Islam e Jihad: tra linguaggio politico e propaganda

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II

DIPARTIMENTO DI SCIENZE SOCIALI CORSO DI LAUREA IN CULTURE DIGITALI E DELLA COMUNICAZIONE

PROVA FINALE IN ANALISI DEL LINGUAGGIO POLITICO

Islam e Jihad: tra linguaggio politico e propaganda

Relatore

Candidato

Ch.ma Prof.ssa Annarita Criscitiello

Alessandro Grieco M12/706

ANNO ACCADEMICO 2014 - 2015


INTRODUZIONE

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1 L'ISLAM: UN'INTRODUZIONE 1.1 Tra religione e politica

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1.2 I dettami del Jihad

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2 LE RELAZIONI ISLAM/USA 2.1 Il “Grande Satana”

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2.2 All'alba di un regime democratico

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2.3 Il caso Saddam Hussein

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3 LE STRATEGIE DEL MARTIRIO 3.1 L'asimmetria militare e la contaminazione terroristica dei media 22 3.2 Gli obiettivi processuali del terrorismo

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3.3 Il martire come veicolo comunicativo del jihad armato

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3.3.1 Il videotestamento come strumento di propaganda

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CONCLUSIONI

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BIBLIOGRAFIA

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Introduzione Più che dalle motivazioni che mi hanno spinto a scrivere sulla comunicazione terroristica mediorentale, preferirei partire dalla difficoltà che ho trovato nel reperire testi italiani che trattino esclusivamente, o in larga parte, dei metodi comunicativi di questo fenomeno. Probabilmente è dovuto alla questione che in Italia, il terrorismo islamico, non ha mai rappresentato un vero problema, seppur le bandiere dell'IS abbiano ormai piantato la loro asta rigida in terre libiche, separandoci da essi solo una stretta lingua di mare. Il terrorismo, e l'interesse colto degli ambienti accademici, si nutre di sentimentalismo come ogni cosa, anche se prova invano ad estraniarsi da esso. Il sentimento, nelle sue sfumature tenui, è mosso da apparati cognitivi che rispondono ad un determinato stimolo. Suddetto stimolo trova agio nell'insicurezza moderna, in un garbuglio di paure e stati angosciosi che hanno visto protagonisti vari paesi occidentali. Da una disamina generale dell'Islam, quale dogma fortemente congiunto all'universo politico, è possibile trarre le predisposizioni tradizionali alla lotta armata. Una religione che è tornata con forza a far parlare di sé nel frenetico dibattito mediatico globale, date le sue recenti rivendicazioni di stampo terroristico. Il passo successivo è di approccio politico, niente più che un'interpretazione causa-effetto delle scelte portate avanti dalle potenze occidentali impegnate in conflitti mediorientali. Gran parte della scena sarà riservata a lei, l'America degli Stati Uniti. Un paese che tra i tanti errori che ha commesso nella sua, geopoliticamente parlando, giovane vita, è stata in grado di ammettere le sue colpe mediante il suo ultimo front man, Barack Obama. Il prestigio e l'effettiva potenza militare e strategica degli Usa, messa a confronto con le esigue risorse dei ribelli musulmani, hanno esasperato il conflitto spingendolo su un piano molto più instabile e tenebroso, quello psicologico. Difatti questa è una guerra che, come avrò modo di discutere, è detta asimmetrica, ossia il rapporto tra potenzialità ed efficacia bellica è il risultato 1


di un complesso stravolgimento. Uno dei paradigmi più utilizzati dall'indottrinamento islamico fondamentalista è il martirio, inteso non solo come mero suicidio votato alla violenza pura e indirizzato a seminare terrore, ma bensì veicolo ideologico, comunicativo e politico. Le cellule terroristiche si sono appropriate delle tecniche comunicative più recenti per sconfiggere il nemico con le sue stesse armi, gli schermi. Pannelli a cristalli liquidi prendono vita, imitando cromaticamente gli effetti del terrorismo nelle sue più brutali miscele di dolore e culto della morte. Mai si era vista una tal produzione video, così dettagliata e meticolosa da impressionare anche gli addetti al settore. La democraticità dei beni di produzione è arrivata da tempo anche lì. Basta una videocamera, un pc di media fascia e un programma craccato per portare in scena il terrorismo moderno. Gli stessi mezzi che mostrano ai giovani abitanti di quelle terre dell'enorme divario che separa loro dagli altri. Quell' “altro” che è diventato innesco di dinamiche di inclusione ed esclusione, ricettacolo di movimenti minoritari, esclusivi, e settari. Irrigiditi dall'estremizzazione di un dogma religioso che non lascia adito a suppliche, si riprendono tutto ciò che sembrerebbe loro di diritto, e se nel mezzo vi è la vita altrui, codesti saranno vittime sacrificali di un fine superiore. Le truppe dell'IS attraversano le città senza trovare resistenze degne di nota (eccetto rari e sanguinari casi di opposizione, come quella che ha interessato la città di Kobane), grazie ad una sorta di welfare islamico. Vengono distribuiti dai pickup armati dei miliziani doni di vario tipo, che agli occhi di popolazioni depresse come quelle mediorientali, sono sufficienti a perdonare loro qualsiasi malefatta. Se uniamo ad esso il rispetto sommesso e ossequioso che incutono, le esecuzioni sommarie e la penetrante azione di propaganda che hanno messo in atto, è facile comprendere che nessuno si immolerebbe contro una realtà simile. Nonostante ciò se il Corano, in certe menti, sprona alla guerra armata, la cosiddetta jihad, è vero anche che detta regole precise e inderogabili,

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impartite dalla sharia. Nei territori sotto il dominio musulmano, suddetta sharia, ad esempio, prescriveva che ad ebrei e cristiani fosse consentito di praticare la propria religione a determinate condizioni, la più indiscussa delle quali è il pagamento di una tassa pro capite per ogni maschio adulto, la jizya. Questa viene concessa tutt'ora dallo Stato Islamico, a coloro i quali abbiano intenzione di rimanere sul suolo di loro controllo. Viene indotto agli infedeli anche un certo grado di riconoscibilità, attraverso l'obbligo di distintivi da indossare e la negazione di rendersi in alcun modo superiori ai musulmani (anche su cose futili, come costruire un palazzo più alto rispetto a quello dove risiedono dei musulmani). Questa chiave di lettura dev'essere interpretata in tal modo: seppur il Corano esige certe sicuranze, è allo stesso modo permissivo verso altre. E' la dimostrazione che dietro tutto quest'odio, dettato da un pensiero disfunzionale di matrice fondamentalista, c'è un fine politico, niente di più che la strumentalizzazione di un messaggio profetico.

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1 L'Islam: Un'Introduzione SOMMARIO: 1.1 Tra religione e politica - 1.2 I dettami del Jihad

1.1 Tra religione e politica Il dominio dell'Islam si estende dal Marocco all'Indonesia, dal Kazakistan al Senegal. Data la sua estensione spaziale, più della cristianità, rappresentò la fase intermedia fra l'antico Oriente e il moderno Occidente, a cui diede una rilevante spinta propulsiva. Negli ultimi tre secoli, tuttavia, il mondo islamico è rimasto dietro, vittima di una modernizzazione forzata per ottemperare a tali ritardi, che ha lasciato nient'altro che lunghe ombre su tutta la comunità islamica. L'islam, come religione, è senza dubbio la più affine alla tradizione ebraico-cristiana, apparendo come un unico filone secolare che si differenzia per un'interminabile processo di interpretazione delle sacre scritture. Oltre a nutrire tutte loro pretese di autoproclamazione quale “popolo prescelto da Dio”, possiamo affermare che le disparità tra queste religioni si contano su poche ma determinati aspetti. Uno tra questi è il rapporto tra governo, religione e società. Nell'islam vi fu un accentramento di poteri in un'unica persona che poche altre realtà possono vantare. Maometto, il profeta dei musulmani, era guida spirituale, massima carica temporale, detentore del potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Con la morte del profeta nel 632 d.C. la sua missione venne ereditata da numerosi califfati, che a Medina, la sua patria spirituale e salvifica, vide ergersi un vasto impero. Nell'esperienza dei primi musulmani conservata e trasmessa alle generazioni successive, verità religiosa e potere politico furono indissolubilmente legati come basi azotate di un filamento ribonucleico: la prima sanciva il potere temporale del secondo, il secondo sosteneva la prima. Viene spesso ribadito dalle ayatollah (esperto di 4


studi religiosi) che “L'Islam è politica o non è niente” 1. Non tutti i musulmani sono convinti appieno di ciò, ma la quasi totalità ammetterebbe con leggerezza che Dio ha a che fare con la politica, e questa convinzione è confermata e sostenuta dalla Sharia, la Santa Legge, che si pronuncia ampiamente su ciò che noi definiremmo diritto costituzionale e filosofia politica. D'ora in avanti quando parleremo di politica in ambito islamico non potremo in nessun modo scinderla dagli influssi coranici da cui essa deriva. Se si può parlare di un clero nel mondo islamico, in senso strettamente sociologico, non possiamo riferirci invece ad alcun laicato. Qualcosa di estraneo o di scindibile dall'autorità religiosa è del tutto incomprensibile per la comunità islamica. Il percorso di vita del profeta ha assunto due accezioni, determinabili da due periodi temporali precisi. Dal 550 al 622, fu oppositore dell'oligarchia pagana, dal 622 al 632, fu capo di stato. Questi due aspetti della vita e dell'operato del Messaggero di Dio, l'una di resistenza e l'altra di governo, sono entrambi riflessi nel credo islamico come tradizione autoritaria e pacata, parallela a quella radicale e attivistica. E' proprio nella politica che si riscontrano le differenze più chiare tra l'Islam e il resto del mondo. In nessun'altra cultura, infatti, da Occidente ad Oriente riscontriamo che gli esponenti politici si riuniscono assieme per motivi religiosi. L'idea stessa di raggrupparsi in base a questa o quella religione può sembrare, nel mondo moderno, anacronistica. La religione islamica gode di un'immunità privilegiata estesa a ogni campo in cui si esprime e non ammette critiche, ma non è solo questione di fede e di osservanza. Si vedrà in seguito la centralità che identità e lealtà hanno acquisito negli ultimi anni, e di come paradigmi quali patriottismo e nazionalismo siano entrati nella prassi politica e comunicativa dei radicali islamici.

1 Lewis Bernard, La crisi dell'Islam, Le Scie, Mondadori, 2005, pag. 20

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1.2 I dettami del Jihad E' bene specificare da subito che religione e Islam non sono condizioni necessarie delle missioni compiute fin ad oggi, mi soffermerò su questa combinazione solo per coerenza con i temi trattati. Dottrine radicali del jihad armato e del martirio sono senza dubbio alcuno le risorse più importanti della propaganda terroristica, che formano ciò che identifichiamo come subcultura del martirio politico. Per poter proseguire nell'analisi del martirio, tuttavia, dobbiamo chiarire il concetto di jihad. Jihad deriva dalla radice araba j h d, che sta per “sforzo” o “impegno”2. Nei testi classici è usato spesso col significato strettamente connesso a “lotta” e “battaglia”, ampliabile a due ulteriori decodifiche, ossia “impegno morale” e “lotta armata”. L'arabo è una lingua consonantica che ha visto la sua diffusione massima con il Corano, un manoscritto che si narra sia nato sotto le direzioni esclusive del Profeta per volere di Allah. Una lingua che è riuscita ad aderire perfettamente ad un moltitudine di culture assai diverse tra loro e ad impreziosire il suo valore grazie ad una miscela di sacralità e superstizione. La scrittura araba può essere annullata solo seguendo una certa procedura: nelle scuole coraniche, gli allievi lavano l'inchiostro delle tavolette facendolo scorrere in una fossetta apposita scavata nei pressi della moschea 3. Grazie alla sua duttilità è divenuta lingua di prestigio per molte realtà africane, in cui vi troviamo un basso numero di letterati che conoscevano l'arabo ed erano in grado di interpretarlo, caricando di valori esoterici questa lingua. Ciò che ci risulta sconosciuto affascina e inquieta, si carica di poteri positivi e negativi 4. E' di questa potenza che la scrittura si dota, immutata da secoli di cambiamenti e stravolgimenti, essa rimane perfettamente uguale a se stessa. Nicchia consolatrice e dispensatrice di consigli e dettami, era ed è considerato uno 2 Lewis Bernard, La crisi dell'Islam, pag 36. 3 Cardona R. Giorgio, Antropologia della scrittura, Utet, 2009, pag 157. 4 Idem, pag 170.

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stupefacente strumento trascendentale, grazie al quale il volere divino si concretizza in sinuose e precise forme. Non può e non deve, quindi, sembrarci assurdo se sul Corano verte la quasi totalità dell'organizzazione e delle caratteristiche della società islamica. Un testo che, visto dagli occhi di un agnostico che aborra la violenza tutta, può assumere le sembianze di una follia mitomane che si è delineata non più e non meno di altre religioni ad essa somigliante. Di riferimenti alla lotta militare, al prestigio che essa dona e alla ricorrente propugnazione che sia l'unico modo per epurare coloro che non seguono il cammino di Dio, di allontanare chi questa lotta la vive passivamente o disinteressandosi, né è pieno il Corano. Alcuni musulmani si rifanno a questi testi estrapolando, con una notevole esegesi, tratti di pura morale, che niente hanno a che fare con l'osservanza reale. Per tornare alla lotta armata, secondo la legge coranica, è legittimo scendere in guerra contro quattro tipi di nemici: gli infedeli, gli apostati, i ribelli e i banditi5. Benché tutte e quattro i tipi siano contemplati, solo i primi due valgono come jihad. Prendendo in causa la guerra santa, essa è distinta tra offensiva e difensiva. La prima può essere combattuta con volontari e soldati di mestiere, mentre la seconda richiama ad un dovere individuale e indiscutibile. E' questo il principio al quale Bin Laden fece appello contro gli Stati Uniti. Viene spontaneo osservare, in via del tutto eccezionale, che se non vi fosse un'interpretazione morale che ancora resiste per la maggiore, l'Islam o meglio lo Stato Islamico, dovrebbe dichiararsi in conflitto con il 77% della popolazione umana, ossia tutti coloro i quali non hanno alcuna fede in Allah o che semplicemente sono stati investiti dalla secolarizzazione. Sembrerebbe ai nostri occhi il ritratto di una religione settaria e rigida, ma è solo la percezione di anni di combattimenti e terribili stragi vissuti dietro ad uno schermo, adoperati dai media per mantenere e controllare l'effluvio di sentimenti che abbandona il nostro corpo per abbattersi su di un nemico comune, l'Islam. 5 Lewis Bernard, La crisi dell'Islam, pag 41

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Per approfondire il tema e non sottoporre il Corano a semplici elucubrazioni senza fondamento citerò alcune hadiths, vale a dire le testimonianze del Profeta. Eccone alcune che ci riguardano da vicino: “Il jihad è un tuo dovere sotto qualsiasi capo, empio o devoto che sia”. “Un giorno e una notte di battaglia sulla frontiera sono meglio di un mese di digiuno e preghiera”. “Chi muore senza aver partecipato a una campagna, è un po' come se morisse senza fede”. “Il paradiso è all'ombra delle spade”. Le tradizioni fissano anche alcune regole di guerra per la condotta della jihad: “Bada di trattar bene i prigionieri”. “Il saccheggio non più è lecito di qualsiasi altra bassezza”. “Dio ha proibito di uccidere donne e bambini”. “I musulmani sono tenuti ad osservare i patti, purché siano patti leciti”.6 Probabilmente il jihad è ciò che, assieme alla sharia, è rimasta fedelmente immutata in tutti questi secoli di battaglie islamiche. Che sia offensiva o difensiva, il credo verso Allah arde fiero nei cuori dei musulmani nei momenti di difficoltà e di sconforto. L'uso militare del termine si è protratto fino ai tempi moderni con il soprannome in rima di Dar al-Jihad (Casa dello jihad), con una specifica amministrazione militare dal quale sorse il “ministero della guerra” chiamato “Divano degli affari dello jihad” (diwan al-Jihadiyya), e un ministro chiamato “Supervisore degli affari dello jihad” (Nazir al-Jihadiyya). Non finiscono qui gli esempi per cui questa parola densa di tradizione abbia, col passare degli anni, perso l'accezione sacrale per conservare solo quella militare ma negli ultimi tempi entrambe le predisposizioni sono tornate in auge, impiegate con diverse intenzioni a seconda delle necessità. Il jihad viene spesso identificato come l'equivalente musulmano della crociata, aprendo una 6 Questi e altri testi del jihad, comprese le hadiths si trovano nelle normali raccolte delle tradizioni del Profeta. Le citazioni sono tratte da 'Ala al-Din, Ali ibn Husam, al-Din, al-Muttaqi.

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finestra temporale che ci permette d'osservare le dinamiche che spingono un gruppo religioso di uno specifico credo a compiere una guerra contro gli infedeli, gli impuri. Ebbene non è esattamente così. La crociata rappresentò un radicale slittamento, nel tardo sviluppo cristiano, dai valori vangelici e un'interpretazione esasperata dei testi sacri. Nell'islam il jihad, invece, è una componente tessuta a fitte trame già nel pensiero più autentico e primordiale del Profeta. La capacità del popolo musulmano di donarsi all'attacco e alla difesa dei propri ideali, delle terre che con sacrificio ha conquistato, come vuole Dio, così come chiede Dio, è una forma unica di responsabilità derivante da una pretesa divina che non ha eguali nella storia della teologia, e che ben presto si tramuta in dovere politico.

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2 Le relazioni Islam/Usa

SOMMARIO: 2.1 Il “Grande Satana” - 2.2 All'alba di un regime democratico 2.3 Il caso Saddam Hussein

2.1 Il “Grande Satana” Nel 1979, dopo che un manipolo di ribelli prende in ostaggio la Grande Moschea della Mecca con lo scopo, diffuso attraverso degli altoparlanti, di “purificare l'Islam” e liberarlo dall'influsso occidentale, l'ayatollah Khomeini da Islamabad, capitale del Pakistan, fa girare la voce infondata che l'insurrezione alla moschea è stata sedata grazie a delle truppe americane. L'ambasciata americana viene attaccata da una folla di musulmani con gravi esiti. Queste rimostranze hanno avuto luogo durante la rivoluzione iraniana del 1979, un passaggio emblematico per la nascita di un certo anti-americanismo islamico. Nello stesso anno un'altra ambasciata, stavolta a Teheran viene occupata e presa in ostaggio per 444 giorni, prigionieri compresi. Le motivazioni alle spalle, che sono giunte a noi tempo dopo grazie ad alcune dichiarazioni, ci permettono di comprendere e valutare le situazioni da ambo le parti. Si percepisce da queste dichiarazioni, che il fattore scatenante è stato l'avvicinamento tra Stati Uniti e il primo ministro iraniano, avvenuto alla luce del sole nell'autunno dello stesso anno. Agli occhi dei fondamentalisti questo accomodamento viene ritenuto alquanto pericoloso. La presa in ostaggio dell'ambasciata è inquadrabile come una mossa per annullare le possibilità di dialogo tra i due attori. Tra i fomentatori più illustri di queste sommosse vi è Ruhollah Khomeini, uno dei primi esponenti di spicco della società islamica a professare il messaggio 10


di astio e riluttanza verso gli Stati Uniti 1. Con esortazioni nutrite di un certo qualunquismo, vengono associate alle forze statunitensi ogni tipo di illazioni. Dalla profanazione dei tesori iraniani, alla lotta per interessi privati, fino allo schernire, e in qualche modo boicottare, il messaggio di “guerra umanitaria” che dai ministeri governativi parte per sedare le ribellioni e le diffidenze del popolo islamico. I fondamentalisti che fanno della religione il leitmotiv alla base della liberazione dalla contaminazione occidentale del suolo arabo, sempre in quegli anni, esemplificano questa distorsione affibbiando un nomignolo dispregiativo all’America: il “Grande Satana”. Un lucignolo imperialista, capace di spazzare via a suon di bombardamenti ogni traccia di umanità che si frapponesse tra il Nuovo Mondo e i suoi interessi capitalistici; così viene descritta, diviene vittima di un'elaborazione linguistica. Non è mia intenzione trattare tutte le campagne statunitensi in territorio mediorientale, ciò che ho ricercato e che provo a rendere, sono le tappe fondamentali dell’odio islamico verso gli Usa. Ciò che appare più limpido in materia politica statunitense sono, usando una contrapposizione metaforica, le sue limacciose attività nel conservare i propri interessi. Negli anni è trapelato, all’opinione pubblica e in misura maggiore ai diretti interessati, che gli Stati Uniti e le sue rappresentazioni nelle varie coalizioni e trattati in cui è subentrato, fossero atti non a correggere o cambiare una situazione mediorientale di deciso sottosviluppo sociale ed economico, ma di appoggiare personaggi di dubbio candore, talvolta veri e propri despoti, per conservare la propria posizione d’esperto scacchiere. E’ più sicuro, facile ed economico cambiare un tiranno importuno con uno compiacente, piuttosto che affrontare un cambio di regime, o addirittura, la nascita di un sistema politico basato sulla più grande forma d’espressione moderna, il voto2. Una prova di ciò la possiamo trarre da quanto accaduto nel 1991, quando gli Stati Uniti aizzarono 1 Khomeini Ruhollah, Islam and Revolution: Writing and Declaration of Imam Khomeini, Berkeley, 1981 2 Lewis Bernard, La crisi dell'Islam, pag 83

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il popolo iracheno a ribellarsi conto Saddam Hussein. La coalizione vittoriosa nel Golfo riteneva favorevole un cambio di leadership in Iraq, ma nutriva speranze in un colpo di stato, non in una sanguinosa rivoluzione. Quest'ultima è per ovvi motivi più pericolosa, avrebbe potuto innescare uno stato democratico, o peggio un’anarchia. Un colpo di stato non genera questi rischi, sarebbe succeduto l’ennesimo tiranno ad Hussein e lo stato delle cose sarebbe rimasto invariato. Questa politica fallì miseramente e gli episodi vennero assunti come: tradimento, debolezza, stupidità e ipocrisia. Nella stragrande maggioranza di video in cui mi sono imbattuto, “ipocrisia” è uno sostantivi di cui le bocche dei fondamentalisti del recente Stato Islamico si riempono. Un certo modo di fare, quello ipocrita, che da menti dedite ed osservanti dell’integrità d’onore a tutti i costi, sarà condizione di forte riprovazione verso l’America. Nel 1982 il doppiopesismo americano, come lo definisce Bernand Lewis, dà sfoggio di sé nella cittadina siriana di Hama. Sconvolta da una violenta ribellione condotta dai Fratelli musulmani, il governo seda le sommosse con brutalità settaria. Di casa in casa, vengono scovati i nemici del Governo e attaccata la città con mezzi corazzati, artiglieria e bombardamenti aerei. L’azione di soppressione viene ordinata dal presidente siriano Assad, le vittime si attestarono fra diecimila e venticinquemila. Il massacro di Hama non ha impedito agli americani, tuttavia, di corteggiare Assad con una sequela di visite da parte di tre Segretari di Stato per un totale di 30 incontri tra il 1990 e il 2000, e dal presidente Clinton in persona3. Potrebbe sembrare alquanto deplorevole che una potenza occidentale, che professò con enfasi le sue intenzioni velatamente neutrali e pacifiche, fosse così smaniosa di propiziarsi un capo di stato con una politica di mantenimento del consenso così feroce. La sfiducia occidentale per le pratiche di governo islamiche e l'approvazione di 3 Washington Istitute, http://www.washingtoninstitute.org/policy-analysis/view/prospects-for-theclinton-assad-meeting-lessons-from-the-past

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tiranni che operano questo tipo di ragion di stato, appare in modo ancor più plateale durante il tentativo algerino di implementare, non senza difficoltà, una costituzione democratica previo referendum nel 1989, e un sistema pluripartitico nello stesso anno. Il Fronte islamico per la salvezza (Fis) si presenta bene quell'anno, sfidando la casta militare algerina con provocazioni quali di reprimere il popolo anziché aiutare un fratello nel bisogno. Quel fratello era Saddam Hussein, che invadendo il Kuwait e sfidando l'Occidente sollevò un moto di entusiasmi tra i fondamentalisti musulmani del Nordafrica, rendendosi disponibile a farsi portavoce del popolo islamico difronte al giudizio del mondo occidentale. Poche ma determinanti scelte politiche in ambito internazionale, hanno fatto dell'America il bersaglio principale di un sadico gioco a freccette, ove i punti accumulati vedono per ogni unità conquistata decine, centinaia, di vittime innocenti. Nel tentativo di amministrare paesi con un mosaico culturale estremamente divergente dal proprio, si è giunti per rimpolpare le giustificazioni alla base dei sistemi terroristici, che nella suggestione di un popolo represso, povero e lacerato da anni di conflitti, si pone come emblematico strumento sensibile e simbolico del fallimento americano. La potenza mondiale degli infedeli venne, e viene tutt'ora, accusata per tutto ciò che andava male, e in particolare, per la soppressione dei movimenti islamici, il loro massacro, e l'instaurazione di dittature considerate anti-islamiste. Un simulacro di così vaste proporzioni assume le sembianze di male assoluto, colpevole di una libertà negata e principale motivo d'asimmetria economica e culturale tra mondo islamico e il resto del globo. Quest'asimmetria sarà principalmente dovuta ad una modernizzazione mancata, un vano e goffo tentativo di ridurre l'economia e l'amministrazione politica dei paesi islamici ad un chiaro succedaneo occidentalizzato. I popoli del Medio Oriente, grazie alla globalizzazione, sono sempre più consapevoli

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del divario tra loro e gran parte del resto del mondo. La diffusione di apparecchi multimediali collegati ad internet, riporta agli occhi quelle società opulente e vanesie che hanno occupato per anni i territori a loro appartenenti. Così oziosi ed agiati, questi occupanti procurano loro, oltre ad una sana invidia, la consapevolezza di un futuro segnato da una virulenta diseguaglianza, che colpisce tutti in egual modo, deboli in primis. 2.2 All'alba di un regime democratico La National Security Strategy del 20024, meglio nota come “dottrina Bush”, oltre a professare una cosiddetta “guerra preventiva”, ripropone la classica visione universalistica, di matrice wilsoniana, secondo cui l'estensione della democrazia è un'equazione vincente, che equivale non solo a prosperità economica e stabilità per i paesi che ne beneficiano ma anche un equilibrio in termini internazionali5. L'Nss assegna così agli Stati Uniti un doppio incarico: il ruolo di potenza stabilizzatrice, repressore e contenitore di nemici, e potenza rivoluzionaria che con la democrazia trasforma l'ordine vigente. In questa duplice aspettativa i neoconservatori affidano le speranze di un ribaltamento in quella che è considerata un'area politicamente disfunzionale per gli Stati Uniti. All'uso della forza, come strumento che considera la distruzione come l'unico mezzo efficace per una ricostruzione, si affianca l'idea dell'esportazione della democrazia. Questa vena rivoluzionaria attiva, tra Stati Uniti e Paesi Islamici, un pericoloso ma mai celato “scontro di civiltà” 6. Tutti i termini di collaborazione internazionale vengo ridefiniti alla luce degli ultimi eventi. I vecchi amici (tra cui i sauditi responsabili dell'11 settembre), portano allo scoperto le loro ombre e si rivelano d'essere tra i finanziatori di quella follia

4 National Security Strategy of the United States of America, www.whitehouse.gov 5 Project for a New American Century, Rebuilding America's Defenses, www.newamericancentury.org 6 Huntington P. Samuel, Lo scontro delle civilità e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 2000.

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politica definita come “cerchia maledetta” 7. L'ipotesi di un cambio di regime pare essere l'unica chance di soverchiare ed indebolire l'avanzata islamica. Sia prima che dopo “Iraqi Freedom”8, la lucida consapevolezza di dare avvio ad un lungo ed estenuante scontro, trae giustificazione dall'altrettanto conscia necessità di dover smantellare le strutture portanti del terrorismo e intimidire i suoi sponsor dal continuare a dare appoggio agli integralisti islamici. Tra le strategie degli Stati Uniti per il Medio Oriente, Egitto e Arabia Saudita hanno svolto un ruolo cruciale. E' con loro infatti, che i primi tentativi di containment9 hanno trovato presto la via del fallimento. Con questo approccio intendiamo il contenimento interno del fondamentalismo, delegato ai regimi musulmani moderati. In maniera parzialmente inclusiva, si permette a forze politiche dalla forte componente religiosa di entrare a far parte di democrazie controllate. L'Egitto ci offre un esempio chiaro di questa politica. L'inclusione dei neotradizionalisti nel sistema politico egiziano è parziale e velato da un certo ostracismo. Il regime moderato non può consentire a quei gruppi controllati di vincere le elezioni ed instaurare uno Stato Islamico. Le formazioni neotradizionaliste non possono presentarsi alle elezioni in quanto a partito, ma i loro candidati trovano esclusivamente ospitalità nelle liste “moderate”. Questo contenimento è, probabilmente, tra le cause scatenanti dei moderni regimi terroristici e della disarmante facilità d'ascesa in territorio islamico. Ai neocoservatori non viene mai data alcuna opportunità di diventare reale risposta di un'esigenza popolare, aumentando sensibilmente la loro forza in una curva direttamente proporzionale, dove maggiore è il contenimento soppressivo e migliori le possibilità dei tradizionalisti di ribaltare il tavolo governativo. L'equazione, infatti, prende vita esattamente com'è stata immaginata e a scapito dei piani statunitensi. In una spirale viziosa il contenimento perde su tutti i fronti. In Egitto, i neoconservatori si fanno gioco 7 Gugolo Renzo, Egitto e Arabia Saudita, Il Mulino, 2001/01 8 Enciclopedia Britannica, prodotto editoriale, http://www.britannica.com/event/Iraq-War 9 Romero e Gugolo, America/Islam, Donzelli, 2003

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del modello “inclusione-repressione” e rilanciano l'appello al jihad, contando su un bacino ampio di potenziali adepti. In Arabia Saudita, la prospettiva di dover estraniare la politica dagli influssi sacri, spiana il terreno per il wahabismo. La risposta neoconservatrice in Egitto fu il cosiddetto movimento dei Fratelli Musulmani che, grazie all'appoggio di Mubarak, prende parte, sotto mentite spoglie, alle elezioni politiche. Nell'intento di preservare il sistema politico da possibili conflittualità e nel mantenimento della democrazia controllata, viene compensata la parziale inclusione politica con una forte presenza in campo sociale. Esponenti della Fratellanza compaiono di frequente nelle trasmissioni televisive, occupando il palinsesto pubblico e privato. I telepredicatori diventano custodi della moralità islamica, cogliendo l'opportunità di arrivare alle opinioni di un pubblico vasto e indebolito da anni di violenze. Si insediano poi nelle numerose università del Paese, frequentate da 200 mila studenti. L'egemonia islamista si espande anche al sistema educativo dunque, dove gli insegnanti islamisti indottrinano al vero Islam una gioventù che ha tratto solo il peggio dalla modernità. Nell'ottobre 2003 educazione e religione subiscono una brusca deviazione con il progetto “sermone unico”, che impone all'imam di leggere una predica scelta da un'autorità religiosa vicina al regime. La decisione solleva una dura rivolta, poiché intacca la libertà di professione e impone il silenzio all'opposizione religiosa nell'unico luogo dove sia possibile, la moschea. Queste ultime contano ottantottomila unità, di cui settantatremila sono controllate dall'Islam di Stato10. La riforma si allarga anche a controllare il processo formativo degli imam. Secondo il progetto di Hamdi Zaqzouq, ministro degli affari religiosi, la formazione viene affidata alle competenze di Al-Azhar fino alle soglie della nomina; in seguito dovranno frequentare corsi di computer, lingua inglese e religioni comparate, nell'intento di aprirli alla cultura occidentale. Quello che è nient'altro che uno scambio culturale, diventa in mano ai Fratelli Musulmani 10 Gugolo Renzo, Il fondamentalismo islamico, Laterza, 2002.

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oggetto di propaganda, denunciando come questi provvedimenti abbiano intaccato la libertà religiosa e che le moschee siano ormai sotto il ferreo controllo governativo, triste simulazione del regime di Nasser. Questi provvedimenti che oramai presentano tredici anni, sono tra le prime avvisaglie di cattiva politica statunitense. I primi, senonché fondamentali, campi dove essa ha fallito è proprio in quei due rami che hanno ingrossato per anni le vanterie degli Usa, ossia società e comunicazione. I regimi “democratici” imposti dall'America e dalle sue coalizioni l'hanno presentata al pari dei tanti tiranni che hanno asservito quelle terre alle volontà individuali. Si è preferito reprimere anziché indirizzare, abbattere invece che restaurare. Le scelte politiche che negli anni hanno contraddistinto l'atteggiamento americano, hanno reso possibile avvalorare la percezione che l'Occidente fosse un'entità esogena, empia potenza affetta da manie di controllo e intenzionata a portare avanti una national-building dei Paesi Arabi. Una religione che ha segnato profondamente l'identità e la personalità di milioni di persone, è stata additata di malefatte inenarrabili, portata alla deriva e infine neutralizzata. Gli Stati Uniti, campioni nel plasmare l'immagine che gli altri hanno d'esso, hanno fallito in un campo a loro congeniale, quello della comunicazione. Già nel dicembre 2002, Powell, allora Segretario di Stato del governo Bush, annunciò un “programma per il progresso economico, democratico ed educativo nei Paesi Arabi”. Nell'intento di creare un'opinione pubblica araba occidentalizzata, si è intervenuto anche nel campo delle comunicazioni di massa. Nascono, nel marzo 2002, alcune realtà come Radio Sawa, un'emittente radiofonica tra le più seguite; The Middle Est Television Network, destinato a contrastare i canali ostili come Al-Jazeera e Al Arabiya; il quotidiano “Hi”, rivolto ad un pubblico giovane, viene salvato da una lenta moria. Tra le volontà di Washington vi era, oltre al già citato nation-building, anche un accenno di society-building, fondato sull'implementazione di processi “attivi”,

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che favoriscono differenziazione sociale e pluralismo culturale 11. La mentalità tipica del liberismo prende il sopravvento anche in politica estera, tentando di dare ai popoli arabi una modernizzazione ventilata da interessi particolaristici. Intraprendendo la via dell'occidentalizzazione, si cerca di recuperare gli anni persi e di spezzare l'arretratezza culturale ed economica. Tutto ciò accompagnato dall'inconfondibile orgoglio americano e da un positivismo regresso, che vuole gli interventi statunitensi come panacea per ogni male del mondo. 2.3 Il caso Saddam Hussein Durante lo smantellamento del regime dittatoriale di Saddam del 2003, le forze statunitensi oltre ad occupare il territorio, attuano interventi politici volti a stabilire un controllo totale sulle forze sunnite. Spiccano per gravità delle loro ripercussioni due provvedimenti. Il primo noto come De-Baathification of Iraqui Society 12. Ha lo scopo di eliminare ogni traccia del partito Baath, che ricordiamo essere il polo centrale dell'affermazione sunnita, definito da Faleh A. Jabar come un: “Tribalismo statalista, un processo mediante cui i lignaggi tribali, così come le culture e i sistemi simbolici e fittizi primordiali, sono integrati nello Stato al fine di accrescere il potere politico di un'elite fragile e vulnerabile ai vertici dello Stato”. Con l'invasione americana del 2003, tutti coloro che avevano tratto benefici dal sistema dittatoriale di matrice sunnita, sia di status sociale che meramente economici (migliaia di uomini provenienti dal Triangolo Sunnita che entrarono a far parte di polizia, esercito ed intelligence sotto la direzione di Ussein, ma anche chi deteneva semplici cariche istituzionali), si è visto azzerare 11 Gugolo Renzo, Egitto e Arabia Saudita, Il Mulino, 2001/01 12 Per approfondimenti: https://www.ictj.org/sites/default/files/ICTJ-Report-Iraq-De-Baathification2013-ENG.pdf

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qualsivoglia funzione. Il secondo provvedimento avanza l'instaurazione di una CPA (Coalition Provisional Authority)13, che non è stata abbastanza sagace nel trovare le ragioni, politicamente estranee, per cui gran parte dei sunniti si è unito al partito Baath. Le motivazioni sono facilmente riconducibili alla ricerca di uno sbocco occupazionale, più che per prender parte ad un credo ideologico. Tutti i vantaggi del periodo dittatoriale vengono annichiliti, dissolti nell'aria polverosa delle colline irachene, creando uno scompenso economico ed emotivo data l'emarginazione inferta ai malcapitati. La rabbia nei confronti degli statunitensi cresce in quegli anni, immaginato con insistenza sempre maggiore come l'invasore distruttivo, limitatore d'autonomia decisionale. Tutta la frustrazione derivante da uno scenario di incertezza simile, sfocia nelle varie interviste dei reporter occidentali tra cui Rami, uno studente dell'università di Baghdad di 27 anni, che dichiara di esser divenuto un militante di Al-Qaeda quando, a pochi mesi dall'invasione americana alcuni soldati fanno irruzione nella sua abitazione, poiché qualcuno aveva denunciato la sua, discutibile date le prove inesistenti, collaborazione con la resistenza. I soldati nella ricerca di un movente qualsiasi devastano l'abitazione. Sua madre si getta ai piedi dei soldati implorandoli di non distruggere le poche cose della famiglia. Uno di loro la uccide. “E' per questo che combatto per Al-Qaeda”, afferma Rami14. Gli uffici stampa dunque, si pongono come zona franca dove esprimere le proprie rabbie celate e renderle questione pubblica, globale. La fede religiosa poi fece da determinante al tutto. Si inserisce come sostanza collosa tra le ragioni di ribellione verso la coalizione, espressione di orgoglio per la propria appartenenza territoriale e culturale. Haqi, un venticinquenne membro della cellula Ahmed, chiarisce che: 13 CPA: http://www.iraqcoalition.org/regulations/20030516_CPAREG_1_The_Coalition_Provisiona Authority_.pdf 14 Todenhöfer Jürgen, Chi piange per Abdul e Tanaya? Gli errori della crociata contro il terrorismo, 2009

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“Questa lotta non è per Saddam. E' per il nostro paese e per Dio. Il nostro scopo non è impossessarci del potere o dominare il paese. Vogliamo soltanto cacciare gli Stati Uniti e fare in modo che la parola di Dio abbia il potere in Iraq”15. In questa intervista Haqi, non a caso, identifica le moschee come l'unica autorità legittima in grado di colmare il vuoto creatosi dopo il crollo del regime. Durante l'invasione di Saddam, la quantità di dolore e la visione delle guerriglie urbane hanno avvicinato molto la popolazione alla fede in Dio, predicando nella sharῑ῾ah il ristabilirsi di un equilibrio perduto che ponga fine alle sofferenze. Questo episodio, storicamente parlando, di “bolla d'aria” nel circuito idraulico della politica islamica è piuttosto diffuso. E' possibile asserire che causa di questi ricorrenti problemi di malfunzionamento siano dovuti all'alternanza disorientante delle leadership islamiche. L'America d'altro canto, anziché spurgare del tutto il circuito nella ricerca ed eliminazione delle fastidiose bolle d'aria, ne ha eliminate alcune con metodi grossolani e introdotte altre. Questo tipo di condotta ha portato, come abbiamo altresì affermato, ad un odio storico, riferendo con ciò la tendenza degli attuali esponenti al comando di rimembrare ossessivamente i comportamenti dannosi e anti-islamici degli Stati Uniti e tramutarli in simboli. Ne è una prova un documento video che ritrae Al-Baghdadi16 durante la sua unica comparsa pubblica in una moschea, la AlFordose Monsque in Raqqa, dove quest'ultimo viene definito il discendente di Hussein e della tribù del profeta 17. Per completezza, ricordiamo che anche Hussein si autoproclamò un discendente del Profeta, elaborando una genealogia che lo posizionava come discendente di al-Husayn ibn Ali, il nipote più piccolo di Maometto, prontamente smentita dopo poco tempo dalle

15 Idem 16 E' il capo del cosiddetto Stato Islamico dell'Iraq e del Levante, un'attività terroristica fondamentalista attiva in Iraq e Siria 17 Vice: The Islamic State, https://www.youtube.com/watch?v=AUjHb4C7b94

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autorità competenti18. E' facile dedurre l'utilità nell'insinuare nelle menti dei governati il fatto che colui al comando del popolo abbia una qualche corrispondenza divina. Corano e politica sono un'unica forma di due complesse entità, Giano Bifronte di sacralità contrapposta alla tékhnē necessaria per l'asservimento del volere divino.

18 Wikipedia, Saddam Hussein, https://it.wikipedia.org/wiki/Saddam_Hussein

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3 La strategia del martirio

SOMMARIO: 3.1 L'asimmetria militare e la contaminazione terroristica dei media - 3.2 Gli obiettivi processuali del terrorismo - 3.3 Il martire come veicolo comunicativo del jihad armato - 3.3.1 Il videotestamento come strumento di propaganda

3.1 L'asimmetria militare e la contaminazione terroristica dei media Se lo stato di salute di cellule terroristiche come Al-Qaeda risulta difficile da mappare, lo studio delle condizioni in cui versa la lotta al terrorismo, soffre di un'asimmetria notevole. Ossia, in che modo un attore coinvolto in una guerra faccia uso di tattiche che sfruttano le fragilità di un nemico più forte militarmente1. Come fanno delle milizie composte da pochi uomini inesperti, armi russe vecchie di 25 anni, piani strategici obsoleti, a preoccupare e recare danni

ad

eserciti

di

professionisti?

Parte

dello

svantaggio

deriva

dall'insospettabilità di una donna con il volto coperto, di un uomo al mercato, di un giovane con la divisa scolastica. L'imprevedibilità di una vita umana che si annienta per un credo non regge ad alcun piano strategico. Ma non è tutto. Per Sun Tzu, il noto stratega cinese, dissimulazione, stratagemmi e altri sotterfugi, ricorrono frequentemente ove si manifesta una lotta asimmetrica. E ancora ci dice: “Ogni guerra è basata sull'inganno, pertanto quando si è in grado di attaccare bisogna sembrare incapaci di farlo. Quando si ricorre alla forza bisogna sembrare inattivi, quando si è vicini si deve indurre il nemico a credere che si è lontani, quando si è lontani bisogna fargli credere che si è vicini”. 2 1 Kushner H.W., Asymmetrical Warfare, Sage, pag.54-56. 2 Giles L, Sun Tzu, The art of war, The internet classic archive.

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Oggi è facile comprendere quali siano gli strumenti atti a tale intenti. Un'organizzazione così granulare trae enorme benefici da internet, che dispensa istruzioni per la fabbricazione e l'uso di esplosivi artigianali, come quelli a base di fertilizzanti sadicamente adoperati da Timothy McVeigh nel 1995 o Anders Behring Breivik nel 2011. Tra i fattori peculiari dell'asimmetria vi troviamo anche caratteri culturali e istituzionali. L'ampia e libera diffusione e produzione di informazioni, incessantemente alimentata da network televisivi e digitali, fotocamere, videocamere o semplicemente ibridi quali gli smartphone, sono di interesse per le cellule terroristiche come rosume per i tarli. La copertura dei media riguardo avvenimenti di politica internazionale a carattere terroristico è puro ossigeno per i gruppi armati. Grazie ad essi, infatti, si può perpetuare quella strategia di dissimulazione della realtà, distribuzione mediatica degli eventi (un attacco rimane inefficiente senza un video che ne esporti la distruttività in tutti gli schermi del mondo 3) e diffusione propagandistica. Inoltre, semplificano quel sentimento di allarmismo, di costante insicurezza che ombreggia il terrorismo di ubiquità, di incertezza e ansie. Gli eventi in video che illuminano i nostri salotti di bagliori improvvisi accadono sì lontano migliaia di chilometri, ma la sensazione che pervade chi non è colto direttamente in queste dinamiche, è di non potersi sentire più al sicuro nemmeno a casa propria. Sotto i loro riflettori e gli oculati tagli in sala montaggio, è come se un attentato replicasse continuamente sé stesso: può imporsi all'attenzione sgomenta di un numero indefinito di persone e come un ago ipodermico4, si insinua sottopelle, amplificando gli effetti psicologici che i terroristi cercano di provocare alla platea inerme. Un altro svantaggio è corrispondente alla sensibilità condivisa dalla quasi totalità delle popolazioni occidentali verso i costi della guerra, economici e sociali. Plasmata da decenni di violenza su schermo, tale sensibilizzazione mcluhaniana, ci ha reso 3 Washington Post, Without the video it's just an attack, http://www.washingtonpost.com/wpdyn/content/video/2007/09/28/VI2007092800608.html 4 Smiraglia S., Psicologia di massa della comunicazione globale, 2013

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incoscientemente pacifisti e abbassato la soglia di tolleranza verso le sofferenze altrui e i conflitti armati, anche quelli strategici. La fortunata estraneità alla guerra, ci rende psicologicamente vulnerabili agli attacchi terroristici, che devono essere spettacolari, improvvisi e luminescenti. Lo scenario che ci offrono i media fugge nell'immagine per esasperare l'immaginario, che funge da rifugio contro la realtà. Con l'attentato alle Torri Gemelle, il rifugiarsi nell'immagine crea un sovrappiù di realtà e ci troviamo di fronte ad un simbolo totale, proprio come Mauss parlava di “fatto sociale totale”. La caduta delle Torri genera incertezza perché è inimmaginabile; il massimo grado di soddisfazione che un attentatore può ricevere dal proprio martirio è penetrare con esuberanza nell'immaginario altrui, sfondare la realtà grazie alla diffusione immateriale dell'immagine, che lo vede immolarsi verso la beatitudine. E' questa capacità di far collassare gli universi immaginari umani, schiacciati l'uno sull'altro fino a disturbarsi, che fa entrare il terrorismo tra la simbologia più ascendente che il genere umano abbia mai conosciuto. Si potrebbe anche riconoscere, nel terrorismo, una qualche forma di azione politica, volontà di affrontare con la morte un nemico che per anni è stato considerato immortale e intoccabile, blindato nelle sue città futuristiche e dalla società incorporea e materialista, dispersa nell'atomicità dei bit con i quali colloquia. Allora qual è il messaggio oscuro dei terroristi, si chiede Baudrillard? C'è lo spiega con un racconto folcloristico: “C'è un fiaba di Nasreddin in cui lo si vede passare la frontiera tutti i giorni con alcune mule cariche di sacchi. Ogni volta controllano lui, controllano i sacchi, ma non trovano mai niente. E Nasreddin continua a passare la frontiera con le sue mule. Molto tempo dopo, qualcuno gli chiede che cosa faceva passare di contrabbando. Nasreddin risponde:<<Facevo passare le mule...>>”5. Baudrilland ci mette in guardia dall'osservare il terrorismo come qualcosa da 5 Baudrillard Jean, Lo spirito del terrorismo, 2002, Milano

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interpretare unicamente in termini unicamente religiosi o politici o ideologici, ma ci esorta a fondere il tutto in un unico atto estremo di suicidio fotografico, di sintesi immaginifica, espansione di una realtà che ci investe come un'onda d'urto. Va osservato che, l'insorgere della paura, non è in diretto rapporto con l'effettivo pericolo, definito come rischio statistico di subire un danno, persino la morte6. Diversi studi dimostrano che ciò che conosciamo, e che quindi dominiamo mentalmente, non ci fa paura. Il terrorismo, avvalendosi di questa tendenza, si insidia tra quelle forze di cui non nutriamo un sapere completo, ci appare inafferrabile, sino a divenire una vera e propria psicosi. Il nostro linguaggio comune tende a riflettere questo aspetto della psicologia ingenua che distingue paura, insicurezza e rischio. Il criterio linguistico distintivo è quello che gli psicologi chiamano il test del “non so perché”. Nella società odierna, afflitta da un senso di spossessamento del controllo, vige la formula del “mi sento insicuro, ma non so perché”. Il terrorista genera paura per una serie di motivi che sono in parte ancora ignoti e ciò aumenta il senso di ansia corrispondente. Il terrorismo è la sorgente di quel “non so perchè”. Hobbes fu il primo studioso ad analizzare la mobilitazione della paura sia come leva per la dominazione da parte del sovrano, sia come garanzia che il sovrano deve dare a i suoi sudditi: difenderli dalle loro paure. Secondo le teorie assolutistiche di Hobbes, il terrorismo apparirebbe come l'antagonista diabolico del Leviatano biblico7. Raffigurazione allegorica quale “Re su tutte le bestie più superbe”8, egli è fatto per non aver paura, potenza priva di controllo che riporta nel mondo un caos primordiale.

6 Legrezzi Paolo, Reazioni al terrorismo, Il Mulino, Marzo 2001. 7 Lolli Roberto, Chi ha paura di Thomas Hobbes, Enciclopedia Treccani, http://www.treccani.it/scuola/lezioni/in_aula/scienze_umane_e_sociali/hobbes/lolli.html. 8 Giobbe, Bibbia Antico Testamento, 40:25-32. 41:1-26.

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3.2 Gli obiettivi processuali del terrorismo Quelli che Domenico Tosini chiama obiettivi processuali, altro non sono che la messa in opera del complesso armamentario psicologico che, nell'asimmetria politico-strategica, vede il terrorismo infliggere lacerazioni alle scelte politiche degli occupanti. La priorità del terrorismo suicida è “imporre costi insostenibili ai nemici con lo stillicidio delle loro truppe” afferma Tosini9. Aumentare la mal tolleranza di sacrificare vite umane in paesi belligeranti, amplificato dalla trasmissione mediatica delle fatali e incontrollabili bombe umane, è un concetto chiave della logica terroristica. La capacità coercitiva di circoscrivere, con atti di disumana follia suicida, l'intraprendenza politica dell'altro è descritta impeccabilmente dal politologo Alexander P. Schmid: “Il terrorismo si riferisce, da un lato, a una dottrina attinente alla presunta efficacia di una speciale forma o tattica di violenza politica coercitiva e volta a generare paura e, dall'altro, a una pratica cospirativa di azioni calcolate, dimostrative e dirette, prive di limiti legali e morali, aventi come bersagli principalmente civili e non-combattenti e impiegate per esercitare effetti propagandistici e psicologici su varie audience e parti coinvolte in un conflitto.”10 Schmid, ci rivela anche quelli che sono i metodi manipolatori insiti nella percezione comunicativa e simbolica di determinati attentati: “Le vittime immediate della violenza sono generalmente scelte a caso (bersagli di opportunità) o in modo selettivo (bersagli rappresentativi/simbolici) tra una popolazione, e hanno la funzione di comunicare messaggi. I processi di comunicazione (basati sulla violenza o sulla minaccia) tra i terroristi (organizzazione), le vittime (esposte al pericolo) e i bersagli principali sono adottati per manipolare il bersaglio principale (una o più audiance), trasformandolo in un bersaglio da terrorizzare, al quale inviare certe richieste o dal quale ottenere attenzione, a seconda che lo scopo primario sia l'intimidazione, la coercizione, o la

9 Tosini Domenico, Martiri che uccidono,Il Mulino, 2012. 10 Schmid P. Alex, The Definition of Terrorism, 2011, pag 39 - 157.

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propaganda.”11 La vittima è solo materia simbolica per esprimere un messaggio, provocare uno shock ed immobilizzare non solo l'opinione pubblica ma anche la politica degli offesi. Un esempio esplicativo è offerto dall'attentato di Madrid datato 11 Marzo 2004, a cura di Al-Qaeda. La rivendicazione dell'attentato viene diffusa online nel Dicembre 2004 e si legge: “Al fine di costringere il governo spagnolo a ritirarsi dall'Iraq, la resistenza dovrebbe assestare duri colpi alle sue forze. Ciò dovrebbe essere accompagnato da una campagna d'informazione che chiarisca le verità sull'Iraq. Riteniamo che il governo spagnolo non possa tollerare più di due, massimo tre attacchi, dopodiché verrà costretto a ritirarsi come effetto della pressione popolare. Se le truppe rimarranno in Iraq dopo questi attacchi, la vittoria del Partito socialista è quasi sicura, e il ritiro delle forze spagnole farà parte del programma elettorale. Siamo infine convinti che il ritiro delle forze spagnole o italiane dall'Iraq provocherà una forte pressione sulla presenza britannica, una pressione che Tony Blair potrebbe non essere in grado di affrontare.”12 Alla vigilia delle elezioni, degli ordigni esplosivi posti in alcuni zaini e collocati su dei treni metropolitani, vengono fatti brillare a distanza tramite dei telefoni cellulari, uccidendo 200 persone e ferendone 2.000. Josè Maria Anzar, allora Presidente del Governo, rischia il tutto per tutto, tentando di insabbiare la cosa attribuendola all'ETA13. Quando la verità e la conseguente indignazione vengono a galla, il voto plebiscitario subisce una clamorosa virata. Il Partito popolare e il suo primo ministro perdono a favore di Josè Luis Rodriguez Zapatero, che come promesso in campagna, ritira le truppe spagnole dall'Iraq14. Al-Qaeda riuscì, in quella rara occasione, ad innescare turbamenti 11 Schmid Alex P., Albert J. Jongman, Political Terrorism, Londra, 1988 12 Nesser, Jihadism in Western Europe after the Inavsion of Iraq, vol.29, n.4, pag. 323-342 13 Euskadi Ta Askatasuna è un'organizzazione armata terroristica basco-nazionalista separatista. Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Euskadi_Ta_Askatasuna. 14 Reed J. Donald, Beyond the War on Terror: Into the Fifht Generation War and Conflict, Routledge Taylor & Francis Group, vol.31, n.8, pag.664-722.

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emotivi di una eccezionale efficacia e far valere il principio dell'asimmetria come da manuale. Capace di ridurre al minimo la più grande forma di scelta individuale che la società conosca, il voto politico, il terrorismo ha imposto le sue regole, facendo della violenza un presupposto per ottenere la reazione sommessa della controparte. Nel lucido piano sunnita l'asimmetria non si manifesta, a dispetto di quanto potremmo pensare, solo verso i paesi occupanti, ma in misura uguale anche sulle popolazioni locali. Gli insorti oltre ad attaccare generalmente personale non-militare, dunque civili, compensa l'asimmetria scagliando la sua violenza contro gli sciiti, ad esempio, costringendoli a non collaborare con le truppe straniere. Il gioco dei sunniti è freddamente incorniciato da Al-Zarqawi, capo di Al-Qaeda dal 2004 al 2006, in una lettera indirizzata a Bin Laden: “Costoro [gli sciiti], secondo noi, sono la chiave del cambiamento, perché attaccarli nella loro dimensione religiosa, politica e militare rivelerà solamente la loro rabbia verso i sunniti, allora mostreranno le zanne dell'odio segreto che cova nei loro cuori. Riuscendo a trascinarli in una guerra di religione, potremmo svegliare i sunniti addormentati che sentiranno il pericolo latente e la morte crudele di cui li minacciano gli sciiti. [...] Si sono sottomessi agli americani, li hanno sostenuti, si sono messi al loro fianco contro i combattenti del jihad [...]”15 La guerra civile che si scatenò nel 2007 è frutto di questa attenta e accurata pressione psicologica. Aizzare all'odio, alla lotta armata e religiosa, è un modo come un altro per raggiungere determinati obiettivi, anche a costo di coinvolgere un numero imprecisato di vittime civili. L'ausilio degli attentati è uno stratagemma per evitare il combattimento, non per vigliaccheria, ma per economia di conflitto. Gli attentatori sono pochi ma fanno ingenti danni, non hanno bisogno di preparazione, sono rapidi e si presentano come l'unica arma a loro disposizione realmente efficace. A queste lucide previsioni l'asimmetria 15 Al Zarqawi Abu masab, Il “jihad” in “Mesopotamia”, Milelli, 2006.

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è sottoposta, una condizione insita di pericoli e di eventualità, che entusiasma gli animi deboli con lo spirito del jihad, sacrificando al patibolo i martiri che entreranno a far parte dell'orgoglio alla resistenza armata. 3.3 Il martire come veicolo comunicativo della lotta armata La prima campagna suicida nel medio-oriente fu quella intrapresa nel 1982 da Hezbollah, l'anno dell'invasione israeliana del Libano. L'organizzazione di matrice sciita si propose attivamente nella liberazione del Libano, esercitando una lotta armata che durò fino al 2000. Una lenta e logorante guerra che rafforzò uno degli obiettivi principali di Hezbollah: trasformare il Libano in uno stato basato sulla legge islamica e quello percepito come il più onorevole degli intenti, liberarlo dall'occupazione israeliana. L'ausilio di attentatori suicidi in Libano s'ispirò ai giovani martiri del regime iraniano durante la guerra degli anni '80 contro l'Iraq. Il 1982 è una data simbolica per la martirizzazione dei sacrifici umani, che si espresse con cinque attacchi, colpendo un corposo numero di marines americani e francesi 16. La perdita fu tale che Ronald Reagan scrisse nelle sue memorie: “il prezzo da pagare a Beirut era così alto [...] che dovemmo ritirarci” 17. E così fu. La costatazione che una persona possa, per ragioni plurime ma pur sempre legate a ideologie politiche (e ripetiamo, politica e religione islamica sono inscindibili), far deflagrare il proprio corpo con l'intento di danneggiare il nemico materialmente e psicologicamente, è qualcosa a cui difficilmente ci si abitua. Il motivo per cui subiamo queste influenze è stato teorizzato dal politologo Anthony H. Cordesman: “Non è sempre evidente che le tecniche degli attacchi suicidi fossero tatticamente necessarie. In molti casi, bombe ad orologeria avrebbero potuto causare lo stesso danno. La realtà irachena 16 Kramer Martin, The Moral Logic of Hezbollah, 1988 Reuter Christoph, La mia vita è un arma, Milano, 2006 17 Isaacson Walter, An American Life, New York, Simon & Schuster, 2003

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mostra che, in ogni caso, gli attentatori suicidi hanno avuto un impatto psicologico maggiore e hanno ricevuto un'attenzione eccezionale da parte dei media. Allo stesso tempo, essi hanno operato come simboli di dedizione e impegno, hanno potuto essere rappresentati come una forma di martirio islamico e hanno ottenuto più sostegno politico e attenzione tra i simpatizzanti verso la causa politica perseguita dall'organizzazione”18 La narrazione di un evento così drammatico segue un percorso subliminale, che non è subito visibile ma necessita un'ulteriore e approfondita analisi. Gli attentatori affascinano e inorridiscono per l'impegno senza condizioni, l'imperturbabile devozione alla causa politica, la determinazione nell'operato da portare a termine. Diego Gambetta, sociologo del European University Istitute, parafrasa al meglio questo concetto: “Le missioni suicide si spingono oltre: cosa può incutere più paura del fatto che ci sono persone che danno alla propria vita meno valore della tua morte?”19 La paura si insinua nell'insicurezza e si arricchisce nelle menti di chi combatte contro quello che appare come una forza al di fuori del proprio controllo. Tra queste potenze vi troviamo anche i gruppi palestinesi di Hamas, sicuramente il movimento che incarna l'espressione più radicale dell'opposizione sunnita. Dal suo primo attentato che risale al 1993 fino al 2000, ha causato 901 morti. 20 Fondato dallo sceicco Yasin, Hamas ha ridefinito la sua politica con un impegno di welfare indipendente che, senza dubbio, è una delle ragioni del consenso di cui ha goduto tra i palestinesi. Questo elargire doni, attraversare le strade sventolando i vessilli della liberazione, instaurano una condizione di fiducia e di avvicinamento alla causa, che verrà riutilizzata dal recente Stato Islamico. Tutta la passata storia di martirio e terrorismo politico, verrà 18 Cordesman H. Anthony, Iraq's Insurgency and the Road to Civil Conflict, Westport, 2008. 19 Gambetta Diego, Making sense of suicide missions, Oxford University Press, 2006. 20 Ricolfi Luca, Palestinians 1981-2003, in Gambetta: Can We Make Sense od Suicide Missions? Il terrorismo suicida nel caso palestinese: una ricerca empirica, in “Quaderni di Scienza Politica”, vol.15, n.2, pag.207-249, 2008.

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assorbita e ricondotta ai propri fini da tutte le organizzazioni islamiche che si succederanno da qui in poi. Quelli che restano uccisi nel jihad vengono chiamati martiri, in arabo sharid, che tradurremo come una persona pronta a subire qualsiasi tortura, o in via estrema la morte, piuttosto che rinunciare alla propria fede. Sidiq khan fu uno sharid, azionò la sua bomba vicino alla stazione Edgware Road della Circle Line, la metropolitana di Londra, uccidendo sei persone e ferendone 163. La sua dichiarazione di guerra è contenuta in un video realizzato dalla casa di produzione di Al-Qaeda nota come As-Sahab. Oltre alle usuali parole di ossequiosa fedeltà al profeta e alla devozione verso l’Islam, possiamo cogliere la presenza forte dell’oppositore verso cui rivolgere le proprie pulsioni fondamentaliste: “I vostri governi eletti democraticamente compiono continuamente atrocità contro il mio popolo ovunque nel mondo, e il sostegno che fate loro vi rende direttamente responsabili, proprio come io sono direttamente responsabile per quanto riguarda il proteggere e vendicare le mie sorelle e i miei fratelli musulmani. Fintanto che noi avremo bisogno di sicurezza, voi sarete i nostri bersagli da colpire, e finché voi non smetterete di bombardare, gassare, imprigionare e torturare il mio popolo, noi non porremo fine a questa lotta. Noi siamo in guerra [...] adesso anche voi proverete la realtà di questa situazione”.21 E’ possibile leggere senza velature, la necessità della belligeranza come arma di difesa dopo anni di sottomissione incondizionata, come dimostrazione agli infedeli dei patemi vissuti dal popolo musulmano. Sottoporre gli occidentali alla recrudescenza di certi scenari è negli intenti di Al-Qaeda una condizione suprema. Maggiore sarà l’impatto visivo del martire che si immola verso la purificazione e migliore sarà la sua venuta nei cieli, perché avrà reso tangibile, udibile, odorabile, il miasma che pian piano arriva all’opinione pubblica, mentre le polveri scure della distruzione si disperdono nell’atmosfera. 21 As-Sahab, The Last Will of the Knights of the Blessed Expedition (Part 1)

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Il telespettatore di un martirio, isolato dal contesto drammatico dal quale tali immagini traggono valore, vive un senso di abbandono, di deformata e incomprensibile realtà. Per chi ha sempre vissuto la natura pacifica della politica e di tutte le sue, estremizzazioni comprese, sfumature, tali scenari risultano totalmente insensati. Non vi è ragione plausibile per cui un uomo possa donare la propria vita, nel più brutale dei modi, per una causa dal quale le vittime ignare sono totalmente avulse. Se volessimo disegnare l’identikit di questo movimento, trarremmo beneficio osservando, o meglio rifacendoci ai tanti scritti, che guide come Al-Zawahiri hanno disseminato tra i proseliti. Un medium, la scrittura, al quale il pensiero coranico appartiene dalla terza dinastia, che prese in impegno la trascrizione della parola profetica, affidando alla sua tolleranza al fluire del tempo alcuni dei tratti salienti del pensiero fondamentalista. Al-Qaeda quale pan-islamismo o pan-nazionalismo è mutata nel tempo corrispettivamente ai luoghi, alle modalità, e ai nemici protagonisti dei conflitti. Vedremo dunque che nel periodo precedente al movimento qui citato, la lotta era sempre votata alla difesa dei propri territori dall’invasione di russi, serbi e sovietici. Le loro azioni erano circoscritte alle aree geografiche interessate dai conflitti, ragion per cui possiamo parlare di una strategia locale, identificandola come jihadismo panislamico tradizionale. Con Al-Qaeda lo scontro allarga le proprie vedute, assume una scala planetaria grazie ad alleanze e una capillarità atomica, dato che i gruppi sono nella maggior parte dei casi piccoli e ben definiti, pronti a colpire qualsiasi bersaglio a livello globale. Questo che si identifica come jihadismo panislamico globale deve inderogabilmente assumere per osmosi quei tratti della modernità, metodi comunicativi in primis, che permette ad esso di espandersi tanto tra le celate nicchie di aderenti alla causa, quanto elargire una modesta quantità di prodotti audio-visivi che tratteggino fedelmente lo stato di terrore che il movimento intende dispiegare.

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Agli scritti di Al-Zawahiri quindi, succedettero i prodotti video, che arrivano dritto alla sensibilità e al cuore dell'audience. L'attentatore subisce una metamorfosi complessa che lo rende martire grazie ad una produzione di informazioni, in cui rientrano emozioni e percezioni, nonché una serie indefinita di significati che nella messa in video trovano la propria concretizzazione. La capacità di segnalazione che un attentato riesce a permeare, mostra un potere imprevedibile, inarrestabile e reattivo, che solo la velocità dei frame in Rgb riesce a rendere con fedeltà. Fumo, esplosioni, fiamme sono tra i segnali che meglio aderiscono all'indole terroristica, ma non è tutto. Anche il discorso è molto presente, data la quantità di videotestamenti che ci sono in Internet, divulgati da organizzazioni e attentatori. Il linguaggio dei mujahidin diventa strumento politico per esprimere le proprie ragioni. Come in un copione scritto da un bravo sceneggiatore o dall'assistente di un candidato che concorre alle primarie, l'attentatore divulga il suo credo. Assorto nel guardare ad occhi fissi la telecamera di una casa di produzione, lascia fluire il linguaggio senza pause e titubanze. Tutto è molto ritmico e organizzato, le parole scorrono lasciando il corpo dell'uomo con decisione, come se stessero attendendo quel momento da sempre. Il linguaggio si presta come materializzazione estrema di qualcosa che, fino ad un attimo prima, era solo virtuale, ideologia perversa di una mente offuscata dall'odio. Il videotestamento è uno strumento che chiarifica e aumenta considerevolmente quella produzione di percezioni su cui il terrorismo fa fede. L'attentatore è così sicuro di sé da non lasciar spazio alle titubanze, la gestualità accompagna il parlato con movimenti netti, ammonitori, inconfutabili. L'obiettivo principale dei videotestamenti è fondere identità e ideologia. Le parole di colui che imbocca la strada del martirio sono suggellate in prima istanza dalla presenza fisica, spesso caricata simbolicamente dal freddo metallo delle armi e dal coraggio nel mostrare il proprio volto, emblema dell'identità. Il tutto viene

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assemblato con contenuti ideologici, ossia: venerazione di figure carismatiche, devozione all'Islam, denuncia dell'oppressione subita dalla popolazione musulmana, l'esaltazione nell'associare un gesto così estremo a valori prestigiosi quali la fede nella causa, l'orgoglio, l'integrità morale, l'amore verso Dio e i propri simili. Shehzad Tanweer, in un video del luglio 2006 pone l'accento su quest'ultimi: “Allah, in Surat al Nisa, dice: “Ciò che è sbagliato è che tu non combatti per la causa di Allah e per coloro che sono deboli, malati, ingannati e oppressi, tra gli uomini, le donne e i bambini, il cui grido è: Nostro Signore, salvaci da questa città popolata da oppressori, e mandaci chi ci proteggerà e chi ci aiuterà”22. I messaggi impreziosiscono l'attentatore di parallelismi iconografici, che li rivestono di eroicità, come mandati dal Signore in persona per la liberazione del popolo. Il linguaggio sacro viene astutamente posato, come catrame su di un tetto, per isolarlo dagli agenti esterni, dalla luce del sole e da occhi indiscreti. Il mendace obiettivo di valenza politica, è tenuto al riparo dalle critiche assoggettandolo come volere divino e incontestabile. Così il popolo giunge alla visione di elaborazioni video come “The Manhattan Raid”, dove gli attentatori dell'11 settembre sono un tutt'uno con le loro armi e i bersagli colpiti. E' un audace utilizzo del green screen, che diluisce il martire in una nutrita serie di simboli che trovano vita alle loro spalle, come possibili bersagli in fiamme e sfoggio di armi. I martìri sono capaci di influenzare il comportamento degli umani con il loro potenziale comunicativo e i gruppi armati non si lasciano sfuggire occasioni così ghiotte di aumentare il proprio potere coercitivo, etichettandoli come appartenenti a loro.

22 As-Sahab, The Last Will of the Knights of the Blessed Expedition (Part 2).

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3.3.1 Il videotestamento come strumento di propaganda I videotestamenti terroristici sono artefatti di estrema efficacia, utilizzati dalle cellule per acutizzare lo shock, già di per sé notevole degli attentati, con la semplice verità. Spesso ci chiediamo cosa possa aver spronato una persona a compiere atti di estrema dissociazione dalle regole basilari della società, ma in questi casi non dobbiamo compiere alcuno sforzo cognitivo e di immedesimazione. Il tutto è spiegato e reso pubblico, diffuso con i media più invadenti e con la maggiore propagazione accessibili ad oggi. La consapevolezza di essere i bersagli di una lotta impari manda in tilt la comunità,

che

risponde

a

sua

volta

con

frustrazione,

sigillando

indiscriminatamente tutti i musulmani in una teca d'astio e infondati stereotipi. I

videotestamenti

sono

un

sistema

sincretico,

che

inglobano,

contemporaneamente, la difesa della libertà e il culto della morte. Consapevoli che i vantaggi strategici del suicidio militare siano obiettabili, amplificano l'impatto psicologico con un'apparente commemorazione ai valorosi caduti. Il videotestamento, per coloro i quali credono nel culto del martire, non è affatto sinonimo di morte, bensì l'inizio di una nuova esistenza. Uno degli intenti perseguiti è ovviamente il fine propagandistico, ma non si tratta in questo caso di striscioni, spot, cartellonistica, ma un vero e proprio apparato a sé stante che alcuni studiosi hanno chiamato meccanismi di framing.23 Partiamo dal principio, cosa si intende per frames? I frames sono: “Schemi interpretativi che permettono agli individui di localizzare, percepire, identificare e codificare accadimenti che si verificano nella loro vita e nel mondo nel suo complesso. Grazie alla capacità di dare un significato a eventi e accadimenti, i frames rendono possibile l'organizzazione dell'esperienza e offrono una guida all'azione individuale o collettiva”.24 23 Cook & Allison, Understanding and Andressing Suicide Attacks, Westport, 2007 Della Porta e Diani, Social Movement, Oxford, Blackwell, 2006. 24 American Sociological Review, Frames Alignment Processes, Micro-mobilization and Movement Partecipation, vol.51, agosto 1986, pag. 464-481.

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Vi sono tre tipi di frame, il primo è detto diagnostico. Il suo compito sta nell'individuare le cause e i responsabili dei mali che affliggono una collettività. Nel terrorismo moderno queste cause sono l'interferenza di corpi estranei, come gli Stati Uniti nel cammino dei paesi musulmani, ad esempio. Il secondo tipo comprende i cosiddetti frames prognostici, che formulano le soluzioni per la salvaguarda della propria comunità. La scelta maggiormente perseguita, se non la sola, è quella del jihad armato. Unica arma efficace per liberarsi del nemico invasore, l'apostata che solerte si infiltra negli organismi come un parassita. Come si può leggere da un documento probabilmente scritto da Yussuf al-Ayyiri, leader di al-Qaeda fino al 2003: “[…] Il termine -operazioni suicide- è improprio. E' immensa la differenza tra chi si suicida e chi si sacrifica spinto dalla forza della fede e delle sue convinzioni, allo scopo di far trionfare l'Islam, sacrificando la sua vita ed affermando la parola di Dio. [ ] La nostra esperienza è che non esiste altro metodo in grado di creare tanto terrore nei loro cuori e di sconvolgere il loro spirito. […] Sul piano materiale,queste operazioni infliggono le più grandi perdite ai nemici col costo più basso per noi. […] Cercare di essere uccisi e perseguire il martirio è un atto legittimo ed encomiabile. […] A prescindere dal livello di rischi in un'operazione di jihad, questa rimane ammissibile per definizione. Più grande è il rischio, maggiori saranno i riconoscimenti”.25 Il terzo tipo è quello dei frames motivazionali; le strategie comunicative con cui le organizzazioni suggestionano e persuadono a collaborare. Appelli finalizzati al dovere morale e religioso a cui deve rispondere ogni musulmano. A tal proposito, Bin Laden, disse nell'aprile 2006: “[…] Il jiahd è oggi un imperativo per ogni musulmano. La comunità commetterebbe un peccato se non offrisse un adeguato sostegno al jihad”.26 Gli effetti della propaganda terroristica sono difficilmente comparabili con 25 Religionscope, The Islamic Ruling on the Permissibility of Martyrdom Operations, 2011. 26 Al-Qaeda 2006 Yearbook, Oh People of Islam, London, TGL Publication, 2008, pag. 111-148.

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qualsiasi altra diffusione. Facendo uso di risorse online, il senso di comunità a cui i leader fanno spesso ricorso si espande e si digitalizza. I video, gli appelli, i dettami delle figure carismatiche, ma anche le strategie e i consigli, diventano satelliti d'una costellazione sperduta ai quattro angoli del web. E' questo uno dei motivi per cui la tendenza negli ultimi anni è nell'osservare, e purtroppo constatare, l'avvicinamento al fondamentalismo islamico da parte di molti musulmani nati e cresciuti all'estero. Incalzati da una radicalizzazione politico-ideologica, sono finiti vittime di quella propaganda di cui abbiamo parlato finora. La fascinazione al martirio come risposta divina, polverizza ogni timore nel momento in cui ha trovato conforto e confronto con persone che condividono la stessa dottrina. Dona loro il coraggio di abbandonare tutto, di perdere tutto, esistenza compresa, per compiere il dovere supremo del martirio, quello che in assoluto è ritenuto il più onorifico tra i sacrifici. E' questo ciò a cui punta la propaganda terroristica, arrivare ovunque per cogliere e nutrire menti influenzabili da un certo tipo di linguaggio e indurli a compiere il loro destino. Qualora non fosse possibile allacciare rapporti dal vivo, le community online offrono spazi virtuali, i cosiddetti forum, in cui la propaganda si rafforza ulteriormente. I giovani iscritti non sempre sono in grado di cogliere la distorsione causata delle sfaccettature religiose e di come un certo tipo di ideologia si percuota nella realtà. E' proprio quest'ultima, la realtà, a presentarsi rarefatta e alienante per quei soggetti che possiedono conoscenze dell'Islam inadeguate a sviluppare un pensiero critico. Gli effetti della propaganda che sfociano in iniziative terroristiche, si virtualizzano sugli schermi, come i luoghi dove vengono perlopiù diffuse. In questo limbo surreale di collettivismo radicale, il jihadismo prende forma, dove menti bisognose di appartenere a sistemi chiusi, vengono indottrinate alla contrapposizione “noi-loro”27. Questo genere di attivismo antipolitico non si è 27. Per approfondimenti consultare: Donatella Campus, L'antipolitica al governo, De Gaulle Reagan

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mai del tutto focalizzato su questioni razziali e di credo religioso prima dell'avvento del radicalismo digitale, che nel neonato Islamic State trova il suo pi첫 grande e prolifico realizzatore.

Berlusconi, Il Mulino, 2007.

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Conclusioni Dalla metà del 2014, i trentacinque mila chilometri quadrati che si estendono da Aleppo a Diyala, sono tra le porzioni di globo più discusse e temute al mondo. Vi risiedono sei milioni di persone, partecipi o semplici spettatori della conquista via terra più veloce e incredibile del XXI secolo. Un'avanzata che tratteggia e richiama storie ingiallite da migliaia di anni trascorsi, quando i Sumeri si espandevano seguendo le sponde del Tigri e dell'Eufrate, facendovi sorgere sulle rigogliose rive, città come Babilonia. Non dissimile è stato il percorso dello Stato Islamico, che ha inanellato senza sosta vittorie in successione ravvicinata, proprio lungo quelle sinuose sponde, assoggettando in poco più di 12 mesi terre e popoli diversi1. A bordo di vecchi pick-up, i militanti sventolano il vessillo nero sul quale viene riprodotto a caratteri bianchi la prima parte della Shahada, che recita in arabo “ilàha illa Allàh” ossia “Non c'è divinità se non Allah”2, proprio a ribadire che quella portata avanti non è un'invasione qualsiasi ma un'opera trascendentale, di volere divino, alla quale è meglio non frapporsi. Durante l'avanzata presso i due fiumi l'Islamic State non ha perso occasione di proseguire con la sua propaganda, subentrando nei territori come soggetto salvifico e redentore. Le sfilate vittoriose nelle città occupate sono accompagnate dalla distribuzione di viveri e denaro, come farebbe una qualunque Onlus. Nelle piazze principali, vengono installate televisioni che diffondono video esplicativi della potenza islamica. Perfezionamento simbolico di un processo già in atto, i militanti diventano eroi al pari di una serie-tv americana. E' proprio su questo aspetto comunicativo che occorre soffermarsi, chiave sintetica della facile avanzata islamica in Siria e Iraq. Dopo un veloce sguardo alla breve, ma intensa, storia dello Stato Islamico, 1. Per approfondimenti sull'avanzata dell'Isis visionare l'eccellente articolo del New York Times a questo link: http://www.nytimes.com/interactive/2014/07/03/world/middleeast/syria-iraq-isis-roguestate-along-two-rivers.html?_r=1 2 Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Bandiera_dello_Stato_Islamico

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siamo tutti concordi nell'accettare che l'avanzata fondamentalista sia stata tra le più brucianti e vittoriose di questo secolo. Non possiamo neppure negare, tuttavia, che il vero successo di Al-Baghdadi 3 non si è manifestato sulle aride distese di Aleppo o di Raqqa, ma sulle frequenze espresse in herz delle emittenti radiotelevisive, all'interno dei pacchetti a commutazione con i quali il web dialoga, e con ogni media disponibile. E' con la battaglia comunicativa che il neo califfo, Al-Baghdadi, è riuscito a farsi largo tra le città disposte tra i due fiumi precedentemente citati. Come in una qualsivoglia agenzia di marketing, le ideologie fondamentaliste vengono riassemblate in chiave moderna, tagliate e cucite su misura per un pubblico diverso da quello con cui era impegnato Al-Qaeda. Il green screen tanto adoperato da As-Sahab, non basta più per suggestionare le popolazioni arabe, sembra preistoria comunicativa al confronto. Serve qualcosa di più diretto, una storia con il quale il ricevente riesca ad immedesimarsi, lasciar effluire in esso i suoi sentimenti e le sue più recondite pulsioni. Per tale ragione sono stati creati veri e propri spot, che sembrano usciti da un palinsesto d'un canale generalista, dove il militante viene accompagnato nelle sue imprese da una narratore extradiegetico, spesso incalzato da cantilene che provocano ottundimento. Il messaggio è limpido e diretto, ne riprendo alcuni tratti da un breve video, andato in onda su una televisione australiana: “Allah ti ha chiamato, non cè via di scampo, fai il pieno alla macchina fratello e muoviti! Il tuo vicino è il nemico che diffama il messaggero, prendi un coltello e infliggigli ciò che si merita.”4 Questo tipo di messaggi sono ridondanti nell'analisi comunicativa dell'IS. La minaccia al nemico apostata, l'uso della violenza, lo sprono all'azione, sono caratteri fondanti. Il format, è un apparato di regole composto da uno specifico 3 Per un profilo esaustivo di Al-Baghdadi: http://www.bbc.com/news/world-middle-east-27801676? ocid=socialflow_twitter 4 Non sono stato in grado di recuperare il video originale, ma questo spezzone è andato in onda su La7, l'8 Giugno 2015 durante il programma “Piazza Pulita”.

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procedimento in cui si segue una linea di sviluppo determinata a priori. Lo Stato Islamico ha pensato bene di assumere, nell'ambito della comunicazione, un format occidentale, e in particolare, tipicamente statunitense. Il potenziale di penetrazione psicologica del materiale video elaborato dai militanti segue esattamente le stesse rules basilari che uno show televisivo perspicace e ambizioso deve osservare. Parliamo di pochi ma determinanti aspetti: • La

presenza scenica di un personaggio dall'immediata riconoscibilità, che non necessariamente condivida le idee preposte dall'IS, ma si ponga come canale di collegamento tra medio oriente e occidente. • La crescita in termini qualitativi della produzione video, sia per quanto riguarda la semplice analisi grafica che quella scenografica. • L'utilizzo di martiri per calcificare il jihad tra le convinzioni del popolo. Estremizzazione ideologica necessaria, che ogni islamico deve abbracciare per la liberazione delle proprie terre. • Dissimulazione della realtà, che offre agli spettatori esattamente ciò che vogliono vedere. In sala montaggio i martìri, i mujihadin e le azioni di guerra sono dipinti come eroici. Le forze nemiche, d'inverso, demonizzate e affibbiate di qualunque malefatta. Andiamo con ordine partendo dal primo aspetto. Per personaggio d'immediata riconoscibilità ci basti pensare alla recente accoglienza offerta dall'IS a Jürgen Todenhöfer (che abbiamo già citato per altre ragioni), un ex parlamentare tedesco, che ha conquistato fama mondiale per aver spesso trattato del mondo musulmano. Ha fornito all'opinione pubblica occidentale, un'importantissima esperienza in prima persona sul suo soggiorno a Mosul, una città irachena 5. John Cantlie è un corrispondente e fotografo di guerra rapito dallo Stato Islamico nel 2012 assieme al reporter americano James Foley (decapitato in agosto). Recentemente John è stato manovrato dal regime, ed utilizzato come “inviato speciale” per fini propagandistici. Lo vediamo nel documentario “Flames of War” raccontare lo stato delle cose in territorio islamico (con una

5 Il Post, http://www.ilpost.it/2014/12/24/califfato-islamico-giornalista-occidentale/

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discutibile imparzialità essendo tutt'ora in ostaggio)6. La seconda caratteristica che sto per approfondire risulta alquanto sorprendente. In “Flames of war”7, un documentario full length, diffuso nel settembre 2014, dai miliziani dello Stato Islamico per propagandare la propria causa, è possibile scorgere in una manciata di fotogrammi dei videomaker occidentali che filmano incessantemente le operazioni dei miliziani. Che l'IS abbia ingaggiato dei professionisti occidentali è cosa documentata, ma pare che oramai ammontino ad oltre cento unità e il numero non da segni di stabilizzazione, aumentando ogni mese. E' un dato di fatto che, nel simulare l'entertainment occidentale si incappi anche nelle sue problematiche, ossia, riempire costantemente il palinsesto di contenuti. Al neonato canale all news, chiamato The Islamic Caliphate Broadcast, con sede a Mosul8, vi lavorano decine di persone per mantenere il palinsesto attivo e senza interruzioni. Il teatrino del terrore, voce e immagine del regime, si avvale di soluzioni tecniche non dissimili da quelle adoperate da qualunque ente televisivo, ma non basta a descriverlo. L'IS è riuscito ad andare oltre, compiendo un balzo di incredibile portata e distaccandosi completamente dai precedenti regimi. In base a ciò, è possibile imbattersi in fasi di combattimento in prima persona, grazie all'ausilio di action cam lucidamente disposte su armi e attrezzature varie, che portano lo spettatore in campo di battaglia e lo affascinano come farebbe l'ultimo Call of Duty9 disponibile su console. I droni sorvolano silenziosi i centri urbani, emettendo solo un flebile ronzio rendono una prospettiva aerea congeniale a spettacolarizzare le avanzate miliziane. Gli slow motion catturano gli istanti in cui un mortaio da 120 millimetri innesca la 6 RaiNews, http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/jhon-cantlie-ostaggio-dello-stato-islamicoannuncia-un-attacco-nucleare-negli-usa-99a303c2-88b9-453d-8a63-01fe435f40dd.html? refresh_ce 7 Il documentario è visionabile a questo indirizzo: http://leaksource.info/2014/09/21/flames-of-warislamic-state-feature-length-propaganda-recruitment-film/ 8 IlSole24Ore, http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-02-04/la-tv-califfato-mosul-crescemacchina-propaganda-isis-120405.shtml?uuid=ABu10FpC 9 E' una popolare serie di videogiochi in stile “sparatutto” prodotto dalla Activision Blizzard.

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fiamma del proiettile, con un effetto cinematografico di forte impatto. Insomma, le produzioni video dell'IS sono state catapultate nel ventunesimo secolo grazie a strumenti hightech d'avanguardia, votate soprattutto ad attrarre le fasce deboli della popolazione islamica, i giovani. La terza caratteristica racchiude uno degli aspetti più interessanti della propaganda terroristica, che con il martirio esaspera le sue capacità di far leva sull'immaginario umano. Anche in questo caso l'IS ha approfondito e concentrato le sue potenzialità su questo tipo di dinamiche psicologiche. Lo ha fatto garantendo al martire complessi spazi di celebrità, al pari di un personaggio dello star system. Andrè Puoline è un ragazzo canadese che la casa produttrice Al-Hayat ha seguito durante il suo percorso di martirizzazione. Dal 2012, una volta convertito in Abu Muslim al-Kanadi, il giovane ventiquattrenne si è unito alla lotta per rovesciare Bashar Assad. Presentato in camera come in un talent show, sotto il titolo di “I pochi prescelti di terre diverse”, le gesta di Abu diventano scenografia ed esemplificazione del martirio. Dalle preliminari premesse del giovane, condite da estratti della sua vita passata in Occidente e dai motivi della sua fedeltà al jihad, si passa alla battaglia vera e propria. Il video esalta la drammatica corsa del martire verso il suo prossimo obiettivo, offrendo un'inquadratura dinamica che ritrae la sua figura in veste di mujaidin. Quella corsa in campo aperto, sotto i colpi del nemico, viene accompagnata da una voce fuori campo che elogia le sue gesta coraggiose, invitando all'emulazione. Poco dopo un'esplosione lo colpirà a morte, concludendo la corsa in un tragico e fatale epilogo 10. La strumentalizzazione del martirio è una delle armi più consistenti dell'arsenale miliziano, abbiamo imparato a conoscerne le fattezze e possiamo affermare che riesce egregiamente nel suo intento. L'ultimo appunto è un visione sommaria del tutto. Molte di queste produzioni 10 CBS, http://www.cbc.ca/news/world/andre-poulin-dead-canadian-jihadist-used-in-isisrecruitment-video-1.2705115

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sono studiate attentamente e per una comunicazione efficace, occorre un comunicatore altrettanto capace. Oltre che alle armi, quindi, i leader delle milizie sono addestrati alla presenza scenica, alla comunicazione parlata e non verbale. Il loro sentirsi a proprio agio di fronte la telecamera rassicura (o terrorizza) il fruitore. Uno degli effetti palesi di questo indottrinamento suggestionante è possibile coglierlo guardando ai giovani in età puerile che affollano le scuole di addestramento in Siria. Molti di loro sono kazaki, le cui famiglie sono emigrate da pochi anni. Li si vede formarsi alla guerra con preparazioni fisiche ed esercitazioni degne di qualsiasi plotone di professionisti. Nelle brevi interviste a loro concesse, la sicurezza nell'esporre con orgoglio quella che sarà la loro missione di scacciata ed eliminazione del nemico, offre la possibilità di cogliere il grado di immersione psicologica in cui versano i futuri miliziani. Da quanto è possibile filtrare da ciò che emerge in superficie, lo Stato Islamico è riuscito ad assemblare la sua prepotenza mediatica apprendendo i meccanismi della vecchia scuola terroristica. I video che invadono i notiziari mostrano lo scempio culturale in cui templi, musei e complessi archeologici vengono rasi al suolo, innescando un fenomeno di ridefinizione storica. Tutto ciò che emana un precipitato culturale diverso da quello che i terroristi ritengono fedele alle proprie sacre scritture viene polverizzato, reso inerme con un colpo di martello. Le immagini delle città rase al suolo dai bombardamenti, ci ricordano che in questo “laboratorio politico” a cui gli abitanti sono stati sottoposti, si rischia di incappare in seri effetti collaterali. Lo Stato Islamico non si accontenta di inserirsi tra i libri di storia, ne vuole riscrivere interi capitoli. Lo fa donando a noi la sua visione televisiva del nuovo islamismo, mentre assistiamo al suo ergersi indefesso sul Medio Oriente ed il suo immenso popolo. Una comunità le cui vicende hanno sempre fatto leva sui miei sentimenti, rendendomi sensibile a certe storie, tanto da

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dedicare ore del mio tempo per ritagliarmi uno spicchio di illusoria solidarietà verso queste popolazioni sfortunate. Concludo dunque lasciando che le mie parole sfumino, dando spazio ad uno dei mezzi comunicativi per me più adatti a descrivere la realtà, e soprattutto, a rispettarla. Il disegno che segue ha visto la mia matita per l'ultima volta il 28 ottobre 2014, è tratto da una foto scattata a Damasco, in Siria, sconvolta da una guerra civile che si protrae da 22 anni.

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