e-book version
Horror LaPiccolaVolante (1)
Federica Leonardi Il Signor W. Proprietà Letteraria Riservata. I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, di riproduzione o adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo sono riservati per tutti i Paesi. © 2015 Associazione Culturale LaPiccolaVolante “Collana Horror LaPiccolaVolante” www.lapiccolavolante.net Versione Elettronica ISBN 9788897785118
Immagine di copertina: Laura Saddi grafica copertina: Emiliano Billai Revisione testo e impaginazione: Michela Meloni
FEDERICA LEONARDI
il signor w.
a
11322 giorni prima
Il vecchio tese la mano spostando il calice di vino annacquato verso il centro del tavolo, accanto al volume antico. L’altro fissava il fondo asciutto del suo bicchiere, si grattò l’occhio. Il giovane sorseggiava il suo liquore: un distillato denso e scuro come la lingua di un cadavere. Le labbra sottili piegate all’insù. «Non è affare mio» disse il primo vecchio. Aveva bevuto pochissimo vino. Meno di un sorso. La fretta di andarsene si mischiava al desiderio di restare in una lotta che sembrava lacerarlo dall’interno. Scrutò il ragazzo. La pelle troppo liscia, tesa. I movimenti rigidi. Oltre gli occhiali che nascondevano metà della faccia stavano acquattati occhi che non avrebbe mai voluto si posassero nei suoi. «Questi sono i termini dell’accordo» disse il secondo vecchio. Fece scorrere l’occhio di vetro fra le dita nodose. «Vogliamo che sia tu a occuparti del libro» aggiunse. Il ragazzo depose il calice sul bordo del tavolo con un gesto macchinoso. Incrociò gambe e mani. «Ci serve un terzo, estraneo alla scommessa. Una specie di notaio... un giudice» sussurrò. Il secondo vecchio annuì. Si umettò le labbra mentre l’orbita vuota inghiottiva di nuovo la protesi oculare. «Sei l’unico che possa farlo... in nome dei vecchi tempi.» Il primo vecchio si sporse sul libro. La pelle della copertina era consunta e striata. Cicatrici la percorrevano come segni di frusta. Il titolo era in rilievo, composto da un mosaico chitinoso di pezzetti iridati. Ne sfiorò il dorso. Per un istante qualcosa sembrò afferrargli la mano. «E poi mi lascerete in pace?» Il secondo vecchio e il giovane si scambiarono un’occhiata.
Il primo vecchio ne aveva abbastanza di quella complicità artefatta. Si voltò a osservare l’edificio di mattoni rossi che portava il nome della sua famiglia. Di un ramo bastardo e dannatamente poco interessante della sua famiglia. Tornò ad osservare il giovane e l’altro vecchio. Sì, li avrebbe aiutati. Come aveva aiutato suo nipote a fare cose ben peggiori, in nome della sete di potere e conoscenza. Non poteva fare altrimenti. La risposta che attendeva arrivò poco dopo. «Sì» sussurrò il giovane. «Sì» suggellò il vecchio. «Poi ti lasceremo in pace, Noah. Hai la mia parola.»
I L’INQUILINO DEL QUARTO PIANO
“Non si deve pensare che l’uomo sia stato il primo o che sarà l’ultimo dei padroni della Terra. Quelli-di-Prima erano, Quelli-di-Prima sono, Quelli-di-Prima saranno. Oggi non sono negli spazi che conosciamo, ma tra gli spazi. […] Essi attendono possenti e pazienti poiché qui essi torneranno a regnare ” H. P. Lovecraft, L’Orrore di Dunwich
1
Appollaiata sulla punta di una scarpa da ginnastica, una grossa mosca, nera e rossa, si frega le zampette setolose a pochi centimetri dal suo viso. Ronza via, un istante prima che la scarpa si muova per accavallarsi con l’altra. Segue il volo ubriaco dell’animale e respira adagio, mentre si rialza. Un respiro attutito, silenzioso. In silenzio raccoglie la ventiquattrore dal pavimento lurido e si spazzola i pantaloni. Stoffa a brandelli gli sfrega la carne esposta del ginocchio. Perfetto, pensa, un altro completo da buttare. Ha smesso di tenere il conto dei pantaloni rovinati, da quando ha iniziato a lavorare per la Xolotl & Co., da quando ha iniziato a prendere quel treno. Una media di un paio di pantaloni ogni due giorni. Per dodici anni. La porta automatica gli si chiude alle spalle con uno sbuffo. Si guarda attorno e finisce negli occhi di una donna grassa, insaccata in una poltroncina minuscola. Una borsa floscia le sta accucciata sulle gambe obese, strette l’una contro l’altra. La bocca piccola, socchiusa ad “O”, è sbavata da un rossetto troppo lucido, troppo rosso. Un rivolo di fastidio gli cola lungo la schiena. Detesta, da sempre, la gente che lo fissa senza un motivo preciso: lo fa sentire una specie di strano animale. Ma è un odio vigliacco il suo, un odio che se ne resta nascosto sotto la pelle, al riparo dalle reazioni di chi vorrebbe aggredire. Sbatte contro il palo della cabina di collegamento
mentre il treno esce dalla stazione. Per poco non cade di nuovo. Dà le spalle alla donna e si sposta verso la coda del treno, inciampando ad ogni passo. La camicia incollata sotto le ascelle. È l’ora di punta del rientro, i vagoni sono affollati da pendolari stanchi e dalle loro stanche borse e nessuna delle due categorie si offre di cedergli un posto. Perché non ti sei seduto accanto a quella riproduzione malfatta di un Botero? (Non mi piaceva il suo rossetto.) Si spinge in avanti, un vagone dopo l’altro, sgusciando tra schiene sudate e pance adipose, tra ventiquattrore usurate e fasci di carta affilata, barcollando ad ogni sussulto del treno, zoppicando. Il cervello che proietta in un loop idiota l’incontro di quel pomeriggio con il direttore generale. Tre giorni. Tra tre giorni compirò trent’anni, pensa, tra tre giorni potrei perdere il lavoro. La patina di sangue rappreso sulle ginocchia si apre ad ogni passo. Si richiude e si riapre come la bocca di un pesce in agonia. Le parole del direttore generale lo inseguono monotone. Le porte a battente gli sbarrano il passo, gli frustano le spalle, occhi lo squadrano, piedi cercano di farlo cadere. Ma sono gli odori a inquietarlo. Pieni, aspri, rivoltanti. Un miscuglio di effluvi grevi e pesanti: anidride carbonica, rifiuti, polvere, roba che marcisce, sudore. Gli si avventano contro, lo soffocano. Accelera il passo, sbatte sempre contro la stessa porta, entra sempre nello stesso vagone, incrocia sempre gli stessi volti. Allenta il nodo della cravatta, chiede scusa e permesso. E le porte gli danno addosso, in faccia, sulla schiena e il caldo lo scioglie ad ogni passo e il direttore generale continua a ripetere:
Tre giorni, ricorda. Ancora un vagone. Ancora una porta. L’ultima che può attraversare. Si ferma. È l’unica cosa che può fare: fermarsi o tornare indietro. (Sono in trappola.) Non c’è nulla a separare la carrozza dai servizi e l’aria è impregnata dai miasmi di feci macerate nelle urine di centinaia di passeggeri. Ma almeno può sedersi. Scrolla le spalle, rassegnato. Nella cabina ci sono cinque passeggeri in tutto: una coppia di anziani semisepolti da un universo di valigie, accompagnati da un gatto isterico rinchiuso in un trasportino; alla sua destra, una ragazza dai capelli turchesi; alla sinistra, una donna, un bambino e dozzine di fogli di quaderno scarabocchiati sparsi su poltroncine e pavimento. Il resto della carrozza è un ossario di scheletri di poltrona spolpati da orde di vandali; molti mostrano resti di gommapiuma che penzolano come pezzi di carne da uno schienale o da un bracciolo. Due i posti liberi: uno di fronte alla ragazza, l’altro su una poltroncina lercia, al lato del gabinetto. Il primo viene occupato in una frazione di secondo dagli scarponi della ragazza, che stende le gambe quando intercetta il suo sguardo. Quel movimento fa scuotere le farfalle che le coprono quasi per intero la coscia sinistra, scomparendo oltre l’orlo della minigonna plissettata. Un tatuaggio che resta a fissare finché lei lo richiama, mimando con mani e labbra un “cazzo vuoi”. Si scuote, sospira e bofonchiando una scusa si sposta verso l’unica poltrona ancora libera. Sfila la giacca e l’appende con cura allo schienale, tenta di abbassare il finestrino, che però è bloccato. Siede sfinito e un nugolo di polvere si solleva dal sedile; la pelle del ginocchio, ancora acerba, torna a lacerarsi e il sangue riprende a sgorgare. Il pantalone, a poco a
poco, si inzuppa. Quest’ottobre caldo, troppo caldo, rende tutto più difficile, stancante. Ogni minimo movimento trasforma i vestiti in carta moschicida. L’aria è densa, asfissiante. Il cuore pulsa piano. La mente arranca. Desidera poche cose, in questo momento. Desideri semplici, elementari: dormire, dimenticare. Annullare la memoria delle ultime otto ore, dell’ennesima pessima giornata. Le pulsazioni si fanno lente, si dilata la distanza tra una contrazione del cuore e l’altra. Il respiro si fa pesante. …tre giorni… Il profilo dell’uomo addormentato si riflette sul finestrino. L’immagine si sovrappone alle sagome sfocate e tremolanti dei palazzi di edilizia popolare che sembrano inseguire la ferrovia. Strutture di cemento relegate ai margini estremi della città come tante bestie selvagge cui qualcuno, di tanto in tanto, getta gli scarti del macello. Con la punta delle dita, la ragazza sfiora il tatuaggio che le decora la coscia sinistra. Si passa la mano sui capelli amputati. Sorride. Il treno imbocca la galleria. Le luci nella carrozza si accendono con uno sfrigolio.
2
Vieni (Dove?) Vieni devi imparare (No, ti prego. NO.) Ti mostrerò come fare Le mani sono lunghe, tanto bianche da risplendere nell’oscurità che le circonda; dita scheletriche che forano la superficie dell’ombra, squarciano il buio. Lo cercano. Cercano lui Devi imparare le sente sfiorargli la pelle, graffiargli la faccia. Corre. Vieni (vattene! Vattene!) È un corridoio lungo, infinito, come le mani che lo inseguono e non gli danno tregua (Quelle dita) E quel rumore che fanno, quando gli graffiano la schiena e gli stracciano la pelle cercando di afferrarlo (come spilli che...) Vieni. Devi vedere Corre e ansima e inciampa. Cade, si rialza. Il cuore gli schizza in gola, fiaccole zuppe di catrame gli bruciano nel torace. Ma le dita continuano a cercarlo; vermi ciechi che sentono la sua paura, il suo dolore. E lo spingono in avanti. Sempre più avanti,
finché lui non capisce e quando capisce è troppo tardi per Cosa volevi fare? fuggire. Codardo È lì, in fondo al corridoio. La voce ride alle sue spalle. Crolla a terra, sconfitto. Rassegnato. Vieni Le dita lo sfiorano, le mani gli afferrano i polsi, si serrano attorno al suo braccio, fredde più del metallo, lo trascinano verso la fine del corridoio gli affondano nella carne. Lo spingono verso la porta rossa. Vieni. Imparerai (Sì) Gli ha resistito abbastanza. E adesso è tempo di Vedere imparare. Sente il cuore esplodergli nel petto come una grossa vescica gonfia di sangue e il sangue lo riempie, lo annega. Spegne il fuoco che gli divora il torace. È così piacevole. Così seducente accettare la sconfitta; soffocare nel buio e nel sangue. Arrendersi all’impotenza. Vieni Deve (Sì) andare. (non c’è salvezza) Vieni La porta rossa è di fronte a lui ora e lucida è la vernice. Labbra dischiuse di una bocca pronta ad ingoiarlo. Vieni (sarà come deve essere) Ti insegnerò tutto
Allunga la mano verso la maniglia La porta si schiude. La bocca si apre.
3
Non c’è stacco tra sogno e risveglio; non c’è mai stato. L’incubo sempre uguale e diverso fa parte della sua vita da quando ha memoria. A volte ne ricorda interi frammenti, a volte nulla. Ora ha solo una sensazione sgradevole, come se qualcosa fosse risalita dal diaframma lungo la gola. I polmoni bruciano. La bocca è amara, impastata. (Ho gridato?) L’ansia affonda le sottili zampe di ragno nella carne, trovando rifugio accanto al cuore. (Dio, fa che non abbia gridato.) Solleva piano le palpebre, giusto uno spiraglio, quel poco che basta a far entrare la luce. E le ombre. Per un po’ non vede altro che cose sfocate; cose che sembrano immerse in una nebbia lattescente; cose che si allungano su di lui. Tiene gli occhi bassi, intimorito dall’eventualità che un sogno troppo agitato possa aver attirato l’attenzione su di lui. Si stropiccia le labbra e un’ombra di muco rosato gli sporca i polpastrelli. Sospira e si mette alla ricerca di un fazzoletto, qualcosa con cui ripulirsi, anche solo un pezzo di carta finito per caso in una tasca. Ed è allora che si accorge della forma che gli sta davanti, proprio di fronte. Una bocca corrucciata, tagliata in due da uno sbaffo di pennarello verde; un ciuffo di capelli castani con una piccola vertigine e un paio di occhi grigi, lucidi chiodi che si fissano sulla sua faccia. In una mano un pennarello, nell’altra un foglio di carta che gronda inchiostro. Impiega qualche secondo per ricomporre tutti i pezzi
in una sola figura. E qualcun altro per sorridere; un riflesso automatico e involontario, un sorriso inacidito dal disagio, che il bambino non ricambia. «Dario, lascia stare il signore: non hai visto che dormiva? Chiedi scusa e torna qui.» L’ordine poco convinto è sussurrato da una donna, la madre del piccolo pittore. L’unico altro passeggero ad essere ben sveglio, oltre loro due. Perfino il gatto nel trasportino russa assieme ai suoi padroni. La donna siede sulla punta del sedile; il volto è un ovale circondato da una massa di capelli che le ricadono sulle spalle attorcigliandosi come tralci di vite. Ha gli stessi occhi grigi di suo figlio, ma i suoi sono chiodi spuntati. Il bambino fa un gesto e continua a fissarlo, il musetto storto in una smorfia. Agita il foglio di quaderno slabbrato. «Allora?» domanda. Dai finestrini arriva il rumore crudo del metallo che sfrega contro altro metallo. La puzza di plastica bruciata, di freni troppo vecchi, di rotaie usurate e olio grasso si riversa ad ondate nella carrozza. Alcune delle luci del vagone sfarfallano. «Scusi, sa: i bambini», la frase le trema tra le labbra. Entrambi si sforzano di sorridere. «Non si preoccupi» risponde, mentre recupera con due dita la giacca che è scivolata dal poggiatesta. Un fischio del treno rimbomba nel vagone. Il pietrisco schizza ovunque come grandine. «Dario, torna a sedere che il controllore passa e ti porta in prigione.» «Tanto non è vero! E poi non mi ha ancora detto se gli piace il mio disegno.» Un po’ di chiarore inizia a illuminare la galleria. Deve andare in bagno ma l’idea di mettere piede in quella fogna semovente è sufficiente a provocargli un conato di vomito. Si morde il labbro. Manca poco. Pochissimo. …tre giorni…
È quel pensiero che lo spinge a tendere la mano al piccolo pittore. Il bisogno di svuotare la mente dal resto. E, anche, il desiderio che il bambino se ne vada, lasciandolo in pace. «Vediamo un po’...» È difficile definirlo un bel disegno. È difficile anche solo definirlo un disegno. Dà piuttosto l’impressione che la scatola di colori sia esplosa sul foglio, sparpagliando le tinte in schizzi casuali, che vagamente ricordano schizzi di sangue. Una figura nera, allungata, ostile spicca al centro di quell’esplosione insensata di robe colorate, spicca. Un’ombra dalle braccia lunghissime, e lunghe mani dalle dita ad artiglio come… come… (Come spilli d’acciaio) Il foglio è bombato, saturo di nero, zuppo di inchiostro. In prossimità della testa della figura la carta si è lacerata due volte in fori dai bordi slabbrati. Occhi che lo fissano, mentre le piccole macchie di colore sfuggono senza speranza da quella massa scura. È un disegno orribile, nel complesso. Ma non si può mentire ai bambini. «È… è molto bello»¸ dice, restituendoglielo. «Ti piace… davvero?» «Ma certo.» Lo vede strizzare le palpebre, tanto da lasciare un solo piccolo spiraglio da cui brillano quegli occhi da lupo. Il petto gli si gonfia, così la pancia. E, infine, arriva il grido. Un unico, secco colpo di gola. «Bugiardo!» I due vecchi si risvegliano simultaneamente. La ragazza sfila gli auricolari. Gli occhi di tutti lo trapassano. «Dario chiedi scusa!» «No! È un bugiardo!» «Ma no, ti giuro che è un bel disegno.» «Se ti piace così tanto allora te lo regalo, a me fa schifo», sibila lanciandogli addosso il foglio prima di ri-
fugiarsi tra le braccia di sua madre. Piccolo bastardo… (Se potessi, adesso…) Che cosa faresti? Cosa? Non fa nulla, si limita a contemplare quel foglio di carta cercando di ignorare gli sguardi degli altri, dei vecchi, del gatto, della ragazza col tatuaggio, della madre del bambino, di Dario. (Se la smettessero di fissarmi potrei…) Potresti… cosa? Devo andarmene, pensa. Adesso. Subito. Se solo la smettessero di fissarmi sarebbe tutto più semplice. (Io… non ho fatto nulla… ho solo…) Oh, sei solo uno strano uomo sudato, con il labbro sporco di sangue e moccio, con il pantalone strappato, il ginocchio sbucciato e la camicia sporca di caffè. Un uomo che ha appena fatto gridare un bambino così piccolo, così grazioso. Strano uomo, strano uomo, strano uomo… Afferra il foglio, anche se la mano trema e trema tutto il braccio. Lo accartoccia, lentamente. Sente ogni singolo tendine della mano tirarsi, i muscoli farsi duri, pesanti, rabbiosi. Ormai ti hanno visto, sanno chi sei. Uno strano, strano, STRANO uomo… Lo raggiunge, lontana come un’eco, la voce della donna che tenta di scusarsi. Preferisce ignorarla, mentre stringe ancora di più il foglio di carta nel pugno, fino a farlo scomparire nel palmo, fino a sentire le unghie scavargli la pelle. Allora si alza, barcollando. Prende la giacca e la ventiquattrore, a testa china percorre la breve strada verso la porta a battente. Impiega qualche secondo per capire come uscire dal vagone. Ancora in fuga, eh? Come sempre… come sempre… vigliacco. Respira, anche se respirare gli costa una fatica immen-
sa. Per distrarsi ripete mentalmente lo schema del rientro: stazione, spesa, casa, doccia, cena, sonno, risveglio. Manca poco, ormai. Giusto qualche metro di rotaia. La pensilina è ingombra di pendolari in attesa che quasi lo travolgono, mentre tenta di scendere dal treno. Si prende gomitate e qualche spinta e una quantità indefinita di insulti. Accoglie ogni cosa con la passività che gli è abituale. Se non reagisce, se si rannicchia nell’ombra, nel fondo di un vagone ferroviario, nella zona più infelice e sporca e disgraziata, sa che passerà inosservato. Nessuno si accorgerà di lui. A fatica, con molta fatica, finalmente riesce a scendere dal treno e, con un ultimo e lungo respiro, si incammina verso l’uscita della stazione. Quando il treno riparte, il disegno accartocciato oscilla un po’, nello spazio sporco tra i due sedili.
I - l’inquilino del quarto piano
p. 8
II - cose che cambiano
p. 72
III - la notte delle falene
p. 191
IV - il verme conquistatore
p. 290
epilogo
p. 387
www.lapiccolavolante.net
facebook.com/LaPiccolaVolante
@PiccolaVolante
Grazie per aver letto un libro LaPiccolaVolante!