COLLANA UN’ORA D’ARIA LAPICCOLAVOLANTE (1)
Pamela Gotti L’attesa Proprietà Letteraria Riservata. I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, di riproduzione o adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo sono riservati per tutti i Paesi. Finito di stampare nel 2013 presso Prontostampa (Fara Gera d’Adda) © 2013 Associazione Culturale LaPiccolaVolante “Collana Un’Ora d’Aria” www.lapiccolavolante.net Versione Elettronica Illustrazione di copertina: Emiliano Billai Grafica di copertina: Emiliano Billai Impaginazione e grafica interna: Michela Meloni
PAMELA GOTTI
L’ATTESA
Penelope Nessuno saprà mai il mio segreto. Nemmeno la mia vicina di letto, in questa stanza bianca di candeggio. Del resto è mezza cieca e mezza sorda, come potrebbe accorgersene? L’infermiera ci ha appena distribuito la nostra brodaglia serale, accompagnata dalla solita mela cotta e da quattro grissini. Che mangiata mi farei se solo potessi... Anche questa notte mi terrò pronta, silenziosa come un gatto, sotto alle lenzuola. Tutto il giorno sono rimasta tranquilla, pronta ad accogliere le terapie quotidiane, una dopo l’altra, con pazienza. Solo agli occhi distratti delle infermiere sono una povera malata inerme che attende il giorno del rilascio, della dimissione da questi corridoi tutti uguali, diritti e perpendicolari. In realtà, io aspetto la notte, ogni giorno, per tutto il giorno. E nascondo le pastigliette sotto alla lingua, per poi gettarle nel water quando rimango sola. Di notte esco dal mio camice legato dietro e prendo la sottoveste di seta che tengo nel cassetto, accanto alla busta con lo spazzolino e il dentifricio. La faccio uscire lieve dal suo sacchetto e la infilo. Poi aspetto che arrivi Lui. Oggi invece è arrivato Eligio, il vecchietto del Padiglione C. “Cara mia, davvero non capisco che cosa tu ci faccia ancora in queste condizioni. Sveglia! È ora di partire, non vedi che ore sono?”. Mi trascina con forza verso la finestra, butta una corda e fa per calarsi giù. “Allora, vieni?” mi chiede da sotto il davanzale. “Beh, ci devo pensare, sai, sto aspettando Lui”. Eligio non mi ascolta, mi prende la mano e mi
spinge verso il cortile. In un lampo siamo fuori, per strada, ed Eligio corre e corre. Resto indietro quel tanto che basta perché il vecchietto si dimentichi di me e perché io possa tornare nella mia stanza ad aspettare. Chissà dove se ne andrà, adesso. Questa mattina, in cortile, mi aveva detto: “Passo a prenderti stanotte. Fatti trovare pronta. Ti porto via di qua, cara. Dobbiamo correre veloci. Magari riusciamo ad arrivare alla stazione o all’aeroporto e il destino deciderà per noi. Vedrai, in capo al mondo ti porterò”. La notte non è ancora finita. Arriva Martina. È una ragazzina di dodici, tredici anni al massimo. Porta sempre con sé la locomotiva di un vecchio trenino elettrico e un sacchetto di caramelle alla menta. In genere si sistema ai piedi del letto e aspetta che le racconti qualcosa, magari una vecchia fiaba o una barzelletta oscena. Poi, quale che sia l’argomento del racconto, quando ho finito si mette a piangere e urlare, così che le infermiere accorrono e la riportano nella sua stanza. Ma non può venire da me ogni notte, rischio di essere scoperta; arriverebbero di corsa e vedrebbero che Lo sto aspettando, nella mia sottoveste di seta. Chiamerebbero anche il medico di guardia e scoprirebbero i miei trucchetti... capirebbero che li sto imbrogliando tutti quanti. E la mia attesa verrebbe interrotta. “Torna domani. Ho sonno, non posso raccontarti nulla, adesso”. Vedo le sue guance diventare rosse e poi violette, le labbra iniziano a tremare, gli occhi diventano acqua e subito mi butto su di lei, le tappo la bocca e le blocco le braccia dietro alla schiena. Le sussurro una filastrocca dentro ad un orecchio e la sospingo lentamente verso la sua stanza. Arriviamo davanti alla porta e la filastrocca finisce. La lascio lì. Ci mette un po’ ad accorgersi che me ne sono andata e quando inizia a piangere e a strillare io sono già sotto alle lenzuola. Sento accorrere le infermiere di
turno che la scaraventano sul letto e la tengono ferma mentre si dimena. Dopo un po’ torna il silenzio. Posso ricominciare ad aspettare. Niente più visite per questa sera. Chiuso il discorso. Sento un rumore in fondo al corridoio. Sono i Suoi passi. Ne sono sicura. Riconosco lo strascicare lieve del piede sinistro. Dopo l’incidente è rimasto un po’ zoppo. Immaginavo non potesse essere rimasto come prima. Lo schianto è stato troppo forte. Esce dalla stanzina del dottore. Chissà cosa ci faceva lì dentro. Si avvicina al letto. È Lui. Finalmente è arrivato. Sono anni che Lo aspetto. Dal giorno dell’incidente. I suoi occhi entrano sotto alle lenzuola e frugano per arrivare al braccio. Mi inserisce un ago in vena e mi addormento. Mi sveglio alle otto e mezza. Il sole è già entrato nella stanza. La mia vicina di letto si è alzata e mi guarda appoggiata al comodino. “Ti sei svegliata, eh? Stanotte non mi hai lasciato dormire da quanto ti agitavi, vecchia matta! È dovuto venire il dottore a sedarti. Chissà che hai in quella testa...”. Mi sistemo il camice e mi alzo per andare in bagno. Stanotte verrà, lo so. Stanotte verrà.
CAPITOLO 1 Le giornate non finiscono mai. Forse perché fanno fatica a iniziare. Mi inserisco nel corteo funebre che porta alla sala da pranzo. La mattina porta a tutti quanti una certa presenza, difficile da trovare in altri momenti della giornata. Ettore mi spintona, come al solito. Ha sempre fame e fa di tutto per essere il primo a ricevere il latte con i biscotti. Oggi però non ho voglia di lasciarlo passare e allungo leggermente il piede, proprio nel momento in cui mi sta per superare. Il tonfo del suo pancione contro il pavimento è piuttosto rumoroso e tutte le facce sono rivolte verso di lui, che annaspa come stesse annegando in mare aperto. Io nel frattempo mi spingo rapida verso il banco della colazione e mi servo il caffellatte. Non mi interessa particolarmente socializzare con gli altri, qui dentro. In fondo si tratta solo di aspettare un altro po’. Mi guardo attorno. Vorrei proprio parlare con Martina. L’unica che ne valga la pena. Ricordo di averla trattata un po’ male questa notte e vorrei farmi perdonare. Del resto, la sua memoria non dura più del canto delle cicale. Probabilmente ora non ci pensa già più. Non la vedo in sala. Intanto inzuppo qualche biscotto nella tazza e approfitto per guardare gli altri. Alcuni parlano tra loro, altri non hanno bisogno di interlocutori e discutono animatamente con qualche personaggio rinchiuso dentro al cervello. Già di prima mattina. Chissà che avranno da dirsi là dentro. Ho finito di mangiare. Martina non è ancora arrivata. Mi sembra proprio il caso di andarla a cercare. Arrivo alla porta della sua camera e vedo che dorme placida nel suo lettino. Forse è meglio ripassare più tardi. Me ne vado nel giardinetto della clinica. Non è altro che un quadrato di cemento circondato da tre alberi
rachitici. Un’aiuola al centro. Un paio di panchine. Non mi dispiace. Mi siedo e mi metto a leggere il libro che tengo sempre nella tasca della vestaglia. Racconta di un uomo che parte per un lungo viaggio, alla ricerca di qualcosa. Chissà di che cosa. Ma in fondo non conta più di tanto. Ciò che conta è starmene qui ad aspettare e a far passare il giorno. Ed ecco apparire Eligio, come ogni mattina prima delle pastigliette. Credevo fosse in Australia oramai. “Bella, sono di ritorno solo per te. Come avrei potuto lasciarti qui? Ora penso ad un nuovo piano per scappare. Quella di ieri sera è stata solo una prova. Devo raffinare i dettagli. Ad esempio l’uscita dal cancello. Ma tu devi farti trovare pronta, tesoro mio”. Si siede accanto a me e comincia a raccontarmi il suo piano. Questa volta si tratta di scendere in cucina, nascondersi nel sottoscala dove tengono i barilotti d’olio d’oliva e i detersivi (“Tanto di notte mica entrano lì dentro”), e non fiatare fino all’alba quando arriva il camioncino del pane e del latte. Mentre i fattorini fanno lo scarico, noi ci infiliamo veloci nel sedile posteriore e ci buttiamo sopra una coperta (“quella la porto io, tu non ti devi preoccupare di niente, zucchero”). Ed eccoci fuori, finalmente (“Io e te, liberi di vagare nel mondo come due zingari felici”). Lo guardo negli occhi e lo ascolto attenta. Non mi va di ferirlo, ma glielo devo dire un’altra volta, non posso farne a meno: “Eligio, io sto aspettando che Lui venga a prendermi. Se vengo via con te, poi come fa a trovarmi?”. Si alza di scatto e se ne va dopo avermi detto: ”Siamo intesi, dunque? L’ora ics per la fuga è dopodomani, giorno dodici del quinto mese, alle tre antimeridiane. Portati solo l’essenziale e mettiti vestiti comodi”. Se ne va verso il suo padiglione, quello perpendicolare al mio e un’infermiera lo accoglie sulla porta, prima
di mettersi a suonare il fischietto. Ogni giorno la stessa musica, per due volte, mattina e sera. Dieci fischi corti e ritmati. Così, tutti quanti accorriamo a farci dare la nostra pilloletta della felicità. All’inizio la prendevo anch’io. E davvero mi sentivo più felice. Stavo ore in giardino a guardare le formiche camminare una dietro l’altra con chili di briciole sulla schiena e mi sembrava di entrare nel formicaio insieme a loro. Oppure guardavo la forma disegnata dall’umidità sul muro della mia stanzetta e immaginavo fosse la cartina geografica di un’isola lontana o la faccia della pescivendola che stava all’angolo della via dove abitavo un tempo. Oppure andavo nella stanza della TV e guardavo dall’inizio alla fine i talk show del pomeriggio, cercando di memorizzare la posizione dei nei sul viso della conduttrice, sicura di ritrovarli nello stesso punto il giorno dopo. Poi mi sono stancata. In fondo essere felici non è poi così divertente. E mi sono ricordata improvvisamente quale fosse in realtà il mio scopo. Di certo non stare qui in panciolle a godermi questi piccoli e inutili attimi di felicità. Se Lui fosse arrivato, capace che non l’avrei neanche riconosciuto (tuttora mi si rizzano i peli sulle braccia al solo pensiero). Quindi ho trovato il modo di non ingoiarle, le maledette. Mi inserisco, da brava, nella fila che conduce all’infermeria e quando tocca a me apro la bocca per bene, in modo da farmi appoggiare sulla lingua la pastiglietta. Poi mi giro e la sposto tra il labbro inferiore e i denti incisivi, finché non riesco a sputarla nel water, in un lavandino o nel primo vaso di gerani a disposizione. In fila c’è anche Martina, un po’ più avanti rispetto a me. Lei le pastiglie le butta giù, credo. Ma non riesco a capire quale sia l’effetto che le fanno. È sempre un po’ triste. A parte quando ascolta le mie
storie. Di solito entra nella mia stanza con i suoi oggetti inseparabili in mano e si siede ai piedi del letto, in attesa. Non parla. Non mi ha mai parlato. Ma io capisco che è il momento di raccontare. Se fosse per lei potrei continuare a filare il mio racconto per sempre, in un unico e infinito nido di trame. Ma ogni giorno, inesorabilmente, mi fermo, la guardo e sorrido, felice del finale che sono riuscita a inventare. Lei non sorride. Si imbestialisce. È difficile credere che una bimba tanto buona e gentile arrivi a provocare un tale scompiglio, pur senza articolare delle vere e proprie parole. La mia compagna di stanza si alza di scatto ed inizia ad urlare parolacce e bestemmie, in risposta agli strepiti di Martina. E i vicini di stanza, ogni volta, imperterriti, si affacciano sulla porta per vedere che succede. Finché non arrivano le infermiere. Ogni volta. Ma io non intendo smettere di raccontare. È un bel modo di far passare il tempo. La guardo con la coda dell’occhio mentre si allontana dalla fila e va a sedersi sulla poltroncina davanti alla TV. Tocca a me il turno delle pastiglie e mi concentro per operare il mio solito trucchetto. Mi volto verso la poltroncina e lei non c’è più. Forse non mi vuole incontrare, oggi. La mia vicina di stanza si dirige con lentezza esasperante verso il suo letto. Si volta verso di me: “Penelope, vecchia strega, quand’è che morirai e mi lascerai tranquilla?”. Non le sono mai stata simpatica e non fa niente per nasconderlo. Mi infilerò anch’io sotto alle coperte oggi, mi sa, e dormirò per tutto il giorno. Così stanotte sarò in forma, nel caso Lui arrivasse. Dalla porta si affaccia il visetto asciutto di Martina. Mi porge una delle sue caramelle alla menta. Non lo fa mai. Vorrà fare pace. Si siede vicino a me, più del solito, quasi attaccata
al viso, pronta a succhiare le mie parole. Appoggia in grembo la sua piccola locomotiva e infila in tasca le caramelle. I suoi occhi diventano ruote di carro, tondi e verdi come fossero passate in fretta in uno stagno. Il sole si appoggia giusto giusto su un suo ginocchio. Inizio a raccontare.
L’uomo del carro
N
on è facile vivere in pieno Medioevo, lo sanno tutti. Caccia alle streghe, roghi in piazza, peste e colera, carestie. Malvino evidentemente non lo sapeva quando decise di nascere, nel 1256, in quel paesino proprio alla fine del mondo. Non sapeva neanche che gli sarebbero toccati in sorte quei due stralunati dei suoi genitori. Ma oramai era fatta. Aveva dodici anni e aveva imparato a prendere il mondo così com’era. Quella mattina, poi, si era svegliato pieno di entusiasmo. Era una bella giornata di sole e già all’alba era sveglio e affamato. Il suo pagliericcio si trovava direttamente davanti al focolare in cucina e poco più in là c’era quello, giusto un po’ più largo, della mamma e del papà, che dormivano ancora della grossa. Non avevano mai molta voglia di andare nei campi. In fondo non era mica terra loro, dicevano. C’era sempre tempo prima di spaccarsi la schiena per conto di qualcun altro. Il risultato era che il loro raccolto arrivava a mala pena a coprire le richieste del padrone e a loro non restava quasi nulla. Non per niente nella pentola, sopra le braci semi spente, c’era solo un dito della brodaglia che si erano mangiati la sera prima e la fame di Malvino era molta, molta di più. Non era una novità e lui sapeva bene come affrontare la situazione. Presa la sua fionda, infilò gli stivalacci sfondati da lavoro e uscì, sulle tracce di qualche uccellino da cuocere in fretta e mangiare in un morso. Si mise a percorrere il sentiero che fiancheggiava i campi e dovette salutare tutti gli altri braccianti del villaggio, con
le falci in mano o chini a raccogliere erbacce. “Ohi, Malvino. Dove sono i tuoi vecchi? Dovrebbero essere già qui. Il sole è alto”. Non aveva voglia di rispondere, aveva fame e proseguì a testa bassa verso lo stagno, per vedere se qualcosa di succulento sarebbe stato così imprudente da farsi centrare dalla sua fionda. Al suo fianco sfilò un carro, proprio sopra alla riva striminzita di uno stagno, e lo ricoprì di fanghiglia verdastra sulle caviglie. Alzò la testa per imprecare e vide che il retro aperto era pieno di corpi. Umani. Uno sopra l’altro. E accanto alla ruota sinistra un campanello che sbatacchiava ad ogni sobbalzo. Malvino si nascose nel primo cespuglio utile, come se potesse cancellare l’immagine ottica che ormai gli si era stampata nel cervello. Ma il carro era ancora lì. Così uscì e non pote fare altro che seguirlo. Corse dietro al campanello tappandosi il naso per evitare che la morte entrasse dentro di lui, e spalancò gli occhi per verificare che non fosse rimasto qualche pezzetto di vita là in mezzo. Arrivarono in un campo di sterpaglie. Alcune capre pascolavano senza padrone e l’uomo del carro, pieno di pustole sul viso e sui piedi scalzi, le cacciò con un bastone, urlando parole indecifrabili. Poi si mise ad armeggiare con della legna e degli sterpi trovati lì vicino e appiccò un fuoco. Uno alla volta i corpi vi finirono dentro e l’aria divenne irrespirabile. Malvino era impietrito a guardare la scena, nascosto a malapena dal tronco di un albero. L’uomo del carro lo vide e si avvicinò. Le parole che uscivano dalla sua bocca erano grugniti e il labbro superiore si incurvava in una smorfia macabra. Lo spintonava per mandarlo via, ma Malvino non riusciva a muoversi, gli occhi fissi sul fuoco. L’uomo si sedette e invitò il ragazzo a fare altrettanto, battendo il palmo sul terreno. Finì per obbedire.
L’uomo cominciò a cantilenare una canzone. Una di quelle canzoni lente e tristi che aveva sentito alle fiere di Ognissanti. Buona pulcella fut Eulalia. Bel auret corps bellezour anima. Voldrent la ueintre li dõ inimi. Voldrent la faire diaule seruir. Elle nont eskoltet les mals conselliers. Quelle dõ raneiet chi maent sus en ciel...1 Continuava a ripetere lentamente, una volta e poi di nuovo e di nuovo... Malvino fissava il fuoco e sentiva la cantilena entrargli nella gola, giù giù, fino alla pancia. Non riusciva a sentire più il suo stesso pensiero mentre il canto si insinuava verso il centro e lì creava un vortice, veloce, veloce, veloce, fino a non sentire più niente... L’uomo del carro fermò il suo canto e si mise a osservare il ragazzo, ormai disteso sull’erba, stordito e con la fionda stretta in pugno. Anche lui era stato così fino a non molto tempo prima, girovagava per i boschi a caccia di lepri e tordi e pensava che non ci fosse niente di più importante nella vita che riempirsi lo stomaco. Poi tutto uscì dal suo controllo e ora eccolo qui a raccogliere gli appestati in una terra straniera, ad appicare fuochi che purificano tutto, tranne lui. Eppure aveva il dono. Così gli avevano detto sin da piccolo. Beh, non gli stava servendo a granché... Salvo addormentare contadinelli spaventati, a quanto pareva. 1. Incipit della “Cantilena di Sant’Eulalia” datata all’ 878 -882, scritta in antico francese roman. “Perfetta fanciulla fu Eulalia, Bello aveva il corpo e bella l’anima. Vollero vincerla i nemici di Dio, vollero farle servire il diavolo ella non ascolta i cattivi consiglieri che vogliono che rinneghi Dio che regna nei cieli...”
Aveva iniziato con le rane. Si metteva seduto su un pietrone vicino al laghetto e cominciava a cantare. E almeno una decina di ranocchi cadevano addormentati, pronti per l’olio bollente e per il suo palato insaziabile. Poi provò con il curato, in chiesa, durante la messa, giusto per divertirsi un po’. Si metteva nei primi posti, davanti all’altare e cominciava a canticchiare a bocca socchiusa durante l’omelia. Finì che il prete si addormentò sul pulpito e per poco non cadde di sotto. Decise che avrebbe iniziato a rubare. Non sembrava troppo difficile. Bastava mettersi davanti alla porta della bottega e cominciare a canticchiare una delle sue nenie. In poco tempo nel negozio nessuno sarebbe stato abbastanza sveglio da accorgersi di lui e avrebbe potuto prendere tutto ciò che voleva. E andò proprio così. Per molti anni. Di certo non gli mancava niente. Poi arrivò l’amore e poi la peste e contro queste cose non c’era proprio nessun dono che avrebbe potuto aiutarlo. Così dovette scappare, lontano, più possibile, ma il suo pensiero ancora non era sazio di quella donna dalle vesti bianche, che lo tormentava tutte le notti e che lo rincorreva di giorno. Nemmeno il suo corpo rispondeva agli scongiuri e continuava a infliggergli bruciore su tutta la pelle, senza che il sonno potesse venire, mai una volta, a lenire il suo dolore. L’uomo del carro prese di nuovo a guardare Malvino. Un sorriso sereno in mezzo alla faccia e le braccia ben distese lungo il corpo. L’avrebbe portato via con sé. Lo decise in un istante. Gli avrebbe insegnato a usare il suo dono. L’avrebbe mandato in giro per suo conto, per le piazze a far cadere addormentati tutti quelli che non gli andavano a genio, ma anche quelli cui voleva fare un favore. Avrebbe avuto
il suo riscatto. Sarebbero tornati al suo paese in cerca della sua amata e il ragazzo avrebbe addormentato tutti, in modo che loro due soli sarebbero stati svegli e liberi di amarsi. E poi, finalmente, avrebbe potuto dormire lui stesso, senza piĂš nessun pensiero nella testa e con un sorriso ben stampato in mezzo alla faccia. Il fuoco si stava spegnendo a poco a poco. Quasi mezzogiorno. Il carro riprese la sua corsa lungo il sentiero. Malvino ancora dormiva, disteso sul retro, con un sorriso sereno in mezzo alla faccia e le braccia ben distese lungo il corpo.
La storia è finita. Smetto di parlare e mi guardo le unghie. Mi sistemo meglio nel letto e mi avvicino al comodino per prendere il libro e gli occhiali. Faccio finta di niente, aspettando che si scateni il finimondo. E infatti accade dopo sette secondi, come sempre. Oggi Olga, nel letto a fianco, è particolarmente pedante. Si alza appena sulla schiena, giusto per lanciarmi addosso un paio di maledizioni, poi si riaccomoda tranquilla facendo finta di russare, nonostante Martina sia nel bel mezzo di uno dei suoi acuti. Ultimamente (sarà per via dell’allenamento) le escono dalla gola persino degli armonici, quasi stesse tentando di far notare a tutti quanto sia bella la sua voce, nonostante non riesca a parlare. È da molto che me lo domando. Chissà perché non riesce a parlare, questa ragazza. Un giorno l’ho chiesto all’infermiera, quella grassa, giovane, con i capelli rossi e le lentiggini. Lei mi ha detto che non ne sa nulla. “Quando era piccolina i suoi genitori l’hanno portata qui perché non spiccicava parola e non li voleva vicino a sé. Si nascondeva per ore e loro diventavano matti a cercarla... I medici dicono che non c’è nessun motivo per cui non possa parlare. È matta. Nulla di più, come tutti voi qui dentro”. Io non ci credo. Sono sicura che dentro la sua testa c’è un intero romanzo d’avventura scritto con un lessico perfetto. Ma non è nel mio stile insistere. Se non vuole parlare, che non parli. Intanto sono arrivate le due infermiere di turno, Ada e Virginia, le più cattive. La trascinano come fosse un cane e mi urlano di lasciarla stare. “Non hai ancora capito che non puoi stare a parlare con lei? Dopo un po’ non ne può più delle tue idee deliranti e va fuori di testa. Se la lasci in pace fai un favore a tutti”. Non ci tengo a rispondere. Farò anch’io la pedante, oggi. Mi stendo per bene nel letto e fingo di russare. Aspetterò che venga notte.
INDICE DEI RACCONTI L’uomo del carro
P. 13
Zingari
26
Conquistadores
43
Partita a Scacchi
83
Carezze di Bosco
98
Pseudostreghe e Meteoriti
123
Il pitone e i cachi
155
Indice dei Personaggi Penelope Martina
Lola ^ Eligio Dottor Alberto
P.
5
19
35 57 69
Damiano
89
Ettore
115
Olga
134
Lui
170