Fuori di 3 (Preview)

Page 1


PiccolaOppieriaVolante (2)

Pamela Gotti Fuori di 3 Proprietà Letteraria Riservata. I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, di riproduzione o adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo sono riservati per tutti i Paesi. Versione Elettronica © 2015 Associazione Culturale LaPiccolaVolante “Collana PiccolaOppieriaVolante” www.lapiccolavolante.net Immagine di copertina e illustrazioni interne: Emiliano Billai Impaginazione e grafica interna: Michela Meloni Revisione testo: Cristiana Melis, Michela Meloni


PAMELA GOTTI

Fuori di 3

un’avventura psichica



(L’ANTEFATTO)


Primo è il mio nome. Sono destrorso e vivo nell’emisfero sinistro. Parìmeno è mancino, si occupa dell’altro emisfero. La convivenza con lui è piacevole e costruttiva. Poi c’è Carnia. Oh, è una simpatica ragazza, ma non sa stare al suo posto, né trovare un suo posto. Non dovrebbe essere qui; la legge degli inquilini ci impedisce di abitare un corpo di sesso diverso dal nostro, e non ha tutti i torti. In tre stiamo scomodi, stretti. Ma se scoprissero che Carnia è qui sarebbe un male per tutti. Il corpo che abitiamo, gli altri lo chiamano Serbero ma noi sappiamo che non è il suo nome vero. Di notte ognuno di noi, a turno, si fa un sonnellino e lui crede di interrompere il suo incessante flusso di pensieri autolesivi e altalenanti, quando invece è solo la coscienza che diventa un lento e tranquillo monologo. Carnia in genere tace, ma continua a tingersi le unghie sopra le nostre teste e a farsi degli “incantevoli viaggetti” in lungo e in largo dentro il corpo ciccione di Serbero. Poi torna e ci racconta del punto di vista dei piedi e delle mani, quando è evidente che non ce ne può fregare di meno. Siamo noi che


ci occupiamo di tutte le necessità e i bisogni e non intendiamo sentire le ragioni di questo o di quello. Sì, siamo dispotici e intolleranti. È vero. Se mai qualcuno credesse che il proprio cervello sia al comando della sua volontà, ebbene, dovrebbe proprio dare un’occhiata ai propri pensieri! Ma a noi piace che il nostro caro Serbero continui a pensare che sia lui a pensare. Così possiamo fare quello che ci va. Del resto, è già dura metterci d’accordo tra di noi. No, non fraintendiamo. Io e Parìmeno siamo fratelli, siamo nati insieme e sappiamo di esistere l’uno grazie alla presenza dell’altro. Ogni tanto sfottiamo qualche organo e altre volte mandiamo Carnia in qualche zona dello stomaco, dell’intestino o della pelvi, per procurare emozioni e passatempo a Serbero, così per un po’ se ne sta buono. Ci facciamo delle grasse risate insieme e discutiamo volentieri di arte e filosofia alle spalle del nostro incolto ospite. Eppure non è mica facile condividere questa scatoletta cranica con uno come mio fratello, che crede ancora alle favole, declama di continuo rime baciate e fantastica di orsi polari che escono dai petali di un fiore. Insomma, mio fratello è un pazzo furioso. Se lo lasciassi solo, per Serbero sarebbe la fine. Di certo non glielo vado a dire, ma mi domando quando la finirà di postulare amenità e collaborerà per mantenere un po’ di ordine qua dentro. Per colpa sua ieri per poco non ci investiva un autobus. Quel sognatore ha diretto lo sguardo su un cartellone pubblicitario che diceva “Immagina. Puoi” e ha iniziato la sua solita conferenza sul potere del pensiero divergente e della fantasia. Alla fine, a furia di ripetergli di stare zitto, mi sono distratto anch’io.


Se andiamo avanti così, finirà che ci lasciamo la pelle tutti quanti. Serbero in un momento di disattenzione qualsiasi potrebbe scoprire il nostro segreto e magari raccontarlo al primo che passa e… tac... dovremmo chiudere baracca e burattini. Per non parlare del rischio che corriamo con Carnia! Serbero è un maschio. Carnia è femmina. Carnia non può stare dentro Serbero. È un ovvio sillogismo. La logica non fa una grinza e non è un’opinione. Ma evidentemente quando c’è stata la programmazione iniziale di quest’uomo, qualcosa deve essere andato storto e ora ci tocca tenerla dentro la scatola insieme a noi. Dobbiamo sorbirci le sue polemiche da suffragetta a difesa delle parti del corpo oppresse. Dobbiamo sentire il puzzo di lacca mentre si cotona i capelli. E ci tocca pure ascoltare i suoi piagnistei senza senso quando ha le paturnie. Ora, per esempio, è appena rientrata da una scampagnata all’interno dei polmoni e sta tentando di convincere Serbero a smettere di fumare (“Ora gliela faccio vedere io. Devo fargli capire che è a un passo dal rimanerci secco”). E così, da più di mezzora, sta bombardando i suoi recettori adrenalinici e il poveretto si è trovato costretto a infilarsi le scarpe da corsa e ad andare a scaricare il nervosismo facendo jogging. Ha un fiatone tale che quassù arriva solo anidride carbonica. Mi sembra di essere in una camera a gas. Parìmeno si è messo a meditare per rilassarsi, diffondendo una musichetta zen in tutto l’abitacolo. Rimango solo io a conservare la lucidità. O quasi. A dire il vero la mancanza di ossigeno mi sta stordendo. Non posso assopirmi. No, non posso lasciare tutto in mano a questi due estremisti irresponsabili. Non posso. Non se ne parla!


Io sono un tipo tranquillo. O per lo meno così dice chi mi conosce. Non mi è mai piaciuto correre rischi inutili o sovvertire il senso comune delle cose. Amo la mia poltrona e quel leggero strato di polvere che si forma sugli oggetti sopra ai mobili. Oggi, però, mi sento un po’ irrequieto. Le cose corrono veloci. L’acqua della doccia, il passo della vicina del piano di sopra, il battito del mio cuore... Pure il caffè sembra essere uscito prima del solito dal beccuccio della moka. Ho già fumato due sigarette ma non sono servite a niente. Tutto continua ad andare di fretta. Mi verso il caffè e non riesco a centrare la tazzina. Mi tremano le mani. Era da tanto che non mi accadeva. Forse dai tempi della scuola, durante le interrogazioni di inglese o quando tentavo di parlare con Beltane, la ragazzina con i capelli rossi e il naso puntato verso il cielo. Quant’era bella! Ma ora non c’è nessun motivo per cui dovrei sentirmi così agitato. È una giornata come le altre. Sono le sette e tra un’oretta entrerò nel mio taxi. Scorrazzerò in giro vecchiette danarose e professionisti in giacca e cravatta. Farò scorrere il tassametro fino all’ultimo secondo e intascherò quel tanto che mi basta per vivere dignitosamente. E io non sono uno dalle grandi pretese.


Eppure oggi sento il sangue pulsare in tempi da record. Non posso andare a lavorare in questo stato. Devo darmi una calmata. Magari potrei farmi una corsetta. Ho sentito dire che fare jogging rilassa e fa diminuire lo stress della vita quotidiana. Sì, una mezz’oretta di sano movimento fisico riuscirà sicuramente a calmarmi. Infilo la tuta e le scarpe da ginnastica ed esco. Ah, mi ci voleva proprio! Il parco a quest’ora è uno splendore. Non sembra neanche di essere nel bel mezzo di una grande città. Gli uccellini cinguettano, l’acqua delle fontanelle zampilla fresca e allegra, le ragazze corrono come me sui sentieri in mezzo alle aiuole e mi lanciano sorrisi ammiccanti. Ho avuto una grande idea! Dovrei farlo più spesso. Devo ammettere che, se fossi più allenato, adesso non avrei il fiatone. Forse dovrei smettere di fumare. Sarebbe già un bel passo avanti. Lo diceva sempre anche Sabrina, la mia ex moglie. Ma lei non ha più voce in capitolo ormai. Da quando non stiamo più insieme faccio quello che mi pare! Mangio patatine sul divano e sbriciolo quanto mi va, mi nutro di surgelati scaldati al microonde e di fagioli in scatola e prendo l’ascensore anche se sto al primo piano. E dedico alla mia antica consorte ciascuna delle innumerevoli insane abitudini che svolgo diligentemente ogni giorno. Non saprà mai che ho iniziato a fare jogging. Non le darò questa soddisfazione. Un passo alla volta, procedo lungo la pista. Non è poi così difficile. Le ragazze dai sorrisi ammiccanti hanno già fatto tutto il giro del sentiero e mi stanno doppiando. Ridono. E mi pare di sentire la parola “vecchietto”. Vecchio a chi? Ho compiuto da poco quarant’anni! Sento anche un rapido scambio di


battute su di me. «Uno dovrebbe rendersi conto che non è il caso di improvvisare!» «Bisogna andare per gradi, dopo una certa età. Si dovrebbe iniziare con una camminata a passo costante e veloce.» «E mettersi a dieta, prima di tutto!». Non sono un tipo permaloso, ma non mi è mai piaciuto essere deriso. In particolare dalle donne. Beltane una volta l’ha fatto e... Ma non mi va di pensarci, ora. Meglio se impiego le mie energie per raggiungere quelle ragazzine maleducate. Assaggeranno il sapore amaro della sconfitta. Il ritmo sussultorio delle loro scarpe da ginnastica prosegue monocorde e senza pause, fino a una grande curva. Poi sparisce sempre più lontano. Allungo il passo e sollevo con forza le ginocchia. Ancora una curva e le ho raggiunte. E chissenefrega se il cuore va veloce come un treno e sembra voglia uscire dal petto. A dire il vero sento anche un leggero fastidio alla tempia sinistra. Come una fitta... Di fermarsi non se ne parla! Io le devo raggiungere. Ancora pochi passi e vedranno chi è il vecchietto! Finalmente intravedo le loro tute fluorescenti. Però... i colori mi sembrano leggermente più opachi di prima. Forse non sono loro. Mi sembra che tutto sia un po’ meno brillante. Anzi, direi che il mondo all’improvviso è diventato viola. Non saprei dire che succede. Sento le ginocchia che sbattono giù, contro il terreno ghiaioso e poi arriva anche il petto in un tonfo secco. Credo che non raggiungerò le ragazze. Mi fermo qua.


Oh, finalmente! Primo si è addormentato, era ora. Serbero è svenuto e ora è disteso sull’erba del parco. Non mi sembra grave. Onde cerebrali lente e rilassate. Bene. Stavolta Carnia ne ha combinata una giusta. Proietto nella parte visiva interna una carrellata di immagini oniriche piacevoli. Ricordi d’infanzia, giochi di luce, abbracci e sorrisi. Se mi andrà, a un certo punto, lo sveglierò. Più tardi. Intanto mi faccio una canna. Tutto sommato qui si sta benino. Amo mio fratello. Io e lui insieme siamo una bomba! Primo organizza, tiene i conti, dà gli ordini e regola la parte sinistra certamente meglio e con più rigore di quanto io riesca a fare con quella destra. In compenso io tengo alto il tono delle conversazioni e so scrivere splendidi sonetti. Carnia stravede per me. Lo so. Ma mi piace tenerla sulle spine. Al momento non ho tempo per le storie d’amore. Ho altro a cui pensare. Primo e io siamo i custodi di un insospettabile segreto e ne abbiamo tutta la responsabilità. Serbero non deve assolutamente scoprirlo. Se lo venisse a sapere perderemmo senz’altro la supremazia su questo corpo e lui si riprenderebbe la sua identità. Ma è meglio che non mi soffermi troppo a pensarci. Qui


dentro anche i muri hanno orecchie. Letteralmente. Cos’è questo suono molesto? Ero giusto riuscito a rilassarmi un po’, dopo tutto il casino che ha combinato Carnia. Sembra la sirena di un’ambulanza. Oddio, non starà venendo qui per noi? Sì. È evidente. Serbero è ancora svenuto sul prato e si è formato un capannello di gente tutto attorno. Forse è il caso di svegliare Primo. Lui è sicuramente in grado di gestire meglio la situazione. Provo ad attivare una rete neuronale che passi attraverso il corpo calloso. Ma c’è qualcosa che non va. Le sinapsi si spengono non appena passano dall’altra parte. Non era mai successo. «Primo!!! Svegliati!». Niente da fare. Sta cominciando a salirmi un po’ di preoccupazione. «Carnia, dove sei? Che cazzo hai combinato? Qui Primo non si sveglia più!». Carnia gira come una vespa impazzita a destra e a sinistra della scatola cranica. «Non è colpa mia, Parìmeno» ma mentre lo dice le trema la voce e assume un colorito violaceo. «Non pensavo che Primo fosse così sensibile alla carenza di ossigeno. Vado a vedere come sta il cuore». Sì sì, ogni scusa è buona per non affrontare il problema. Intanto sono arrivati i barellieri e ci stanno portando sull’ambulanza. È finita! Ora scopriranno tutto. E come se non bastasse mio fratello ha deciso di restare in stand-by. Sono costretto a fare tutto da solo. Faccio muovere la gamba e la palpebra sinistra. Sembra incredibile ma questa operazione mi ha stancato così tanto, che non riesco a fare altro. Sento l’infermiere dire: «Si sta riprendendo» e il medico


a fianco replicare: «Sono solo riflessi. È in stato di coma soporoso». Stato di coma soporoso? Che significa? E io che ci sto a fare qui? Non vede che sono sveglio e vigile? Be’, vigile vigile magari non proprio. Nell’ultima mezzora non è che ci ho capito un granché. E poi adesso c’è pure questa specie di interferenza in radiodiffusione che mi sta facendo uscire di testa. È un suono sordo che arriva da chissà dove, un boato muto. È una sorta di vuoto che mi attanaglia i pensieri e rallenta i movimenti. Devo fare qualcosa. Sento che sto perdendo del tutto il controllo della situazione. «Carnia! Dove ti sei cacciata?» cerco di urlare, ma esce solo un suono flebile. Mi sento molle e privo di forze. Cado sulle ginocchia e la testa mi crolla sul mento. «Ca...r...ni...a...».


È un posto pieno di ovatta. Ovatta negli occhi, ovatta nelle orecchie. Non ho capito bene come ci sono finito. Forse sono scivolato in un campo di cotone. Sì, deve essere così. Sento persino dei canti gospel in lontananza. La vita a volte riserva grandi sorprese! Chi si sarebbe mai aspettato di ritrovarsi in Alabama in piena estate? Il sole è accecante. Toglie il fiato. E a pensarci bene non sto affatto respirando. Sono in apnea. Eppure non annaspo... Ah, certo. Non ne ho bisogno. Ho il cordone ombelicale attaccato alla pancia. Ora è chiaro dove sono. In un utero caldo caldo, a galleggiare mollemente. La mia mamma canta una canzone ripetitiva. Una nenia dolcissima che mi culla nella placenta. Sono tra le sue braccia, ora. Morbide e premurose. Scure come la terra rossa delle praterie. E poi ci sono io con i miei piedini scalzi, corro su quella terra. Le mie mani cercano di afferrare farfalle e la mamma da lontano mi chiama, ma non capisco quello che dice. Non riconosco nemmeno il mio nome. A fianco a me c’è un ruscello e la sua acqua increspata. Pesco un luccio con la mia piccola canna. Si contorce sul terreno e riflette colori cangianti dalle scaglie argentate. Intorno tutti applaudono la mia abilità di pescatore.


Sono un bambino dalle gambe scattanti, ho gli occhi acuti. Mio padre non mi guarda nemmeno e mia madre continua a dire che non è colpa di nessuno. Che il destino ha voluto così. Gli altri bambini della tribù giocano a rincorrersi e io li guardo da lontano. Pensano che non sia come loro e mi tengono a distanza. La sciamana del villaggio mi porta con sé nel bosco e mi indica le piante e i loro usi. Mi guarda con gli occhi orgogliosi e mi accarezza la testa con le mani rugose. Sono accanto a un serpente. Lo acchiappo per la coda e lo faccio oscillare. La sciamana annuisce soddisfatta, ne raccoglie il veleno in un vaso con un filo d’erba e la deposita sul mio petto, al centro, proprio all’altezza del cuore. E poi è notte e c’è il fuoco e tutti intorno ballano. Io rimango a fissare la fiamma e ascolto le voci, i tamburi e le fiabe della sciamana. Mi guarda negli occhi e vedo uno strano luccichio. Una lacrima, forse. O un cattivo presentimento. E infatti, poco dopo, un orribile rumore arriva dal cielo. Tutto diventa grigio e i lampi di luce squarciano le nubi. Un fulmine cade dritto sulla mia testa. Vuoto assoluto. Fine delle trasmissioni.


Bene. Ecco fatto. Li ho stesi tutti e due. Non è stato poi così difficile come credevo. Hanno avuto quello che si meritavano. Insopportabili omuncoli dispotici! A dire il vero, mi dispiace un po’ per Parìmeno. È proprio un bel tipo, con quel suo fascino da incantatore di serpenti. Ma ho cercato più volte di fargli capire il mio punto di vista e non c’è stato verso di convincerlo. Serbero ha diritto di sapere. Non ho mai sopportato le ingiustizie! Quel poveretto continuava a vagare nel mondo senza sapere chi sia veramente. L’avevano convinto di chiamarsi Serbero e di essere un tranquillo ometto senza troppe passioni e ambizioni. Gli mettevano in testa delle grosse baggianate sulla vita e sulle cose. Ad esempio che tutto sia come sembra. E lui è arrivato a compiere quarant’anni senza averci capito un fico secco. Ci voleva un bello scossone. Oh sì! Tra poco saprà di essere un po’ più che un semplice uomo. Tadewi. Questo è il nome che gli impose sua madre. Tadewi, che significa Respiro. «Destinato a orizzonti lontani» disse la levatrice vedendo le voglie rosse e simmetriche sopra ai punti più sporgenti delle sue scapole. Il padre lo guardò come chi guarda un estraneo e disse che ci avrebbero pensato le Stelle.


E invece ci pensarono Primo e Parìmeno, accorsi in tutta fretta dalle profondità del limbo eterico, dove stavano in attesa di quel momento già da un bel po’. Io non feci altro che seguirli; entrai nella scatola cranica insieme a loro, attraverso la pellicina sottile della fontanella, all’apice della testa. Mi piazzai subito nella zona più profonda dell’encefalo e mi costruii la mia cuccia sopra all’epifisi. Quando i due fratelli mi videro sbraitarono per un po’ dicendo che era contro la legge degli inquilini, che non avrei dovuto essere lì, che ci doveva essere stato un errore, che non andava bene che fossi una donna (be’ più o meno una donna) e altri strilli e strepiti di tal fatta. Ma poi ci hanno fatto l’abitudine a vedermi gironzolare in lungo e in largo e a quei due faceva pure comodo, che fossi io a tenere i contatti con il resto del corpo. Mica volevano sporcarsi le mani, loro. Tanto fecero e tanto disfecero che i genitori naturali sparirono dalla circolazione, per eventi che io stessa ho difficoltà a ricostruire. Fatto sta che, all’età di cinque anni e qualche mese, Tadewi si ritrovò in mezzo a una grigia città di provincia alla stazione degli autobus, tutto solo. Lo trovò una coppia di brave persone ma dalla mentalità un po’ ristretta, a dire il vero. Il bimbo disse loro di chiamarsi Serbero e quelli lo accolsero nella loro casetta come fosse il loro unico e tanto atteso figliolo. Ancora mi chiedo come abbiano fatto Primo e Parìmeno a fargli credere di chiamarsi così. Serbero significa in media ed è proprio in questo modo che sono passati gli anni fino a ora. Adesso la mente di Tadewi è in fase di pulizia inte-


grale e, quando si sveglierà da questo stato di estremo torpore, si ricorderà di nuovo tutto quanto. Per la precisione, sarò io a svegliarlo. Riattiverò le strutture sottocorticali e darò una scossettina alle pulsazioni cardiache. Non per vantarmi, ma in queste cose non mi batte nessuno. Sono veloce come una lucertola e in un batter d’occhio sistemerò tutto quanto. Tadewi ricomincerà a respirare per conto proprio. I medici staccheranno le macchine. Poi si vedrà. Intanto, per sicurezza, fisso per bene le manette intorno ai polsi di Primo e Parìmeno e li sistemo all’ingresso del colon retto. Meglio andare sul sicuro.


www.lapiccolavolante.net

facebook.com/LaPiccolaVolante

@PiccolaVolante


L’attesa

Pamela Gotti

Anno: 2013 Formato: 12,5x21 cm Pagine: 182 Collana: Un’ora d’aria Genere: Narrativa ISBN: 9788897785057 Penelope aspetta ogni notte che Lui arrivi e la liberi dalla sua prigione. Dal Padiglione A della clinica in cui è relegata e da cui ogni notte sogna di fuggire. Nel frattempo, vive e racconta. Inventa delle storie avventurose, ironiche, nostalgiche e vivide per Martina, la ragazzina che non vuole parlare. Oppure elabora ingegnosi piani di fuga con Eligio, il vecchietto del Padiglione C che ha girato il mondo per i suoi studi d’etologia. Delle volte si immerge a Valencia con Lola, la donna che ha perso il suo vero volto, nei ricordi del Passato Migliore ricco di passione e risate. E poi ci sono quella ficcanaso di Olga, Damiano con la sua sciarpa calcata sul naso, Ettore e la sua mamma Mangusta... L’attesa è un romanzo a cornice, in cui le storie dei personaggi e i racconti fantastici di Penelope convivono e si fondono in un’unica trama. Per dar vita a un ordito prezioso, microcosmo in cui si muovono tutte le vite che le pagine riescono, per un poco, a illuminare. Pamela Gotti è nata a Trieste nel 1978. Fin da piccola passava ore a leggere storie di tutti i generi, con una particolare predilezione per Alice nel Paese delle Meraviglie, che avrà letto almeno una decina di volte prima dei diciotto anni. Nel frattempo ha studiato da maestra, si è laureata in psicologia e ora insegna in una scuola elementare, portando avanti l’intento di trasmettere l’amore per la lettura e per le belle storie ai suoi bambini. Una forma di deformazione professionale la porta ad osservare con cura le relazioni che intercorrono tra le persone e le piace molto provare a “camminare nei mocassini altrui” per capirne i punti di vista. Anche da questo deriva l’attenzione per i personaggi sia mentre legge, sia mentre scrive. Appassionata di cinema, di arte e di viaggi, non può evitare di inserire nei suoi racconti le immagini che le si sono impresse negli occhi nel suo girovagare fisico o mentale. L’incontro con LaPiccolaVolante e con i suoi laboratori letterari, ha messo in gioco la sua voglia di raccontare. E ora non sarà facile farla smettere.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.