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“COLLANA FANTASY” LAPICCOLAVOLANTE (8)
Emiliano Billai Fiaba Il Mago i tre capolavori Proprietà Letteraria Riservata I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, di riproduzione o adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo sono riservati per tutti i Paesi. Versione Elettronica © 2014 Associazione Culturale LaPiccolaVolante “Collana Fantasy” www.lapiccolavolante.net Copertina e illustrazioni interne di Emiliano Billai Progetto grafico e revisione testo di Michela Meloni BookShop on www.lapiccolavolante.net
Emiliano Billai
Fiaba il Mago I tre capolavori
un’eresia
Mi interessa giocare con gli uomini, come ci giocherebbe un Dio.
Capitolo 1
Mio padre aveva novecentonovantanove animali preferiti. Papà, gli chiesi una mattina, perché non mille? Sorrise a uno dei suoi novecentonovantanove animali preferiti, a quel leggero tremolio, all’altera postura, a quel verde brillante inverosimilmente attento a ciò che intorno si muoveva, che guardava in equilibrio sulla punta delle dita di quella mano gracile, allenata alla scrittura. Papà, chiesi, ma ci sta guardando? E lui disse sì. Certo, rispose, tu guardi lei, lei guarda te, con lo stesso diritto di farlo. Mantide guardava me e non si curava di mio padre, della sua mano; di lui imparò presto a fidarsi. E anche quando rideva lui, lei guardava me. Curiosità. Mio padre aveva novecentonovantanove animali preferiti e li scelse per la curiosità che sapevano provare. Non è una questione di intelligenze innate, diceva, è la curiosità. Quella necessità istintiva di capire, diceva, conoscere. Ebbe una breve vita mio padre, ma il tempo non gli impedì di innamorarsi di novecentonovantanove curiosità diverse. E io continuavo a chiedere, ma perché non mille? Penso a mio padre, è notte e non c’è luna e bello e nero è il cielo, pieno di stelle e non ho mai capito perché gli scrittori lo descrivano blu. Blu notte. Come se potesse mai esistere un colore in assenza di luce. Blu notte. Sotto un cielo nero, sopra tegole sicure, penso a mio padre e all’idiozia, al patetismo degli scrittori. Penso alla mediocrità dei lettori, quelli che rinnegano il fantasy ma ammiccano a un cielo blu notte. Sul dorso della mano ascolto i passetti, strappati alla pelle, di zampette paffute, di uno dei miei mille e uno animali preferiti. Lo lascio andare per la sua utile caccia e mi rimane un cielo nero e tante stelle e niente luna e la sicurezza che nessuno saprà scorgermi, fino al momento in cui sarò io a presentarmi. Mi chiamavano Fabio, Fabio Ferno, figlio di Arcam Ferno che aveva novecentonovantanove animali preferiti e ho mille
e uno animali preferiti. Mia madre non contava le sue preferenze. Mamma, le chiesi, tu quante cose preferisci? E lei rise. Perché non contava mai le sue preferenze. Lei preferiva le cose buone e le cose belle e le cose eccitanti e le cose divertenti e delle volte anche le cose brutte. E aveva lunghi capelli chiari, sottili e leggeri, mi ricordo che non pizzicavano mai. La barba di mio padre sì. Pizzicava. E lasciava il segno sulla pelle bianca di mia madre e io sapevo perché lasciava quel segno e quando crebbi un poco di più, sorridevo alla pelle di mia madre arrossata. Non essere stupido, mi diceva. Perché si vergognava, o si vergognava per diventare rossa e mimetizzare la barba di mio padre sulla sua pelle. Lei era la parte più pesante del numero pari che formavano lei e mio padre, così che non fosse possibile dividerli in due metà perfette senza virgole, come i numeri dispari. Non sapeva quante cose preferiva, ma, son sicuro, non era un numero pari di cose. Quando ero piccolo a mia madre piacevano un sacco di cose, mio padre aveva novecentonovantanove animali preferiti, io avevo un gatto. Un gatto bianco, che bel gatto, povero, non era. Non aveva un occhio. E allora di occhi ne aveva un numero dispari. Lo portò in casa mio padre, un giorno di pioggia; era ancora più brutto di quanto non fosse diventato da grande, ma tutti quei difetti, l’occhio mancante, la coda mozza, quel musetto schiacciato, le orecchie enormi, lo rendevano più bello di tanti gatti uguali tra di loro. Lo vuoi? Mi chiese mio padre. Oh sì! io saltellavo dalla gioia. Allora, disse prima di darmelo in mano, lo puoi tenere, ma devi chiamarlo Perfetto. E Perfetto mi accompagnò per una vita che mi sembrava fosse stata tanto lunga. Ma oggi so che i gatti possono vivere oltre, e Perfetto avrebbe potuto accompagnarmi ancora per tanto tempo. Ma qualcosa andò come non doveva andare. Fu la prima delle cose ad andare male.
Capitolo 2 X
Oggi non ho più interesse per il tempo. Ho segnato tutto, previsto tutto. So che il tempo non può correre più in fretta, non può scegliere il passo, e l’ho fregato. Può agitarsi, provare a spaventarmi, io posso deriderlo perché so quando arriverà e non può essere prima e non può essere dopo. Per allora avrò terminato i miei tre capolavori. Lo disegnai, il tempo, non c’era la luna, senza luce e allora senza colori, benché qualche idiota insista a denigrare chi racconta di elfi e a colorare il cielo a mezzanotte, di blu. Disegnai il tempo per avere qualcuno con cui chiacchierare e lui si lamentò che avrei potuto metterci più impegno. Non esisterai per molto, gli risposi, accontentati. Sì, non avete capito male, disegnai il tempo per avere qualcuno con cui chiacchierare. Perché è quello che faccio. Lui si sedette vicino a me e disse che, visto da lì, sopra questo stesso tetto, il mondo non era così male. Magari un poco più di colore, disse. È notte e non c’è luna, non essere stupido. E parlammo di Perfetto e di mio padre e di mia madre. E, mi disse, perché non ti prendi più tempo e dimentichi tutto? Lo guardai e mi accorsi che davvero avrei potuto fare di meglio, non era un bel lavoro, davvero no. Scusa, ammisi come era giusto, ti ho fatto veramente bruttino. Fa nulla, rispose, non esisterò per molto. Ridemmo. Il Tempo ha una bella risata. Perché tre? Mi chiese, prenditi il tempo che vuoi, no? Fanne almeno quattro, no? Quattro è un numero pessimo, dissi, ma tu, Tempo, il tempo per cinque me lo concedi? No, per quattro. Voleva solo avere l’ultima parola e fregarmi alla fine. Lo conosco, il Tempo, l’ho disegnato io. Sì, perché è quello che faccio. Allora, risposi per ultimo, tre è il numero perfetto. Pretese che lo cancellassi, perché non aveva senso parlare con me. Si era offeso, il Tempo è uno a cui non piace perdere. E io lo cancellai e tornò a essere semplicemente tempo che passa e che ho già previsto, calcolato, organizzato perché sia abbastanza per i miei tre, ultimi, dispari, capolavori. E sotto
questo cielo nero, che qualche imbecille colora di blu anche se non c’è luna, oggi mi piace aspettare perché di tempo ne ho, e mi piace guardare la gente per strada. Da quassù. Da giorni mi siedo qui e la guardo. Come si guardano i colori, o i fogli bianchi o il lino teso sul cavalletto prima di iniziare. È importante. Memorizzare tutto, sfumature e gesti. Se devi rivisitare un’opera, reinterpretarla, devi conoscerla a fondo. Sia mai che sfugga qualcosa, con il rischio, pessimo eh!, di ripeterla identica. Ogni tanto disegno qualche goccia d’acqua, cinque o sette, dipende, e le lancio giù, sulla testa dei passanti. Alzano lo sguardo al cielo e scorgono le stelle e si chiedono sempre, come è possibile?! Ho sentito qualcuno dire di avermi sentito ridere. All’inizio erano pochi, e tanti erano quelli che li prendevano in giro. Poi pare che altri mi abbiano sentito ridere di questi stupidi scherzi e in tanti abbiano perso la voglia di umiliare gli amici per la paura dei fantasmi. Sì, tutto va bene. Cambio tetto e disegno qualche altra goccia d’acqua. Adoro. Adoro giocare con le espressioni umane. Quelle degli altri. Scegliere cosa devono provare e disegnarlo sui volti dei passanti. È un bel gioco, è un bel allenamento. Perché di pratica è lastricato il cammino che porta ai capolavori. E io mi alleno per portare a compimento i miei dispari. Inizio dallo stupore, tiro i fili e approfondisco i solchi sulla fronte in incomprensione. Seduto su una grondaia, una morbida civetta di fianco, mi compiaccio del risultato. Sto diventando bravo. È vero, sembra annuire la palletta di piume. Torna a caccia, scansafatiche, hai tre bei pulcini da ingrassare, le dico. Sembrava bello quando questa gente si accorgeva di me. Sembrava bello quando sorridevano a mio padre e a mia madre. Sembrava bello quando sembrava che questo mondo avesse un senso buono, educazione e attenzione. Ma com’ogni cosa che sembra, sembra solo fintanto che sei piccino,
che non guardi, perché ancora non sai farlo, oltre. E allora a me bastava ciò che avevo intorno. Quello strano papà, quella strana mamma e uno strano gatto di nome Perfetto. Andavo a scuola, tornavo a casa, giocavo, facevo i compiti, passeggiavo e guardavo cose con papà e mamma. E di cose non ne mancavano. E oggi, sotto un cielo nero (per favore!) mi piace ricordarlo, sebbene tutte quelle persone, compreso me, siano, ognuna a modo proprio, morte. E mentre penso c’è una bambina di sotto. Sotto queste grondaie secche d’estate. E tiene la mano della madre e la madre parla dei tatuaggi del figlio dell’amica con un’altra amica, ma lei, la bambina, sotto queste grondaie guarda in alto. I bambini vedono, alcuni bambini, oramai pochi bambini vedono. Quei pochi a cui adulti incapaci non hanno ancora insegnato la paura. E ora quella bambina guarda me. E io scuoto la mano fasciata di stoffa zuppa d’inchiostro. Ciao, scimmiotta con la sua manina bianca e pulita. Chi saluti?, le chiede la donna che non è sua madre. L’uomo magro e nero sopra il tetto, le risponde la bambina. Due donne stringono occhi e guardano su per queste grondaie. La donna senza figli parlerà con un’amica della figlia strana di un’altra sua amica, il prima possibile. Non mi interessa ancora farmi ammirare dagli adulti, mi accontento di cominciare a sentir mormorii preoccupati sulle leggende del paese, sull’uomo magro e nero che fa piovere un numero dispari di gocce a cielo sereno. Perché al momento è questo, quello che faccio: far preoccupare le persone. Piano piano, poi, imparerò a fare bene anche il resto. Ah! Il formicolio mi tempesta le gambe. Troppo tempo rannicchiato qui sopra. Passeggerò. Di tetto in tetto finché non mi passa. Allegro. Non si passeggia sui tetti per malinconia. Sia mai. Passeggiare sui tetti come gatti e spazzacamini è una conquista. È una pratica da svolgere in passi come singhiozzi allegri, dal tacco alla punta per una spintarella frizzante, su in
alto e di nuovo tacco e di nuovo punta. E se ci si ferma, ci si fermi sempre dritti e impettiti, per sporgersi di tanto in tanto da tegole basse a salutare un bambino che guarda e vede; ridacchiare dietro le dita perché impari a ridacchiare anche il bambino. E riprendere il rimbalzo su tacco e su punta, sopra la schiena delle case, e le braccia lunghe come pendoli e fischiettare. E la gente può pure scegliere d’esser cieca, degli adulti parlo, ma non sorda. Sentono eccome, e lo sentono accompagnato da tacco e da punta e piano piano la preoccupazione cresce. Ah! È così divertente! Eccomesesì! Altrocheno! E quando il pensiero delle cose che furono mi rattrista, allora disegno un bastone sottile e sulle case passeggio e sulle case fischietto. Come gatti e spazzacamini. E mi torna la voglia, perché so, allora, che nessuno saprà scordare quel numero dispari di capolavori che porteranno il mio nome anche quando il tempo non sarà più il mio. Ma è tempo che dorma. Almeno un pochino. Mio padre dormiva abbracciato a mia madre che dormiva abbracciata a mio padre. Io riposo a testa in giù, appeso alle travi dei tetti delle case abbandonate che nessuno visita più. Perché dentro, dicono, qualcuno fischietta la notte e tutto va bene. Perché dormo a testa in giù? Be’, mettete che qualche coraggioso acchiappa fantasmi o qualche sfortunato al gioco decida o sia costretto a entrarci. Voglio esser scoperto in una postura fica e dignitosa e, dato il colore che indosso, direi che dormire a testa in giù fa proprio fico! Altrocheno!
Capitolo 3
Mio padre dormiva abbracciato a mia madre che dormiva abbracciata a mio padre e tutto andava bene. Io dormivo con Perfetto che aveva oramai imparato quasi tutte le regole della casa. Dormivo con Perfetto che dormiva appallottolato sulla mia testa e, se io mi rigiravo nel sonno, Perfetto cadeva e lo sentivo mugugnare qualcosa in gattese come “cristoboia!”, poi si stiracchiava, risaliva in cima e due minuti di potenti fusa massaggianti dopo eravamo entrambi di nuovo in coma. Nessuno si svegliava prima della mamma, in casa. La colazione della mamma svegliava tutti. E rideva al sentir il trotterellare di passi sulle scale. Nessuno arrivava prima di Perfetto. Ma buongiorno, diceva. E nessuno parlava perché era mattina e non avevamo ancora mangiato. Ma buongiorno/miao, dicevamo solo dopo aver mangiato. E mio padre si lavava e andava a lavoro, ma prima accompagnava me a scuola e mia madre e Perfetto sorridevano sulla porta di casa. E tutto andava bene. Mi sveglio ogni mattina a questo punto. Quel momento in cui tutto andava bene. Perché la cosa migliore la mattina è evitare di svegliarsi arrabbiati. Ci si arrabbia pian pianino poi, durante la giornata. Ma svegliarsi arrabbiati no! Meglio di no. Mette fretta e i capolavori esigono calma e pazienza. Allora una doccia frizzante, un cappuccino, un cornetto...anche tre cornetti alla crema... come? Non siate stupidi! Sapete chi mi ricordate? Quei patetici letteratucoli che dicono del “fantastico” un sottogenere, ma colorano il cielo di blu, blu notte, nelle notti senza luna! Io ho quello che voglio e se voglio una doccia io mi faccio la doccia, e se voglio un cornetto...magari tre cornetti alla crema, io sono quell’inutile passante che ordina al bancone e voi non ne sentite neanche la voce! A casa mia ho imparato che le cose non mancano mai. Mai.
Mio padre era lì e finché tutto andava bene, le cose non mancavano mai, perché quando mancavano mio padre le raccontava alla perfezione e tutto ricominciava ad andare bene. Perché mio padre era come me, anzi io sono come lui, quasi. E prendo allora il mio cornetto, anzi i miei tre cornetti, e pago anche il mio cappuccino e tiro fuori la mia sigaretta, dalla tasca infinita del mio nero cappotto lungo e ho l’accendino, ma chiedo da accendere, perché mi piace girare intorno alla gente. Soprattutto a quelle genti che si vestono di grande intellighenzia e non s’accorgono neanche che io, un accendino, lo ho in mano, perché adorano sentirsi indispensabili, adorano le mancanze degli altri, hanno bisogno delle mancanze degli altri per dare un peso e un senso alla propria stupida, mediocre esistenza. Non ringrazio mai. No. Rido. Perché sono persone che tanto temono le risa, quelle sottili e non ringrazio e rido ai ridicoli che sono e loro pensano alla follia. Che pazzo sono io. E forse è vero. Ma attenti a quando penserete degli altri che son pazzi. Perché nessuno più di un folle, sa come trovare la propria via. È questo che la gente perbene teme, senza ammetterlo, di una risata sottile. Fumo. Fumo la mia sigaretta, sotto il sole di una mattina d’estate, seduto, inutile passante, sul tavolino del bar e aspetto. Aspetto un uomo che risponde al nome di José. José di nome. Belli di cognome. José Belli. E mi chiedo ogni volta che lo pronuncio, piano piano, che nessuna mi senta, perché non Giuseppe? Forse per lo stesso motivo per cui io dormo appeso a testa in giù: fa decisamente più fico. Lui è un tipo. Una via di mezzo di tutto. Tra il grasso e il grosso. Tra l’elegante e il casual. Tra il bruto e il sensibile. Ha imparato a star sulla linea di confine, come tutti di questi tempi. Pronto a saltellar da questa o dall’altra parte a seconda delle esigenze.
Eh, il mondo è diventato complicato. Lo diceva Darwin, no? Il futuro non sarà del più intelligente e neanche del più forte, bensì di chi meglio saprà adattarsi. Ma Darwin ignorava che un giorno sarebbe nato uno come mio nonno, che avrebbe avuto un figlio come mio padre, che avrebbe avuto un figlio come me. Era uno curioso, uno studioso, Darwin. Guardava le cose per imparare altre mille cose. A furia di guardare tutt’altro che uomini, qualcosa gli è sfuggito. Eh già. Agli uomini non interessa o forse si son dimenticati o forse è una cosa che proprio non digeriscono, d’esser gomitolini di informazione genetica. E, dopo tutto, davvero, chi se ne fotte? A me non mi spettina un pelo la direzione evoluzionistica umana. Mi interessa di più giocare con gli uomini, come ci giocherebbe un Dio. E forse non lo sono? Oh sì. Do vita alle cose, io. È quello che faccio. Lo faceva mio padre. Lo faceva mio nonno. Ma io sono più ambizioso e più indispettito di loro. Bene per me. Male per gli altri. Josè Belli esce di casa. Con gli auricolari bianchi infilati nei padiglioni, un grosso schermo in una mano, la solita valigetta sottile nell’altra, una giacca composta, una magliettina verde e la faccia ovale di un alieno stampata in bianco, la ricrescita dei pochi capelli tradisce la rasatura, le braccia son grosse e nervose eppur grossa la pancia, alto, non altissimo, ma alto. Ballonzola nella stessa direzione quasi ogni mattina. Non regolarmente: disegno un nuovo foglio e sul foglio segno data e ora. Le aggiungerò alle altre. E stasera farò lo stesso con data e ora di rientro. Ancora aspetto che si ripeta la sequenza della prima settimana, allora sarà chiuso il giro e saprò prevederlo, per sempre. Perché mi interessa così tanto José Belli? Be’, da qualcuno dovrò pure iniziare a far pratica. José è qualcuno che nessuno piangerà. Solo. Ha un cane, ma non gli fa le fe-
ste quando rientra a casa. Anche Perfetto mi faceva le feste quando tornavo a casa... e Perfetto era un gatto.
Capitolo X 4