarro, ma gran parte del destino dell’umanità, in quanto tenuta sociale e progresso civile, passa per i nostri giardini di casa e da come li arrediamo (o li massacriamo credendo di abbellirli) dipenderà il nostro futuro. Dopo il terrore degli anni Novanta, segnati dalla nascita del Movimento di Liberazione Nanetti da Giardino, che perpetrò numerosi e feroci rapimenti di innocenti statuine elevate a protagoniste di una furiosa battaglia ideologica, i giardini di mezzo mondo occidentale e occidentalizzato si sono trovati in una pericolosa situazione di stallo: come e con cosa rendere graziosi (si fa per dire) questi spazi esterni dell’abitazione, dovendo fare a meno di Cucciolo, Dotto o Gongolo? Cosa affiancare a Biancaneve: un dinosauro o Batman? Come al solito, la Storia ci viene in aiuto, perché i nanetti da giardino e i nanetti in genere non sono lì “ab origine”, ovvero non sono stati creati dopo Adamo ed Eva per decorare il giardino dell’Eden. Prima dei nanetti disneyani c’era altro e di ben più tonificante: copie di Topo Gigio in gesso, ad esempio, oppure cani di cemento, soprattutto barboncini e cocker, e più a ritroso altre creature entrate perfino nei manuali di storia dell’arte, come le aberrazioni dei Boboli a Firenze. Se il sonno della ragione genera mostri, come il famoso disegno di Goya, allora possiamo dire che la ragione si addormenta spesso e volentieri in giardino, oggi come non mai diventato un piccolo zoo safari di fenicotteri di plastica, tappetoni elastici, cicogne formato King Kong, palmizi gonfiabili in polietilene e divani, divanetti, gazebi, tavoli e tavolinetti… Tutto arredamento in materiali plastici deperibili in una dozzina di secoli a patto però che arrivi sulla Terra un asteroide grande come Cipro. Se il giardinetto privato non gode di buona salute, quello pubblico sta decisamente peggio in tutte le sue articolazioni di specie, siano parchi, aiuole, ritagli di verde o rotatorie. Una cronica mancanza di idee si unisce spesso a tragiche alzate di ingegno che tradiscono tanta assenza di talento quanto torrenziale capacità di nuocere al bene comune, come
il terrificante tralcio di vite nella rotatoria di Ospedaletto (premio Colonnello Kurtz e medaglia d’oro all’horror militare 2011) o il progetto del monumento degli alpini davanti alla stazione di Vicenza, degno delle scenografie egizie di Totò contro Maciste, per non dire dei terrificanti leoni marciani in resina termoplastica che sono fioccati un poco ovunque in tutta la provincia, tra tutti quello in maxi formato di Trissino che induce più alla fuga sulla cima di un albero che all’abbraccio orgoglioso delle proprie radici. Ma è così e non potrebbe essere altrimenti, perché i monumenti sono l’espressione del pensiero e dei valori di una società e della sua politica e se tale pensiero è debole, confuso o peggio ancora strumentale avremo di conseguenza monumenti deboli, ottusi e peggio ancora ridicoli. Quello che è successo a Sapri con l’inaugurazione del nuovo “monumento” alla Spigolatrice Smutandata è la rappresentazione letteralmente plastica di questa enorme capacità di essere incapaci, di non saper più cogliere la sintesi prima intellettuale e poi artistica dei fenomeni storici, siano cose, eventi o persone, una geografia ormai nazionale che va dalla statua-manichino di Mike Bongiorno a Sanremo al mezzo busto di Gandhi qui da noi, servito su un vassoio come una specialità gastronomica. L’unico auspicio è tornare ai cari vecchi nanetti, anche e soprattutto nel pubblico. Ma adesso vi saluto perché c’è Brontolo in giardino che si sta lamentando per l’erba troppo alta. Alberto Graziani
La locandina del film “Totò contro Maciste” ambientato in un improbabile antico Egitto e il progetto, stavolta vero, del monumento degli alpini davanti alla stazione in viale Roma
Gastronomia
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Il cuoco emergente. È Marco Culeddu, responsabile dell’Osteria del Guà, situata nella villa palladiana a Bagnolo di Lonigo
Bigoli all’anatra, ecco la versione di Marco Li fa cuocere per metà nell’acqua e per metà nel ragù, ottenendo una moltiplicazione del gusto. La sua è una cucina tradizione che dialoga con la cultura del terzo millennio, con sana ed equilibrata creatività
L
o sanno in pochi, solo gli addetti ai lavori come Guido Beltramini, che ne ha dato notizia in un suo piacevole libro intitolato “Palladio privato”: ma al grande Andrea piaceva la tavola. Quand’era a Roma, spedito da Giangiorgio Trissino a studiare le architetture romane, scriveva a Vicenza che spesso alla sera si ritrovava a cena a casa di nobili e cardinali. Se, indubbiamente, anche le relazioni pubbliche sono sempre da coltivare, è solo un caso se, a 33 anni, tornato da Roma, Palladio progettò la villa a Bagnolo di Lonigo (oggi proprietà Bonetti) che ospita al suo interno un ristorante? Ed è un caso che il cuoco, Marco Culeddu, abbia su per giù l’età di Palladio di allora? Le coincidenze non esistono, sosteneva Carl Gustav Jung (e pure con qualche ragione) perché c’è una rete di fili mentali, spesso inavvertiti o inconsci, che legano le vicende umane. O almeno ci piace pensarlo: è consolatorio come la zuppa Campbell’s celebrata da Warhol. Marco Culeddu ha un cognome sardo a motivo delle origini del padre ma è cresciuto e s’è diplomato all’alberghiero di Reggio Emilia, la cui inflessione
Il cuoco Marco Culeddu, il manager della sala, Luca Pinter, e tre piatti dell’Osteria: i bigoli all’arna, il bollito e il dessert finocchio e limone
appare ancora nella parlata del cuoco. È responsabile della cucina della Osteria del Guà, che occupa una parte delle barchesse della splendida villa, mentre la sala è gestita da Luca Pinter. Nel menu dell’Osteria c’è oltretutto un piatto che ha un sapore palladiano. Si tratta dei celebri (e celebrati) bigoli con l’arna, cioè con il ragù d’anatra. È un
piatto anti-islamico, per così dire, in quanto è tipico del periodo della Madonna del rosario, festa istituita il 7 ottobre per celebrare la vittoria di Lepanto, di cui quest’anno ricorre il 450° anniversario. Marco ne propone una versione curiosa perché i suoi bigoli sono cotti per metà nell’acqua e per metà nel ragù
d’anatra: con quali benefici per il gusto è facile immaginarlo. Al giovane cuoco piace esplorare, dimostrando un tocco di sana ed equilibrata creatività. La sua è una cucina tradizionale che dialoga con la mentalità del terzo millennio, senza voler camminare con la testa rivolta all’indietro. Il bollito, per esempio, Marco lo taglia,
lo assembla e lo compatta in un assaggio che non perde niente di sapore e offre anche una sintesi dei tagli classici in un boccone. Da elogiare anche un inconsueto dessert come finocchio & limone, tanto affascinante da ammirare quanto gustoso da provare. Antonio Di Lorenzo
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Film e serie tv visti da vicino
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a cura di Paolo Di Lorenzo
“Luna park”, c’è aria da miracolo italiano
La popolare “Squid Game” ci interroga sul nostro “io”
Credits: Youngkyu Park Netflix
Credits: Netflix
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ue sorelle e un destino. È “Luna Park”, la terza serie originale italiana che Netflix ha lanciato quest’anno dopo Zero e Generazione 56k. Creata e scritta da Isabella Aguilar (già autrice per lo streamer del successo di “Baby”), è una serie in costume che richiama le atmosfere della Roma degli anni Sessanta, tra il miracolo italiano, la dolce vita e la mistica dei parchi divertimento, luoghi dove il confine tra realtà e fantasia andava sfumandosi. Nora e Rosa sono due giovani donne molto diverse tra loro. La prima discende da una famiglia di giostrai, la seconda è una pariolina ante-litteram. Complici il fato e i tarocchi, le strade di Rosa e Nora si incroceranno per dipanare una matassa di segreti e omissioni che da generazioni implica le famiglie di entrambe. “Io e Nora siamo accomunate da una grande voglia di scoprire il mondo” racconta la sua interprete Simona Tabasco, che aggiunge: “Il suo sguardo nei confronti di quello che le si presenterà resta innocente, e questo la rende un personaggio positivo”. “Come me, anche Rosa è contraddistinta dalla voglia di mettersi costantemente in discussione, a partire dalle proprie origini” commenta Lia Grieco, l’altra protagonista. Quella magia suscitata dai luna park che la serie vuole richiamare (talvolta calcando troppo la mano) sembra ormai essersi persa, colpa forse dell’avvento del digitale. “Oggi manca un po’ quel senso di fermento che c’era negli anni Sessanta, con la voglia di scoprire sempre qualcosa di nuovo” riflette Lia Grieco. “Dedichiamo molto tempo della nostra vita ai dispositivi elettronici che ci conferiscono un’identità non vera, forse anche per questo non proviamo più stupore verso il mondo” le fa eco Simona Tabasco.
È
diventata un fenomeno di culto “Squid Game”, ossia “Il gioco del calamaro”, la serie tv coreana disponibile su Netflix che ha scalato la vetta della classifica dei titoli più visti in oltre 90 Paesi. Anzi, è la serie tv più popolare nella storia di Netflix. In poche settimane, è stata vista da più di 111 milioni di abbonati in tutto il mondo. Composta in nove episodi, è centrata sulla sopravvivenza: 456 concorrenti disperati gareggiano gli uni contro gli altri in vari giochi per bambini nel tentativo di sopravvivere e vincere il montepremi di 45,6 miliardi di won che potrebbe trasformare le loro esistenze difficili. Molti spettatori, prima di cominciare la visione della serie, si sono chiesti: “Squid Game fa paura”? dato che la visione è vietata ai minori di quattordici anni. Di per sé la serie non è considerabile alla stregua degli horror, genere alla cui visione è abitualmente associata la paura suscitata in chi guarda. Si tratta di un thriller psicologico, ovvero di una serie i cui risvolti sono ben più profondi della mera violenza che viene messa in scena. Violenza che, tuttavia, la serie non si esime dal mostrare. La brutalità delle sfide di “Squid Game”, tutte variazioni mortali di popolari giochi per l’infanzia come “Un, due, tre, stella”, ha sempre implicazioni cruente che risultano in frequenti scene splatter, sia che si tratti di uccisioni che di torture. Chi è suscettibile alla resa visiva e al sovente ricorso alla violenza in una serie potrebbe non trovarsi a proprio agio nella visione di “Squid Game”, che tuttavia non è una serie brutale fine a sé stessa. La vera domanda che perseguita lo spettatore è una sola: chi si cela dietro a questi giochi e perché li ha organizzati? Addentrarsi nella psiche di chi accetta di partecipare al gioco, ma soprattutto in quella di chi ha ordito quel perverso torneo, è la ragione che spinge gli spettatore a rimanere incollati allo schermo. Per questa ragione, non è “Squid Game” a fare paura di per sé, ma l’ipotesi che, messi nelle condizioni estreme di dover sopraffare la concorrenza a qualsiasi costo, ogni essere umano è potenzialmente capace di commettere atti inimmaginabili.
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