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Horror LaPiccolaVolante (2)
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Federica Leonardi I Figli delle Ombre Proprietà Letteraria Riservata. I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, di riproduzione o adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo sono riservati per tutti i Paesi. Finito di stampare nell’ottobre 2017 presso Prontostampa (Fara Gera d’Adda) © 2017 LaPiccolaVolante “Collana Horror LaPiccolaVolante” www.lapiccolavolante.net ISBN 9788897785262 Immagine di copertina e illustrazioni interne: Laura Saddi Grafica di copertina: Emiliano Billai Revisione testo e impaginazione: Michela Meloni
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FEDERICA LEONARDI
I FIGLI DELLE OMBRE
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A Samuele
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1.
Come lumache gonfie di vapore, le nuvole si trascinavano lente sulla città. Seduto a uno dei tavolini esterni del caffè Broca, l’uomo si sistemò gli occhiali, dopo aver pulito le lenti, e fermò il cameriere meccanico che era appena uscito per il routinario giro dei tavoli. Scrisse la sua ordinazione sul blocchetto agganciato al collo dell’automa mentre la macchina rullava su se stessa, in attesa. Quando ebbe finito, abbassò la leva di sblocco e tornò a concentrarsi sulla scacchiera; il cameriere si allontanava sbuffando lanosi anelli di fumo. Stava ai neri muovere. Posò un dito su una delle pedine e, dopo aver valutate le alternative, la fece scivolare verso destra bloccando l’avanzata dell’avversario e si abbandonò contro lo schienale, guardandosi intorno. Giocare da soli non è affatto divertente, pensò con fastidio. L’ombra di un dirigibile passò sul tavolino, fagocitando una dopo l’altra le pedine della dama. Una grande farfalla dalle ali color cenere si fermò sul ramo di una delle betulle del viale e intonò una melodia sommessa, fatta di sibili e vaghi suoni arricciolati. Una sauromantide attraversò in fretta il viale sulle sue zampine di lucertola, evitando per un pelo un velocipede. L’uomo tornò alla scacchiera; si accorse di essere finito in una trappola dei rossi e sorrise, mentre si
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grattava il mento sul quale cresceva un pizzetto più grigio che nero. La porta del caffè cigolò e ne uscì una coppia di giovani fidanzati, portandosi appresso un brusio di voci indaffarate in chiacchiere leggere e il tintinnio di cucchiaini che mescolavano tè e lunghi caffè ribollenti in tazzine di vetro soffiato. Prima che la porta si richiudesse la sauromantide sgattaiolò nel locale. La farfalla volò via. I due fidanzati stettero per un po’ fermi sul marciapiede, assorti a osservare il cielo. Ancora pochi mesi, pensò l’uomo; ancora pochi mesi e i temporali avrebbero imbevuto Vemana costringendo tutti a rintanarsi in casa, in preda a un timore collettivo che strisciava, sottile, sotto le crinoline delle signore e dentro i colletti inamidati dei signori. E per una settimana le passeggiate pomeridiane, le soste ai caffè, le scommesse al Celifodromo sarebbero state desiderate ma non permesse. È tutto molto sbagliato, si disse distendendosi sulla poltroncina, mentre gli amanti si allontanavano e il loro vocio si dissolveva come fumo per la strada. Mosse un rosso senza convinzione. Quel mondo non gli piaceva granché, anche se ormai si era abituato ai suoi ritmi, alla sua realtà. La porta del locale si aprì di nuovo e ne uscì il cameriere, sferragliando. Agganciato a una coppia di pistoni di ottone stava il vassoio con la sua ordinazione: una teiera assediata da quattro tazzine e un’alzata per dolci colma di pasticcini. L’uomo versò nella fessura sulla testa della macchina i pezzi d’argento dovuti e allo scatto del bilancino interno sganciò il vassoio, domandandosi stizzito perché i suoi “uno” venissero sempre scambiati per dei “quattro”. La macchina era già rientrata nel caffè, lasciandolo di nuovo solo. 10
Il tè era nero e bollente, lo addolcì con un cucchiaino di miele. Diede un’altra occhiata alla scacchiera, poi mosse una pedina nera divorandone tre rosse. Erano passati anni dall’ultima volta che aveva giocato a dama con un’altra persona. Dal giorno in cui le cose si erano ingarbugliate e il mondo aveva subito la mutazione, come una bottiglia piena a metà d’acqua e per l’altra di olio che d’improvviso era stata capovolta. Quella era ancora la Terra, ma del tutto diversa dal pianeta sul quale era nato e vissuto. Il tempo e lo spazio erano stati divorati e digeriti dalla creatura che lui e Aloysius Carset avevano risvegliato. Quello era il regno della Tzitzimime d’Ossidiana. Bevve il suo tè e guardò sconsolato le pedine che sembravano soldati sperduti sulla scacchiera. Scosse la testa: davvero non c’era gusto a giocare senza un avversario. Un omnibus a vapore, il cui motore sbuffava cilindrici coni di condensa, sferragliò sulla strada svanendo oltre la curva. Dal lato opposto, un ragazzino in biciclo faceva slalom tra i pedoni e i carretti dei venditori di coccinelle fritte e di zucchero filato; in precario equilibrio sulla spalla aveva una cartella di pelle marrone, dalla quale spuntavano le teste arrotolate dei giornali ancora da consegnare. L’uomo prese un pasticcino dal vassoio e l’addentò, gustando a occhi chiusi la larva racchiusa al suo interno che gli si scioglieva in bocca come crema. Un risciò frenò, fermandosi sul marciapiede antistante il caffè. L’uomo aprì un solo occhio e vide la punta lucida di una scarpa di pelle poggiare sul predellino, seguita dalla staffilata d’argento di un bastone. Finalmente, si disse ingoiando il resto del dolce. Erano mesi che aspettava quell’incontro. 11
Udì il passeggero confabulare col conducente del risciò, poi le ruote cigolarono allontanandosi verso la piazza. Un frammento di silenzio si inserì tra i due, finché il nuovo venuto non lo infranse. «Noah» disse. «Aloysius» rispose lui, fissandolo. Non era cambiato poi molto. Sembrava più giovane, certo; le macchie della pelle e la barba sudicia erano spariti. Ma aveva ancora l’occhio di vetro, e si portava addosso quell’odore persistente di cosa marcita già infinite volte e sempre risorta. Un odore che neanche l’essenza di ginepro riusciva ad addolcire. Si chiese quanti conti in sospeso avesse la Morte con Aloysius Carset. «Allora, è come ti aspettavi?» domandò senza alzarsi. L’altro ci pensò su, poi annuì: «Più o meno.» Noah trattenne una risata e lo invitò a sedersi e a giocare con lui la partita appena interrotta. Carset si accomodò poggiando il bastone sulle gambe. La piccola testa di piccione in argento, che ne formava il pomo, sembrò appuntare su di lui i rubini sfaccettati che aveva per occhi. Aloysius scrutò la scacchiera arricciando il naso un paio di volte mentre Noah versava il tè per entrambi. Un vento caldo e sibilante cominciò a soffiare da est. «D’accordo, sei soddisfatto,» disse porgendo al suo ospite una tazzina fumante, «ma chi di noi due ha vinto?» Era la domanda che voleva rivolgergli da tempo, peraltro sapendo già quale sarebbe stata la risposta. L’altro portò la tazzina alle labbra e vi scrutò dentro, come se stesse fissando le profondità di un abisso sconosciuto. L’agitò e poche gocce scure caddero sul tavolino. 12
«Per qualche tempo ho pensato che fossi morto» borbottò. Noah scosse la testa. «E dunque, se io sono vivo, chi ha vinto?» Aloysius sbuffò e bevve il suo tè, trovandolo troppo dolce. Posò la tazzina con una smorfia. «Entrambi» rispose secco. «Che è come dire: nessuno.» Carset non replicò e si concentrò sulla partita. Mosse una rossa, mettendo il suo avversario davanti a un bivio: scegliere tra il sacrificio di due pedine o la nascita di una dama nemica. «Comunque, non sono venuto qui per questo» aggiunse, mentre osservava con soddisfazione la scacchiera. «Il libro, Noah. Il De Vermiis Transfigurationis, che fine ha fatto?» Noah lo fissò, la pedina nera ancora in mano. «Perché, non ce l’hai tu?» «No.» «E allora, mi spiace dirlo, ma proprio non lo so. L’ultima volta che l’ho visto era tra le braccia del Tiktaal.» Restarono per un po’ in silenzio, fissandosi senza dire altro. Entrambi riflettevano sulle implicazioni di quella scomparsa. La porta del caffè si aprì con violenza e tre uomini giovani e ubriachi vennero spinti sul marciapiede dal proprietario del locale. Una donna con un cucciolo di manticora legato a una catenella d’ottone si affrettò ad attraversare sull’altro lato della strada. Il proprietario del caffè aveva un paio di grossi baffi a manubrio e una calvizie che il riporto rendeva più accentuata. L’uomo attese che i giovani si fossero allontanati prima di rientrare, rivolgendo a Noah un cenno di saluto. «Dobbiamo ritrovarlo» sibilò Aloysius a denti stretti. Noah annuì, ormai del tutto disinteressato 13
alla partita: «Hai idea...» «Scusate se mi intrometto, messieurs» tintinnò una voce alle loro spalle, interrompendolo. I due uomini si voltarono, incrociando gli occhi verdi e penetranti di una ragazza che sedeva al tavolo vicino, le mani intrecciate su un bustino di rame, a rete da pesca, illuminato da grappoli di smeraldi grandi come uova d’insetto. La giovane chinò la testa e stirò le labbra in un sorriso, rivelando una nidiata di denti perfetti. Sotto il cappellino alcune ciocche dei capelli castani ricadevano in morbidi riccioli sulle spalle. Noah notò che al mutare della luce che sfiorava i boccoli questi assumevano riflessi che andavano dal rosso fiamma al turchese. Senza attendere un invito, la ragazza si spostò al loro tavolo e afferrò la teiera, versandosi una dose generosa di tè. «Un così bel musetto non dovrebbe avere maggior timore degli sconosciuti?» le domandò Aloysius quando si fu servita il terzo dolce. «Oh,» rispose lei agitando la mano, le dita sporche di miele, «au contraire: per mia esperienza i musetti più carini sono anche quelli che hanno le zanne più affilate. Prenda i gatti» disse, e tacque godendosi la reazione dei due uomini. «Mais oui, messieurs: so cosa sono i gatti, anche se in questo mondo non ce n’è più neanche uno. O almeno, non nella forma consueta. Posso?» e, senza attendere risposta, afferrò una chiocciola caramellata. Il ciondolo che pendeva sul seno generoso della ragazza attirò l’attenzione di Noah: era un ovale di cristallo, al cui interno vibrava un piccolo oggetto color sangue. La giovane si portò la mano all’altezza del collo, sfiorando appena il pendente e puntando addosso a Noah gli occhi color bosco. «Mais oui, questo» cinguettò orgogliosa, «è un cuore di pet14
tirosso. Non trovate che sia grazioso?» «È un oggetto importante» commentò Aloysius e la ragazza lo zittì con un cenno della mano. «Non stavo parlando con voi, monsieur» asserì piccata, servendosi una seconda tazza di tè e il quarto pasticcino. «Alors, dicevamo», si interruppe per pulire con la punta del tovagliolino le labbra, «Si dà il caso che la qui presente sappia benissimo che questo è un mondo diverso, diversissimo, da quello che c’era prima. E che, inoltre, sappia perfettamente dove si trovi il Libro che state cercando.» Carset e Noah la fissarono, poi il primo proruppe in una risata sarcastica. «I mondi cambiano» sibilò, «Ma le donne sono sempre le stesse stupide bugiarde» disse agitando il bastone. Fece per alzarsi, ma le gambe gli cedettero all’improvviso e si accasciò sulla poltroncina piegandosi in due, dilaniato da un dolore acuto che sembrava avere origine dal cervello e gli impediva persino di gridare, percorrendone ogni singolo nervo e muscolo e osso. La ragazza lo fissava dall’alto in basso, divertita. «Non sta bene dire certe cose, monsieur» disse in tono di allegro rimprovero e inclinò di poco la testa, aspettando un suo cenno. Solo quando Carset ebbe, a fatica, mormorato un “d’accordo” a denti stretti il dolore cessò, lasciandolo stremato e ammutolito a boccheggiare sulla poltrona. Il cameriere meccanico passò tra i tavoli deserti e rientrò nel caffè. Oltre le nuvole, spinte dal vento sempre più intenso, il sole arrancava verso la linea dell’orizzonte. Una mongolfiera si librò sulle loro teste e scomparve. «Alors, sentite e state in silenzio. Vi stavo parlando del Libro. Dovete sapere che io e il mio padrone abbiamo già avuto un bel po’ di rogne per un altro libro e, anche se non è stata colpa mia ma lui non 15
riconoscerà mai di aver sbagliato, quella volta per punizione mi toccò stare quasi un secolo con le labbra sigillate. Sapete cosa vuol dire?» sospirò. «Il tuo...» Noah, che fino ad allora era rimasto in silenzio, tentò di inserirsi nel discorso ma la ragazza sollevò la mano in un gesto fermo. «È per questo che non mi piace essere interrotta mentre sto parlando. Bon, si dà il caso che la vostra ultima scommessa abbia stravolto completamente i piani del mio padrone. Ve ne sarete accorti anche voi che c’è qualcosa che non va in questo mondo, no? E lui detesta, davvero, è una cosa che lo fa infuriare, quando qualcuno caga sul suo tavolo da gioco preferito. Se capite cosa voglio dire.» In quel momento un serpente alato aggrovigliato su un palo del telegrafo gracchiò rilasciando il suo guano sulla scacchiera e se ne volò via, sbattendo le ali gialle e arancio. «Il tuo padrone...» riprese Carset, fissando gli schizzi di merda sulle pedine. La ragazza si leccò le labbra. «Il tuo padrone è...» proseguì Noah. Lei alzò entrambe le mani, i palmi rivolti all’infuori. «Piano, piano, messieurs. Io direi che non c’è proprio bisogno di nominarlo in questo momento. Tanto sappiamo tutti e tre di chi sto parlando.» Annuirono entrambi. La gente per strada cominciava ad affrettarsi. Il venditore di zucchero filato spingeva già il carretto lungo il viale. Le ombre iniziavano ad allungarsi. Una mosca cavallina grande quanto un dito si lanciò giù da un ramo, intrufolandosi nel colletto alto di un uomo appena uscito dal caffè. «Oh, poverino» commentò la ragazza con l’aria di chi non provava alcun dispiacere. «Se sai dov’è, perché non lo hai già preso tu, il Li16
bro?» le chiese Noah. Lei stava sistemando le tazzine sul vassoio attorno alla teiera ormai vuota. «Sapete benissimo perché. E visto che voi l’avete perduto, e che lui va matto per i giochi...» li fissò. All’interno delle limpide iridi della ragazza, Noah notò che si agitavano filamenti sottili e impalpabili come minuscoli, mostruosi parassiti. «Il mio padrone vi propone un patto. Una scommessa, se preferite. Chi tra voi due riuscirà per primo a consegnargli il Libro avrà la vita salva. Ovviamente quello tornerà a lui, visto il bel casino che avete combinato. Ah,» aggiunse, «e dovrete portargli una donna.» «Una donna?» chiese Noah. «Che donna?» borbottò Carset. «Suvvia, messieurs: in storie del genere c’entra sempre una donna. Questa è di un tipo... molto interessante. Anche se lei non lo sa.» Stava per alzarsi, ma c’era ancora qualcosa che Noah voleva sapere. «Cosa... cosa succederà se falliremo?» Lei lo osservò, scandalizzata dalla banalità della domanda. «Quello che succede ai perdenti. Il vostro errore, messieurs» disse mentre agganciava il vassoio sul cameriere meccanico, «è stato evocare la Tzitzimime d’Ossidiana. Una mossa davvero poco ponderata». Annuì a se stessa, mentre osservava l’automa allontanarsi. Ora il tavolo era sgombro. Restavano solo la scacchiera sporca di guano e qualche briciola sparsa. Lontano si udì il fischio di una chiatta che passava sul fiume. I lampionai, muniti di scale, avevano iniziato il loro turno. La ragazza parlò ancora. «Vi aiuterò, due volte ciascuno. Ma per il resto dovrete fare da soli. Siete molto adulti, no? Direi che sarebbe anche il caso 17
di darci un limite di tempo, non credete?». Estrasse da una tasca del vestito un orologio a cipolla in argento punteggiato da piccoli rubini. Quando il coperchio scattò, risuonò per qualche secondo una curiosa, ipnotica melodia. «Uhm, sì. Direi che, per dare alla sfida un gusto retrò, ottanta giorni siano un tempo sufficiente.» In quel momento la campana della Teda suonò cinque rintocchi. «Perfetto. L’appuntamento è qui, entro le cinque dell’ottantesimo giorno. Chi mi porterà Libro e ragazza sarà salvato» ridacchiò mentre tendeva loro la mano. Gliela strinsero entrambi, suggellando il patto. Gli occhi della ragazza scintillarono come specchi mentre il lampione accanto al tavolino veniva acceso. A Noah parve che il cuore microscopico contenuto nel ciondolo si fosse gonfiato e contratto nel tempo di un respiro. «Bene, messieurs», si spazzolò la gonna e ravvivò l’ammasso di pizzi che le sporgeva sul sedere. «Il primo consiglio è gratis: vi suggerisco di fare un giro alla Biblioteca dell’Università. Là troverete una vecchia amica che vi darà una mano.» Noah ribatté: «Avevi detto che tu...» «Oh certo: io so dov’è il Libro. Ma non ho mai detto che l’avrei rivelato. Altrimenti che gusto c’è a scommettere?» rise. La sua risata era franca, sgorgava dalle labbra come un fiume di acqua ghiacciata. Noah e Carset rabbrividirono. C’era, nascosta in quella donna, una crudeltà che le formicolava sotto la pelle e le faceva brillare gli occhi. Carset si accorse che non aveva rivelato loro il suo nome. «Come faremo a trovarti?» «A me piace la musica» rispose, e fischiò il motivetto suonato prima dall’orologio. Come in risposta a quel richiamo, una carrozza comparve dal nulla e si fermò accanto al marciapiede. Era trainata da 18
due grosse blatte color ardesia alle quali erano state tagliate le ali perché non fuggissero. Il conducente scese e l’aiutò a salire nella cabina. La notte stava montando dalle strade. Il parco era di nuovo territorio dell’ombra. Molte porte erano già state sprangate. Il caffè si stava svuotando. Anche Noah e Carset avrebbero dovuto rincasare prima del buio. Lei si affacciò al finestrino: «Ottanta giorni, mi raccomando». Strizzò l’occhio e li salutò con la piccola mano mentre la carrozza si allontanava nel tramestio delle blatte, dileguandosi nel crepuscolo.
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2.
Quella mattina presto Noah attraversò il ponte delle Anofele, diretto all’Università. Sotto i suoi piedi, il Tenebra gorgogliava. L’aria era pervasa da goccioline di condensa che gli offuscavano le lenti degli occhiali, costringendolo a fare piccole soste per ripulirle. Un operaio in velocipede lo sfiorò e lo superò, proseguendo la sua corsa oltre un complesso di palazzi che sembravano sporgersi sul fiume. Non erano molti i passanti a quell’ora: qualche prostituta, i primi venditori ambulanti, operai e operaie diretti al lavoro. Solo chi per necessità era costretto ad abbandonare presto la sicurezza della casa, ad aprire piano le imposte quando il sole faceva appena capolino da est e le ombre ancora allungavano le dita a forma di lancia dagli angoli più nascosti. Quasi tutti gli abitanti di Vemana disponevano di armi, per tentare di opporre una minima difesa in caso di attacco durante le ore grigie. Ma nessuna di quelle armi – torce a gas o costose pistole con proiettili accecanti – era più di un placebo contro la paura. Per essere davvero sicuri bisognava attendere che il sole fosse alto. Che la luce risplendesse ovunque sulla città. Noah sistemò gli occhiali e superò l’ultima statua che faceva da guardia al ponte. Camminando fissava il selciato, le piccole immondizie che si raccoglievano negli interstizi tra una pietra e l’altra. Continuava a pensare al giorno prima: all’incontro con Carset e all’intrusione della ragazza. Il De
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Vermiis Transfigurationis perduto, finito in chissà quali mani. La scommessa. Un nuovo gioco, con una posta che mai avrebbe sognato di puntare. La morte. La morte eterna. Quella che, nel linguaggio dei Giocatori, era continuo supplizio fino a soddisfazione della controparte. Quando le blatte avevano portato via la ragazza, lui e Aloysius avevano scambiato poche, sparute battute. Poi ciascuno era andato per la sua strada. Quella scommessa li aveva messi l’uno contro l’altro e non ci sarebbe stato spazio per accordi, non questa volta. Il termine era chiaro: solo uno si sarebbe salvato. Poche ore prima, mentre la carrozza lo riportava alla villa, Noah aveva riflettuto su quanto fosse impari quel gioco: Aloysius era più vecchio, più potente. Aveva avuto accesso a un sapere che a lui era sempre stato precluso. Tutto ciò che sapeva, tutta la sua educazione, consisteva in nozioni pratiche, ed erano conoscenze deboli e manchevoli se rapportate a quelle del suo avversario. Scosse la testa e svoltò in un viottolo laterale stuprato dalla luce di una dozzina di lampioncini a gas che bruciavano ancora, mentre l’alba arrossava le nubi che coprivano Vemana. Stavolta le cose erano ben più complicate. Uno sciame di grillorospi si riversò in un canale di scolo. Ne schiacciò un paio sotto le suole senza accorgersene. Camminava per strade che conosceva a stento, seguendo una mappa costituita da ragnatele d’intuito. Finì per imboccare un quartiere muto. Case basse e spoglie mostravano scuri sigillati sui quali crescevano schiumose lingue di muffa. Aveva fatto pochi passi quando un calesse a vapore che veniva nella direzione opposta quasi lo investì, sbarrandogli la strada e costringendolo a fermarsi. Dalla macchina si levava un quieto borbottio e il 22
conducente si scusò per la sua manovra, togliendosi un brutto berretto di lana di ragno. Noah annuì in silenzio. Aveva con sé pochi pezzi d’argento, ma non era l’eventualità di una rapina a preoccuparlo, quanto il sospetto che sotto gli occhialoni da pilota potesse esserci l’occhio indagatore di una Lucerna. Non era raro che accadesse: pattuglie solitarie alla ricerca di incauti cittadini rei di crimini di poco conto. L’unico crimine di Noah era ben celato al chiuso della sua villa, ma nessun segreto restava tale a lungo a Vemana. «Ebbene? Cosa volete?» domandò spazientito poiché il ragazzo tergiversava. Tormentando il cappello e guardandosi spesso alle spalle, il giovane lo scongiurò di non passare in quel quartiere. «Qui non ci abita più nessuno, sapete?» sussurrò, come se fosse stato costretto a rivelare un segreto osceno. Noah si strinse nelle spalle e lo guardò meglio: aveva una giacca lisa di pelle di lombrico, e sulla fiancata del suo calesse era riportato il nome di una impresa di produzione di combustibili organici. Doveva essere uno dei tanti operai che battevano gli allevamenti a ovest di Vemana per raccogliere i prodotti di scarto degli afidi e delle altre creature che scorrazzavano nei terrari. Una volta raffinati e solidificati, quei rifiuti sarebbero stati venduti come pasticche combustibili per la casa e le carrozze. «Farai tardi al lavoro, ragazzo. E anch’io...» disse, cercando di proseguire. Ma quello non lo stava ascoltando e continuava a fissare le case vuote e chiuse alle sue spalle. «Io non ci passo quasi mai,» mormorò scuotendo la testa, come se l’aver appena attraversato il quartiere fosse stata un’azione da incoscienti, «ma a volte le pompe ci mettono tempo a travasare gli scarti. E questa è la strada più breve per la raffineria. Però, 23
ecco, se la Teda decidesse l’abbattimento di quei palazzi sarei più sollevato» lo fissò, sembrava stanco e inquieto. «Farò del mio meglio per restare vivo» lo rassicurò Noah. Il ragazzo annuì e rimise il berretto. Rinfocolò il fuoco nella caldaia e, dopo averlo osservato un’ultima volta, si allontanò tra volute di fumo caliginoso. Rimasto solo, Noah si sfilò gli occhiali per pulirli ancora e avanzò, contemplando gli edifici che sembravano incombere su di lui. Davano l’impressione di gusci di chiocciola svuotati; come se, una notte, una mano fosse passata strappando via, uno ad uno, ogni abitante dal suo letto. Si avvertiva l’assenza oltre le imposte. Lì, nonostante le schermature, nonostante la prigionia che gli inquilini avevano accolto come regola di vita e sicurezza, le Ombre erano riuscite a penetrare. Forse avevano sfruttato un passaggio: una persiana socchiusa; uno spazzacamino maldestro che aveva sbagliato la sistemazione della rete a spirale in una canna fumaria o la rottura del sigillo traforato posto su uno dei comignoli. Era bastata una dimenticanza, un po’ d’incuria. E una volta entrate, non dovevano aver avuto difficoltà a spostarsi di appartamento in appartamento, colonizzando un palazzo alla volta. Si strinse nelle spalle mentre superava gli edifici inerti: proprio per evitare problemi simili, oltre a occuparsi personalmente della manutenzione del camino, aveva da tempo fatto murare le finestre della villa. E per questo motivo aveva già dovuto cambiare il personale di servizio cinque volte. Ciononostante, il buio in casa restava. Si affrettò, mentre il rintocco dei suoi passi sulla strada solitaria sembrava seguirlo come uno sconosciuto curioso. 24
Evitò una bicicletta arrugginita accasciata contro una porta e finalmente superò il quartiere sbucando in Piazza delle Falene, il più antico crocevia di Vemana, il luogo in cui, parecchi anni prima, in un tempo e una memoria che ormai non esistevano più, sorgeva il vecchio Palazzo Whateley. Lì, tra quelle mura, un piccolo uomo, suo remoto parente, aveva dato l’avvio alla dissoluzione della realtà nutrendo e risvegliando una delle creature che attendevano nel buio. Il Tiktaal. E lui e Aloysius lo avevano aiutato, senza farsi notare. Si fermò per pulire ancora gli occhiali e cercò nelle facciate dei palazzi che costeggiavano la piazza i frammenti di ciò che era stato. L’ultimo retaggio dei Whateley. C’era stato Tiktaal, come ora c’era la Tzitzimime d’Ossidiana e prima ancora Cthulhu e tanti altri i cui nomi si perdevano nei libri dati alle fiamme. Ma, oltre queste creature, altre più potenti e incorporee esistevano e nuotavano tra gli infiniti piani dell’esistenza. Gli Osservatori Silenziosi. Prìncipi dell’indifferenza e del voyeurismo. A metà strada tra questi e i Grandi Antichi stavano i Giocatori. Entità che partecipavano attivamente agli esperimenti degli Osservatori e muovevano uomini e oggetti a loro piacimento, spostando continenti, causando nascite e morti di imperi e profeti. Attorno a questi tre ordini di entità si stendeva il grande Vuoto, la somma delle inesistenze. Un antiuniverso che tratteneva il respiro. Non era Morte. Non era Vita. Era Assenza. Ai Giocatori, Noah e Aloysius avevano provato ad assomigliare quando avevano evocato la Tzitzimime d’Ossidiana. E per quell’unica imprudenza avrebbero pagato. Già erano stati ridotti a pedine di una scacchiera bianca, parte di una scommessa i 25
cui esiti non sarebbero stati in grado di controllare, a meno di non imbrogliare. Si riscosse: era tempo di rimettersi in cammino. Anche la città si stava scuotendo come una bestia appena risvegliata. Attorno a Noah si accavallarono nuovi rumori: scuri che venivano spalancati, lo sfrigolio delle coccinelle nell’olio bollente, le voci dei bambini che inseguivano gli omnibus. Prese a destra, lanciando occhiate disinteressate alle persone che uscivano di casa, ai negozi che si rianimavano, alle fiammelle dei lampioni che si spegnevano. Non partecipava a quel senso di sollievo che sembrava percorrerli perché un’altra notte era passata, ed erano ancora tutti vivi. Uscì dall’ennesimo vicolo e la vide; arrampicata su una tondeggiante cunetta erbosa, le colonne del porticato arrossate dal sole, l’Università di Vemana lo stava aspettando.
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