Letteraria n° 2

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[ n 02_novembre 09 ]

rivista semestrale di letteratura sociale

SILVIA ALBERTAZZI - BRUNO ARPAIA - GUIDO BARBUJANI MAURO BOARELLI - STEFANO BRUGNOLO PINO CACUCCI - GUIDO CALDIRON - MASSIMO CARLOTTO RENZO CASALI - BEPPE CIARALLO - STEFANO COLANGELO PIERO COLAPRICO - MARIA ROSA CUTRUFELLI - MARIO DONDERO ANGELO FERRACUTI - LUCA GAVAGNA - PIETRO GRECO SALVATORE JEMMA - NIVA LORENZINI - CARLO LUCARELLI MILENA MAGNANI - DONATA MENEGHELLI - GIAMPIERO RIGOSI ALBERTO SEBASTIANI - STEFANO TASSINARI PAOLO VACHINO - MASSIMO VAGGI - FEDERICA ZULLO

EDITORI RIUNITI



di Stefano Tassinari

P

er almeno un ventennio, a partire dagli ultimi anni Ottanta, economisti, commentatori politici, giornalisti, dirigenti di gran parte dei partiti e dei sindacati hanno provato in tutti i modi a convincere l’opinione pubblica dell’avvenuta fine della classe operaia e, con essa, della fine del lavoro dipendente come l’avevamo conosciuto fino a quel momento, nonché della conflittualità intesa come espressione, anche radicale, del “diritto a rivendicare diritti” da parte di uno specifico soggetto sociale. Ora, fermo restando che alcuni fattori locali ed internazionali (tendenza alla delocalizzazione, trasformazione del capitale industriale in capitale finanziario, crisi economica mondiale, ecc.) hanno contribuito, e non poco, a “snellire” il corpo della classe operaia italiana, devo dire che, a vent’anni di distanza dall’inizio di quella campagna, i suoi promotori hanno ottenuto alcuni risultati concreti anche in termini di percezione generale, centrando il più classico degli obbiettivi: trasformare in realtà i propri desideri. La conseguenza più immediata di questa operazione è stata la sostanziale cancellazione del mondo del lavoro dalle cronache di giornali quotidiani (anche quelli considerati progressisti) e televisioni, con la sola eccezione di quando la protesta ha assunto forme estreme, come la permanenza per una settimana su una piattaforma sospesa nell’aria, l’occupazione del Colosseo o la chiusura volontaria, da parte di alcuni operai, all’interno di un reparto ad alto rischio. La conferma più evidente di questa vera e propria scelta si è avuta lo scorso 9 ottobre, quando, a fronte di uno sciopero generale dei metalmeccanici svoltosi – con grande successo – il giorno prima per iniziativa della sola Fiom-Cgil, tutti i grandi quotidiani hanno sostanzialmente ignorato la notizia, come se quello sciopero e le manifestazioni ad esso collegate non fossero mai esistite. È stato anche a partire da queste riflessioni che abbiamo deciso di dedicare la parte monografica del secondo numero della rivista proprio al tema del lavoro, ovviamente affrontato a partire dallo specifico letterario, il tutto con il duplice scopo di dare il nostro piccolo contributo a contrastare questa sorta di censura preventiva (e ideologica) e di cercare di capire quale spazio rappresentativo ha il mondo del lavoro nella narrativa italiana contemporanea, tenendo conto anche di quello avuto dal dopoguerra ad oggi. Di conseguenza – e con la consapevolezza di quanto la condizione del lavoro si sia profondamente trasformata nell’arco degli ultimi anni – abbiamo provato, in primo luogo, a ricostruire il percorso storico di questa rappresentazione (facendo riferimento, via via, alla figura dell’operaio nella letteratura italiana e inglese, alla presenza della Fiat nella nostra narrativa, alle opere “industriali” di Volponi e degli altri scrittori “olivettiani”), per poi affrontare punti di vista anche lontani dai nostri (come, ad esempio, quello di Jünger), altri molto più vicini (come quello di Gombrowicz) e giungere, infine, ad occuparci del rapporto tra la letteratura contemporanea e il lavoratori del Sud (scoprendo molti aspetti interessanti) e della nocività in fabbrica. In questo numero, però, abbiamo deciso di riservare un secondo spazio monografico a un grande tema mai realmente risolto, e cioè quello del legame (o del totale contrasto, secondo alcuni) tra la letteratura e la scienza, soffermandoci anche sul Darwin scrittore e polemista. Per il resto troverete la suddivisione in rubriche già presente nel primo numero (a proposito: la vendita in libreria è andata molto bene. Grazie!), con dibattiti e confronti (torniamo, tra gli altri, sul tema della letteratura epica, sulle connessioni tra narrativa e musica e sulla strage di Piazza Fontana a quarant’anni di distanza), ripescaggi, memorie, riflessioni e attualizzazioni (Pavese, Valpreda, Mastronardi, Mc Illvanney, Di Ruscio, Vian, Arpino) e qualche sguardo sulla “letteratura sociale” – così definiamo la nostra principale sfera d’interesse – prodotta in altri Paesi del mondo (questa volta tocca all'India). Buona lettura! [1]

[EDITORIALE]

❚ Il racconto del conflitto


letteraria, rivista semestrale di letteratura sociale, anno 1 numero 2, novembre 2009, prezzo di copertina euro 10, abbonamento annuale a due numeri euro 15, da versare sul conto corrente bancario intestato ad Alessio Aringoli, codice IBAN IT 53M0306903295100000000551 Autorizzazione del Tribunale di Bologna n.7968, rilasciata in data 7 maggio 2009 Direttore responsabile Stefano Tassinari Collettivo redazionale Silvia Albertazzi, Alessio Aringoli, Bruno Arpaia, Dunja Badnievic, Marco Baliani, Guido Barbujani, Alberto Bertoni, Pino Cacucci, Guido Caldiron, Salvatore Cannavò, Massimo Carlotto, Renzo Casali, Beppe Ciarallo, Emidio Clementi, Mauro Covacich, Maria Rosa Cutrufelli, Mario Dondero, Angelo Ferracuti, Marcello Fois, Luca Gavagna, Niva Lorenzini, Carlo Lucarelli, Milena Magnani, Giovanni Marchetti, Pier Damiano Ori, Giampiero Rigosi, Alberto Sebastiani, Stefano Tassinari, Paolo Vachino, Massimo Vaggi, Grazia Verasani, Simona Vinci, Wu Ming Hanno collaborato Mauro Boarelli, Stefano Brugnolo, Stefano Colangelo, Piero Colaprico, Pietro Greco, Salvatore Jemma, Donata Meneghelli, Federica Zullo Progetto grafico Le Immagini - Ferrara Stampa Lito Terrazzi - Firenze

sommario

n 02_novembre 09

colophon

letteraria rivista semestrale di letteratura sociale

[EDITORIALE]

Il racconto del conflitto Stefano Tassinari

1

[LE PAROLE DEL LAVORO]

Il lavoro oltre il denaro Stefano Colangelo Issemelu tittu! Ca nu te l’avimmu tittu!? Milena Magnani

3

6

Una passione comune Bruno Arpaia

59

[DONNE, UOMINI E ALTRI]

La teoria della sporta Maria Rosa Cutrufelli

63

[CONFRONTI]

L’Impossibile io Salvatore Jemma

67

[MEMORIE]

La Berlino degli altri Mario Dondero

73

13

Fabbrica: andata e ritorno Donata Meneghelli

17

Il romanzo della vita quotidiana Piero Colaprico

La parola avvelenata Massimo Carlotto

23

Io so... Carlo Lucarelli

Banty mam yall Massimo Vaggi

26

Il maestro e l’operaia Paolo Vachino

85

Sugli scaffali del mondo Renzo Casali

29

L’inchiostro e il carbone Beppe Ciarallo

88

Dalla trincea alla fabbrica Guido Caldiron

33

L’eclettico ribelle Giampiero Rigosi

93

La lingua impossibile Mauro Boarelli

97

Reparto poesia Angelo Ferracuti

77 81

[RIPESCAGGI]

37

[RIFLESSIONI]

[LETTERATURA E SCIENZA]

copertina

55

Working Class Hero Silvia Albertazzi

[L’INTERVISTA]

Luca Gavagna. Ferrara, venditrice di pesce, 1986. L’intero servizio fotografico di questo numero, dedicato al tema del lavoro, è firmato dal fotografo ferrarese Luca Gavagna ed è stato realizzato in diversi Paesi del mondo nel corso degli ultimi 25 anni.

La matematica come arte Pietro Greco

Le origini narrate Stefano Brugnolo

41

L’adorata immediatezza... 101 Niva Lorenzini

Al di là dell’orizzonte Pino Cacucci

45

Racconti meticci Alberto Sebastiani

La terra sotto i piedi Guido Barbujani

51

105

[DAL MONDO]

Salman e gli altri Federica Zullo

109


[LE PAROLE DEL LAVORO] Quarant’anni di poesia operaia

❚ Il lavoro oltre il denaro

Copparo (Ferrara), assemblea sindacale, 1987

di Stefano Colangelo

B

isognerebbe cominciare con un «ma», per una volta. Anzi, con un «ma» e una virgola, come ad alzare la testa, a contrapporsi, mentre ci si domanda il significato di tutto ciò che si fa e che si osserva: «ma, cos’è il lavoro? oltre il denaro?». La domanda frontale, ingenua e severa insieme, la pone Giancarlo Majorino nel 1971, in una poesia intitolata Fissa lombarda, dalla raccolta Equilibrio in pezzi. Vi si parla di un elettricista, di una specie di stregone, che interviene a richiesta con tutto «il suo stabilimento / personale di ferri», e svita e allenta e osserva con cura, e arriva al nucleo del problema, e maneggia con attenzione le ampolle di un delicato processo di compensazioni e di equilibri, e annienta «la tetra divisione manovale e mentale», e riporta la luce, infine, a chi stava tremando di angoscia da giorni: «luce, da telebuio». Una specie di eroe, che viene pagato ed esce con i soldi, semplicemente, così come era entrato: non ha molto da dire; si è messo a lavorare, perché ha confidenza con gli attrezzi, i tempi e le rispondenze del corpo; e così ha potuto indurre tutti coloro che lo guardavano a dire «ma», ad alzare la testa e a farsi quella domanda, appunto: cos’è il lavoro? Oltre il denaro? Tutto è più difficile, quando ci si trova di fronte un paesaggio di lavoro collettivo come il seguente, fissato ancora da Majorino (in Lotte secondarie, 1967): «siedono con le nuche sotto le lampade / con le ginocchia avanti come a Mauthausen / sulle carrozze tranviarie o ritti sentono / nove [3]

❝ Siedono con

le nuche sotto le lampade / con le ginocchia avanti come a Mauthausen / sulle carrozze tranviarie o ritti sentono / nove metri di tubo intestinale / gorgogliare nell’interno ❞ Lotte secondarie Giancarlo Majorino


pressione, 1980, «presuppone uomini ridotti a puri servizi»; uomini-maschera, col volto schiacciato da una finta protezione, con il respiro impedito. Un controcirco che vive di leggi proprie, di costumi e ritmi peculiari, spezzati solo dalla fatalità. Ancora Di Ruscio, infatti: «ieri è crollata di schianto la gru l’elevatrice / ognuno sparì dietro quella grande polvere / uno spezzarsi improvviso dei materiali si spezza / in piena notte la botta il guidatore vidi in un salto salvarsi / prima che la grande polvere si alzasse vidi quel salto / l’acrobata trovò un filo teso in un punto giusto implacabile / corse per tutta la linea del reparto scintilla di fili elettrici toccati». Lo spazio gigantesco, abnorme, riempito di bagliori e di suoni circensi, è crollato su se stesso, lasciando per una volta l’operaio salvo. E in quel turno di notte, in quel crollo inaspettato si è aperta una speranza. Scrive infatti Di Ruscio: «così il sistema dovrebbe cadere di schianto e noi appesi sui fili felici e salvi / in una grande polvere in un mare di scintille fuochi fatui lucciole festive / di notte cupa parvenze luminose semi di un giorno felice». Nel tripudio del contro-circo è iniziata una contro-festa, una specie di dépense, di scialo liberatorio dell’energia, come lo aveva autorevolmente definito Georges Bataille. Così, all’accendersi dell’alba, che annuncia la fine del turno di notte, anche Brugnaro ha potuto lanciare l’urlo: «Fate festa! Fate festa!», che sarebbe poi un invito alla riconquista, attraverso la parola, di tutte quelle sottrazioni che la fabbrica ha imposto al volto, alle dita, alla libertà dei movimenti (Nell’imminenza dell’alba, ancora in Vogliono cacciarci sotto, 1975). In due voci pur così diverse, la parola operaia tende a risarcire, dunque, prima che a rappresentare: si ha l’impressione di urtare contro una congestione verbale, contro l’affastellarsi di un troppo-detto, dove il linguaggio tende a riempire il vuoto del grande circo disumanizzante, dominato dalle macchine operatrici. C’è infatti un senso di pieno, di satura, che non dà modo di isolare neanche una parola, né di sottrarre una sola immagine all’ingigantirsi del flusso. Una satura che ingloba, che fagocita persino la letteratura, le sue istituzioni, i suoi cardini: in Di Ruscio si macinano Hegel, e il Sereni della Visita in fabbrica aspramente parodiato, e Quasimodo, e Antonio Porta, e altri poeti operai. Non è una lingua mimetica, ma una sorta di poltiglia chimica, da cui fatalmente si libera un desiderio di festa, di incendio propiziatorio, più che di racconto eroico: «scrivi delle cose che ti sono molto vicine e scaraventale molto lontano», esorta infatti Di Ruscio. La poesia di fabbrica non cerca la continuità epica, né la linearità dell’episodio narrativo: tende a comporre la forma delle cose per addizioni continue, non per

metri di tubo intestinale / gorgogliare nell’interno». Non sono eroi nel cavallo di Troia: sono operai trasportati verso la fabbrica, nel periodo che separa la campagna di assunzioni Montedison del 1966 dagli anni Ottanta, con la crescita del terziario che condurrà al carnevale della Milano da bere, e poi a tutto ciò che ben conosciamo. Nessuno di quegli eroi fa lo stregone, nessuna ritualità li sostiene; nessuno li aspetta con ansia, nessuno li ringrazia. Il paesaggio che li accoglie, così normativo e totalizzante, è chiamato da Ferruccio Brugnaro, poeta operaio della provincia di Venezia, «il rumore che stringe tutto», e che si mangia l’umano, l’organico: «l’ingranaggio, la tramoggia / il rullo / con i suoi tremila giri / vogliono diventare il mio sangue / vogliono / le mie articolazioni / le mie parole» (Vogliono cacciarci sotto, 1975). Ma allora, cos’è il lavoro? Oltre il denaro? Sono gli anni nei quali il miracolo economico si paga a carissimo prezzo: perdita dell’identità, perdita della manualità. Il «gorilla ammaestrato», come aveva intuito Gramsci negli anni Trenta, non diventerà un nuovo tipo di uomo. Dovrà mettere una maschera, questo sì: la Martindale, che gli coprirà diligentemente il volto trasformandolo in un musetto da topo, e che non gli impedirà di respirare il micidiale cloruro di vinile monomero, ogni volta che dovrà calarsi nei cilindroni della Edison; il Cvm, lo stesso materiale trattato dalla Union Carbide, quella di Bhopal; e dalla B.F. Goodrich, quella dei copertoni e degli accessori sportivi, il cui slogan oggi, sul sito Internet recita lapidario: «take control». Ma di che cosa si potrebbe mai prendere il controllo, quando cominciano a ghiacciarsi tutte le dita, come accade nei sintomi iniziali dell’intossicazione da Cvm? Da quel momento - vissuto in prima persona da centinaia di operai, molti dei quali ex artigiani, «pittori» e decoratori, lavoratori del ferro battuto, artisti del legno - il gelo nei polpastrelli ha fermato ogni accenno alla ritualità, alla prestidigitazione, alla meraviglia. Anche l’artefice più abile, anche lo stregone più fascinoso, elettricista o artista che fosse, ha ceduto il passo. La fabbrica ha tolto la gioia, l’autonomia, il divertimento confidenziale con la materia: «non sapremo mai dire / completamente / ciò che i nostri occhi / hanno toccato su queste strade / di freddo e di monomeri»; così ancora Brugnaro, a metà degli anni Settanta. La fabbrica è diventata dunque un contro-circo, e l’operaio è l’acrobata al quale è stata sottratta qualsiasi rete: il saltimbanco costretto a una lunga danza con il precipizio o con il fuoco, mentre lo spazio si restringe, si chiude al contatto con il mondo di fuori. «L’inferno», scrive Luigi Di Ruscio nelle Istruzioni per l’uso della re[4]


[ COLANGELO ] schemi. Nel contro-circo dalle proporzioni mostruose, dove il tempo umano è invertito dalla notte al giorno; in un contesto, cioè, che umilia la percezione, che sfasa i ritmi, e che può finire col rendere sordi, insonni o impotenti, la maggiore urgenza, ecco, diventa il dire, inteso come testimonianza dei fatti, certo, e delle circostanze, dei modi della repressione, ma concepito anche come articolazione, scansione, scoperta rituale del rinnovarsi della lingua.

che mi distendo e ho proprio voglia / ma no di bere studiano i lavoratori delle catene con le macchine da presa ci registrano / ogni movimento e i muscoli». Una parola arresa, cioè, ridotta a mimesi del mondo schiacciato dal dominio, sorvegliato a vista, violentato. Qui è la festa dei padroni a dare il proprio ritmo, dentro e fuori dalla fabbrica: la luce esterna non penetra, e il circo è definitivamente sigillato. Qui si rappresenta, in un discorso poetico abrasivo come carta vetrata, l’isolamento di operai che non hanno avuto gli strumenti per agire nel cerchio della responsabilità di classe, e che hanno visto sgretolarsi la loro ribellione, la loro festa. Scriverà qualche anno dopo Alberto Bellocchio, verso la fine di Sirena operaia (2000): «in effetti la fabbrica / perdeva i pezzi, il padrone esternalizzava. / E nel prodotto finito cresceva il valore / della tecnologia, calava il peso della fatica». Sarà la cronaca di una fuga nell’illusione, di una rinuncia, ognuno nel confine di un piccolo circo privato. E sarebbe diventata proprio così, la poesia degli operai, se non ci fosse ancora a sostenerla quest’ansia di parole, di pienezza che abbraccia il linguaggio, di invenzione liberatoria, che in anni di deserto le conferisce ancora un’unità, una tradizione. Negli anni Ottanta era stata la voce isolata di Attilio Zanichelli (Una cosa sublime, 1982) a porsi ancora in modo nuovo, meditato, la domanda di Majorino - quella su «cos’è il lavoro» - e a pronunciare il suo «ma», alzando provocatoriamente lo sguardo (Fabbrica): «come so di quale odio ha fatto pieno il suo ventre / la terra, con quale legge ha reso la povera / classe serva per sempre, chi e quale sapienza / ha fatto degli uomini che avere debba uno / dall’altro che patisce il pane a tradimento?». Oggi, invece, è lo sguardo di un poeta operaio come Fabio Franzin (in Fabrica, 2009) ad attraversare la desolazione del nordest, immergendosi nell’incubo delle sfuriate padronali, delle disillusioni, della perdita di manualità, e infine dei «tòchi», dei pezzi, che devono venir bene a tutti i costi, e che finiscono per mangiarsi anche tutto l’operaio, un pezzo tra i mille altri, un rematore costretto ad andare al ritmo della grande galea. C’è ancora una domanda - rituale fin che si vuole, o riparatrice, se vogliamo, e risarcitoria - alla fine del libro di Franzin; una domanda a Pietro, l’operaio contento, persuaso del bene di una vita tutta uguale, con i risparmi di una casetta che sta venendo su lentamente, negli anni, dietro la chiesa del paese: «chi ‘o che ghe / dise che no’ l’è a ore, a schei / o a piere che se ‘o misura, el mondo [...]?», e cioè guardando oltre il denaro, una volta per tutte: «chi glielo / dice che non è a ore, a soldi / o a mattoni che lo si misura, / il mondo [...]?».

Cos’è il lavoro, allora, oltre il denaro? È questa festa randagia, scatenata, circense della parola, quando tutto intorno domina la devastazione programmata dei sensi e dei ricordi, indotta dalla repressione e dai cicli industriali. Per Brugnaro, in più, quella festa diventa un declamare, un non poter tacere; un impegno, preso in nome di tutti i compagni, per continuare a gridare, facendo uscire energia uguale e contraria a quella degli acidi sintetici e dei reagenti: «lanciate, scatenate / la vostra forza di bufali / le vostre fiamme di cratere». Anche qui, la festa degli operai contro quella dei padroni. Dalle porte della fabbrica di Brugnaro si intravede però quel «sole», che costituisce più che mai l’allegoria dell’uomo nuovo gramsciano: l’individuo pensante, oppresso dal lavoro meccanizzato, e tuttavia portato a riflettere, a capire, a connettere nuove idee grazie all’alienazione della propria forza muscolare. La più recente poesia di Brugnaro è infatti un’apoteosi della luce e delle risorse sensoriali: «rinasce il mattino / con i suoi cieli / scorrono voci calde / come vene dappertutto» (Nevicata, in Verranno i giorni, 2006); è la stessa luce parlata, declamata nelle lotte di fabbrica, che ora invade il mondo circostante, come se il contro-circo si fosse improvvisamente scoperchiato, cedendo i segreti della propria struttura al mondo: i padroni sono ora tutti i governanti, i «ruffiani della guerra», i «furfanti», i «ladri di vite» usciti assolti dai processi al Petrolchimico di Marghera. Quelle forze, insomma, di fronte alle quali - con parole in prestito da un più recente Di Ruscio, ancora - «bisogna resistere ad ogni costo / con i diti aggrappati alle grondaie / destinati a precipitare da un momento all’altro» (Poesie operaie, 66, 2007). E oggi, allora, cos’è il lavoro, oltre il denaro? Può venire in mente una festa triste, disincantata, un ritmo che gira a vuoto, una convulsione verbale come quella pronunciata dall’operaia che recita il monologo drammatico Stamattina al reparto T.A. di Elio Pagliarani, dalla Ballata di Rudi del 1995: «si chiama taglio dei tempi / ci hanno aumentato il ritmo adesso sono qui [5]


[LE PAROLE DEL LAVORO]

❝ Ma i criminali

qui non pagano mai perché finchè i servi acclameranno i potenti finchè i padroni saranno dei Santi finchè i cervelli saranno spenti quaggiù la schiavitù non finirà mai, no no mai mai nu spiccia mai, non finirà mai, a quai ❞ La ballata del Precario Sud Sound System Leningrado (URSS), Magazzini GUM, 1989

puglia: lotte sindacali e nuovi narratori

❚ Issemelu tittu! Ca nu te l’avimmu tittu!? di Milena Magnani

C

amminando per le strade di Puglia, accostandomi ai palchi di piccoli teatri, sfogliando le pagine di intellettuali attenti e rigorosi, succede che mi vengano incontro le parole di quel mondo contadino osteggiato e battagliero che animò l’occupazione dei latifondi dell’Arneo e, insieme a queste, il coraggio di quelle tabacchine determinate e intraprendenti che scesero in piazza per difendere i propri diritti di donne lavoratrici . Si alzano queste voci a cui fa seguito l’amarezza di chi dovette emigrare al Nord e la disillusione di chi oggi paga con la malattia gli anni di duro lavoro alla centrale di Cerano o al Petrolchimico di Brindisi, di Taranto e di Manfredonia. Se è vero che per lungo tempo la letteratura non si è occupata delle lotte dei lavoratori e dell’industrializzazione del Sud, oggi, almeno rispetto alla realtà della Puglia, c’è un’ evidente inversione di rotta. “Non bisogna esserci nato in questi luoghi. Non bisogna sentire il mito nell’aria che respiri. Non bisogna avere i destini impastati con la storia. Non bisogna avere rimpianti, né memoria. (…). Bisogna essere passante forestiero [6]


[ MAGNANI ] per capire questi luoghi, per riuscire a riconoscere la mistura di falso e di vero”. Sono alcuni stralci del prezioso Viaggio a Finibusterrae” dello scrittore salentino Antonio Errico, pubblicato da Manni nel 2007. È il suo un Sud che incanta e al tempo stesso mette in guardia rispetto a un certo tipo di approccio grossolano, quello di chi pensa di conoscere i luoghi perché ne attraversa occasionalmente il folclore, o perché ne partecipa esoticamente battendo a ritmo sui tamburelli acquistati alle bancarelle e sgranocchiando taralli al caldo barocco delle cittadine. Sì, ci mette in guardia perché questa Puglia che abbiamo davanti, questa soglia che scivola inesorabilmente verso Oriente, chiamata dagli antichi Finibusterrae, “è un oltre, un altrove”, tanto che chi tenta di raggiungerne caparbiamente il cuore, intuisce che può essere solo la propria ostinata volontà a prendere il posto della destinazione e, come scrive Errico, “chi va a Finibusterrae non potrà arrivarci mai. Si può solo andare verso Finibusterrae: continuamente, all’infinito verso questo luogo” È proprio la figura di questo tendere senza approdo alla verità dei luoghi che mi pare calzare alla condizione di chi tenta la comprensione di un Sud così sfuggente, un Sud che Ernesto De Martino negli anni Cinquanta definì “Terra del Rimorso” e che oggi, dismesso l’abito a festa delle grandi manifestazioni musicali estive, deve fare i conti con le contraddizioni di uno sviluppo economico squilibrato, uno sviluppo le cui perverse conseguenze ricadono sulle atmosfere del vivere e sugli scenari che spingono ancora i giovani ad emigrare al Nord.

do, il quale, a commento di un bel documentario sul tarantismo, definì la terra di Puglia e del Salento come “una terra spaccata dal sole e dalla solitudine”. “Una terra in cui è avara anche l’acqua a scendere dal cielo e gli animali battono con gli zoccoli un tempo che ha invisibili mutamenti2”. Eppure, ciò che più di tutto colpisce nel tentativo di avvicinare la realtà di questo luogo è scoprire che la rappresentazione veicolataci da questa poetica, così come dalle splendide ricerche etnografiche di Diego Carpitella e Ernesto De Martino3, è una rappresentazione che omette completamente di considerare il fenomeno vivo delle lotte politiche che pur animarono il mondo contadino di quegli anni. Lotte che lasciarono tutt’altro che inerti le coscienze dei lavoratori, al punto da farli scendere in piazza a manifestare contro i latifondisti e a occuparne temerariamente i terreni incolti. Se ad esempio si guardano i materiali d’archivio degli anni Cinquanta arrivati fino a noi come il documentario girato da Gianfranco Mingozzi sulla tarantata Maria Di Nardò che si rotolava sul pavimento della povera casa al ritmo di tamburello e invocazioni a Santu Paulu, (documento che è diventato un gioiello di culto per tutti i seguaci del “movimento della pizzica”), si rimane esterrefatti nello scoprire che proprio lì accanto - senza che quel montaggio video ce ne fornisca alcun indizio - si fossero svolte le lotte di rivendicazione delle tabacchine scese in piazza sfidando le pallottole delle forze dell’ordine per difendere i propri diritti di donne lavoratrici. O che mentre Maria di Nardò inscenava le sue figure di arcaica sottomissione bofonchiando a un quadro di Santu Paulu “quando uno nasce cambiare non si può” proprio lì, proprio poco più in la di quel suo bofonchiare, si stessero svolgendo le occupazioni di terre da parte di braccianti e contadini, i quali, tutti insieme, pagando a titolo personale con l’arresto e la reclusione , reagirono coraggiosamente a una condizione secolare di sudditanza al potere. È come se, soffiando sulla polvere dell’iconografia oggi tanto in voga del tarantismo, si scoprisse la storia di un Sud attivista e combattivo che, trascurata, si è dovuta allontanare dal nostro sguardo, una storia che evidentemente la cultura del capitale è riuscita ad occultare insieme a tutto ciò che non le era funzionale. Non è certo questa la sede per fare un’analisi delle modalità in cui si è attuato questo processo di rimozione, è evidente però che si tratta di un processo che ha spianato la strada al diffondersi di un consumismo culturale mordi e fuggi, quel consumismo di cui Pasolini4 ci aveva anticipato le perverse derive, e che è riuscito

Certo, si deve tenere a mente che la Puglia è una di quelle regioni del sud Italia che un certo tipo di cultura nazionale ci ha descritto per lungo tempo come marginale e periferico, quel “a sud di Eboli” che Rocco Scotellaro negli anni Cinquanta paragonò agli acini di un vitigno troppo aspro: “Acini piccoli asprigni, se pure maturi, che andranno ugualmente nella tina i giorni della vendemmia, e così il mio paese fa parte dell’Italia1”. E proprio come le altre regioni meridionali la Puglia ci è stata rappresentata fino agli anni Sessanta come tagliata fuori da ogni possibile sviluppo industriale, regno della superstizione e dell’ arretratezza, dominio di latifondi su cui i braccianti rassegnati si consumavano nel lavoro arido della terra. Una visione che trovò rinforzo nella poetica degli autori locali e a cui contribuì anche Salvatore Quasimo[7]


a trasformare la tradizione locale in un prodotto da un capo della bacchetta – l’altro che fa? Dimmi, su, assaggio veloce, a fare dei canti di lotta delle tabacchiavanti: l’altro che fa?” ne un ritmo ballabile nel bailamme travolgente delle Cito i brani di questi due autori a fronte di una situapiazze estive. zione in cui è possibile ipotizzare un numero svariato È proprio per contrastare questo modello culturale, di opere in materia finite al macero perché non supquesto Sud folklorico “da bere”, che mi pare imporportate dalla grande editoria nazionale, opere mancate tante riportare qui le parole di due autori che riusciroche compongono un sostanziale vuoto di letteratura no a passare le maglie di questa onda di smemoratezza rispetto ai temi oggetto di questa riflessione. nazionale. È il caso del poeta e scrittore Vittorio BodiLo dice bene Vincenzo Santoro, autore di importanti ni, il quale negli anni Cinquanta, seguì l’occupazione studi sul recupero della tradizione6 e sulle memorie delle terre nel territorio dell’Arneo descrivendole con delle lotte dei lavoratori salentini: “L’elite culturale di pagine bellissime che, fortunatamente, ce ne restituquesto paese non aveva interesse a far raccontare queiscono oggi una splendida testimonianza. . Si tratta sta storia, mettici anche lo scoglio linguistico di una di articoli scritti per la rivista milanese Omnibus, il terra che si esprimeva in dialetto, mettici la distanza primo: “L’aeroplano fa la guerra ai contadini” sull’ocdai grandi poli della cultura nazionale” cupazione dell’Arneo, e il secondo, “Arneide, ultimo Ed è in ogni caso proprio questo vuoto di letteratura atto”, sul processo ai contadini fermati per quell’ocche potrebbe giustificare lo sforzo compiuto negli ulcupazione. timi anni da alcuni intellettuali pugliesi di recuperare 4 febbraio 1951: “A Boncore le macchie messe in colin extremis le testimonianze orali di chi partecipò a tivazione dai contadini dopo l’occupazione dell’anno quegli eventi storici, sforzo che ha dato vita a volumi scorso danno un grano già verde, di memorie storiche dall’interesse alto cinque dita, che trema al vento indubbiamente unico. Ne cito tre: sulla terra rossa, e hanno aperto una “La memoria che resta7”, “Una meSi cominciarono piccola cava. Cominciò un anno fa moria interrotta8” e “Il Salento Lea reclutare come di questi tempi la lotta dei contadivantino9” a cui si deve aggiungere ni per la redenzione della parte inlo straordinario lavoro di Salvatore operai gli stessi colta dell’Arneo. Dopo diversi giorCoppola il quale è stato definito “lo uomini che ni di occupazione e di scontri con storico delle classi popolari” per via la polizia ottennero la promessa di del suo orientamento allo studio del avevano prestato 4500 ettari da parte dei proprietari movimento sindacale e alle lotte dei mano d’opera e del Prefetto. Se ne distribuirono contadini di Puglia10. come braccianti 890, poi tutto si arenò. A distanza Rispetto a queste ricerche ho chiegiusta di un anno i contadini sono sto a Sergio Torsello coautore con o mezzadri e si calati di nuovo sull’Arneo il 27 diVincenzo Santoro di “Salento Lecercò proprio di cembre ultimo. Tremila braccianti vantino” una straordinaria raccolprovenienti da tutti i paesi limita di testimonianze dei lavoratori ingaggiare quelli trofi: Nardò, Carmiano, Leverano, del tabacco e delle loro battaglie con un livello di Veglie. di emancipazione, come mai proStrappo un filo di grano e lo metto prio lui che è il direttore artistico scolarizzazione tra i denti: è il primo frutto di una di quella grande Kermesse musicale più basso terra riscattata al più stupido feuche è La Notte della Taranta11 , ha dalesimo”. sentito il bisogno di andare a indaE poi c’è il romanzo di Salvatogare le storie di quegli eventi politire Paolo “Il canale”5, che fu premio Città di Bari nel camente così rimossi. 1959, dove si racconta delle lotte contadine finite con Ed è proprio lui che mi apre una finestra sulla nuova il fermo e la carcerazione di molti braccianti e in cui letteratura pugliese. si veicola una tensione al riscatto sociale che incanta. “Salento levantino è stato un momento in cui abbia“Ecco qua. Stammi a sentire tu che ripeti sempre che i mo tentato di ricostruire un frammento di memoria ricchi e i poveri li ha fatti Dio. La società è come queche si era persa. sta qui, la vedi? – indicò la bacchetta di legno. – È una Infatti, uno dei rischi che si verificano in tutte le regioni che sono attraversate da fenomeni di revival bilancia: se tu fai scendere uno dei piatti – fece calare [8]


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AUTORE

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Castelsardo (Sassari), tosatura delle pecore, 1987

È attraverso di loro che riprende corpo la narrazione del momento in cui, dopo le lotte contadine e sindacali, cominciò in Puglia ad affacciarsi la fabbrica. Da un lato si trattò delle fabbriche del nord industrializzato Belgio, Germania, Svizzera, verso le quali cominciò quest’emigrazione raccontata benissimo dai lavori teatrali di Mario Perrotta12, e dall’altro lato cominciò ad apparire la fabbrica che veniva portata dentro casa. Infatti, quando arrivò la fine degli anni Sessanta l’Eni e il comitato dei Ministri per il Mezzogiorno decisero di localizzare ai piedi del Gargano un impianto petrolchimico per produrre fertilizzanti e caprolattame. Si aprirono le acciaierie di Taranto e l’arsenico e altri cancerogeni cominciarono ad essere lavorati nel polo Brindisino. Come scrive Giuseppe Cristaldi in “Un rumore di gabbiani13” “si cominciarono a reclutare come operai gli stessi uomini che avevano prestato mano d’opera come braccianti o mezzadri e si cercò proprio di ingaggiare quelli con un livello di scolarizzazione più basso”. Questo perché ovviamente un lavoratore del tabacco difficilmente poteva avere gli strumenti di cultura scientifica per comprendere il rischio di maneggiare bidoni

è quello di ricostruire una visione immaginaria dei luoghi e dei fenomeni che produce un effetto deformante della realtà. Oggi il Salento non è una terra idilliaca come lo disegnano alcuni operatori turistici, ci sono forme di disagio e di sofferenza sociale massicce, ci sono interi settori in mano alla criminalità organizzata, un fortissimo problema di inquinamento. Il nostro contributo è stato quello di offrire al dibattito culturale un elemento in più, facendo un passo indietro che avesse valenze simboliche culturali e politiche in grado di completare un’immagine di questa terra altrimenti parziale.” Alla luce di quello che poi ho potuto constatare, credo che vada riconosciuto a questi ricercatori il merito di aver fornito uno stimolo basilare al nuovo laboratorio culturale pugliese, laboratorio che pare esprimere artisti in grado di orientarsi al recupero della storia e a un ritrovato legame con il territorio. È infatti impossibile non accorgersi di quel gruppo di scrittori, attori, registi, musicisti, poeti e documentaristi che paiono oggi accomunati dalla stessa capacità di voltarsi indietro per rifondare le trame di un discorso altrimenti sfilacciato. [9]


Bologna, venditrice di quotidiani, 1996

di arsenico o caprolattame e, non a caso, è probabilmente per questo che “in seguito a un’indagine effettuata all’interno dei contesti di fabbrica si è dedotto un tasso di analfabetismo connesso ai criteri di assunzione”. È la Puglia in cui sembrò cadere dal cielo un’insperata occasione di benessere e, come scrive Alessandro Langiu in “Di fabbrica si muore14”, “La fabbrica a vederla mica era tanto grande, e paura non faceva, perché portava lavoro. Ma come tante fabbriche veniva da lontano, da tanto lontano, che uno si domanda ma come fanno a scegliere un posto, come fanno? L’avevano già fatto sì in altre città, e come no, sempre della Puglia, che fortunati ‘sti pugliesi, proprio tanto’”. All’inizio, infatti, la fabbrica appariva come una benedizione e se qualcuno avanzava preoccupazioni e perplessità sui rischi e le condizioni di scarsa sicurezza sul lavoro, la risposta dell’azienda e della politica di quegli anni è, era e per lo più fu: “Nu te proccupà sappiamo quello che facciamo”. Ed è proprio rispetto a questo “Nu te preoccupà”, già espressione di una politica industriale criminale e cialtrona, che questa nuova “corrente di autori pugliesi” orienta la propria instancabile denuncia.. Lo fa Giulio di Luzio, autore di “I fantasmi dell’Enichem15”, un potente testo sulla condizione operaia nello stabilimento di Manfredonia, nel quale ci racconta le storie della rimozione e dell’inganno, dello scambio velenoso tra reddito e salute. Già perché verso la fine degli anni 70 si cominciò a constatare un aumentato tasso di insorgenza di tumori nella regione, insieme al numero considerevole di vittime da malattie insorte sul lavoro o in incidenti

come quello del 1976 a Manfredonia, dove esplose la colonna dell’urea e dell’arsenico. Recita Alessandro Langiu nel suo illuminante spettacolo teatrale “Venticinquemila granelli di sabbia”16 “in conseguenza del pensionamento anticipato per le gravi condizioni di salute di sua madre, il nostro aiuto e tentativo di starle vicino si manifesta nella proposta di inserimento nell’organico del centro siderurgico Italsider” Siamo in presenza di autori che guardano la realtà senza più filtri, dritta in faccia, come Mario Desiati il quale ci mostra una splendida “Foto di classe”17 in cui la Taranto dell’Italsider fa da cornice: “Tra siderurgico, raffinerie e roghi notturni sprigionanti diossina, la città era una bomba. Si lavorava con le mascherine, le stesse che avevo visto sul volto dei panettieri di Kiev il giorno successivo all’incidente di Chernobyl. In Italia non veniva dato peso a quell’apocalisse di provincia. Taranto è uno di quei luoghi che sono condannati a morire sempre. L’idea comune, sotterranea, è che se la sono cercata: hanno voluto il Siderurgico e se lo tengono”. Lo dice anche in un altro romanzo “Il paese delle sposi infelici”18 Chi viene qui è perché vuole morire , vogliono vivere vicino al siderurgico e muoiono prima”. È il tema della malattia e della morte che, oltre ad accomunare trasversalmente tutte queste opere, ha mosso i legali dell’Associazione “Medicina Democratica” ad avviare, insieme ai familiari delle vittime, alcune importanti cause contro la dirigenza degli stabilimenti industriali in questione. Quei familiari che se lo domandano insieme a Giuseppe Cristaldi “Cara Enichem, neppure una corona di fiori per il mio caro? Così tanta smemoratezza?”

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Autori che rompono il silenzio e lo fanno in una terra che prende coscienza di avere il livello di Co2 più alto in Italia insieme al più altro tasso di diossina. Una terra in cui, sotto i ritmi frenetici della pizzica e le feste di San Cataldo, si comincia a svelare lo stato di degrado di cui si fa portavoce anche Cosimo Argentina nel suo “Nud’e cruda19” in cui ci descrive il contrasto tra i resti del tempio di Poseidone e le periferie senza scampo contaminate dai veleni delle acciaierie, insenature tanto belle con l’lIva sullo sfondo, e il ricordo dell’impressionante elenco di omicidi che ha segnato un periodo della vita cittadina. Un degrado che viene descritto anche da Omar Di Monopoli con il suo romanzo “Uomini e cani20”, in cui ci descrive un Salento dove politica corrotta e prevaricazione la fanno da padrone, dove dietro i grandi appalti e i permessi di edificare in luoghi sottoposti a vincolo paesaggistico si nasconde una profonda miseria morale. Si tratta in tutti i casi sopra citati di un approccio indubbiamente coraggioso, una serie di esperienze artistiche che sembrano integrarsi armonicamente in modo da ristabilire un legame onesto con il territorio, un modo per impossessarsi della propria identità di italiani e di europei partendo dalle contraddizioni di una storia locale, una storia che grida a gran voce che non si ripetano certi errori, che si riprendano le fila del passato per riuscire a salvare qualcosa di noi. In fondo è quello in cui credeva il grande poeta salentino Antonio Verri, incredibilmente ancora escluso dalle antologie di poeti nazionali “Cambia, cambierà, di molto il volto della campagna, degli aggregati umani, di interi paesi: è cambiato dal dopoguerra ad oggi, cambierà ancora tra due, tre generazioni. E cambieranno naturalmente anche abitudini, modi di lavoro, rapporti.... ecco, quel che non cambierà mai sarà l’idea del dialogo con la terra che l’uomo ha stabilito dal tempo dei tempi, il grosso respiro, il sibilo lungo che si può udire solo di mattina21”.

>Note 1 Rocco Scotellaro, L’uva puttanella – Contadini del sud, Laterza, Bari, 2000. 2 A commento del documentario La taranta, di Gianfranco Mingozzi del 1961 riprodotto nella collana Fotogrammi, ed. Kurumuny, Lecce 2009.

3 Ernesto De Martino, La terra del rimorso, il Saggiatore, Milano, 1961. 4 P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti 1975 5 Salvatore Paolo, Il canale, Calcangeli edizioni 2004 (Prima edizione 1959 Nuova accademia – Milano). 6 Vincenzo Santoro, Il ritorno della taranta, Squilibri, Roma. 2009. 7 Giovanni Rinaldi e Paola Sobrero, La memoria che resta, ad. Aramiré, incentrato sulle vicende dei braccianti della Capitanata registrate intorno agli anni 70. 8 Grazia Prontera, Una memoria interrotta, ed Aramirè relativo all’occupazione delle terre dell’Arneo. 9 Vincenzo Santoro e Sergio Torsello, Il Salento Levantino, ed Aramirè, in cui viene ricostruita la realtà del primo consorzio per la lavorazione del tabacco e le lotte dei lavoratori che vi si svolsero. 10 Salvatore Coppola, La rivolta di Tricase, (15 maggio 1935) (ed. Salentodomani 1981), e dello stesso autore: Leghe contadine del basso Salento agli inizi del secolo, Quegli uomini coperti di stracci, La lotta dei braccianti salentini per la redenzione dell’Arneo (1949-1952). 11 Il più grande festival musicale dedicato al recupero e alla valorizzazione della pizzica salentina giunto quest’anno alla sua dodicesima edizione, che vede sul palco numerosi ospiti internazionali oltre all’orchestra Popolare “La Notte della Taranta”, diretta per la terza edizione consecutiva da Mauro Pagani. 12 Mario Perrotta Italiani cincali e La Turnata Mario Perrotta. 13 Giuseppe Cristaldi Un rumore di gabbiani, orazione per i martiri dei petrolchimici Besa editrice, Nardò, 2009. 14 Alessandro Langi, Maurizio Portaluri, Di fabbrica si muore, Manni , Lecce, 2008. 15 Giulio Di Luzio, I Fantasmi dell’Enichem, Baldini Castoldi Dalai Editore, 2003. 16 In Senza Corpo - voci dalla nuova scena italiana, a cura di Debora Pietrobono. 17 Mario Desiati, Foto di classe, Laterza, Bari, 2009. 18 Mario Desiati, Il paese delle spose infelici, Mondadori, 2008 19 Cosimo Argentina, Nud’e cruda, Taranto mon amour, Effige, 2006C. 20 Omar Di Monopoli, Uomini e cani, ed. Isbn, 2007. 21 Antonio Verri, La cultura dei tao, Lecce, 1986.

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Leningrado (URSS), cine-operatore a Parco Kirov, 1989


[LE PAROLE DEL LAVORO] Toledo (Spagna), industria elettronica, 1990

la narrativa operaia nell’inghilterra, tra ottocento e giorni nostri

❚ Working Class Hero di Silvia Albertazzi

F

u una donna, Harriet Martineau, a introdurre gli operai sulla scena della narrativa europea. Correva l’anno 1832: la rivoluzione industriale aveva portato all’inurbamento di mano d’opera non qualificata dalle campagne, alla ricerca di occupazione nelle fabbriche metropolitane, dove finiva per essere assoggettata alle macchine, in condizioni di lavoro disumane, con lo spettro della disoccupazione a minacciare costantemente le possibilità di una già precaria sopravvivenza. Non per caso, il romanzo in cui l’operaio fa la sua prima comparsa pone l’accento fin dal titolo, Uno sciopero a Manchester, sul problema dello sfruttamento della mano d’opera salariata in quella che era al tempo la capitale dell’industralizzazione selvaggia, una città grigia e inospitale in [ 13 ]

❝ È duro

diventare qualcuno ma a me non interessa troppo...❞ Strawberry Fields Forever The Beatles


Ferrara, in attesa del carico in zuccherificio, 1985

cui si ambienta anche quello che è forse il più riuscito tra i romanzi proletari del primo Ottocento, Mary Barton, anch’esso scritto da una donna, Elizabeth Gaskell, moglie di un pastore impegnato nei quartieri operai, dove ha modo di conoscere le misere esistenze dei proletari. Così, mentre in generale nella letteratura inglese ottocentesca porre l’accento sul denaro – e, per traslato, sui mezzi più o meno onesti per procuraselo – è considerato volgare, poiché il vero gentiluomo vittoriano vive di rendita, sono le donne, sulla scia di quella Jane Austen che Benjamin Franklin, di là dall’oceano, biasimava per il troppo spazio lasciato a considerazioni economiche nei suoi romanzi, a conferire dignità letteraria al duro lavoro. Esemplare è il caso della mite signora Gaskell, timida e timorata di Dio, che non solo arriva a concepire il personaggio di un operaio che, spinto dalla fame e dall’umiliazione, uccide il figlio del suo padrone, ma addirittura, senza farsi mai prendere la mano dal moralismo vittoriano, dimostra una sincera simpatia per il pover’uomo, e un’aspra riprovazione per il ricco industriale, convinto di possedere i propri lavoratori e le loro famiglie e di potere, pertanto, fare il proprio comodo con le loro ingenue figlie. Eppure, l’ideologia della Gaskell non differisce da quella del suo amico Charles Dickens: tutto per il popolo, niente con il popolo. Quando i lavoratori si ribellano e scendono in sciopero, la consorte del reverendo si spaventa: in Nord e Sud, pur non mancando di denunciare situazioni di grave disagio, dipinge gli scioperanti come mostri minacciosi. Ma del resto, scioperi e sindacati spaventano tutti i buoni borghesi, per quanto illuminati, nell’Inghilterra di metà

Ottocento: lo stesso Dickens, che pure offre in Tempi difficili un’incisiva analisi dell’alienazione operaia attraverso la creazione dell’abietta cittadina industriale di Coketown, non esita a manifestare i propri dubbi sulla validità di ogni azione sindacale e, dopo aver aperto il romanzo con un raro esempio di pedagogia narrativa progressista, dapprima inserisce la figura di un sindacalista parolaio che seduce con la sua loquela tutti gli operai, e infine inscena una morte bianca, da intendersi come il sacrificio di un giusto, necessario per aprire gli occhi all’intera comunità. Che dire poi di Benjamin Disraeli, che in Sybil elabora la teoria delle due nazioni, quella dei ricchi e quella dei poveri, destinate a non incontrarsi né congiungersi mai, o di Charles Kingsley, che in Alton Locke propone una sorta di socialismo cristiano, fondato sulla fiducia in un’aristocrazia illuminata, che possa aiutare le classi sfruttate dalla borghesia capitalista? E tuttavia, incongruenze ideologiche a parte, il romanzo proletario imperversa alla fine del secolo XIX: non solo le cosiddette slum novels, tetre narrazioni di vita marginale utilizzate come veicolo di propaganda sociale, pongono al centro delle loro vicende il mondo del lavoro, ma anche un autore quale Kipling sceglie di raccontare, in alcune fra le sue storie più popolari, le disavventure indiane di tre (sotto)proletari britannici, i Tre soldati protagonisti dei racconti da lui pubblicati in India nel 1888, operai provenienti dagli slums metropolitani e sbalzati negli estremi avamposti dell’impero, dove soffrono acutamente la nostalgia per il mondo malsano da cui provengono, e che ricordano in un linguaggio crudo e volgare. Qui per la prima volta la tematica operaia s’intreccia con i problemi dell’emi-

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[ ALBERTAZZI ] grazione e dell’imperialismo: sono gli operai a cercare fortuna oltremare alla fine del secolo, o a lasciare la patria per andare a difendere le terre dell’impero. In Giuda l’oscuro di Thomas Hardy, invece, appare un personaggio che, con alterne vicende, attraverserà tutto il novecento anglofono: il proletario che vuole elevarsi al di là della sua classe di nascita e che, invece, frustrato nel suo desiderio di conoscenza, è costretto a una vita grama, ben al di sotto delle sue possibilità intellettuali. Paul Morel in Figli e amanti di D. H. Lawrence, così come Leonard Bast in Casa Howard di E. M. Forster incarnano, nei primi decenni del XX secolo, altrettante trasformazioni di questo personaggio. È soprattutto con Lawrence, egli stesso figlio di minatore e smanioso di emanciparsi dalla sua condizione d’origine, che l’educazione sentimentale e l’apprendistato umano e morale di un giovane della classe operaia trovano la loro più autentica rappresentazione. Dal già citato Figli e amanti, in cui i sogni, le rabbie e le speranze di un adolescente del proletariato sono messi a confronto con il suo desiderio di fuga attraverso l’arte, la cultura e il sesso, passando attraverso il dittico composto da L’arcobaleno e Donne innamorate, dove la contrapposizione tra macchina e natura assume toni al contempo provocatori e visionari, Lawrence approda, a un passo dalla morte, in L’amante di Lady Chatterley, alla sua denuncia più accorata contro “quello che è stato fatto del popolo negli ultimi cent’anni: gli uomini trasformati in animali da lavoro, privati di ogni vitalità, di tutta la loro vita”. Per Lawrence, Hardy, Kipling, Moore o Gissing, tuttavia, il lavoro non è mai un tema degno di occupare da solo un’intera narrazione: è uno sfondo, che a tratti assurge al primo piano, un’ambientazione, un pretesto per riflessioni sociologiche o per denunce politiche, la condizione da cui originano comportamenti e sentimenti dei protagonisti. Nel primo Novecento e tra le due guerre. sono piuttosto gli autori americani a considerare il lavoro come un soggetto a sé stante, degno di esplorazione narrativa in quanto tale, e non come pretesto per ulteriori snodi tematici. Per esempio, il racconto di Jack London, “L’apostata”, ruota tutto intorno agli effetti alienanti di un lavoro ripetitivo, mentre Upton Sinclair nel romanzo La giungla offre un resoconto tanto terrificante della vita nelle fabbriche di scatolame di Chicago da costringere i legislatori a rivedere la normativa in merito a meno di un anno dall’uscita del libro; Robert Tressell, infine, in Filantropi dai calzoni laceri, descrive, attingendo alla propria personale esperienza, lo sfruttamento di un gruppo di imbianchini, con una dovizie di penosi

dettagli e iperrealistici particolari, alcuni dei quali si ritroveranno nella Trilogia di Studs Lonigan di James T. Farrell, il cui protagonista, impiegato come verniciatore nell’azienda del padre, a causa del duro lavoro cui il genitore lo sottopone, mette a repentaglio la propria salute e finisce col morire di stenti nella Chicago della Depressione, al termine di un lungo giorno passato a cercare inutilmente un’occupazione. Del resto, dall’ottobre del 1929 in avanti è la mancanza di lavoro piuttosto che il lavoro stesso a occupare le pagine della narrativa non solo statunitense. Nel secondo dopoguerra, gli operai tornano alla ribalta della letteratura inglese: è la loro (ultima) grande stagione, che si apre nel 1956 con un dramma, Ricorda con rabbia di John Osborne, ancora incentrato sulla disoccupazione e su un personaggio di chiara ascendenza lawrenciana, quel Jimmy Porter che scandalizza i borghesi di mezzo mondo con la sua eloquenza aggressiva da ribelle senza programma, proletario intelligente e acculturato, frustrato nelle sue ambizioni accademiche. E se è ancora a teatro, con la trilogia di Arnold Wesker, composta dai drammi Brodo di pollo con l’orzo, Radici e Parlo di Gerusalemme, che gli operai inglesi trovano il loro cantore, in grado di tracciare una storia della classe operaia britannica dal periodo fra le due guerre ai fatti d’Ungheria del 1956, anche in narrativa la working-class recupera un posto di primo piano, in una serie di romanzi che raccontano come vivono i giovani operai nell’Inghilterra del Welfare State. Alan Sillitoe in Sabato sera, domenica mattina descrive l’esistenza insulsa di un cottimista ventenne, il cui unico scopo nella vita è aspettare il sabato sera per ubriacarsi e fare sesso senza troppe complicazioni con donne sposate; David Storey in Il campione denuncia l’incapacità della classe operaia di vivere e gestire il successo; Bill Naughton in Alfie mostra, invece, con humour e ironia la solitudine cui da ultimo è condannato il proletario; Barry Hines, infine, in Kes analizza il determinismo pedagogico dell’educazione riservata ai figli degli operai. E proprio negli stessi anni, quasi a suggellare l’imprescindibile ritorno della working class nella cultura inglese, anche la musica rock canta il mondo operaio, in una tra le canzoni più struggenti di John Lennon, quella Working Class Hero grazie alla quale, riflettendo sull’apprendistato emotivo e umano di un ragazzo proletario, privato di un’identità fin da bambino, umiliato a scuola e picchiato a casa, terrorizzato al momento di fare le proprie scelte esistenziali, drogato di religione, sesso e tv, Lennon si impone, secondo un’osservazione di Hanif Kureishi, come figura centrale del

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suo tempo, non meno importante per gli anni sessanta e settanta del Novecento di quanto Brecht lo fu per il periodo tra le due guerre. Non a caso, la canzone di Lennon termina con un’amara morale, mutuata da un romanzo al tempo molto popolare, La stanza di sopra di John Braine: per raggiungere il successo, il giovane della classe operaia dovrà imparare “a sorridere mentre uccide/ se vuole essere come i tizi in cima alla collina”. Inutile rilevare che per Lennon la risposta all’imperativo del successo a ogni costo è il rifiuto sdegnoso di omologarsi nel compromesso. Ma la sua è l’ultima generazione che può intonare con convinzione versi come quelli di Strawberry Fields Forever : “è duro diventare qualcuno ma a me non interessa troppo”. Nei decenni seguenti l’imperativo categorico sarà, invece, il successo a ogni costo. E, superfluo aggiungerlo, la classe operaia sparirà dalla scena letteraria britannica. Ma non da quella anglofona, perché, dalla fine degli anni Cinquanta, con la caduta dell’Impero e le conseguenti prime grandi ondate di migrazione, soprattutto dai Caraibi e dall’India, appaiono nuovi soggetti nel panorama sociale: i migranti, destinati a dare vita, con le loro storie, a una sorta di narrativa sottoproletaria, dai temi e dal linguaggio ibridati, che nasce con l’intraducibile Londinesi solitari di Sam Selvon, tutto scritto nel gergo impuro degli immigrati caraibici, e continua, sino ai giorni nostri, attraverso i racconti per giovani adulti di Farrukh Dhondy, insegnante di scuola media superiore negli anni Settanta, alle prese con figli di immigrati, spesso teppisti e pressoché analfabeti, per approdare ai patinati romanzi di ambientazione operaia costruiti più o meno a tavolino da giovani scrittrici di seconda generazione, quali Zadie Smith o Monica Ali. L’East End in cui si situano le loro storie, un’area che fin dai tempi di Dickens appariva come una minaccia sulla carta della metropoli, il territorio dei miseri, dei reietti e dei diversi che la capitale dell’Impero cercava di nascondere agli occhi del mondo, è oggi la zona londinese con la più alta densità di immigrati dell’Asia meridionale: ancora, dunque, territorio dell’Altro. Un Altro che gli scrittori immigrati descrivono nell’atto di cercare casa, lavoro, reagire alle offese razziste, integrarsi ovvero radicarsi nell’integralismo più reazionario. Nelle storie di Dhondy, per esempio, si ripercorre l’educazione sentimentale e sociale delle giovani generazioni operaie, così come in Dickens, in Lawrence o in Lennon: soltanto, adesso i ragazzi hanno un altro colore di pelle, e i loro peggiori nemici sono dei (sotto) proletari come loro, ma bianchi, con i quali inscenano assurde guerre tra poveri o, nella migliore delle ipotesi, sperimentano incredibili episodi di incomprensione

interculturale, come accade nel divertentissimo racconto che dà il titolo alla raccolta di Dhondy Vieni alla Mecca, dove la confusione tra il luogo di culto islamico per eccellenza e il nome di una discoteca dell’East End è anche metafora dell’abisso che separa uno dei tanti operai indiani sfruttati nell’industria tessile, un sedicenne senza alcuna coscienza politica, da una coetanea britannica di estrazione borghese che si ritiene marxista e impegnata nel sociale. Paradossalmente, l’ironia tagliente di Dhondy, che in altri racconti si appunta anche contro l’assistenzialismo paternalista verso i figli degli emigranti, la mancanza di prospettive per i giovani di seconda generazione e l’inadeguatezza delle scuole statali a fornire loro una seppur minima istruzione, sembra aprire la strada, con qualche decennio di anticipo, al caso letterario inglese più discusso degli ultimi anni, il romanzo Turismo di Nirpal Singh Dhalival, ritratto impietoso di un prodotto di quelle stesse scuole, un figlio del sottoproletariato indiano dell’East End il cui proposito nella vita è fare soldi senza lavorare, sfruttando e truffando i bianchi. Con Puppy, il protagonista di Turismo, sembra chiudersi il cerchio della narrativa operaia inglese. Alla correttezza politica di Monica Ali e compagne, si oppone la rappresentazione del reale alquanto politicamente scorretta, ma non certo meno “autentica” di Dhalival: il suo protagonista, infatti, non solo non ha un lavoro, ma disprezza coloro che faticano per guadagnare stipendi da fame. Non per caso, nello stesso anno di Turismo, il 2006, esce anche Londonstani di Gautam Malkani, un romanzo in cui giovani borghesi di seconda generazione, macisti e violenti, rifiutano l’assimilazione nella realtà inglese, in nome di un recupero delle loro origini indiane che parte dalla creazione di un gergo in cui oscenità estreme si mescolano al Punjabi super-sintetico usato nella scrittura degli sms, al lessico del rap, e agli idiomi del cinema bollywoodiano. E se personaggi come Puppy o Jas, il narratore di Londonstani, con il loro rifiuto del lavoro, chiudono in certo modo la stagione della narrazione operaia di migrazione, la loro stessa irruzione sulla scena della narrativa europea rende ragione di una situazione che Tahar Ben Jelloun aveva già denunciato una trentina d’anni or sono nel suo romanzo sulla condizione dei migranti clandestini in Francia, La réclusion solitarie: “Credi che un lavoratore – emigrante o no – abbia il tempo di vivere? Ha solo il tempo di fabbricare delle immagini; immagini che finiscono per strangolarlo nel sonno: un lavoro sociale necessario dovrebbe permettere agli uomini di vivere, ovvero di esprimere la loro soggettività, capisci?”

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[LE PAROLE DEL LAVORO] la sfida della letteratura post-industriale

❚ Fabbrica: andata e ritorno

Verona, allestimento scenografico all’Arena, 2009

di Donata Meneghelli

I

l fenomeno sta sotto gli occhi di tutti, è impossibile non accorgersene: da alcuni anni il lavoro è entrato di nuovo come tema forte nella letteratura italiana, investendo generi diversi (romanzo, racconto, docufiction, teatro narrativo). Gli elenchi sono noiosi e producono assuefazione più che mobilitare l’attenzione: ma volendo, non sarebbe difficile citare almeno una ventina di titoli. A chiedersi perché si fa la figura dei cretini: questa volta, non ci sono dubbi, è la realtà che detta la sua agenda alla letteratura, poiché il lavoro (le sue trasformazioni o degenerazioni) è diventato un nodo strategico delle tensioni che attraversano la società contemporanea. Ma la domanda è forse un’altra, e riguarda la capacità o la volontà della letteratura di agire là dove c’è un vuoto politico, di impossessarsi di uno spazio rimasto vacante. Per capire questo fenomeno, è utile tornare indietro di circa mezzo secolo e ripartire da quella letteratura industriale di cui Elio Vittorini, nel famoso Menabò n. 4, aveva teorizzato la necessità e indicato le poste in gioco: Tempi stretti o Donnarumma all’assalto di Ottieri, Memoriale di Volponi, Vogliamo tutto di Balestrini, hanno interpretato la transizione da una Italia rurale e [ 17 ]

❝ Perché noi siamo

nella società postfordista, nell’economia della conoscenza, delle merci immateriali, una società dove il settore dell’entertainment produce più posti di lavoro e un fatturato maggiore del mercato dell’auto. ❞


contadina verso un’industrializzazione accelerata, in cui il “vecchio” continuava a coesistere avvinghiato al “nuovo”; hanno prelevato dalla realtà un insieme di nuclei tematici per sottoporli a quel “filtro di giudizio e di coscienza” che secondo Vittorini la letteratura poteva e doveva essere1. In primo luogo la grande fabbrica, luogo segregato, ostile, “ansimante”, come lo definisce Volponi; ma anche spazio che unisce chi lo abita. Poi l’operaio fordista, nuovo soggetto antropologico.

lavoro e gli oggetti che costruisce, che è estremamente fiero delle proprie competenze e di un sapere tutto empirico con cui aggira problemi a prima vista insolubili. Ma Levi opera un rovesciamento, annunciando – forse inconsapevolmente – il declino di quel mondo. Faussone, prima di diventare montatore, lavorava alla Lancia (acquisita dalla Fiat nel 1969), alla catena di montaggio. Adesso si muove individualmente di cantiere in cantiere: è libero e solo. La fabbrica è scom-

Malaga (Spagna), ciclo-taxi, 2008

E ancora l’alienazione, il rapporto con la macchina, il lavoro come espropriazione (del tempo e della vita) in nome del profitto. Infine la conflittualità, che fa di quel soggetto antropologico un soggetto politico e culturale, che produce coscienza e trasforma la somma degli individui in classe. Una stagione, quella della letteratura industriale, che ha la durata di un ventennio. Si chiude simbolicamente nel 1978, con il bellissimo libro di Primo Levi, La chiave a stella. Il libro narra le vicende di Libertino Faussone, un operaio torinese altamente specializzato che gira per il mondo montando grandi strutture metalliche, che ama con una passione ostinata il proprio

parsa, e così la segregazione ma anche la dimensione collettiva. Inoltre Faussone, con le sue competenze, la sua creatività, la consuetudine a svolgere operazioni complesse, a confrontarsi con l’imprevisto, pur se rimane un salariato (lavora infatti per una non meglio identificata “azienda”), è l’antitesi dell’operaio fordista intercambiabile, forza lavoro anonima. Scomparsa dunque l’alienazione, ma anche qualunque idea di conflittualità: Faussone trova il suo riscatto nella professionalità, non nella lotta di classe. Del resto, già tra il 1969 e il 1970 Pasolini aveva concluso una sorta di storia dell’Italia moderna con un verso profetico: “Gli operai hanno ancora pochi anni

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[ MENEGHELLI ] di tempo”2. E oggi? Sembrerebbe che quegli anni gli operai se li siano giocati proprio tutti, fino all’ultima goccia. Intendiamoci, non che si siano estinti uno dopo l’altro. Benché diminuiti numericamente in maniera massiccia, in Italia ce ne sono ancora alcuni milioni, che producono immense quantità di manufatti ogni anno3. Anche la fabbrica esiste ancora, sebbene diversamente strutturata e organizzata. O spostata lontano da noi, sottratta alla geografia urbana dell’Occidente. Perché noi siamo nella società post-fordista, nell’economia della conoscenza, delle merci immateriali, una società dove il settore dell’entertainment produce più posti di lavoro e un fatturato maggiore del mercato dell’auto. E gli operai sono ormai considerati marginali, residuali: irretiti nel ciclo coatto del consumo, decentrati e polverizzati da un trentennio di rivoluzione tecnologica, ristrutturazione, delocalizzazione. Gad Lerner, in un libro-inchiesta su ciò che restava degli operai Fiat alla fine degli anni Ottanta, scriveva: “Operai con l’acqua alla gola perché il loro milione al mese deve bastare al mantenimento di tutta la famiglia, e un buon mestiere da vendere sul mercato non ce l’hanno. Operai che la casa se la sono comprata con vent’anni di lavoro doppio. […] Operai distanziati decine di metri l’uno dall’altro a sorvegliare in officine semidesertiche la macchina che fa tutto da sé. […] Operai intraprendenti ricercati per le loro mani d’oro dai padroni delle piccole e medie fabbriche in cui ormai si guadagna di più. Operai azzittiti dalla consapevolezza di essere inutili ferrivecchi tenuti lì sulla linea solo perché al momento costano meno di un robot”4. Alla luce delle esperienze più recenti, questa lista potrebbe essere ampiamente integrata: ma sarebbero comunque gli operai sopravvissuti alla fine della classe operaia. È lei che non esiste più, dissolta da una vittoria del capitale che sembra senza appello. Sostituita dal magma informe delle risorse umane: collaboratori a progetto, interinali, stagisti, con contratto di formazione lavoro, talvolta nemmeno più salariati nel senso classico del termine, eppure ancora lavoratori e lavoratrici, ma in una condizione frammentata nel tempo e nello spazio, inafferrabile, quasi clandestina. Insomma,

i precari, flessibili fino all’agonia: “Un mondo – ha scritto Aldo Nove – dove non esistono ‘categorie’ di lavoratori ma individui che vivono il loro personale dramma […] all’interno di una struttura esplosa in mille realtà”5. In Italia, l’inizio del processo i cui esiti sono quelli evocati da Aldo Nove ha una data: convenzionale come tutte le date in cui si sintetizzano le transizioni storiche ma ad alto coefficiente simbolico: l’ottobre 1980. È la data di uno degli scontri più radicali che si siano dati tra capitale e lavoro; e di una sconfitta senza precedenti della classe operaia. I fatti sono noti. Nel settembre 1980, durante la vertenza per il rinnovo del contratto, la Fiat annuncia il licenziamento di 15.000 lavoratori. Si parla di liste di proscrizione: nascondendosi dietro la “crisi”, dietro la necessità di salvare profitti e competitività sacrificando la forza lavoro, l’azienda vuole liquidare il sindacato di fabbrica. Gli operai iniziano una lotta che durerà 35 giorni, con il sostegno sempre ambiguo delle tre confederazioni nazionali. La conflittualità è altissima, gli stabilimenti presidiati, la produzione bloccata mentre si cerca un accordo con la mediazione del governo. Quell’accordo sembra forse sul punto di essere raggiunto, quando avviene un fatto assolutamente inedito: alcune decine di migliaia di impiegati, quadri intermedi, capi scendono in piazza per difendere il loro diritto di andare a lavorare (è quella che passerà alla storia come “la marcia dei 40.000”). Il giorno dopo, le tre confederazioni firmano un accordo al ribasso che prevede la messa in cassa integrazione di 23.000 lavoratori con vaghe promesse di reintegro che non verranno mai mantenute. La sigla dell’accordo è l’inizio della grande ristrutturazione del capitale in Italia, di cui la Fiat è il simbolo e l’avanguardia. Ma la vertenza Fiat degli anni Ottanta è anche una vicenda che ci pone di fronte un problema cruciale, che è insieme politico, storico, narrativo. In altre parole, quella vicenda è per intero attraversata da una contraddizione, da una tensione irrisolvibile. Da una parte abbiamo uno scontro fra una serie di attori (le organizzazioni sindacali, i lavoratori, la dirigenza Fiat), e quindi dei soggetti, delle responsabilità, delle possibilità di scelta, dei rapporti

Una stagione, quella della letteratura industriale, che ha la durata di un ventennio. Si chiude simbolicamente nel 1978, con il bellissimo libro di Primo Levi, La chiave a stella

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Ferrara, salumificio artigiano, 1986

di forza che non sono mai dati ma bensì dinamici, esposti al rischio e all’imprevedibile. Dall’altra, abbiamo dei processi che appaiono in qualche modo ineluttabili: prima fra tutte, l’innovazione tecnologica, il passaggio dalla meccanica all’elettronica, con la crisi strutturale del movimento operaio che questa comportava, la perdita di centralità dell’elemento umano, il tramonto del modello taylorista (per non parlare dei cambiamenti in atto all’interno della stessa classe operaia, ineluttabili anche quelli, che ne sgretolano l’omogeneità: dalla crescita della scolarizzazione all’ingresso prorompente in fabbrica delle donne). C’è, insomma, anche l’idea che l’esito dello scontro fosse già scritto, che la lotta alla Fiat marciasse in direzione opposta a quella della storia6. Che nel progetto di ristrutturazione fatto in nome della competitività, e dunque della “vita” dell’azienda, fossero in realtà già contenuti i germi della de-industrializzazione che segnerà la società italiana a partire dagli anni Novanta. Comunque stiano le cose, si tratta di un evento che segna la chiusura di un ciclo culturale della società italiana, l’aprirsi di scenari completamente nuovi in cui nulla sarebbe rimasto come prima. Dopo la sconfitta alla Fiat nell’Ottanta, non sarebbe più stato possibile scrivere i libri che erano stati scritti sul lavoro in fabbrica. Eppure, nella letteratura che possiamo definire postindustriale, la fabbrica resiste. Marginalizzata sul piano della realtà, riemerge curiosamente nel mondo

raccontato. In Mi sento già molto inserito di Mauro Orletti, il cui sottotitolo significativamente è “Cronache dalla fabbrica (dis)integrata”. In Nicola Rubino è entrato in fabbrica di Francesco Dezio, dove ci sono ancora le linee di assemblaggio, le postazioni ad alta tossicità, l’incremento dei ritmi produttivi, la struttura gigantesca, oppressiva, tentacolare, ma abitata ora da individui isolati, parcellizzati, che lottano per essere assunti allo scadere del contratto di formazione lavoro. Nella Dismissione di Ermanno Rea, che mette in scena – alla lettera – lo smantellamento, lo smontaggio pezzo a pezzo degli stabilimenti Ilva di Bagnoli, che ci consegna l’epopea di come scompare materialmente la fabbrica e, insieme ad essa, “una civiltà, una cultura, una forma mentis”7; dove dunque la fabbrica è presente come vuoto, come entità negativa, come ombra o come rovina. Vale la pena di chiedersi: perché ancora la fabbrica? Perché la letteratura indugia su un mondo industriale considerato ormai tramontato, o che comunque ha perso la sua centralità? All’origine della “resistenza letteraria” della fabbrica c’è anche un problema di rappresentabilità (e di senso). L’industria fordista e i suoi operai in tuta blu erano eloquenti, immediatamente significanti, segni capaci di alludere a un’intera storia, di evocare un’identità individuale che acquista senso e valore dentro processi collettivi. E se è vero, come ha affermato Zygmunt Bauman, che “l’appartenenza e l’identità non sono scolpite nella roccia, non sono

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[ MENEGHELLI ] assicurate da una garanzia a vita, che sono in larga misura negoziabili e revocabili”8, e che probabilmente lo sono sempre state, la condizione fluida, caratteristica, secondo Bauman, di questo momento storico, non ha niente di liberatorio. La fabbrica, gli operai, anche residuali, sconfitti, esplosi, privi di coscienza di classe, rimanderebbero allora a un mondo non necessariamente migliore ma comunque leggibile, riconoscibile, rappresentabile. Al polo opposto potremmo collocare un breve racconto di Christian Raimo pubblicato alcuni mesi fa, in cui quella condizione fluida non si lascia più nemmeno nominare, obbligando la voce narrante a portare il linguaggio fino al limite della agrammaticalità, a sopprimere ogni traccia che permetta di ricostruire un’identità (tranne quella attraverso cui si autodesigna come voce femminile): “Io sono specializzata in, che non riesco a capire se sia una qualifica che effettivamente vale nel mercato del lavoro ma, avendo cominciato a lavorare che avevo neanche, non mi posso lamentare del fatto che oggi a distanza di, la mia formazione è stata comunque articolata, piena di esperienze di tutti i tipi, come per esempio. Ma dovendo ripercorrere dall’inizio il mio curriculum, [..] devo ritornare al momento in cui”9. Scrivere eliminando quasi sistematicamente le unità di determinazione semantica equivale a svuotare l’azione di ogni significato, sospenderla al di fuori dei parametri di tempo, spazio, modo, mezzo, fine: un’azione che non è più situata, non è ancorata a nulla, semplicemente non è. Equivale a narrare una storia che è di tutti ma in realtà di nessuno (qualcosa come una virtualità disforica) in cui la soggettività non solo non è più una variabile che entra nella dinamica del lavoro salariato, ma è stata completamente evacuata. Così si conclude il racconto di Raimo: “Attualmente sono disoccupata, anche se mi accade ogni tanto di lavorare […]; e nel frattempo […] ho deciso questo: di staccare la spina, e che per un tot di ore al giorno, non ci sono per nessuno, faccio finta di non esistere, e se qualcuno mi vuole, deve venire qui, deve venire lui a cercarmi, e davanti a me, in faccia, deve dirmi per favore cosa sono”10. Rispondendo a una necessità storica analoga a quella posta a suo tempo da Vittorini, sembra essere questa, oggi, la sfida: rendere conto del mondo che cambia attraverso la scrittura, e dunque misurarsi con un’identità a rischio di dissoluzione, con una nebulosa che continua a rivendicare, forse proprio dalla letteratura, una qualsivoglia forma di riconoscimento.

Ferrara, panificio, 1986

>Note 1, 2 P.P. Pasolini, “Bozzetto”, in Id., Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 2003, vol. II, pp. 293-297. 3 Cfr. L. Gallino, “Tute blu. Quel che resta di un mito”, in La Repubblica, 20 gennaio 2006. 4 G. Lerner, Operai, Milano, Feltrinelli, 1988, p. 12. 5 A. Nove, “Un’epica pausa caffé tra guardie giurate e baristi innamorati”, recensione a Pausa caffé di G. Falco, La Stampa – Tuttolibri, 8 maggio 2004. 6 Cfr. M. Revelli, Lavorare in Fiat, Milano, Garzanti, 1989. 7 E. Rea, La dismissione, Milano, Rizzoli, 2002, p. 142. 8 Z. Bauman, Intervista sull’identità, a cura di B. Vecchi, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 6. 9 C. Raimo, Sono come tu mi vuoi, in C. Susani, C. Raimo, T. Pincio et al., Sono come tu mi vuoi. Storie di lavori, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 3. 10 Ibid., p. 8

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Managua (Nicaragua), venditrice di manioca, 1984


[LE PAROLE DEL LAVORO] Ferrara, sala controllo di industria chimica, 1987

la nocività in fabbrica e la sua (mancata) rappresentazione

❚ La parola avvelenata di Massimo Carlotto

L

a distanza e il dopo. Questi sono i dati che caratterizzano l’assenza della letteratura nel descrivere la fabbrica come luogo di malattia e di morte negli anni in cui esisteva ancora una classe operaia autorappresentata e organizzata. In realtà la distanza è stata a tratti abissale. Il romanzo ha girato intorno ai muri delle industrie incapace di inserirsi nelle esperienze “altre” come quella dei poeti operai (vasta e dispersa, che va ben oltre il grande Ferruccio Brugnaro), del cinema di La classe operaia va in paradiso ma, forse, ancora di più della canzone, strumento di immediata appropriazione e uso di un movimento vasto e composito. La fabbrica uccideva. Medicina Democratica denunciava in modo preciso, eppure la nocività non ha trovato spazio nella narrazione. La ragione non sta solo nell’incapacità di comprendere la portata del fenomeno, ma anche nel dare per scontato che faceva parte di un processo produttivo basato sullo sfruttamento che “domani” non sarebbe più esistito. [ 23 ]

❝ È arrivata la

magistratura a tentare di rimettere a posto le cose. Prima il profitto ammazza e poi arriva un giudice a stabilire quanto valgono le vite e a cercare qualche raro colpevole. ❞


Il domani non è arrivato e la fabbrica che avvelenava non ha fatto prigionieri. La ridefinizione dei processi produttivi e del mercato del lavoro, la fine dell’operaio massa, la dismissione di buona parte dei grandi poli petrolchimici e della messa fuori legge dell’amianto hanno permesso di contare le vittime e di fare chiarezza sulla nocività del passato. Ed è arrivata la magistratura a tentare di rimettere a posto le cose. Prima il profitto ammazza e poi arriva un giudice a stabilire quanto valgono le vite e a cercare qualche raro colpevole. Processi che in buona parte sono ancora in corso e che, comunque, non sono stati in grado di portare sul banco degli imputati l’industria italiana che “sapeva” ma ha preferito non salvaguardare la salute dei lavoratori perché costava meno affrontare i rischi dei procedimenti penali e i relativi risarcimenti. Totalmente slegate a livello nazionale le varie realtà colpite hanno lavorato spesso efficacemente sul terreno della testimonianza, che non si è mai trasformata in fenomeno letterario, ma è stata comunque in grado di “raccontare”. Anche in questa fase la letteratura ha mantenuto la distanza, occupata a mettere a fuoco importanti trasformazioni sociali dove la fabbrica aveva sovente un ruolo importante, ma ignorando o dando per scontato che donne e uomini si sono fottuti salute e vita in cambio di un salario. Spesso, coloro che si occupano a vari livelli di nocività si sono chiesti se la letteratura avrebbe potuto in qualche modo fornire elementi di conoscenza e favorire la presa di coscienza della malattia diffusa determinata dal lavoro. Ricordo il lapidario intervento di un malato di mesotelioma: “In fondo ha ucciso più il lavoro della droga, ma i vostri libri hanno parlato solo dell’eroina”. È vero, ma lo è anche il fatto che la “roba” ha attraversato e “stravolto” l’esperienza di una generazione, che ha usato la letteratura per narrare la realtà che la circondava, determinando un dibattito che ha coinvolto tutti. Il problema era un altro e cioè che chi scriveva era esterno alla fabbrica perché non ci aveva mai messo piede. L’immaginario sì, invece. La mitizzazione dell’operaio massa è stato oggetto di culto per molto tempo.

In realtà la produzione letteraria di quel periodo è stata in gran parte rimossa, perduta, dimenticata (Volponi, eccellente eccezione). Al suo posto c’è altro e la percezione, nel tentare di interrogarsi sul rapporto tra romanzo e fabbrica, è che la seconda fa parte del passato, spazzata via dalla memoria di un intero Paese dalla potenza della ristrutturazione dei modelli economici. Sono rimasti i sopravvissuti, i parenti delle vittime nelle minuscole roccheforti della memoria occupati a coltivarla e a chiedere giustizia. Ricostruirne la mappa è impressionante per il numero di situazioni. A volte, sollecitati come nel caso di Monfalcone considerato come il più grande crimine di pace del dopoguerra, gli scrittori sono stati chiamati per raccontare e sostenere. Qualcosa di breve e pregevole è stato anche scritto, ma ben lontano da essere definito fenomeno. E tantomeno così visibile da suscitare reazioni. E il futuro non promette nulla di diverso. La generazione che è stata costretta ad affollare i call center invece ha scritto con spiazzante lucidità non solo di sfruttamento, ma anche di disagio e patologie. Una maggiore coscienza della società su ambiente e salute sviluppa oggi attenzione sulla nocività. Anche il lavoro nero dei clandestini, le condizioni spesso tremende a cui sono costretti sono oggetto di riflessione e racconto, ma è ancora troppo poco se vogliamo che il mondo del lavoro ritorni al centro della società come auspica almeno una parte della sinistra. La crisi di quel romanzo, che noi noiristi affettuosamente chiamiamo bianco, nasce forse da questa eterna distanza, separatezza. Il genere, poi, possiede ancor meno strumenti in questo senso perché può affrontare con incisività la relazione tra nocività e responsabilità, ma non la complessità del mondo del lavoro. Certo il noir può svelare quei meccanismi economicoaffaristico-criminali sviluppati dalla delocalizzazione, che hanno permesso all’industria italiana più obsoleta di far fruttare, nonostante la concorrenza, linee produttive tecnologicamente sorpassate. In questo ambito c’è una riproduzione del passato, la nocività di ieri ha oltrepassato i confini e avvelena e uccide territori e donne e uomini di altri paesi.

Sono rimasti i sopravvissuti, i parenti delle vittime nelle minuscole roccheforti della memoria occupati a coltivarla e a chiedere giustizia.

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] Colpisce come la violenza di questo sistema economico non venga descritto dagli scrittori locali. È come se avessero assorbito la nostra incapacità di un tempo. Eppure le contraddizioni sono molto più evidenti. Divieto di organizzazione e appartenenza sindacale, eliminazione di diritti patrimonio di generazioni precedenti, primo tra tutti quelli legati alla malattia che diventa immediatamente causa di licenziamento. Decine di esperienze rumene, bulgare, moldave puntano il dito contro l’industria italiana colpevole di provocare patologie e di espellere il lavoratore colpito per evitare ogni rischio futuro di cause legali. Quegli industriali italiani fanno parte a pieno titolo delle associazioni di categoria che tanto si lamentano del costo di lavoro in patria, è un’industria globalizzata arrogante e impietosa, che si confronta con una forza lavoro dispersa e disorganizzata. E la letteratura? Se la memoria ha un senso il suo ruolo dovrebbe essere immediatamente evidente, quantomeno nel tentare di ricucire e raccontare storie locali in grado di mettere in evidenza la continuità tra passato e presente. Il disprezzo nei confronti dei lavoratori è oggi peggiore di ieri per la debolezza e la frammentarietà che un tempo era sconosciuta. Il fatto è che dall’interno di quel tipo di fabbrica è difficilmente ipotizzabile la nascita di un’esperienza letteraria legata al romanzo. Lo scrittore è nuovamente distante e pare, ancora una volta, non interessato a descrivere quel tipo di realtà. Nonostante internet non esistono nemmeno collegamenti tra le varie comunità di romanzieri e tanto meno il desiderio che si creino. D’altronde se non è accaduto nel periodo storico dove si esprimeva il livello più alto di sogno, utopia, soggettività perché dovrebbe accadere oggi? Non si può nemmeno sostenere che la letteratura abbia un ruolo subalterno al “potere”. Almeno non nella sua complessità. Anzi. Una parte consistente degli autori a livello mondiale esprimono idee progressiste e una minoranza rumorosa “milita”, nel senso che si occupa della realtà che la circonda. Quella che meglio comprende perché parte di un’esperienza diretta. E a partire da questo dato di fatto si può sperare che i lavoratori, grazie al più alto livello di scolarizzazione di un tempo (quantomeno nei paesi dell’Est) trovino la forza (e un mercato editoriale) di credere nel romanzo. Tra una lotta e l’altra, ovviamente.

Barcellona (Spagna), artisti di strada, 2004 [ 25 ]


[LE PAROLE DEL LAVORO] destino, dolore e vergogna nella letteratura di sembÈne

❚ Banty mam yall

Madrid (Spagna), la preghiera del torero, 1986

di Massimo Vaggi

L

a linea ferroviaria parte da Dakar, arriva alla periferia di Thiès e da lì, rovente nella paglia di una savana sempre più sterminata e arida, giunge a Bamako. Sono i binari leggendari dell’African Express, che molti viaggiatori hanno sognato di percorrere almeno una volta nella vita, sino alle porte del grande nulla del deserto. Anch’io, in altri tempi, ho progettato di imbarcare sul treno una 4x4 a Dakar e da Bamako ritornare in Senegal attraverso la Mauritania. Alcune guide turistiche spiegano che la ferrovia fu costruita dai francesi, ma è un’informazione errata perché troppo sintetica. Francesi furono gli ingegneri, i capitali e i capi squadra, francesi i soldati del genio, ma la ferrovia fu costruita dai Bambara e dai Wolof e dai Fulbe e dai Toucouleur, e alle loro mani e teste è stata affidata con il tempo anche la conduzione dei convogli. Ousmane Sembène, quando ventenne partì con i fucilieri senegalesi per il fronte italiano, probabilmente osservò gli stessi baobab che ancora oggi spezzano la linea piatta dell’orizzonte e ne ebbe nostalgia, quel giorno in cui fu raggiunto dalla notizia dello sciopero dei ferrovieri e degli [ 26 ]

❝ Banty mam yall. Pezzi di legno di Dio. Una credenza wolof vuole che gli uomini non si contino, per evitare di abbreviarne la vita, ma che si debbano nominare sempre come fossero una parte di un collettivo. ❞


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VAGGI

operai della manutenzione che iniziò il 10 ottobre del 1947 e terminò il 19 marzo del 1948. Subito dopo Sembène emigrò in Francia, fece l’operaio a Parigi e lo scaricatore al porto di Marsiglia, e iniziò a scrivere. Se non fosse stato per quel mio progetto giovanile probabilmente non avrei letto Les bouts de bois de Dieu, fatto questo che prova che un sogno produce sempre effetti positivi, anche quando non si realizza. D’altronde, di Sembène conoscevo, poco e male, la sua attività di regista (Camp de Thiaroye vinse nel 1987 un premio a Venezia, e Moolaadé nel 2004 a Cannes, nella sezione “un certain regard”), non invece quella di narratore. La dedica che precede la narrazione mi colpì a tal punto che regalai una copia del libro all’allora segretario della CGIL bolognese, un poco per simpatia e un poco per sollecitare il bisogno di un pensiero semplice: “a voi, banty mam yall, ai miei fratelli del sindacato, a tutti i sindacalisti e alle loro compagne nel vasto mondo”. Banty mam yall. Pezzi di legno di Dio. Una credenza wolof vuole che gli uomini non si contino, per evitare di abbreviarne la vita, ma che si debbano nominare sempre come fossero una parte di un collettivo. Lessi il romanzo e trovai la prima ragione per farlo proprio nel titolo originale - sostituito nella traduzione italiana da un più prosaico “Il fumo della savana” - che anticipava ciò che la narrazione avrebbe poi confermato, e cioè che Sembène vuole raccontare della coscienza perfetta di ogni pezzo di legno di Dio dell’appartenere al procedere collettivo della comunità all’interno della quale ha la ventura di vivere. Così che il destino e il dolore di ognuno diventa dolore di tutti, e la vergogna di uno solo è la vergogna di tutti. Un pensiero semplice, dicevo, ma in fondo di quel pensiero è semplice solo la premessa, riassunta nello striscione che addobba la sede del sindacato di Bamako: “tratta da amico chi ti tratta da amico. Tratta il padrone da nemico.” Perché al contrario poco semplice e poco “europea” è la forza straordinaria del legame con la comunità che porta i dirigenti del sindacato a provare umiliazione per aver umiliato il traditore che, dopo aver votato per lo sciopero, ha ripreso il lavoro, oppure il capo di quello che potrebbe essere definito solo per approssimazione “servizio d’ordine” ad andare a trovare i due crumiri che la sera precedente ha bastonato senza particolare benevolenza. Però siamo in Africa, amici, siamo nel 1947 e il conflitto di classe è conflitto razziale, ogni uomo nero che si affida ai bianchi, o che con i bianchi fa affari, o che al volere dei bianchi si piega, è pur sempre un fratello, un altro pezzo di quello stesso legno. I bianchi, già. Nel romanzo sono percorsi da un’inos-

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sidabile sensazione di essere superiori in tutto e per tutto e per nulla disposti a comprendere e concedere una chance (“gli assegni familiari a questi poligami?” si chiede Dejan, il direttore degli uffici di Thiès, “quando hanno dei soldi li usano per comperare altre mogli”). Gli operai bianchi che lavorano sulle stesse carrozze li hanno, gli assegni familiari, e hanno una retribuzione molto più alta, e un trattamento di malattia a avranno una pensione, mentre il vecchio Bakary, tisico e moribondo, deve continuare a lavorare per vivere – se la sua è vita. La prosa di Sembène è cruda ed essenziale, e racconta con identica passione e, contemporaneamente, con un distacco formale, quasi algido, capace di sottolineare la partecipazione trasfigurandola in dolore per una condizione umana durissima. Narra le storie dei “pezzi legno” Bakayoko, leader indiscusso dello sciopero, Dauda il bello, Penda, che morirà alle porte di Dakar uccisa dalla polizia, Adjibidij, piccola e visionaria, Fa Keita, suo nonno, e soprattutto delle donne, tante donne, che marciano lungo gli ottanta chilometri che separano Thiès da Dakar. E se a ognuno di loro riserva simpatia e attenzione non la nega nemmeno al guardiano e crumiro Sunkaré, che voleva mangiare i topi e dai topi è finito divorato. Obbediente alla forza del proprio pensiero semplice, Sembène riconosce lo sfruttato dallo sfruttatore e solo a quest’ultimo non è capace di offrire comprensione. Perché sa che Aziz è un mercante e affamatore quando non concede più credito agli scioperanti che non hanno niente da mangiare (“è la guerra delle uova contro i sassi”) e che l’Imam El Hadij Mabigué confonde la volontà divina con quella dei francesi. Sa però che anche nella contraddizione e nella disperazione dello sfruttato, che solo le circostanze portano a essere nemico, cresce e si consolida la consapevolezza di essere tutti loro e tutti insieme quel legno di Dio di cui ciascuno è pezzo. Il romanzo, che è organizzato per quadri, è molto poco “trionfale”, pur nel racconto di un evento eccezionale dal punto di vista sindacale e politico quale fu uno sciopero di oltre cinque mesi, perché se da un lato disegna le linee e abbozza i ragionamenti a partire dai quali cresce tra gli operai e le loro famiglie la coscienza di essere classe, e non solo comunità etnica, dall’altro sottolinea le contraddizioni del percorso, e con uno sguardo totalmente estraneo alla cultura europea, prefigura scenari di oggi. Come nella Bamako del 1947 la divisione tra bianchi e neri attraversa longitudinalmente la classe operaia, dividendola in privilegiati e paria, nel mondo contemporaneo il benessere, o me-

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Calzada de Calatrava (Spagna), pastora, 1990

glio il livello di consumo che si definisce benessere, non solo del borghese ma dell’operaio tedesco o di quello italiano, passa necessariamente attraverso meccanismi di sottomissione e sfruttamento dei lavoratori cinesi piuttosto che di quelli nigeriani. Sembène racconta tutto questo. Racconta dei morti e della fame e di una vittoria che tuttavia nella realtà storica e dal punto di vista del raggiungimento degli obiettivi non fu così eclatante. Ma la vittoria, per Sembène, è la crescita di una coscienza, insieme di classe e di razza e di cultura. È la consapevolezza di una trasformazione inevitabile, con il bagaglio di sconcerto e di timore che conseguono dalle contraddizioni che, per un africano, questo comporta. Il fumo della savana (la locomotiva) per molti scioperanti è una macchina magnifica, una potente rappresentazione della forza del progresso, una speranza e forse una promessa, tanto che nei lunghi mesi dello sciopero “un’assenza gravava su tutti: l’assenza della macchina”. Gli uomini “sentivano confusamente che la macchina era il bene comune e che la frustrazione di quei giorni cupi era ugualmente comune”. Ma per Fa Keita, il vecchio, il conservatore, l’indimenticabile Fa Keita che partecipa allo sciopero

intuendone le ragioni ma spaventato dall’estraneità dell’evento rispetto alla sua storia e alla sua memoria, il treno è una confusa minaccia: “tanto tempo fa, molto prima della vostra nascita, le cose avvenivano in un ordine che era il nostro e questo ordine era molto importante per la vita di ciascuno. Oggi tutto è mescolato. Non ci sono più né caste né cantastorie, non ci sono più fabbri, né calzolai, né territori. Credo che tutto questo sia opera della macchina che mescola tutto”. La macchina, che ha decretato la fine dell’epoca in cui l’Africa era un giardino, e “adesso regnava sulla loro terra. In verità, la macchina li stava trasformando in uomini nuovi. Essa non apparteneva a loro, erano piuttosto loro ad appartenerle: quando la macchina si arrestò, fu questa la lezione che impartì”. Les bouts de bois de Dieu fu scritto nel 1960, ed è considerato un classico della letteratura africana. Nel 1961 vinse il Grand Prix Littéraire de l’Afrique noire. In Italia è stato pubblicato nel 1990 dalle Edizioni Il Lavoro, con prefazione di Dacia Maraini, nella collana di narrativa africana e caraibica Il lato dell’ombra.

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vent’anni e sull’orlo della disperazione, decisi di scrivere un romanzo deliberatamente «brutto», composto precisamente con quanto in me c’era di più brutto, vergognoso e inconfessabile. Chissà che non sia stata la mia cosa più audace... e magari la più importante ❞

i lavori di Witold per diventare gombroWicz

❚ Sugli scaffali del mondo

Witold e Rita Gombrowicz elaborazione su foto di Piotr Kloczowskis

di Renzo Casali

L

etteratura sul Lavoro: specchio che riflette il variegato mondo della sopravvivenza. Storie, ambienti, personaggi, sfruttamenti, profitti più o meno illeciti, conflitti sociali, crollo d’impalcature. Lavoro per la Letteratura: fatiche che certi scrittori devono sobbarcarsi per potersi dedicare alla scrittura. Più o meno in libertà (condizionata). Lavoro sulla Letteratura: investimento quotidiano d’energie mirato a raccontare la propria vita sotto mentite spoglie. Come se fosse l’unica, vera, opera letteraria. «Atorrante» è un argentinismo non considerato dalla Real Academia Española e significa vagabondo, fannullone, parassita. Il vocabolo nacque durante i lavori per le fognature di Buenos Aires. I protagonisti dell’epopea erano degli enormi tubi di due metri di diametro cui fu affidato l’onore di disperdere i liquami della città. In tutte le metropoli del mondo in caso di fognature urbane si suppone accada la stessa cosa. Ma la diversità argentina nacque da un equivoco «letterario». Inciso sul dorso di ognuno dei tubi era visibile il nome del fabbricante: «A. Torrants». Accadde che appena arrivati dall’Europa e depositati sui piazzali del porto di Buenos Aires questi enormi tubi diventassero accoglienti appartamenti per senzatetto, migranti e disoccupati. [ 29 ]

[LE PAROLE DEL LAVORO]

❝ A quasi


Gli Ultimi usavano le tubature come domicilio e rifugio per proteggersi dal clima; per questo nullatenenti, licenziati, disoccupati, immigrati in attesa di fortuna, clochard furono chiamati «atorrantes». L’Argentina è un paese costruito da immigrati (categoria appartenente alla più grande sfiga esistenziale), soprattutto europei che fuggivano dalle guerre, carestie, persecuzioni politiche, malattie, povertà e delitti d’onnipotenza inflitti dal Mondo degli Affari. Un fenomeno che ebbe inizio negli ultimi decenni dell’Ottocento e che si completò con l’ultima immigrazione di massa del 1950. A milioni abbandonarono la Spagna, Italia, Francia, Galles, Germania, Polonia, Russia, Medio Oriente, per stabilirsi in un vasto terreno vergine ricco di tesori e aperto all’accoglienza. La Costituzione argentina del 1853 e la Ley de Inmigración y Colonización del 1876 sono due momenti cardini della politica migratoria argentina: «Il governo federale favorirà l’immigrazione europea e non potrà restringere, limitare né gravare con tassa alcuna l’ingresso nel territorio argentino degli stranieri che abbiano come scopo quello di lavorare la terra, migliorare le attività produttive e introdurre la scienza e le arti». La legislazione era stata pensata per favorire chi sceglieva l’Argentina come suo futuro paese. L’articolo 18 definiva «immigranti»: i lavoratori giornalieri, artigiani, industriali, agricoltori e professori minori di sessant’anni che decidevano di stabilirsi in Argentina. La legge indicava i vantaggi estendibili a moglie e figli, cui avevano diritto i nuovi arrivati. Tra altri benefici gli immigrati potevano essere alloggiati e mantenuti a spese della Nazione durante il tempo stabilito dagli art. 45, 46, 47; essere inseriti nel mercato del lavoro nazionale in accordo alle proprie preferenze; essere trasferiti con spese a carico dello Stato nella parte della Repubblica argentina in cui decidevano di vivere; usufruire del sistema sanitario nazionale. Come rinunciare al fascino del paradiso dove le utopie erano state dichiarate possibili? Questa era l’Argentina alla vigilia di quel maledetto, primo Colpo di Stato del 1930 partorito dal generale José Félix Benito Uriburu y Uriburu, che aprì le porte al degrado irreversibile del paradiso. Nel 1934 uno scrittore con palesi simpatie naziste scriveva: «C’è bisogno di una mano di ferro che eserciti la più severa censura nel teatro e nel cinema, nella radio e nella letteratura. C’è bisogno di una mano di ferro che sopprima l’amore per la nudità pagana che corrompe le donne, sporca il giornalismo e diffonde l’immoralità in tutti gli angoli. C’è bisogno d’una mano di ferro come quella di Mussolini o di Hitler che salvi la famiglia cristiana e la morale. Io non approvo le persecuzioni svolte dai nazisti ma mi entusiasmano quei campi di concentramento dove milioni

di giovani imparano la vita austera». (Manuel Gálvez «Este pueblo necesita» Buenos Aires, 1934). Invece questa era l’Argentina nell’agosto del 1939, quando una Compagnia di Navigazione polacca decise d’invitare personalità della cultura, del commercio e delle finanze al viaggio inaugurale del transatlantico Chrobry (Valoroso) in rotta verso l’America Meridionale. Tra i passeggeri figurava lo scrittore trentacinquenne Witold Gombrowicz, giovane aristocratico squattrinato che già godeva di una certa notorietà grazie alle sue Memorie del tempo dell’immaturità (1933), la pièce teatrale Yvonne, principessa di Borgogna, ma soprattutto per il romanzo Ferdydurke del 1937. Quale molla lo spinse ad imbarcarsi? In modi assai discutibili era riuscito a farsi invitare a quell’esotico viaggio in qualità di «cronista di bordo»; compito che non risulta abbia mai svolto. Con-il-senno-del-poi domandiamo: com’è possibile che il 1° agosto 1939 (giorno di partenza del transatlantico) nessuno annusasse l’imminente invasione della Polonia da parte dei nazisti, che avrà luogo soltanto 30 giorni dopo, il 1° settembre? Gombrowicz, quell’intuizione ce l’aveva avuta, e per salvare la pelle si era imbarcato in quell’assurda avventura? Com’è possibile che lo scrittore ignorasse che l’Argentina di quel periodo fosse la seconda patria del nazismo? Il mediocre studente di legge (si era iscritto nel 1923 dopo aver ottenuto la maturità con il massimo dei voti (5) negli scritti di polacco e francese, e il minimo (0) in latino, algebra e trigonometria, ma «non frequentavo i corsi. Il mio cameriere, più distinto di me, assisteva alle lezioni al mio posto») forse pensò che quello di cronista di bordo fosse un compito facile, un lavoro di quelli che piacevano a lui, mediocri e poco impegnativi, disposti a lasciare tanto tempo libero per inventare storie importanti; in fondo che c’era di male nel far finta di sgobbare per un padrone mentre in realtà si lavorava alla stesura di un romanzo? Si trattava soltanto di scarabocchiare due o tre frasi e telegrafarle. Il programma della Compagnia di Navigazione prevedeva quindici giorni di traversata e altrettanti di scorribande a Buenos Aires corredate da note di colore con riferimenti al tango e alla condizione della comunità polacca. Un mese di vacanza insomma. Ma se il destino non fosse baro che destino sarebbe? Sulla storia del mondo precipitò un colpo di scena, un’improvvisa deviazione di percorso: i nazisti invasero la Polonia la mattina del 1° Agosto trasformando la «vacanza» argentina del giovane cronista in uno stato di volontario esilio. Solo per lui, perché la reazione dei suoi colleghi di viaggio fu di tutt’altro colore: pretesero e ottennero di ritornare immediatamente in Europa, destino finale Londra. E

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AUTORE

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Volterra, raccolta delle olive, 2008

lì molti morirono o finirono sul fronte di battaglia. Il nostro W. G. rimase in Argentina per ben ventiquattro anni. A questo punto la «letteratura del lavoro» si fonde con il «lavoro della/sulla letteratura», anzi non si sa più dove finisca l’una e inizi l’altra. Per alcuni anni Gombrowicz subisce penurie, privazioni e violenze. Si racconta (ma bisogna sempre diffidare degli scrittori che raccontano le peripezie di altri scrittori) che per un certo tempo Witold abitasse proprio in uno di quei grandi tubi per fognature, e si dice anche che fu dalle quelle parti che per la prima volta ebbe la sfacciata fortuna d’incontrare Jorge Luis Borges. Tuttavia trattandosi della versione affabulata di Borges è meglio prendere tutto con le pinze, perché tutto (ad iniziare dalle stesse pinze) potrebbe essere trasformato in un racconto di fantascienza sugli interstizi invisibili della mitologia celtica. Nei primi anni «argentini» Witold conduce una vita da clochard, vivacchia di prestiti e aiuti della comunità polacca, scrocca il cibo quotidiano, scrive per pochi soldi, protetto da pseudonimi, articoli per qualche giornale minore. Ed è qui che Witold perfeziona il «racconto» del romanzo della propria vita: inizia a diffondere notizie strabilianti e lascia che altri inventino e divulghino leggende sul suo conto. Agli inizi del 1960 io ero studente di filosofia e, in qualità di appartenente a uno dei vari centri di studenti, organizzai una serie d’incontri «letterari». In uno di quelli

ebbi la fortuna (e l’emozione) di ospitare e presentare J.L. Borges. Fu in quell’occasione che tra un ammiccamento e un’affermazione metafisica il Grande Vecchio ebbe a dire di essere stato il primo ad aver «scoperto» Gombrowicz. E per conquistarsi la resa incondizionata della platea si lasciò andare in un racconto affascinante: «un giorno, mentre a braccetto del mio amico Bioy Casares camminavamo senza meta chissà perché ci ritrovammo nelle vicinanze del porto; lì scoprimmo un rude lavoratore che seduto contro dei grossi scatoloni di legno scarabocchiava qualcosa su un pezzetto di carta. Fummo colpiti dal fatto che uno scaricatore potesse approfittare della sua pausa-pranzo per mettersi a scrivere. Ci avvicinammo e ricordo che domandai: «buon uomo, cosa sta facendo?» «Scrivo poesie, buon uomo» rispose il buon lavoratore. Singolare il fatto che quello scaricatore scrivesse e più singolare ancora era che scrivesse delle poesie. Chiesi di poterle vedere... e fu così che scoprimmo quel giorno Gombrowicz». Credere o non credere: non è questo il problema! In letteratura si tratta di un’operazione assolutamente velleitaria. Io preferisco credere al buon Borges, anche perché la storia è talmente incredibile da rischiare di essere vera. Tuttavia ci sono delle stranezze nel racconto di Borges, conti che non tornano, perché Gombrowicz fu da subito attaccato dalla rivista «Sur» diretta da Victoria Ocampo e dal suddetto Borges, fu deriso e rifiutato dall’intera comunità letteraria di Buenos Aires, da cui si teneva alla

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larga, così come non amava frequentare la comunità polacca. Preferiva l’anonimato, la comparsa improvvisa in un luogo seguita dalla immediata scomparsa: il mito dell’inafferrabilità del genio. Soltanto grazie alla testardaggine di un piccolo gruppo di amici, che furono tra i primi ad intuire il suo talento, l’editoriale porteña Argos decise di pubblicare la versione spagnola di «Ferdydurke». Il piccolo gruppo era liderato dallo scrittore cubano, allora in esilio, Virgilio Piñera, che collaborò nella traduzione assieme all’autore e altre persone del gruppo. Per anni Witold svolse mestieri assurdi, tra i quali lo scaricatore di porto, l’invitato a matrimoni e funerali (a pagamento) per ostentare dolore per l’«inattesa scomparsa dell’amico fraterno», scrivere necrologi e «coccodrilli», fino a diventare professore presso l’università di San Miguel de Tucumán. Otto anni dopo il suo arrivo trovò un lavoro adatto alla sue esigenze: impiegato dalla Banca Polacca dove, invece di lavorare, si dedicò all’ossessiva stesura di un romanzo (Trans-Atlantico). Giocava con i paradossi, in questo senso il suo vero «lavoro» è stato quello di costruirsi una biografia romanzata. Era un aristocratico decaduto che amava il proletariato e che, per canto suo, lo ignorava olimpicamente; si dichiarava etero e omosessuale, polacco e apolide. Resistette come impiegato di banca per 9 anni senza mai riuscire a capire cosa fosse un assegno. Si definiva una specie di fenomeno da circo ambulante: «sono una specie di mostro attratto da tutte le deformità e le patologie dell’esistenza». Diceva che amava la musica, il teatro e la filosofia («cose serie, quelle, non le cose che faccio io») tanto come odiava la letteratura, ma che si sentiva obbligato a scrivere perché «io, poveretto, è l’unico lavoro che so fare». Ha vissuto un quarto di secolo in Argentina ma gli piaceva dire di non aver mai imparato lo spagnolo, tanto da scrivere in polacco: cosa che alcuni suoi amici e contemporanei hanno sempre negato. La sua intera opera letteraria si fonde e si confonde con la sua vita; una vita extra-ordinaria che lui ha cercato di collocare sugli scaffali del mondo. Senza eccessivo successo. «I diari di solito vengono comprati perché l’autore è celebre. Io invece l’ho scritto per diventare celebre». Bianco e nero, giorno e notte. Sogna di tornare a Varsavia ma decide di restare a Buenos Aires, dove la sua vita si stabilizza. Parla perfettamente lo spagnolo ma afferma di scrivere soltanto in polacco. Partecipa poco alla vita della comunità polacca, preferisce frequentare amicizie argentine ambigue, soprattutto giovanili. Ha continue esperienze omosessuali. Gioca prevalentemente a scacchi nel caffè Rex. Poco a poco si forma attorno a lui un gruppetto di amici. È sempre più attratto dall’America

Latina. Con le sue letture affascina le signore della Buenos Aires chic. Le dame credono profondamente nella sua arte e gli regalano del denaro: obiettivo primario dell’autore. Si parla di languidi amoretti con la figlia di un conosciuto poeta ma si ignora fino a che punto si sia spinto. Il Parco Retiro di Buenos Aires, nelle vicinanze del Porto, è il luogo di conquiste dei marinai e omosessuali alla ricerca di un rapporto ma anche il luogo dell’altro «lavoro» di Witold: frequentatore abituale dei bassifondi del sesso. Il magnetismo e le peripezie della vita di Witold hanno ispirato testi di molti narratori argentini e stranieri, ingigantito la mistica della sua figura. «A quasi vent’anni e sull’orlo della disperazione, decisi di scrivere un romanzo deliberatamente «brutto», composto precisamente con quanto in me c’era di più brutto, vergognoso e inconfessabile. Chissà che non sia stata la mia cosa più audace... e magari la più importante. Ne diedi da leggere una copia dattilografata a un signora di cui mi fidavo e che credeva in me. Lei lo lesse, me lo restituì e senza una parola e non volle più vedermi. Terrorizzato, lo gettai alle fiamme». Durante la destalinizzazione, nel 1956 si aprì finalmente per Gombrowicz la possibilità di far circolare in patria alcune sue opere e di rappresentare i suoi lavori teatrali ma nel 1957, alla ripresa della censura, vietò l’ulteriore diffusione dei suoi lavori in Polonia fino a quando il suo Diario non fosse stato pubblicato integralmente, cosa che avverrà solo a partire dal 1986. Agli albori degli anni ‘60 l’Europa inizia a scoprire Gombrowicz, anche se a lui la scoperta sembrerà tardiva e inutile, fino al punto che nel 1963 lascerà l’Argentina controvoglia per accettare l’invito della Fondazione Ford di Berlino. Non aveva mai amato il capitalismo così come non aveva mai amato lo stalinismo, e forse per questo aveva tentato di costruirsi un mondo tutto suo, equidistante. Pur non ritrovandosi nell’Europa del dopoguerra nel 1964 si stabilisce in Francia, prima a Royamount e poi a Vence, vicino a Nizza. Qui vive i suoi ultimi anni con la giovane studentessa canadese Rita Labrosse. Con Rita lo scrittore «incapace di amare», che dopo aver lasciato la casa materna a 34 anni non aveva più voluto saperne di avere vicino una donna, costruisce un rapporto platonico più che altro paterno, tuttavia sposa la ragazza pochi mesi prima della morte, sopraggiunta all’aggravarsi della malattia polmonare di cui soffriva fin da ragazzo. P.S. Witold partì l’8 aprile del 1963 per l’Europa, a bordo della nave «Federico C». Io ero su quella stessa nave e stavo andando a Praga, dove sarei rimasto per sei anni. Ma questo l’ho saputo soltanto durante la stesura di questo articolo.

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[LE PAROLE DEL LAVORO] Leningrado (URSS), pompiere, 1989

il lavoro e la “rivoluzione conservatrice”*

❚ Dalla trincea alla fabbrica di Guido Caldiron

A

narchico di destra per alcuni, anticipatore del nazismo per altri, Ernst Jünger è uno degli intellettuali che meglio hanno saputo sintetizzare il clima culturale che ha attraversato l’Europa, e in particolare la Germania, nel periodo tra le due guerre mondiali. Sorta di avventuriero dello spirito, libertario aristocratico - il suo Trattato del ribelle (Adelphi, 1990), che teorizza con il “passaggio al bosco” un rifiuto senza mediazioni della società moderna segnata dal controllo e dall’uniformità culturale, è pervaso da uno spirito decisamente antitotalitario; mentre con Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza (Guanda, 2005) sembrano essere indicati molti dei temi cari alla Beat Generation sul rapporto tra creatività e droga -, Jünger - scomparso più che centenario nel 1998 - si è cimentato a lungo con la guerra, raccontando le sue esperienze al fronte sia nel primo che nel secondo conflitto mondiale. Proprio a partire dall’irrompere sulla scena mondiale di una nuova forma di conflitto armato, sempre meno “eroico” e sempre più segnato dalla tecnologia e dalla morte di massa, che lui aveva osservato nelle trincee della guerra del 15- 18, l’intellettuale tedesco scriverà nel 1932 L’Operaio (Guanda, 2004), uno dei libri che hanno segnato per molto tempo, e [ 33 ]

❝ Il motivo per

cui noi rifiutiamo di vedere nell’operaio l’esponente di una nuova classe, di una nuova società, di una nuova economia, è la certezza che egli non è nulla di tutto ciò oppure è assai di più... ❞


Madrid (Spagna), scuola di toreri, 1986

forse nel modo più profondo, la cultura della destra europea. Con quel testo Ernst Jünger trasferisce infatti all’inizio degli anni Trenta nella figura dell’“operaio” i tratti della terribile modernità che aveva già scorso nei combattenti durante la sua esperienza da ufficiale e raccontato in Boschetto 125 (Guanda, 1999) e Nelle tempeste d’acciaio (Guanda, 1995), usciti entrambi nella prima metà degli anni Venti. Pubblicato nell’autunno del 1932, L’Operaio celebra l’avvento di una nuova era, quella che ha iniziato a manifestarsi nei campi di battaglia della Prima guerra mondiale e ha assunto quindi le sembianze della rivoluzione tecnologica, l’acciaio e il fuoco dell’industrializzazione. Pochi mesi e il 30 gennaio del 1933 Adolf Hitler, vinte le elezioni con il suo Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, sarebbe diventato cancelliere dando vita al Terzo Reich. Jünger è vicino agli intellettuali della cosiddetta “Rivoluzione conservatrice” che, nel clima incerto della Repubblica di Weimar, si vogliono interpreti della crisi e del declino tedesco; il libro simbolo di quella stagione è Il tramonto dell’Occidente (Longanesi, 2008), in cui Oswald Spengler si interroga sui motivi della decadenza della civiltà occidentale e sulle possibili strade da intraprendere per la sua rinascita. La prima parte del libro di Spengler si intitola “Forma e realtà”, il sottotitolo di quello di Jünger è “Dominio e forma”, il tema della ricerca e l’interrogativo di fondo che la attraversa sono gli stessi: come potrà la Germania rialzarsi dal suo stato di depressione, morale, politica, sociale frutto della sconfitta militare patita nella Grande guerra ma

anche della “pace ingiusta” sancita dal Trattato di Versailles? C’è bisogno di “energia”, di “forza”, di rinnovare la tradizione prussiana del popolo combattente, infiacchito e addomesticato dalla Repubblica borghese. Ma c’è bisogno anche di leggere fino in fondo le trasformazioni di un paese in fase di rapidissima modernizzazione, dove il vecchio mondo rurale color pastello farà rapidamente spazio al bagliore delle acciaierie. E dove nuove classi stanno già emergendo. Per molti, i teorici di destra della crisi tedesca prepareranno così semplicemente la strada a Hitler e ai nazisti. «I nazionalsocialisti non inventarono nulla sul piano dell’ideologia né della retorica – sostiene lo storico statunitense Eric D. Weitz in La Germania di Weimar (Einaudi, 2008) – Hitler parlava lo stesso linguaggio, utilizzava le stesse parole e le stesse frasi di Spengler, Jünger, Althaus e di tutte le altre forze della destra; con l’unica differenza di essere meno intelligente e meno sofisticato». Anche gli accenti “sociali” e talvolta “socialisti” di questi autori vengono considerati sospetti. «Intellettuali conservatori come Oswald Spengler scrissero sul “socialismo prussiano”; Ernst Jünger parlò di “Front Sozialismus” – precisa ancora Weitz – Hitler li superò tutti adottando lo slogan “nazionalsocialismo”. In sostanza, non si trattava che di tentativi leggermente diversi volti all’unico scopo di far servire la dimensione collettiva del socialismo alla causa della nazione e della razza». Con L’Operaio Jünger opera però in ogni caso un significativo passaggio simbolico dalla trincea alla fabbrica. «Nella descrizione di Jünger, la forza vitale che anima

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[ CALDIRON ] questi nuovi eroi romantici è il sangue di una razza che entra direttamente in sintonia con le mitragliatrici che maneggia e con l’altra forza vitale costituita dalla natura. Macchina e uomo, guerra e natura: Jünger estetizza la violenza e naturalizza la tecnologia», sottolinea Weitz. E in effetti il parallelo con il fronte torna a più riprese nelle pagine de L’Operaio: «L’atteggiamento dell’individuo è reso molto più difficile dal fatto che egli stesso è in sé un dissidio: infatti è in prima linea nel combattimento e nel lavoro (…) - scrive Jünger Mantenere quella posizione e tuttavia non annullarsi in essa, essere non soltanto materia ma anche veicolo del destino, concepire la vita come campo non soltanto della necessità ma anche della libertà - questa è una capacità che è già stata definita realismo eroico». Il lavoro assume perciò, attraverso la figura dell’“operaio”, soprattutto la caratteristica dell’annuncio di un “mondo nuovo”, come era stata in effetti anche la prima vera carneficina globale della Grande guerra. Al punto che Jünger arriva ad affermare che «il lavoro non è dunque attività in senso lato, ma espressione di un essere particolare che tenta di appropriarsi del suo spazio, del suo tempo, della sua legittimità. Perciò esso non conosce alcuna forza che gli si opponga dall’esterno; somiglia al fuoco che divora e distrugge tutta la materia infiammabile, ed essa gli può essere contesa solo dal suo stesso principio, solo da un controfuoco. Lo spazio proprio del lavoro è sconfinato». E, sulla stessa linea: «Molti indizi lasciano intendere che siamo alle soglie di un’epoca in cui si può parlare di nuovo di autentico dominio, di ordine e subordinazione, di comando e ubbidienza. Nessuno di questi indizi è più eloquente della spontanea disciplina cui la gioventù comincia a sottoporsi, del suo disprezzo per i piaceri, del suo senso guerriero, della sua ormai matura sensibilità per i valori virili e incondizionati. Qualunque sia il campo di attività in cui si voglia vedere all’opera questa gioventù, si avrà ovunque l’impressione di una congiura, suscitata dal mero fatto dell’esistere e dell’aggregarsi di una determinata stirpe d’uomini. Anche il ripudio della tradizione borghese e la vocazione ad essere operaio, sia nei programmi che nel tenore di vita, si fanno evidenti in ogni luogo. Questa congiura è diretta necessariamente contro lo Stato, e non per cercare di porre barriere difensive alla libertà contro lo Stato, ma nel senso che un nuovo e diverso concetto di libertà, di cui dominio e servizio sono sinonimi, deve fondersi e farsi tutt’uno con lo Stato inteso come il più importante e il più profondamente incisivo strumento di trasformazione». Se L’Operaio di Jünger identifica nelle nuove figure del mondo del lavoro i possibili portatori di una

“concezione antiborghese ed eroica della vita”, resta da capire come questa visione si possa accompagnare e in che modo ad una lettura più complessiva delle nuove forme produttive di cui “l’operaio” è protagonista. «Non conta molto che una nuova classe politica o sociale s’impadronisca del potere - spiega ancora l’intellettuale tedesco - ; ciò che è importante è il fatto che una nuova umanità, di rango pari a quello delle grandi forme storiche, riempia lo spazio del potere dandogli un senso. Il motivo per cui noi rifiutiamo di vedere nell’operaio l’esponente di una nuova classe, di una nuova società, di una nuova economia, è la certezza che egli non è nulla di tutto ciò oppure è assai di più, ossia il rappresentante di una forma originale, la quale agisce secondo proprie leggi, segue una propria vocazione ed è partecipe di una speciale libertà. Come la vita cavalleresca si esprimeva nel dare un significato cavalleresco ad ogni dettaglio del modo di vivere, così analogamente la vita dell’operaio o si sviluppa in modo autonomo, tale da essere espressione di se stessa e perciò dominio, o non è altro che la brama d’essere partecipi di polverosi diritti, il desiderio di godere, con una voluttà divenuta insipida, frammenti di un tempo che fu». In realtà una critica, e anche radicale al sistema economico e produttivo, Jünger la propone nella forma di un giudizio molto netto sulla “ragione economica” e sulla contrapposizione tra imprenditori e lavoratori. «Un aspetto inevitabile è che all’interno di questo mondo di sfruttatori e di sfruttati non è possibile alcuna grandezza che non venga determinata dal supremo tribunale dell’economia – taglia corto l’autore de L’Operaio. – Secondo questo tribunale esistono due specie di uomo, due specie di arte, due specie di morale – ma occorre davvero ben poca perspicacia per riconoscere che una sola e la medesima è la fonte che le alimenta (…) Ciò che occorre vedere con chiarezza è l’esistenza di una dittatura del pensiero economico in quanto tale (…) Il centro di questo cosmo è costituito dall’economia in sé, dall’interpretazione del mondo in senso economico, ed essa è ciò che conferisce a ciascuna delle parti del mondo la sua forza di gravità. Quale di queste parti possa impadronirsi del potere decisionale, è un problema che dipenderà sempre dall’economia (…) (Mentre invece) negare che il mondo economico sia una forza capace di determinare interamente la vita, e quindi una forza vitale, è contestare una gerarchia sociale, non l’esistenza». * Per una versione estesa di questo testo si veda Guido Caldiron, La destra sociale, (Manifestolibri, 2009)

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Almagro (Spagna), trasportatore, 1990


[L’INTERVISTA]

❝ ...La poesia è nata in questa maniera: eravamo a mezzanotte, la fine del turno, tutti nudi sotto la doccia, stanchissimi, uno disse che aveva visto un ratto nel reparto, un compagno disse di un maiale, ritornai a casa e di getto scrissi la poesia del porco nel reparto. ❞

Luigi Di Ruscio, elaborazione su foto

a colloQuio con luigi di ruscio

❚ Reparto poesia

L

di Angelo Ferracuti

uigi Di Ruscio si può considerare una sorta di Céline italiano, non solo per il modo di scrivere, assolutamente fuori da ogni canone, ma soprattutto – così affermò Italo Calvino nel 1969 associandolo al grande narratore francese“per la volontà di scaricare nel flusso delle parole una cupa aggressività.” Emigrò nel 1957 per andare a fare l’operaio metallurgico a Oslo, in Norvegia, e già aveva pubblicato da Schwarz il libro di poesie “Non possiamo abituarci a morire”, prefato dal giovane Franco Fortini. Tra i titoli da ricordare le raccolte di versi “Le streghe s’arrotano le dentiere” (Bagaloni), “Istruzioni per l’uso della repressione” (Savelli, 1977), i romanzi “Palmiro” (Baldini e Castoldi), e l’ultimo “Cristi polverizzati” (Le lettere, 2009). [ 37 ]


Ferrara, macelleria 1999

Quando ritorna a Fermo, la città dove è nato ottanta anni fa, certi pomeriggi ci incontriamo per una passeggiata. I luoghi possono essere la Piazza del Popolo o, come questa volta, il parco del Girfalco, dove c’è una vista fantastica sul paesaggio collinare e sullo sfondo l’azzurro del mare Adriatico. E Luigi racconta della vita di Oslo, di sua moglie Mary, dei figli. La sua storia di scrittore è abbastanza singolare, per mezzo secolo ha continuato a scrivere in un completo isolamento linguistico, in quanto la sua lingua quotidiana è diventata il norvegese e sua moglie non legge l’italiano. Anche di quello che si pubblicava da noi, dei movimenti letterari, si è sempre interessato poco. Tanto che quando gli chiedo cosa ne pensa della “letteratura” industriale, dell’esperienza olivettiana, di Volponi, Ottieri e Mastronardi, mi risponde candidamente: “Non ho mai letto un libro di Ottieri e uno solo di Volponi. Eugenio De Signoribus me lo fece conoscere personalmente, andammo ad Urbino nel Vicolo dell’Orto. Era presente anche Emanuele Zinato e la scontrosa moglie di Volponi. Lui non fece che elogiare il mio romanzo Palmiro e ridendo lo proclamava come uno dei capolavori del secolo. Comunque Volponi ha lavorato all’Olivetti come uno dei massimi dirigenti, io in fabbrica come operaio nell’acciaieria Christiania Spigerverk di Oslo dal 1957 sino al 1994.” Certo questa esperienza è stata totalizzante nella sua vita. “Lessi giovanissimo il Manifesto dei Comunisti, pensavo alla fabbrica come alla cattedrale del nostro tempo. Dovevo diventare un operaio, non per scrivere poesie operaie ma per scrivere la poesia del nostro tempo. Probabilmente più delle illuminazioni ho avuto solo allucinazioni. Vivendo in Norvegia e dovendo mantenere una famiglia con il mio povero stipendio non ho fatto altro che leggere i classici. Mi sono sentito operaio, padre di famiglia, poeta, italiano e fermano, certo tutta la mia vita ha condizionato la mia scrittura e gli anni della fabbrica mi hanno segnato per sempre, anche fisicamente”, dice.

Mentre passeggiamo gli chiedo di parlarmi del suo ultimo libro, in uscita da Ediesse con un titolo fortemente lirico, “La neve nera di Oslo”, dove racconta anche la sua storia di migrante. “I primi anni della mia emigrazione in Norvegia li ho vissuti come li vive ora un extracomunitario a Milano. Poi, piano piano, con l’arrivo degli extraeuropei il razzismo contro noi italiani è diminuito moltissimo. Nei primi tempi riuscivamo a trovare lavoro dove i norvegesi assolutamente non volevano lavorare, potevamo fare i lavapiatti o lavorare nei reparti di fabbrica più infernali. Però c’era al governo la socialdemocrazia e dai sindacati eravamo tutelati in tutti i modi, la nostra paga era simile a quella dei norvegesi. C’era razzismo ma avevamo gli stessi diritti di tutti i cittadini norvegesi”. C’è una poesia con un maiale che irrompe nella fabbrica, una poesia di “Istruzioni per l’uso della repressione”. Una mia poesia è pubblicata in Istruzioni per l’uso della repressione”. La poesia è nata in questa maniera: eravamo a mezzanotte, la fine del turno, tutti nudi sotto la doccia, stanchissimi, uno disse che aveva visto un ratto nel reparto, un compagno disse di un maiale, ritornai a casa e di getto scrissi la poesia del porco nel reparto. Ricordando i compagni operai con cui ho lavorato insieme per tanti anni ho scritto anche un’altra poesia: questa notte vi ho rivisti tutti splendidamente vivi ritornammo a rivedere tutti gli orrori di quel reparto ridendo non sono riusciti ad ammazzarci siamo ancora tutti vivi nuovi come fossimo risuscitati non più contaminati dalla sporca morte

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AUTORE

Che ricordo hai di quella fabbrica? Quando sei arrivato ad Oslo, alla fine degli anni Cinquanta, è stato difficile trovare un lavoro? Ho trovato quasi subito da lavorare in una fabbrica e mi fu assegnata una cameretta di pochi metri quadrati, nove metri per la precisione. Finalmente trovai il posto anche per poter scrivere e portare a compimento la mia seconda raccolta. Io e mia moglie ci incontrammo subito, ci siamo molto amati anche nella cameretta di nove metri quadrati. Poi, piano piano, siamo riusciti a trovare una casa molto bella e portare avanti una famiglia di quattro figli, e sono perfino riuscito a pubblicare ben dieci libri e a scriverne altrettanti inediti. Sono veramente orgoglioso di essere riuscito a tanto. Sono stato anche fortunato, i miei editori non mi hanno chiesto neppure una lira anche perché di mio avrebbero potuto avere solo qualche sputata in faccia. Sono orgoglioso di essere riuscito con mia moglie a portare avanti la nostra famiglia, senza imbrogli e sotterfugi, lavorando in un reparto terribile che certe volte nel sogno diventa un incubo, quasi un reparto dell’inferno, eppure non sono riusciti a distruggermi. Nella nostra famiglia tutto è andato avanti lietamente, perfino i parti di mia moglie erano indori e lieti, come era lieta quando potevamo permetterci un nuovo figlio. Come sei arrivato ad Oslo nel 1953? Sono arrivato ad Oslo in treno, avevo 50 corone norvegesi, meno di dieci euro, all’inizio alloggiavo nei dormitori dell’Esercito della salvezza.

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In “Lettera in pubblico” tu a un certo punto dici: “Io per vivere ho fatto l’operaio va benissimo di cosa vivono tutti gli altri poeti? Hanno rubato? Assassinano? Che cazzo fanno?” Volevo dire che non si dice mai che Solmi lavorava in banca, che Scataglini lavorava alle poste come ci lavori tu, Ungaretti era insegnate e Montale faceva il giornalista, invece per il Luigi Di Ruscio si dice sempre che fa l’operaio, forse perchè un poeta che fa l’operaio è una stranezza, in fin dei conti siamo tutti strani, non credo proprio di essere una stranezza eccezionale, però un grande scrittore ha scritto che non esiste cosa più strana di una perfetta normalità. Mia moglie invece mi dice spesso che dovrei diventare normale, prendere la cittadinanza norvegese e smettere di scrivere le poesie, ha ragione mia moglie, un norvegese che scrive poesie italiane molto belle sarebbe veramente il colmo dell’assurdo. Luigi, che pensi della globalizzazione? Sono diventato comunista perchè lessi il Manifesto dei comunisti del 1848 a 14 anni, sono soprattutto internazionalista, la parola d’ordine è “proletari di tutto il mondo unitevi”, nota che se gli italiani perdono posti di lavoro i posti di lavoro li guadagnano i cinesi. Dobbiamo ridiventare forse tutti fascisti? Il manifesto dei comunisti del 1848 è attuale come mai è stato, dobbiamo rileggerlo e meditarlo, abbiamo due strade da poter percorrere, le guerre fratricide oppure la lotta per il socialismo. Invece ho paura che ritorneranno i massacri, il terribile è che l’eccidio di sei milioni di ebrei non segna la fine di un’epoca, ma l’inizio di una epoca terribile tanto da dare ragione a un scrittore norvegese che dice che la fine dell’umanità non sarebbe una tragedia ma solo la fine della tragedia.

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Leningrado (URSS), pompiere , 1989

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[LETTERATURA E SCIENZA] la scrittura di darWin come esercizio di understatement

❚ Le origini narrate

Castelsardo (Sassari), pastore, 1987

di Stefano Brugnolo

I

n questo saggio non parlerò di Darwin come scienziato ma come scrittore. Prima di farlo però avanzo alcune premesse di carattere generale. C’è oggi una tendenza secondo cui non esiste distinzione alcuna tra discorso letterario e discorso scientifico, tra discorso di finzione e discorso ‘vero’ (che mira a dire il vero). Secondo questa prospettiva tutto è letteratura, tutto è finzione. Non è certo questo il mio approccio. Io credo invece che si tratti di giochi linguistici diversi. Ad un romanzo non possiamo certo reagire appellandoci a criteri di verità e falsità, come facciamo invece quando leggiamo uno studio storico; in un romanzo o in un film può anche succedere che Napoleone vinca a Waterloo, in un saggio scientifico no. Certo, quella di Darwin è anche una affascinante narrazione delle origini, e in quanto tale essa può essere accostata ad altre narrazioni delle origini, per esempio a quella biblica, essa però pretende di essere una descrizione attendibile di come si svolsero i fatti e il ‘narratore’ ci invita a controllare accuratamente questa sua ricostruzione fornendoci i documenti e i ragionamenti [ 41 ]

❝ Se infatti un

testo letterario ci colpisce in profondità è perché nei suoi modi indiretti, ‘falsi’, ci sta dicendo qualcosa di vero ❞


su cui essa si regge. La narrazione veterotestamentaria ha avuto per secoli la stessa pretesa di veridicità storica, anche se all’interno di tutt’altro paradigma epistemologico, che non prevedeva la produzione di prove e argomenti logici; comunque sia, tale pretesa risulta da tempo irricevibile, e da allora il testo biblico viene inteso come un testo figurale. In altre parole, la narrazione biblica oggi ci appare come una straordinaria finzione. Dire questo non significa certo sminuirne il valore. Infatti, come tutte le grandi narrazioni letterarie, la Bibbia ci comunica una sua verità, ma si tratta di una verità indiretta, metaforica. Per esempio, la proposta di Satana ad Adamo ed Eva di gustare il frutto proibito della conoscenza per rendersi così sicut dii, allude potentemente ad una tentazione che è ancora e sempre profondamente reale, vera, una tentazione ‘demoniaca’ che caratterizza l’essere umano sia in senso positivo che negativo (alcuni sviluppi tecnico-scientifici moderni lo confermano). Voglio solo dire che esiste una verità della finzione, dell’immaginazione e che essa può essere perspicua e anche geniale, e dirci molto o moltissimo su di noi, sul nostro mondo, sul nostro passato ma anche sul nostro presente e perfino sul nostro futuro. Non si tratta di una verità alternativa a quella scientifica, come vorrebbe una certa tradizione romantica e esoterica, bensì di una verità diversa, polivalente, e comunque ottenuta con altri procedimenti. Mentre infatti il discorso scientifico mira ad essere logico e conseguente, il discorso letterario si avvale della il-logica dell’inconscio, quella che per esempio informa di sé certe figure retoriche che violano il principio di non contraddizione, come l’ossimoro, l’antifrasi, il paradosso, e tante altre. Le due verità anche se mai sovrapponibili sono confrontabili, complementari, convergenti. Se infatti un testo letterario ci colpisce in profondità è perché nei suoi modi indiretti, ‘falsi’, ci sta dicendo qualcosa di vero, qualcosa che non può essere detto altrimenti. Se noi leggiamo con tanta passione l’impossibile vicenda che Kafka racconta nella Metamorfosi è perché sentiamo che de te fabula narratur. Grazie a Kafka possiamo afferrare d’un colpo

il senso di una disumanizzazione totale a cui però alla fine ci si adatta come se fosse normale. Psicologi, sociologi, filosofi hanno poi provato a ridire con altre parole, e cioè traducendo in termini proposizionali, quanto Kafka aveva detto in termini densi, icastici, ‘opachi’. In questo senso ho parlato di convergenza possibile tra discorso letterario e scientifico. La grande arte ha sempre un potente valore cognitivo, checché ne dicano coloro per i quali invece l’arte è fine a se stessa. Ora, anche la Bibbia può e deve essere intesa come un grande teso letterario capace di trasmettere a tutti, credenti e non, formidabili intuizioni sul senso della condizione umana, sulle nostre origini e sul nostro destino. Per alcuni queste intuizioni sono ispirate direttamente da Dio, per altri sono tutte e solo umane. Ciò che conta è che non si tratta certo di conoscenza proposizionale. Insomma, se c’è una verità veicolata dalla Bibbia essa non è di tipo letterale, trasparente, come molti teologi sensatamente riconoscono (e come disconoscono alcuni dissennati fondamentalisti che si ostinano a prendere alla lettera il libro della Genesi). La grande ricostruzione storica darwiniana invece non è metaforica, non è figurale. Pretende al contrario di essere giudicata sulla base di ragionamenti e riscontri oggettivi. Diffidiamo perciò di coloro che dicono: è un racconto come tanti altri, indimostrabile e ‘finto’ quanto quello raccontato nella Genesi. E tuttavia, anche se il discorso darwiniano mira a dire il vero e vuole convincere i suoi lettori grazie all’efficacia di buoni argomenti e non grazie all’efficacia di immagini suggestive, ciò nondimeno esso si serve, non può non servirsi del linguaggio naturale che è ricco di modi e figure ‘colorati’, espressivi. Questo d’altra parte è sempre vero: non esiste infatti un discorso che, per quanto chiaro e distinto, non sia anche retoricamente impostato. L’unico criterio per distinguere un discorso letterario da un discorso non letterario è quantitativo. Si va da un minimo a un massimo: da testi il cui tasso di figuralità è bassissimo (sono i discorsi rigorosi che si avvicinano a una sorta di grado zero della scrittura) a testi in cui quel tasso

Se dovessi provare a dire in cosa consiste la ragione principale del fascino letterario dell’Origine delle specie direi che è una straordinaria opera-mondo, [...]la trama di tutte le trame possibili.

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[ BRUGNOLO ] è altissimo (certa poesia barocca o surrealista). Non zione, e lo sa cogliere e raccontare anche nei minimi possiamo però avere discorsi pubblici e cioè comunidettagli. Ci sono molti passi significativi in tale senso cativi che siano tutti e solo l’una cosa o l’altra. In ogni nel suo libro maggiore, ma io riporterò due citazioni sonetto c’è un abbozzo di argomentazione razionale, tolte da opere minori. Sono due opere estranee alla tein ogni saggio scientifico c’è almeno un minimo di oria dell’evoluzione vera e propria e forse proprio perartificio letterario. ciò si potrà afferrare meglio questo suo partito preso Se dovessi provare a dire in cosa consiste la ragione antitrionfalistico, antienfatico. Nel primo caso – The principale del fascino letterario dell’Origine delle specie Voyage of Beagle del 1839 – l’autore sta parlando delle direi che è una straordinaria opera-mondo, per dirla barriere coralline e scrive: «proviamo sorpresa quando con Franco Moretti, una memorabile rappresentazioi viaggiatori ci raccontano delle vaste dimensioni delle ne epica, in un certo senso la Piramidi e di altre grandi rotrama di tutte le trame possivine, ma quanto insignificanti bili. In questo essa ci ricorda sono le più grandi di queste, La fenomenologia dello spirito se comparate con queste mondi Hegel o Il capitale di Marx e tagne di pietra accumulate altri grandi racconti totali. Ma dall’azione di questi vari, miDarwin è originale perché la nuti e teneri animali»; nel sesua visione epica è per eccelcondo caso – una monografia lenza anti-eroica, refrattaria al dedicata ai vermi pubblicata grandioso. La vera protagonipoco prima di morire – l’autosta di questa immane epopea re sta parlando dei lombrichi: è infatti la deviazione insigni«È dubbio se siano mai esistiti ficante e casuale, capace però altri animali che hanno giocato nel tempo di produrre «granuna parte così importante nella di risultati». Continuamente storia del mondo, come quella Darwin si compiace di sotgiocata da queste creature aptolineare il potere creativo di partenenti a un basso livello di questi «agenti insignificanti e organizzazione». Racchiusa in di poco conto», di questi «elequesti passi c’è tutta la poetica menti fluttuanti». Per apprezdi Darwin, una poetica ironizare meglio questo suo gusto ca dell’antisublime – il ruolo per i piccoli scarti evolutivi, dei lombrichi «nella storia del bisogna ricordare che c’è stato mondo»! – che si fonda su una tutto un filone del darwinismo concezione narrativa che non sociale e politico che intendemette al centro dell’universo va l’evoluzione come un’epol’uomo. La grande trama darpea ascendente e trionfale delwiniana è infatti una trama le cosiddette specie più capaci, che comincia prima dell’uoun’epopea teleologica che pre- Copenaghen (Danimarca), fabbrica di birra, 1986 mo e che continuerà anche vedeva come suo ultimo atto senza l’uomo. l’entrata in scena dell’umanità, e anzi di alcune speciMa l’attitudine antienfatica di Darwin caratterizza fiche ‘razze’ umane, più evolute delle altre. Darwin ci anche il suo stile di scrittura. Per apprezzare meglio racconta invece l’evoluzione come una vicenda niente questo stile si deve ricordare che lui faceva ancora affatto lineare, che procede a zig-zag, ed è piena di imparte di un mondo per cui il discorso scientifico non previsti, ma soprattutto come una vicenda dove a conera un discorso specialistico ed esclusivo, ma, almeno tare sono appunto le piccole e ‘astute’ deviazioni e non potenzialmente, poteva interessare qualunque indivicerto la cosiddetta ‘legge del più forte’. Certo, la narraduo colto e curioso. Il fascino della sua prosa dipende zione darwiniana si basa su ricostruzioni fattuali e non anche da questa impostazione di fondo: siamo più che su preferenze o concezioni precostituite. E tuttavia si mai dentro la civiltà della conversazione colta e raziosente nella sua scrittura il gusto tutto personale di chi nale, e il suo libro non è rivolto solo agli addetti ai apprezza il lavoro lento, sottile, invisibile dell’evolulavori, ma è un «lungo argomento» svolto con un lin[ 43 ]


guaggio disteso e cordiale, privo di «ogni ampollosità e retorica» (Mandel’štam). Il suo è lo stile di qualcuno che spera ancora che, secondo le sue stesse parole, «il linguaggio scientifico e il linguaggio comune si metteranno d’accordo». C’è un tono-Darwin difficile da cogliere tanto è inappariscente ed esso sta inconfondibilmente sotto il segno dell’understatement. Ora, questo understatement non è solo una modalità signorile tutta e solo formale, corrisponde a una volontà fortissima di non forzare e imporre nulla. Quest’uomo sta in effetti enunciando qualcosa di enorme, un’idea destinata a cambiare l’immagine del mondo, e quasi non ce ne accorgiamo. Ben altra passione e empito c’è per esempio nel Galileo che scriveva sulle nuove concezioni astronomiche, per non dire poi del tono combattivo e spesso indignato che contraddistingue il Capitale di Marx. No, in Darwin tutto è detto in modo sobrio, asciutto, e soprattutto senza mai sottolineare troppo l’enormità rivoluzionaria della sua scoperta. È difficile dire quanto questo stile sia anche e soprattutto tattico, miri cioè a non scandalizzare il suo pubblico (per sua stessa ammissione scrivere il libro fu come «confessare un delitto»). Io sento però che esso esprime anche un’attitudine mentale profonda: quella di nascondere il proprio Io dietro l’opera, quella di lasciar parlare i fatti al di là delle proprie idee e intenzioni. È uno stile borghese, medio, che «cerca la propria forza nella misura» (Thomas Mann). Per esempio, mai nell’Origine si esplicita che l’uomo discende da esseri inferiori, anche se naturalmente tutto il libro lo sottintende. Si tratta se vogliamo di un’ellissi, di un non detto che però fa continuamente capolino tra le righe. Chi scrive forse non sarebbe voluto arrivare a conclusioni tanto forti e destabilizzanti ma la sua probità, l’amore per la verità lo hanno costretto a enunciarle, senza nessun desiderio però di rivendicare un’originalità assoluta, senza nessuna voglia di turbare idee e credenze condivise. Guido Barbujani ha perfettamente ragione a dire che la risposta di Darwin alla signora Boole è filosoficamente giusta e che può valere ancora oggi come l’unico modo ragionevole per impostare la questione dei rapporti tra scienza e fede. Tuttavia vale la pena dire che la reazione ingenua e ansiosa della Signora alle sue scoperte è almeno in parte condivisibile: lei sente che quel libro discreto e gentile mette in questione il suo mondo e vorrebbe essere rassicurata. Sì, la risposta di Darwin è concettualmente ineccepibile – scienza e teologia dovrebbero svilupparsi ciascuna nel proprio alveo – e però come non sentire che è anche imbarazzata; ad aiutarlo ancora una volta è l’understatement che gli fa dire che lui è solo uno scienziato che ha scoperto alcune verità storiche riguar-

danti l’evoluzione degli organismi viventi sul pianeta; su altre questioni non sa, non può, non vuole esprimersi, perché tali questioni esulano dalle sue competenze. Siamo già dalle parti del celebre aforisma che chiude enigmaticamente il Tractatus di Wittgenstein: «Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere». Ripeto, la signora è ingenua eppure come negarle qualche ragione: sia pure in quel suo modo sobrio Darwin ha scosso la nostra immagine del mondo e gli effetti di quella scossa sono ancora evidenti. Io credo anzi che molte questioni filosofiche e morali aperte dalla teoria dell’evoluzione sono ancora più che mai aperte e urgenti. Come spesso accade, coloro che diffidano di un’idea sono proprio quelli che tributano un involontario omaggio alla sua forza dirompente, disturbante. Contro tali reazioni spaventate o scandalizzate è corretto limitare ragionevolmente la portata epistemologica di una scoperta scientifica, come fa appunto Darwin. L’appello giustissimo a distinguere tra i diversi ambiti di pensiero può indurci però a sottovalutare le inevitabili ripercussioni e ricadute filosofiche e morali di una scoperta che «annientò per sempre la pretesa posizione di privilegio dell’uomo nella creazione» (Freud). Va da sé, i fondamentalisti anti-darwiniani hanno torto marcio, oggi molto più di ieri, ma a loro modo hanno anche qualche (involontaria) ragione allorché denunciano gli effetti pericolosi delle idee darwiniane. In definitiva, esse non sono pacifiche, non sono neutrali, ci mettono in questione, ci costringono a riconsiderare il nostro posto nell’universo. Anche se decideremo di voler continuare a credere nel Dio della Bibbia, crederemo allora a un altro Dio, a un Dio postdarwiniano, fondamentalmente astensionista. Come non condividere allora, sia pure con tutt’altro spirito, «la preoccupazione» della signora, come non prendere qualche distanza dalla neutralità di Darwin. È come se lui dicesse con caratteristico pathos antimetafisco: io non c’entro con queste domande, sono troppo elevate, esulano dal mio modesto lavoro di scienziato, non sono pertinenti. La signora a sua volta si mostra soddisfatta di quelle risposte; quasi si dicesse: «allora tutto è rimasto come prima, il mio mondo morale e spirituale poggia sulle stesse salde fondamenta di prima». Ma naturalmente non è vero, dopo Darwin niente che riguardi la nostra posizione nell’universo è come prima. > Nota Per un discorso più circostanziato sullo stile di Darwin e di altri grandi pensatori ottocenteschi segnalo il mio libro intitolato La letterarietà dei discorsi scientifici. Aspetti figurali e narrativi della prosa di Hegel, Tocqueville, Darwin, Marx, Freud (Bulzoni, 2000).

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[LETTERATURA E SCIENZA] il diario di viaggio di darWin

❚ Al di là dell’orizzonte

Ferrara, cantiere edile, 1987

di Pino Cacucci

H

o conosciuto Charles Darwin grazie al grande narratore dei mari del Sud Francisco Coloane, avventuroso cantore del mondo alla fine del mondo. Aver tradotto l’intera opera di Coloane è tra le cose di cui vado più orgoglioso, e in molti dei suoi romanzi e racconti Darwin è una presenza ricorrente seppure sporadica, mentre nelle memorie – l’ultimo libro che Coloane ha scritto poco prima di lasciarci – il naturalista inglese è citato in decine di occasioni, soprattutto narrando il viaggio compiuto alle Galápagos, quando lo scrittore cileno si portò nella sacca da marinaio i due libri più amati: “L’11 novembre mi imbarcai a Guayaquil sulla motonave Bucanero, al comando di Jorge Game Castro, ex capitano di fregata ecuadoriano, che aveva seguito il corso dello stato maggiore della marina militare cilena. Principale compagno di viaggio era un vecchio volume con la copertina verde e il titolo a caratteri dorati: Viaggio di un naturalista intorno al mondo. All’interno c’è una dedica del buon amico Tomás Lago: ‘Ho accompagnato Pancho in quarant’anni di traversate e traversie’. Ho portato con me questo libro come fosse un portolano nei miei viaggi, dall’Antartico [ 45 ]

❝Guardandomi indietro, riesco a capire come il mio amore per la scienza prese gradualmente il sopravvento su qualsiasi altro interesse ❞


fino alle isole Galápagos, assieme a Gli avventurieri del mare di Emilio Salgari. A volte paragono la sua immaginazione alla scienza del giovane saggio inglese. Il veronese fu giornalista come me, studiò nautica, si dedicò alla narrativa con grande successo. Darwin era fin dall’infanzia collezionista di minerali e scarabei, amante dei fiori. Portai entrambi i libri in quel viaggio perché sono stati, sono e saranno i miei compagni prediletti.” Si trattava proprio di questo libro, del resoconto dei cinque anni impiegati a fare il giro intorno al mondo a bordo del Beagle, e attendevo da anni di leggerlo per intero, dopo averne assaggiato brani e mezze pagine nelle innumerevoli citazioni di Coloane, ogni volta ritradotte in italiano dallo spagnolo, e non dall’originale inglese: chissà se i due passaggi di lingua abbiano rispettato fedelmente ciò che Darwin scrisse, solo ora posso rendermene conto… Ma poco importa: in America Latina circolano le versioni lette e citate da Coloane, probabilmente a quelle latitudini Darwin è molto più diffuso e apprezzato che nell’Europa odierna, dove il suo cognome viene usato per neologismi che spesso ne profanano la memoria, lui che fu persona sensibile alle ingiustizie dello sfruttamento selvaggio e fermamente avverso a qualsiasi forma di schiavismo. Oggi di dice “darwinismo sociale” per giustificare la spietatezza di un sistema economico e produttivo dove i poveri sono tali in base a una sorta di perversa “selezione delle specie”, chi si arricchisce dimostrerebbe dunque la propria superiorità intellettual-imprenditoriale, gli individui eletti speculano in borsa e la massa di “inferiori” coltiva la terra, forgia i metalli, costruisce edifici, insomma, produce l’esistente ma non partecipa alla spartizione del bottino. In definitiva, si ricorre al “darwinismo sociale” per affermare la naturale superiorità dei furbi e dei corrotti. Considerando che fin dalle elementari ho manifestato una spiccata tendenza ad andare “fuori tema”, torno al viaggio del Beagle, l’avventura di un giovane inglese che oggi apparirebbe incredibile: chissà quale studente nostrano partirebbe verso l’ignoto senza sapere neppure quanti anni resterà a bordo di un brigantino a due alberi, affidandosi agli alisei per gonfiare le vele e alle correnti per evitare la bonaccia, affrontando tempeste e doppiando il mitico Capo Horn, e facendo di una cabina angusta la propria dimora per migliaia di notti… Conserviamo nella memoria collettiva l’immagine di un Darwin attempato, l’anziano saggio dalla

bianca barba folta e lunga, ma il giovane Charles era un gaudente allievo della prestigiosa Università di Cambridge, che si vedeva forzosamente avviato alla precaria vocazione a diventare parroco di campagna – nell’Inghilterra di Guglielmo IV e successivamente “vittoriana”, quella del vicario anglicano veniva considerata come una rispettabile professione borghese – e intanto si dedicava con crescente interesse ma senza troppa disciplina agli studi naturalistici, e con maggiore coinvolgimento alla spensierata vita bohémienne dei rampolli di famiglie più facoltose della sua, tra battute di caccia diurne e nottate alcoliche, al punto che tanti anni dopo, ricordando quel periodo, avrebbe usato l’aggettivo “dissoluto”, aggiungendo: “La sera cenavamo insieme, talvolta bevevamo troppo, e si finiva tra allegre canzoni e partite a carte”. Poi, fingendo di rammaricarsene, concludeva con malcelato rimpianto: “So che dovrei vergognarmi per aver sprecato in tal modo giorni e notti, ma considerato che alcuni dei miei amici erano davvero simpatici, ed eravamo felici di stare assieme, non posso evitare di ricordare quel periodo con molto piacere”. Tra lezioni di letteratura, matematica e teologia, il giovane Charles si appassionava sempre più alla botanica e alla geologia, sviluppando inoltre uno spiccato interesse per l’entomologia, tanto da dare un piccolo contributo a un libro di testo sulla classificazione dei coleotteri. Tutto ciò, bagordi compresi, va però inserito nel cosiddetto “sistema di Cambridge”, dove la dottrina teologica era la base fondante di un ferreo concetto della società su scala gerarchica, baluardo contro le crescenti agitazioni delle classi diseredate e le ribellioni individuali o collettive. Il giovane Charles non aveva alcuna intenzione di contestare o soltanto mettere in discussione tale “sistema”, e se la prospettiva di farsi prete era per lui poco allettante, rimaneva pur sempre un credente rispettoso della teologia naturale, secondo la quale Dio non era certo un dispensatore di castighi e miracoli, bensì l’onniscente coordinatore degli equilibri di madre natura. Pur non immaginando quale paradossale destino avrebbe legato il suo nome a dispute sterili e oscurantiste, resta il fatto che in vita ebbe tempo di dichiarare: “Considerando la violenza con cui sono stato attaccato dall’ortodossia, sembra assurdo che un tempo volessi fare il prete”. Oggi l’assurdo da lui menzionato ha preso le forme di una grottesca controversia sostenuta da quanti, in sprezzo dell’umano progredire, lo avversano per

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[ CACUCCI ] negare la teoria dell’evoluzione, stravolgendo i rapporti tra scienza e religione che per Darwin non furono mai in contrasto fra loro. Fin dagli anni della giovinezza – scapestrata come si conviene a un ventenne, ma improntata a una fede incrollabile nel sistema di valori vigente – Darwin condivise con tanti altri eminenti intellettuali dell’epoca la visione della Bibbia come testo allegorico denso di significati spirituali, e non certo come una “cronaca della creazione” dove davvero un Dio forgiatore e un po’ naif avrebbe inventato l’intero universo in sei giorni, uomo e donna compresi, per riposarsi il settimo. Il perspicace studioso Charles Darwin che scriveva i saggi destinati a costituire il fondamento della scienza moderna, ovviamente aveva accantonato da tempo la nozione di “Dio creatore in sette giorni”, ma avrebbe conservato fino all’ultimo dei suoi giorni l’ammirata meraviglia nei confronti di ogni infinitesimale manifestazione dell’esistente, con fede e persino venerazione. Dunque, tornando alla Cambridge del 1831, il giovane Charles sosteneva con successo gli esami di fine anno e si prospettava per lui una vaga carriera da naturalista, forse da geologo, grazie al rapporto amichevole con il docente Adam Sedgwick, che quell’estate lo volle con sé per un paio di intense settimane di ricerche sul campo, tra le antiche rocce del Galles. Charles si dimostrò un ottimo allievo, certo, ma probabilmente il mondo oggi lo ignorerebbe se all’orizzonte non fosse comparsa la sagoma del brigantino Beagle… Per la verità, una certa smania di muoversi al di fuori dell’avvolgente ed escludente “sistema di Cambridge”, Darwin la manifestava già: affascinato dalla lettura

AlbaceteIonesco (Spagna), Churreria, 1990 Eugene

Considerando la violenza con cui sono stato attaccato dall’ortodossia, sembra assurdo che un tempo volessi fare il prete [ 47 ]

dei resoconti di viaggio di von Humboldt, aveva progettato una spedizione a Tenerife, ma non era riuscito a concretizzare nulla. Nell’estate del 1831 i suoi propositi erano alquanto modesti: trascorrere un’estate spensierata, sparando a volpi e volatili – aveva una mira infallibile – e riprendere i corsi universitari in autunno, dove lo aspettava al varco la “preparazione teologica”. Ma… arrivò la fatidica lettera di John Stevens Henslow, docente di botanica: offriva a Charles Darwin la possibilità di imbarcarsi sul piccolo veliero HMS Beagle della Marina britannica, con il fine di compiere rilevamenti cartografici in un lungo viaggio intorno al mondo. Si trattò dell’ennesimo intervento del Caso nella storia dell’umano progredire, perché quella lettera era già passata per diverse mani: il capitano Robert Fitz Roy, comandante del Beagle, aveva chiesto all’Istituto Idrografico della Marina il permesso di portare con sé “un gentiluomo” avvezzo alle scienze per raccogliere campioni di storia naturale; erano stati consultati diversi docenti di Cambridge, e tutti avevano invariabilmente declinato l’invito, accampando pretesti di impegni di lavoro… Restare per anni in mare, solcando perigliosi oceani e approdando in terre pressoché sconosciute, spesso abitate da “selvaggi” non sempre accoglienti, esponendosi alle epidemie che flagellavano gli equipaggi sottoposti a lunghe traversate, adeguandosi a una dieta che prevedeva sottaceti e mele secche come rancio quotidiano, dovette convincere quei gentiluomini a godersi la pace di Cambridge e le consolidate sicurezze dell’Inghilterra uscita vittoriosa dalle guerre napoleoniche e avviata al primato di potenza eco-


nomica e militare. L’ultimo in ordine di consultazione fu proprio Henslow, forse l’unico che valutò seriamente l’ipotesi di imbarcarsi in quell’avventura. Se avesse accettato, la botanica ne avrebbe sicuramente giovato, forse il mondo ricorderebbe ancora un testo sulla flora di vari continenti, ma di sicuro Henslow non avrebbe formulato alcuna Teoria dell’evoluzione né scritto un saggio sull’origine delle specie destinato a mutare il corso della scienza. Alla fine Henslow rinunciò, ma

Josiah Wedgwood, che riuscì a far cambiare idea al padre fino a quel momento irremovibile, ricorrendo all’insopprimibile spirito di avventura e sete di conoscenza che aveva reso la Gran Bretagna una potenza mondiale. Papà Darwin, di fronte a quelle ragioni, dovette sentirsi un provinciale gallese nemico del progresso e soprattutto in odore di apprensività per il figlio, cosa che non poteva certo ammettere. Dunque, era fatta: Charles si gettò anima e corpo nei preparativi del lungo viaggio.

Copenaghen (Danimarca), operatori di Borsa, 1987

propose Charles Darwin come il più adatto, a suo parere, a tale impresa. Il discepolo non avrebbe avuto alcuna esitazione: era pronto a fare i bagagli e partire. Ma suo padre, il dottor Robert Darwin, che già aveva dovuto digerire la delusione di vederlo abbandonare gli iniziali studi di medicina, si oppose a quella che giudicò senza mezzi termini “un’idea strampalata”. Charles sulle prime tentò di convincerlo, poi si arrese, scrivendo da bravo figlio obbediente: “Tale proposta sarebbe inopportuna per il mio futuro come ecclesiastico, perché dopo, non riuscirei mai a rassegnarmi a una vita tranquilla”. Da ciò si possono dedurre due particolari interessanti: l’ipotesi di farsi prete non era ancora stata del tutto archiviata, e l’istinto avventuroso gli diceva che “dopo” nulla sarebbe stato come prima. Davvero un grande intuito, il suo. Perché in effetti nulla sarebbe stato come prima, una volta imbarcatosi sul brigantino a due alberi Beagle, per lui e per le scienze moderne. A imprimere la svolta decisiva fu il cognato del dottor Robert Darwin,

L’unica cosa certa tra le innumerevoli incognite di quell’impresa, era la forzata convivenza con il capitano Fitz Roy nell’angusto spazio del brigantino per così tanto tempo, situazione che avrebbe prodotto la leggenda delle accese discussioni tra lui e Darwin, così frequenti da instaurare un dissidio permanente. In effetti Fitz Roy avrebbe, negli anni a venire, sviluppato una radicalizzazione di ciò che oggi definiamo “creazionismo” e che lo portò a dissentire profondamente dalle convinzioni maturate da Darwin sull’evoluzione delle specie e sull’origine dell’uomo, diventando un accanito fondamentalista biblico. Ma all’epoca del viaggio sul Beagle il capitano era pervaso dalla passione per la geologia improntata su opinioni alquanto aperte e moderne, non era affatto il personaggio oscurantista sempre pronto a citare la Bibbia per contrastare le asserzioni del perspicace naturalista, come ce lo hanno descritto alcuni testi – spesso ridicolizzandolo – che in realtà si sono basati sul “futuro” Fitz Roy e non sul giovane marinaio dotato di un notevole spirito di avventura, che

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[ CACUCCI ] Darwin iniziò a conoscere sul molo di Devonport nel dicembre del 1831. Inoltre, va sempre ricordato che, a differenza di un immaginario collettivo che presenta i due come attempati gentiluomini avvezzi a disquisizioni forbite, stiamo parlando di un capitano appena ventiseienne e dello studente ventiduenne Charles Darwin… Certo vi furono tra loro discussioni e in qualche caso i rapporti divennero tesi, ma non per questioni religiose, bensì per diversità di comportamenti e scelte pratiche. Cinque anni su un brigantino metterebbero alla prova i più posati e maturi uomini di mare, figuriamoci due giovani pieni di curiosità e voglia di avventure, con Fitz Roy a doversi reprimere per le responsabilità dell’incarico assegnatogli, e Darwin smanioso di conoscere, osservare, vivere intensamente ogni esperienza senza dover sempre sottostare alla disciplina della Marina di Sua Maestà. Anche per questo, Darwin non perse occasione di intraprendere lunghe escursioni a terra dando appuntamento al capitano a distanza di mesi in porti molto lontani da quello dove i due si accomiatavano, probabilmente entrambi felici di starsene per un po’ in parziale solitudine. Salpato da Devonport il 27 dicembre 1831, dopo due tentativi infruttuosi di prendere il largo per i forti venti contrari, il Beagle iniziò la lunga avventura che lo avrebbe portato alle isole di Capo Verde, alle Falkland, in Brasile, Argentina e quindi in Cile dopo aver doppiato Capo Horn – che non smentì la sua fama accogliendo il brigantino con una furiosa tempesta - risalendo la regione antartica della Terra del Fuoco per poi raggiungere l’arcipelago di Chiloé e quindi le Galápagos, la tappa forse più importante per il giovane naturalista; e Tahiti, la Nuova Zelanda, l’Australia, la traversata dell’oceano Indiano fino al Capo di Buona Speranza, e da lì a Sant’Elena, Ascensión e nuovamente in Brasile, per intraprendere infine la via del ritorno, approdando a Falmouth nell’ottobre del 1836. Cinque anni durante i quali Darwin osserva e descrive un’infinità di dettagli naturalistici con prosa asciutta e commenti che, seppure destinati a studiosi in grado di comprendere la portata delle sue ricerche, sono straordinariamente chiari e fruibili a un pubblico ben più vasto di lettori. Ma ciò che maggiormente affascina, di questo resoconto spesso puntiglioso e particolareggiato, è la capacità di trasmettere la meraviglia e lo stupore di fronte ai maestosi spettacoli della natura, e in questi casi il linguaggio è proprio del

grande narratore di viaggi, non più dello scienziato che si rivolge a una ristretta cerchia di eletti. E a rendere Viaggio di un naturalista intorno al mondo una lettura a tratti appassionante, sono soprattutto le innumerevoli occasioni in cui narra “in presa diretta” i contatti con genti estremamente diverse da lui per usi e costumi, dove prevale in Darwin la curiosità, il bisogno di capire i mille perché di certi comportamenti, non rinunciando a esprimere i propri giudizi, che in alcuni casi denotano pienamente la cultura dell’Inghilterra dell’epoca, forte della convinzione che sia la migliore delle civiltà possibili, alla quale tutte le altre dovrebbero ispirarsi per raggiungere il “progresso”. Nonostante ciò, Darwin si dimostra abile narratore anche in chiave autoironica, spesso dimostra l’arguzia di non prendersi troppo sul serio e di accettare i propri limiti, come quando descrive la vita dei gauchos della pampa e ridicolizza se stesso nel tentativo di usare le bolas, senza offendersi per le risate che suscita tra i presenti. Dal contatto con le realtà sociali tra le più disparate, emerge anche l’avversione per la schiavitù, ed è memorabile il commento sulla vicenda dell’anziana donna nera che preferisce gettarsi da una rupe piuttosto che diventare schiava: “Se si fosse trattato di una matrona romana, il gesto sarebbe stato tramandato come dettato da un nobile amore per la libertà; nel caso di una povera nera, viene visto come mera ostinazione bruta”. Se questa sua sensibilità nei confronti della schiavitù – e di tanti soprusi e umiliazioni che registra, indignandosi, lungo il cammino – lo rende attualissimo e condivisibile, perché anticipa di quasi due secoli le nostre convinzioni sul rispetto dei diritti umani, ben diverso è l’approccio con le civiltà indigene. In questi casi prevale l’educazione ricevuta e i principi che resero la Gran Bretagna dominatrice imperiale e coloniale, come con gli indios della Terra del Fuoco che Fitz Roy aveva “prelevato” in un viaggio precedente per poi “civilizzarli” in Inghilterra, e riportandoli nelle terre di origine, Darwin constata con rammarico che nel giro di breve tempo tornano “selvaggi”. E si lascia andare a una lunga dissertazione sui limiti delle società egualitarie, che non progrediscono perché, a suo avviso, solo in presenza di sovrani e “governi complessi” i popoli possono evolversi, e il solo fatto che gli indios dividono tutto in parti eguali tra loro, cioè rifiutando l’accumulo e l’arricchimento, ne decreta l’arretratezza: “La perfetta uguaglianza

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esistente fra gli individui che compongono le tribù dei fuegini ritarderà per lungo tempo la loro civilizzazione”. Per il giovane Darwin, “uguaglianza” è un termine negativo, al pari dell’aggettivo “repubblicano”: senza un re o una regina, come si può progredire? Nonostante ciò, è disposto ad ammettere che quelle tribù “in parte civilizzate”, sono corrotte in proporzione al grado di contaminazione ricevuta dal contatto con gli occidentali, eppure, al lettore di oggi, queste considerazioni non possono non far riflettere su quanto la nostra “civiltà” avrebbe bisogno degli insegnamenti di quelle popolazioni che conoscevano il rispetto della natura e dei suoi equilibri, e praticavano l’uguaglianza proprio per evitare di distruggere tutto con la logica del profitto. Diverse etnie con le quali Darwin entrò in contatto, si sono estinte nel corso del suo secolo, e altre durante il XX, sempre a causa della devastazione subita dall’imposizione di modelli di vita a loro estranei, ma il giovane naturalista non poteva, tra il 1831 e il 1836, presagire quale catastrofe ambientale e sociale avrebbe provocato l’arrivo della “civilizzazione” in quei territori incontaminati, ormai estesa all’intero pianeta. Tenere conto dell’epoca in cui Darwin viveva questa lunga avventura e la narrava, è invero un motivo di interesse in più per il testo che segue, perché ci permette di conoscere quali convinzioni lo animassero e quale atteggiamento governasse l’approccio con le realtà sconosciute, senza cadere nella tentazione di giudicare “con il senno di poi”, visto che noi, tutt’oggi, di senno ne dimostriamo ben poco, riguardo la natura. “Guardandomi indietro, riesco a capire come il mio amore per la scienza prese gradualmente il sopravvento su qualsiasi altro interesse”, scrisse Darwin a distanza di anni dal rientro in patria. Fu un viaggio di formazione, di maturazione, che vide il giovane studente di Cambridge trasformarsi giorno dopo giorno in scienziato, ma anche in uomo pragmatico e assennato, temprato dai pericoli – avevano rischiato più volte il naufragio, entrando persino in collisione con un frammento di iceberg, oltre alle insidie a terra, sia naturali che umane, tra tagliagole nelle zone deserte e banditi di strada nelle città – ma soprattutto capace di mettere a punto rigorosi sistemi di classificazione e sviluppare una straordinaria perspicacia nell’osservare mutazioni, comportamenti, adattamento ai diversi ambienti, da cui derivò un bagaglio di conoscenze che avrebbe costituito la base dei libri

a venire. Lui stesso, nell’introduzione all’Origine delle specie, scrisse che le scoperte fatte durante il viaggio intorno al mondo a bordo del Beagle erano il punto di partenza per tutte le sue visioni future riguardo le dinamiche della natura, e in particolare citava i fossili della Patagonia e la vita animale nelle Galápagos. Le quattordici isole sulla linea dell’equatore lo entusiasmarono più di qualsiasi altro luogo toccato prima e dopo, tartarughe giganti, iguana e tordi avrebbero rappresentato per lui fonti di preziose deduzioni più importanti di qualsiasi tempo dedicato allo studio universitario: le isole che Herman Melville aveva definito “incantate”, per Darwin erano “il mistero dei misteri”. E intanto l’equipaggio del Beagle lo guardava saltellare da una roccia all’altra o sguazzare tra gli scogli con divertita ammirazione. A bordo lo avevano soprannominato Philos, lo ship’s philosopher, il filosofo della nave, ma anche, meno rispettosamente, “l’acchiappamosche”, e tutti sopportavano senza discutere l’invasione del ponte di coperta con una costante miriade di reperti e campioni. Fitz Roy e gli altri ufficiali ne avrebbero sempre conservato il ricordo di un giovane cordiale e scherzoso, nonostante soffrisse di mal di mare: per cinque interminabili anni, Darwin ebbe nausea e capogiri durante le traversate, non si abituò mai al rollio e al beccheggio, eppure, non fu sfiorato dalla tentazione di tornare anzitempo, nemmeno per un solo istante. Ne valse la pena. E oltre a portare a casa un tesoro inestimabile di apprendimenti e scoperte, avrebbe consegnato ai posteri un lungo racconto dove il naturalista certo prevale, ma il viandante prende spesso la penna in mano per narrare la meraviglia del viaggiare: nelle ultime righe consiglia di fare altrettanto, di non staresene chiusi nel proprio microcosmo e non temere di affrontare l’ignoto, perché viaggiare “insegnerà la diffidenza, ma al tempo stesso quante persone veramente di cuore ci sono, con le quali non si avrà mai più contatti, e che tuttavia sono pronte a offrire il più disinteressato aiuto”. In queste poche frasi c’è l’essenza del fascino che infonde il viaggio negli esseri umani, quelli aperti all’esperienza e pervasi dall’insopprimibile, salutare curiosità di sapere cosa vi sia al di là dell’orizzonte. (introduzione al libro “Viaggio di un naturalista intorno al mondo”, Newton Compton Editori, 2008)

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[LETTERATURA E SCIENZA] due lettere, darWin, la religione e leopardi

❚ La terra sotto i piedi di Guido Barbujani

L

a corrispondenza di Charles Darwin comprende lettere scambiate con più di duemila persone: scienziati, ma anche insegnanti, allevatori, vivaisti, missionari e perfino avventurieri che, spintisi nei luoghi più remoti dell’Impero Britannico, ne riportano preziose informazioni sulla fauna e la flora. Il 13 dicembre 1866 gli scrive Mary Everest Boole, nipote del geografo che ha dato il nome alla montagna più alta del mondo, e vedova del matematico George Boole. Mary Boole per campare fa la bibliotecaria a Londra: una vita grama, forse resa più difficile da qualche rimorso. La Boole è infatti una fervida seguace del dottor Hahnemann e della sua cosiddetta medicina omeopatica, che suggeriva (e purtroppo suggerisce ancora) di curare le malattie con piccole [ 51 ]

Ferrara, raccolta delle fragole, 1986

❝ A queste piagge

venga colui che d’esaltar con lode il nostro stato ha in uso, e vegga quanto è il gener nostro in cura all’amante natura ❞


dosi dei fattori che le causano. Trascinata da un inflessibile entusiasmo per teorie che non poteva ben comprendere, e in effetti tuttora largamente incomprensibili, aveva sottoposto il marito a ripetuti bagni nel ghiaccio, nell’intento di rafforzarne la resistenza alle malattie. Solo la morte del paziente, per polmonite, l’aveva indotta a interrompere la cura: era così rimasta vedova, con cinque figlie. Non sappiamo se di questo sfortunato evento si sentisse responsabile, ma certo si poneva le domande che tutti ci poniamo alla perdita di una persona cara. Il 13 dicembre 1866 si risolve a scrivere a Darwin, che non conosce, precisando che se non le arriverà risposta ne dedurrà soltanto che non aveva diritto di disturbarlo. Mary Boole è una figura curiosa, contraddittoria, interessante. Suo padre, uomo di ampie vedute, l’aveva cresciuta come un maschio, il che all’epoca era più di quanto una femmina potesse mediamente attendersi dalla vita: piena libertà intellettuale, vaste letture. Ma era pur sempre un’autodidatta, alle prese con problemi più grandi di lei. La sua lettera ci fa capire quanto la lacerasse il conflitto fra le nuove idee della scienza, a lei famigliari, e la sua fede religiosa. “Crede lei,” scrive a Darwin, “che il sostenere la sua Teoria della Selezione Naturale nella maniera più piena e priva di riserve sia incompatibile – non dico con qualche particolare dottrina teologica – ma con le seguenti convinzioni: Che la conoscenza venga all’uomo dalla diretta Ispirazione dello Spirito di Dio. Che Dio sia un essere reale ed Infinitamente buono. Che l’effetto dell’azione dello Spirito di Dio sul cervello umano sia specialmente un effetto morale”.

“La mia impressione personale,” prosegue la lettera, “è sempre stata, – non solo che la sua teoria fosse assolutamente compatibile con la fede a cui ho cercato in queste righe di dare espressione, – ma che il suo libro [sta parlando dell’Origine delle specie] mi abbia offerto una guida che può condurmi ad applicare la fede alla soluzione di certi complicati problemi psicologici”. Non è chiaro a che problemi si riferisse, anche se più tardi accenna al suo ruolo di madre. Ma, ed ecco il perché della lettera, Mary Boole ha ascoltato commenti negativi su possibili implicazioni religiose della teoria darwiniana, che l’hanno “aspramente preoccupata e addolorata.” Il servizio postale inglese è rapido. La risposta di Darwin, dalla casa di campagna di Down, nel Kent, le arriva già l’indomani. È una risposta inizialmente riluttante, e chi conosce un po’ Darwin non se ne stupirà. “Cara signora,” le scrive, “sarebbe stato per me molto gratificante poter fornire una risposta soddisfacente alle sue domande, o anche una risposta purchessia. Ma non vedo come l’idea che tutti gli esseri viventi compreso l’uomo siano derivati geneticamente da alcuni esseri molto semplici, invece di essere stati creati separatamente, abbia a che fare con le sue difficoltà. – Ad esse, così mi sembra, possono rispondere soltanto evidenze ben diverse da quelle che la Scienza può fornire”. Tanto deciso e combattivo è Darwin nel discutere di scienza, tanto recalcitrante ad esprimere opinioni in qualsiasi altro campo. Proprio non gli piace, gli manca la terra sotto i piedi: cioè i dati solidi e i ragionamenti rigorosi su cui fonda invece le sue posizioni scientifiche. Divaga cortesemente per qualche riga, poi però prende il toro per le corna: “Posso tuttavia notare che ho sempre provato un certo sollievo nel considerare

Managua (Nicaragura), venditrice di bibite, 1984 [ 52 ]


[ BARBUJANI ] l’immensa quantità di dolore e sofferenza nel monuomo da esprimere certezze in questo ambito. La sua do come il risultato inevitabile della sequenza natuproposta è di trattare scienza e religione come materie rale degli eventi, piuttosto che dell’intervento diretto indipendenti, che non debbono per forza integrarsi: di Dio”. E aggiunge un post scriptum: “La teologia e anzi, più l’una lascia stare l’altra, meglio è. Sembrela scienza dovrebbero svilupparsi ciascuna nel proprio rà strano, ma ritroviamo un’idea affine nella lettera alveo, e nel caso presente non sono io responsabile se di Giovanni Paolo II all’Accademia Pontificia delle il loro punto d’incontro sembra lontano”. Scienze, nel 1996: Eccolo, il grande scrittore. In tre righe riassume un “Le scienze dell’osservazione descrivono e valutano dibattito secolare e si piazza nel punto giusto: quello con sempre maggiore precisione le molteplici manifein cui si rivendicano le ragioni della ricerca scientistazioni della vita e le iscrivono nella linea del tempo. fica, senza per questo pretendere di invadere i campi […] L’esperienza del sapere metafisico, della coscienza altrui, ma non chiudendo gli occhi davanti ai conflitdi sé e della propria riflessività, della coscienza morale, ti. E la Boole gli è grata: “Lei mi ha detto tutto ciò della libertà e anche l’esperienza estetica e religiosa, che volevo sapere”. sono però di competenza dell’analisi e della riflessione Che Darwin fosse non solo il massimo naturalista di filosofiche, mentre la teologia ne coglie il senso ultisempre, ma anche un grande scrittore, lo spiega Stefamo secondo il disegno del Creatore”. Questa saggia no Brugnolo, in questo numero della rivista. Qui mi posizione, rispettosa della reciproca indipendenza di preme sottolineare come alcuni dei suoi passaggi più scienza, filosofia e teologia, ha però retto meno di un illuminanti non si trovano nei libri più famosi, ma decennio. Negli ultimi anni sono arrivati anche in nelle lettere. Quando scriveva testi destinati alla pubItalia le proposte di riforma dei programmi scolastiblicazione Darwin si controllava, addirittura nasconci, le pressioni perché nelle classi di scienze si discuta dendosi a volte, nel tentativo (fallito, come sappiamo) la creazione divina come valida spiegazione razionadi sottrarsi alle polemiche che l’hanno accompagnato, le dell’origine dell’universo, e i programmi televisivi amareggiandolo, per tutta la vita. in cui personaggi privi di qualunNella corrispondenza sapeva scrolque credibilità scientifica attaccano larsi di dosso gli imbarazzi ed espril’evoluzione con gli stessi, scadenMagnanimo mersi senza ritrosia. E allora emerge tissimi argomenti dei detrattori animale un uomo ironico, a volte sarcastico, ottocenteschi di Darwin. Anche non credo io già, comunque molto spiritoso; merada noi si è cercato di ridisegnare i ma stolto, vigliosamente conciso nello stile, limiti del sapere scientifico, propodi mano leggera, ma di intelligenza nendo il credo religioso come una quel che nato incisiva e a volte contundente: un razionalità superiore, a cui la razioa perir, nutrito uomo modernissimo e simpatico, a nalità scientifica dovrebbe, in caso in pene, dispetto dell’espressione corrucciata di conflitto, inchinarsi. Le parole con cui lo vediamo spesso ritratto. razionalità superiore sono appunto dice, a goder Quanto alle idee sulla religione quelle utilizzate dall’attuale ponteson fatto espresse nella lettera a Mary Boole, fice, e dall’iperattivo arcivescovo di difficile non notare come suggeriVienna Christoph Schönborn, nello scano una via d’uscita da un grave problema filososforzo di sostenere che la teoria darwiniana dell’evolufico proprio di ogni religione monoteista. Se Dio è zione è un dogma non supportato da fatti. Ci sarebbe buono e onnipotente, come mai nel mondo c’è tanta invece nel mondo biologico una irriducibile complessofferenza? Con questo problema, il “silenzio di Dio”, sità, cioè fenomeni naturali così straordinari, come il cioè come riconciliare Dio e il male presente nel cremimetismo animale e la coagulazione del sangue, che ato, pensatori e filosofi hanno lottato per millenni, indicherebbero come la vita non possa essersi evoluta dal libro di Giobbe in poi. C’è stato chi ha concluso senza l’intervento di un creatore. Di fronte a questi che il nostro, a conti fatti, resta il migliore dei mondi fenomeni, la scienza si dovrebbe arrendere. possibili, chi ha sostenuto che la reale volontà di Dio Ci sono varie obiezioni a questi argomenti. La più è incomprensibile alla mente umana, e anche chi ha semplice è che la scienza non pretende certo di aver argomentato che il male non ha essenza propria, ma è spiegato tutto, ma fenomeni che cent’anni fa non erasolo assenza del bene, soluzione questa che a me pare no spiegabili (per esempio la produzione di energia pochissimo convincente. Darwin, che dalla morte per fusione nucleare, o le cause della distrofia muscodella figlia Annie ha abbandonato la religione, non è lare) oggi lo sono, e quindi altri fenomeni oggi non [ 53 ]


è La Ginestra, scritta nel 1836, quando Darwin ventisettenne stava completando il suo viaggio intorno al mondo a bordo della Beagle, e raccoglieva le idee per la sua teoria (ma avrebbe aspettato ventitré dei quarantasei anni che gli restavano da vivere per decidersi a metterle per iscritto nell’Origine delle specie). Darwin e Leopardi non danno alcun credito a visioni ottimistiche della natura. Il gener nostro (e anche tutti gli altri generi, ci insegna la teoria della selezione naturale) non sta particolarmente caro a nessuna entità benevola. Ci sono leggi naturali a cui nessuna creatura si sottrae, e in termini correnti possono sembrare spietate; pretendere di incolparne Dio sarebbe stolto, ma lo è altrettanto pretendere di riconoscervi il disegno di un Dio benevolo. Nello sfidare la mentalità religiosa dell’epoca, tutta tesa nell’impossibile tentativo di dipingere il mondo intorno a noi come buono e sensato, Darwin propone un punto di vista lucido, moderno, utile anche oggi a chi volesse fare onestamente i conti con le durezze della condizione umana all’interno di una prospettiva religiosa. Avrebbe potuto farlo con altre parole. Queste, per esempio: Magnanimo animale non credo io già, ma stolto, quel che nato a perir, nutrito in pene, dice, a goder son fatto ma l’aveva già fatto Leopardi, sempre nella Ginestra.

Ferrara, restauratrici, 2007

compresi si potranno comprendere domani: purché, naturalmente, si continui a far ricerca e non ci si arrenda davanti alla complessità. Ma il vizio in cui cadono questi argomenti è più profondo. Se il mondo è davvero regolato da una razionalità superiore il cui disegno è davvero comprensibile, allora si torna a dover spiegare in quale mai disegno intelligente rientrino il cancro e le demenze senili, o perché un terremoto possa uccidere centinaia di innocenti: spiegazioni che nessun credo religioso monoteista ha mai fornito in maniera convincente. Nella sua lettera a Mary Boole, Darwin offre alla religione una via d’uscita a questo dilemma, sorprendentemente simile a quella proposta da un altro grande dell’Ottocento, Giacomo Leopardi: A queste piagge venga colui che d’esaltar con lode il nostro stato ha in uso, e vegga quanto è il gener nostro in cura all’amante natura

> Nota Una selezione delle Lettere di Charles Darwin è pubblicata in Italia da Raffaello Cortina Editore. Una raccolta più vasta, per chi sa l’inglese, è al sito http://www.darwinproject.ac.uk/; le lettere scambiate con Mary Boole sono la 5303, la 5307 e la 5310. Una breve biografia di Mary Boole, in cui si parla del suo rapporto con la matematica, l’omeopatia e i bagni di ghiaccio, è a questo sito: http://www.agnesscott.edu/ lriddle/WOMEN/boole.htm. Per la posizione attuale della gerarchia cattolica sull’evoluzione si può consultare il sito del cardinale Schönborn, http://www.cardinalschonborn.com/. È sul sito dell’Università Gregoriana la lettera di Giovanni Paolo II alla Pontificia Accademia delle Scienze, http://www.unigre.it/cssf/ it/Documenti/evoluzione.htm. A mio giudizio, il miglior libro italiano sull’insegnamento dell’evoluzione, e sul recente tentativo di introdurvi elementi religiosi, è Creazione senza Dio di Telmo Pievani (Einaudi).

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[LETTERATURA E SCIENZA] Quella sera di natale in cui Wiener, eliot e...

❚ La matematica come arte

Copenaghen (Danimarca), liutaio, 1987

di Pietro Greco

L

a matematica è, in senso stretto, un’arte. Anzi, un’arte raffinata. Che, proprio come la letteratura e la pittura e l’architettura, evolve nel tempo, modificando i suoi stili e i suoi canoni. Per questo la matematica può – deve – essere collocata a pieno titolo nella storia dell’arte. Questa serie di affermazioni, mezzo secolo dopo la pubblicazione del libro, The Two Cultures, con cui l’inglese Charles Percy Snow registra l’avvenuta separazione tra la cultura umanistica e la cultura scientifica, a molti appariranno così paradossali da confezionare, addirittura, una boutade. Se non fosse che appartengono all’americano Norbert Wiener, uno dei più grandi matematici del XX secolo, considerato – non a torto – il padre delle scienze cibernetiche. E non si tratta di affermazioni estemporanee. Ma riflettute – vissute – nel corso di svariati anni e proposte in maniera argomentata in un contesto culturale in cui, dal matematico francese Jac[ 55 ]

❝ La scienza è anche

intuizione. E insieme, l’analisi e l’intuizione; l’arte, la filosofia e la scienza, in un rapporto che Calvino avrebbe definito di ménage a trois, ci aiutano a penetrare la complessità opaca del mondo. ❞


ques Hadamard al fisico tedesco Albert Einstein, molti uomini di scienza in ogni parte del mondo si ponevano il problema del rapporto tra creatività scientifica e creatività artistica. E di come l’una agisca sull’altra, alimentandosi reciprocamente. Per comprendere fino in fondo il senso delle parole scritte da Wiener ottanta anni fa, nel 1929, conviene fare un salto e giungere al settembre 1967, quando Italo Calvino su The Times Literary Supplement affronta il tema del rapporto tra letteratura e filosofia. Questo rapporto è una lotta, constatava Calvino. Certo, lo sguardo di entrambe tenta «di attraversare l’opacità del mondo». Ma l’una, la letteratura, cerca di coprire con carne viva la varietà del mondo, l’altra, la filosofia, «ne cancella lo spessore carnoso» e la riduce a una «ragnatela di relazioni tra concetti generali». La lettura dei rapporti tra letteratura e filosofia proposta da Calvino sembra inserirsi in quell’alveo della separatezza tra ragione ed emozione individuata da Snow.

Ferrara, cantiere edile, 1987

Ma non è così. Non solo perché, a differenza di quanto vorrebbe Snow per la cultura umanistica e scientifica, «l’opposizione letteratura-filosofia non esige d’essere risolta». Ma anche e soprattutto perché il tentativo di attraversare l’opacità del mondo non si esaurisce affatto in un «matrimonio a letti separati» tra letteratura (o, più in generale, tra arte) e filosofia, «ma va visto come un ménage a trois» in cui entra anche la scienza. È mediante questo ambiguo rapporto fra le tre dimensioni della sua cultura che l’uomo moderno costruisce le mappe più utili ad attraversare l’opacità del mondo. Ora, come in un film, possiamo ritornare indietro nel tempo. Fino alla sera di Natale del 1914 quando a Londra due giovani filosofi americani – Norbert Wiener di anni 20 e Thomas Stearns Eliot di anni 26, il primo venuto a in Inghilterra per studiare con il logico Bertrand Russell e il secondo per seguire le lezioni dell’idealista Francis Herbert Bradley – discutono di arte, scienza e filosofia e della loro relativa capacità di penetrare la complessità opaca del mondo. L’occasione della discussione è data dall’articolo Æsthetics scritto per l’Encyclopedia americana in cui Wiener presenta una breve trattazione della filosofia estetica di George Santayana in opposizione a quella di Henri Bergson. Ma soprattutto da un saggio scritto dal filosofo allievo di Russell e intitolato Relativism. La scena è stata puntualmente ricostruita da Leone Montagnini in un libro, Le armonie del disordine, dedicato proprio a Norbert Wiener. In quel saggio il giovane ventenne critica la posizione del filosofo francese Henri Bergson secondo cui le scienze fisiche e la matematica trattano con nozioni assolutamente rigide, lontani dalle esperienze soggettive e inafferrabili all’intuizione. Non è vero, sostiene Wiener: il pensiero formale puro non esiste e persino nel caso della matematica, la più astratta e formale di tutte le discipline, l’uso dei simboli è condizionato del nostro pensare attraverso lo spirito del simbolismo. La scienza è anche intuizione. E insieme, l’analisi e l’intuizione; l’arte, la filosofia e la scienza, in un rapporto che Calvino avrebbe definito di ménage a trois, ci aiutano a penetrare la complessità opaca del mondo. Non stiamo riproponendo la parola complessità a caso. Wiener intuisce che la scienza, a causa dei suoi stessi progressi, è nel pieno di una grande transizione epistemologica. Che si sta passando da quella che lui definirà «la scienza degli orologi» alla «scienza delle nuvole», ovvero dalla scienza deterministica dei processi semplici e lineari alla scienza stocastica dei processi complessi e non lineari. La scienza si sta dunque dando gli strumenti formali per iniziare a penetrare, come

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GRECO

cerca di fare l’arte, la complessità opaca del mondo. E, in comune con l’arte, la scienza – in particolare la matematica – ha un principio guida estetico. Eliot quella sera di Natale del 1914 concorda con l’amico, che ha frequentato tra il 1911 e il 1913 a Harvard. Poi riprende la discussione in una lettera del 1915: «Sono piuttosto portato ad ammettere che la lezione del relativismo sia: evitare la filosofia e dedicarsi all’arte vera o alla scienza vera (poiché la filosofia è ospite non amata in compagnia di ciascuna)». Sembra quasi una profezia. Thomas Eliot abbandona la filosofia (o, almeno, il suo studio sistematico) per dedicarsi, con straordinario successo, alla poesia. Mentre Wiener lascerà lo studio sistematico della filosofia per dedicarsi, con altrettanto straordinario successo, alla matematica. Ma in entrambi il problema di penetrare la complessità opaca del mondo naturale resta. In Eliot questa tensione produrrà capolavori letterari, come The Waste Land. In Wiener produrrà capolavori scientifici, come il processo di Wiener (un modello per lo studio dei fenomeni casuali) e, infine, la teoria e la pratica degli studi cibernetici. Ma nella sua lettera all’amico Wiener, Eliot aggiunge: ho detto che c’è l’arte vera e c’è la scienza vera. Mentre la filosofia, come sosteneva George Santayana, è sostanzialmente critica letteraria. Occorre però evitare distinzioni così draconiane. Perché «ciò equivarrebbe a tracciare una linea netta, mentre il relativismo predica il compromesso». Non c’è, dunque, una linea netta che separa l’arte della scienza. E dalla filosofia, anche quando è ridotta a critica letteraria e critica scientifica. Lo sviluppo di queste idee che ha confrontato con Eliot porterà Norbert Wiener a scrivere, nel 1929, un articolo – Mathematics and art. Fundamental identities in the emotional aspects of each – in cui sottolinea come lui, ormai matematico di valore, e i suoi colleghi sono attraversati da uno spirito modernista del tutto analogo a quello delle avanguardie artistiche che caratterizzano i primi decenni del XX secolo: Il modernista dice “Quest’idea mi sembra interessante. Fammi vedere dove mi porta, anche se non posso darne alcuna prova definitiva”. Questa è la genesi del futurismo in pittura, del cubismo e di altre bizzarrie del genere, e di movimenti letterari come l’espressionismo. […] Non è un accidente che il periodo delle bizzarre teorie fisiche di Einstein sia anche il periodo della musica bizzarra, dell’architettura bizzarra, della letteratura bizzarra e di un teatro bizzarro.

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Wiener sostiene, dunque, che scienziati e artisti catturano spesso in maniera sincrona un comune spirito dei tempi. È interessante notare che molti anni dopo lo storico inglese Arthur Miller troverà conferma a queste precise parole di Wiener e (nel libro Einstein, Picasso: Space, Time, and the Beauty That Causes Havoc) individuerà nel pensiero del matematico francese Henri Poincaré alcune della cause comuni che nel 1905 portano un giovane tedesco di 26 anni, Albert Einstein, a elaborare a Berna la (bizzarra) teoria della relatività ristretta e a superare i concetti di spazio e di tempo assoluto in fisica e che nel 1906 spingono un giovane spagnolo di 26 anni, Pablo Picasso, a dare le prime pennellate a Parigi a un (bizzarro) quadro, Les Demoiselles d’Avignon, con cui inaugura la stagione cubista e manda in soffitto il concetto di spazio assoluto nelle arti figurative. Ed è interessante notare come, proprio negli anni in cui Wiener viene maturando le sue bizzarrie matematiche (sullo studio dei fenomeni stocastici), non solo Eliot affronti i medesimi tempi in campo letterario, ma lo stesso Einstein rifletta sul “personal struggle”, ovvero sul percorso soggettivo che ogni scienziato compie quando «la scienza sta per nascere» nel chiuso di un laboratorio o di una mente e non è ancora conoscenza condivisa e validata da un’intera comunità. Questa dei percorsi personali verso la conoscenza del mondo naturale è un’idea tutt’altro che pacifica in un mondo, quello della scienza, che, almeno quando “è nata e consolidata” costituisce, per usare le parole dello stesso Einstein: «ciò che di più oggettivo e impersonale gli esseri umani conoscono». Altri matematici, in questi anni, colgono aspetti comuni nella creatività artistica e scientifica. Come Wiener, anche il francese Jacques Hadamard coglie nell’intuizione l’atto creativo originario comune a scienziati e artisti, come scrive in un libro, Psicologia dell’invenzione in campo matematico, pubblicato negli anni ’40. Ma Norbert Wiener va oltre, nella ricerca delle analogie e delle origini comuni. Propone delle vere e proprie omologie tra arte e scienza. Per esempio sostiene, come rileva Leone Montanini, che la matematica è una vera e propria forma di espressione artistica. Perchè «il matematico, come il pittore e il poeta, è un creatore di forme». E perchè la matematica, come l’arte, ha una storia che non è la lineare aggiunta di nuove scoperte alle precedenti, ma una vera e propria evoluzione degli stili e dei canoni di ricerca. In Mathematician’s apology del 1941 Wiener individua tra fasi ben distinte della storia “stilistica” della matematica con una nettezza che ci consente di riassumerle in una piccola tabella:

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Fase

Periodo

Caratteri

Classicismo

Seicento e Settecento

Matematica pratica e concreta

Romanticismo

Ottocento

Rigore formale e invenzioni di nuove geometrie

Modernismo

Novecento

Libera sperimentazione logica attraverso i concetti di ordine, applicati a un materiale qualunque

La fase modernista consente al matematico di accettare la sfida dei tempi e gli consente almeno di cercare di descrivere la complessità opaca e caotica del mondo reale. E Wiener, infatti, guidato dal principio estetico della ricerca dell’ordine sotteso all’opacità della realtà

più caotica, realizza il suo progetto filosofico e fonda negli anni ’40 la cibernetica: il tentativo più avanzato della scienza moderna di andare oltre la descrizione degli orologi e di iniziare a descrivere le nuvole. Di cogliere, come il poeta, l’armonia nel disordine.

Ferrara, zuccherificio, 1987 [ 58 ]


tra arte, filosofia, scienza non la conoscevano Empedocle, Dante, Leonardo, Galileo, Cartesio, Goethe, Einstein, né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Michelangelo ❞ Primo Levi contro la teoria delle “due culture”

Guadalajara (Spagna) cameriera, 1988

❚ Una passione comune

G

di Bruno Arpaia

iusto cinquant’anni fa, in una famosissima conferenza all’università di Cambridge, Charles Percy Snow puntava il dito contro le «due culture», mettendo sotto accusa la scissione tra sapere umanistico e scientifico. Il problema sollevato da Snow era antico, ma non antichissimo: risaliva più o meno alla metà del XIX secolo. Era da allora, infatti, che la scienza aveva iniziato a essere considerata un ambito separato dalla cultura, invece che una sua parte fondamentale. Così, dalla metà dell’Ottocento, mentre per gli scienziati (o almeno per la maggior parte di loro) era stato «normale» frequentare la letteratura, la musica, l’arte e la filosofia, gli umanisti avevano cominciato a ignorare bellamente le teorie scientifiche. Oggi, a cinquant’anni dal discorso di Snow, il problema persiste e si è forse ancor più aggravato: nelle nostre società, si può essere considerati colti se si conoscono Dante, Mozart, Caravaggio o Platone, ma l’ignoranza su Einstein, Heisenberg o Darwin non viene ritenuta rilevante per determinare il nostro grado di cultura. Del resto, basta guardare al modo in cui molti mezzi di comunicazione, italiani e non solo, si occupano di scienza: scarsità di informazioni, approssimazione, pressappochismo, preferenza per le «notizie» spettacolari, spesso distorte o non verificate, confinamento degli eventi scientifici in «ghetti» più o meno dorati, quasi che la scienza non sia a pieno titolo cultura e non palpiti con forza nella nostra vita di tutti i giorni, soprattutto nella nostra epoca e nella nostra società, a ragione definita «società della conoscenza». [ 59 ]

[LETTERATURA E SCIENZA]

❝ La distinzione


Insomma, a parte tutte le possibili critiche (a volte giuste e pertinenti) rivolte a Snow, resta il fatto che ancora oggi le «due culture» non si parlano o si parlano troppo poco. Questo è vero soprattutto in Italia, dove l’idealismo crociano e gentiliano, anche sotto travestimenti marxisti, ha contato e conta moltissimo. Così, la separazione e l’incomunicabilità tra i due ambiti hanno raggiunto il proprio apogeo negli scorsi decenni e soltanto ora sembrano iniziare la loro parabola discendente. Umanisti e letterati da una parte, scienziati dall’altra, sono caduti in balìa dei pregiudizi reciproci, che si sono incrostati nell’immaginario e vi si sono arroccati e fortificati come in una cittadella quasi inespugnabile. È all’assalto di quella cittadella che bisogna andare. Perché solo se si riesce a scalzare quei pregiudizi dalle profondità dell’immaginario collettivo si riuscirà a restituire alle due culture il loro giusto rapporto. Anzi, di più: bisogna spingersi oltre, perfino oltre il concetto di «terza cultura», abbozzato da Snow e poi ripreso da quel gran filibustiere intelligente che è John Brockman, il creatore di Edge. Già, perché non è soltanto vero che, insieme, le arti e le scienze formano la nostra cultura; è vero anche che esse possiedono una sostanziale unità, sono una cosa sola. Lo ricordava Primo Levi: «La distinzione tra arte, filosofia, scienza non la conoscevano Empedocle, Dante, Leonardo, Galileo, Cartesio, Goethe, Einstein, né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Michelangelo». Per accorgersene, basta scavare appena un po’ sotto l’apparente diversità. La prima cosa che si scoprirà è che, per quanto strano possa sembrare, tanto la scienza quanto le discipline umanistiche si fondano sulla narrazione, sul racconto. Come ha scritto Giuseppe O. Longo, «l’arte, il mito, la filosofia, la scienza, la tecnica», attraverso diverse forme di narrazione cercano, «in ultima analisi, di ricostruire il mondo, o meglio di sostituire al mondo “dato” un mondo artificiale, più semplice e a misura d’uomo». Cercano, insomma, di «mettere in forma», di ordinare almeno un po’ il caos e la complessità della realtà nella quale siamo immersi, per ren-

Bologna, officina Ferrovie dello Stato, 1988 [ 60 ]


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ARPAIA

derla leggibile senza svilirla, senza ridurla a «modelli» che poi, quasi inavvertitamente, ne prendano il posto. Io credo che nel loro Dna narrativo ci sia in nuce la lotta al riduzionismo. E infatti, sempre secondo Longo, «anche la scienza è fatta di racconti, benché si sia creata un linguaggio suo proprio, dal quale ha cercato di eliminare l’ambiguità, e si sia concentrata su classi di fenomeni e non su eventi singoli». Di conseguenza, scienza e, per esempio, letteratura, hanno molte più cose in comune di quanto non appaia a prima vista, checché ne pensino scienziati e letterati «duri e puri». Ma c’è di più, molto di più. Senza che gli umanisti se ne accorgessero, il XX secolo ha trasformato radicalmente la scienza e l’idea che gli stessi scienziati ne hanno. Prima della rivoluzione einsteiniana e di quella scatenata dalla meccanica quantistica, la scienza appariva «esatta», meccanicistica e deterministica: fredda, insomma. Poi la relatività e la quantistica ci hanno via via consegnato un modello scientifico basato sull’indeterminazione e l’incertezza, sulla verità come probabilità o come possibilità. La scienza, insomma, si è trasformata, abbandonando la presunzione che le condizioni iniziali, se perfettamente note, possono sempre portare alla conoscenza esatta dell’evoluzione di un sistema. Contemporaneamente, ambiti prima assegnati alle discipline umanistiche, come i sentimenti o le emozioni, vengono sempre più letti e spiegati alla luce delle teorie scientifiche. Per usare le parole di Tommaso Maccacaro, «potremmo dire che la scienza, con le sue indeterminazioni – con le sue incertezze – si fa “umana” mentre l’umanesimo si fa “scientifico”». Ma non è finita. Come ha notato Ernesto Carafoli, mentre una volta si riteneva comunemente che la scienza perseguisse la verità mentre l’arte mirasse alla bellezza, oggi si può tranquillamente affermare che la ricerca sia della bellezza sia della verità costituisce un forte punto di contatto tra le “due” culture. Non solo di bellezza, infatti, vive l’arte. Come non pensare alle dichiarazioni di Paul Klee, secondo il quale «l’arte non riproduce il visibile, ma lo rende visibile», o a quelle di Picasso, per cui «l’arte è una menzogna che ci permette di giungere alla verità»? Anche la finzione romanzesca è un’altra forma di verità. Come ha scritto José Manuel Fajardo in calce al suo romanzo Al di là dei mari, essa «rende credibile l’immaginario, trasforma la finzione in una forma di conoscenza». Per converso, la ricerca della bellezza è una componente importante, anzi necessaria, della cultura scientifica. Sembrerà strano, ma è proprio così. Per esempio, ogni

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matematico che si rispetti è pronto a sostenere che le equazioni che studia o inventa non sono solamente esatte o sbagliate, ma sono anche belle o brutte. Di più: come affermava il grande Paul Dirac, la bellezza di un’equazione è più importante della sua esattezza, nel senso che se un’equazione è bella, prima o poi si dimostrerà esatta. E non si tratta solo della matematica: il concetto è generale, e ne fa testo una famosa affermazione di Jacques Monod, per il quale una bella teoria può anche non rivelarsi esatta, ma una brutta teoria sarà sempre sicuramente sbagliata. Insomma, come ha scritto John Banville, «a un certo livello, essenziale, l’arte e la scienza sono talmente vicine che è difficile distinguerle». Anche perché c’è un ulteriore ambito in cui l’impalcatura teorica delle «due culture» crolla come un castello di carte alla prima bava di vento, ed è quello dei processi creativi nelle varie discipline. Apparentemente, da una parte c’è il cosiddetto «metodo scientifico», dall’altra l’ispirazione. Ma è proprio così? Mentre molti non addetti ai lavori credono che scrivere un romanzo o dipingere un quadro siano attività per così dire «libere» e svolte quasi in preda a uno stato di trance creativo, allo scatenamento dell’immaginazione, chi le pratica sa fin troppo bene che è esattamente il contrario. Basta leggere le lettere di Flaubert a Louise Colet per vedere quanta disciplina, quanto sforzo, quanto lavoro ripetitivo e quanta concentrazione ci siano dietro ogni pagina di Madame Bovary. O basta ricordare le parole di García Márquez sul lavoro dello scrittore: dieci per cento di ispirazione e novanta per cento di traspirazione, di sudore. Qualunque creazione, qualunque invenzione, insomma, non nasce dalla semplice fantasia, inconsapevole e sfrenata, ma dalle costrizioni. La lunghezza dei capitoli di Dickens era determinata dalla necessità di stamparli a puntate sul giornale. Una simile capacità di mettere a frutto la pressione della materia si avverte anche nelle opere di Michelangelo, il quale, come ricorda Sklovskij, amava scegliere blocchi di marmo danneggiati, perché in questo modo conferiva pose inaspettate alle sue sculture E il lavoro dello scienziato? Non è molto diverso. Farò solo due esempi. Il primo è quello del grande matematico e fisico Henry Poincaré. È lui stesso a raccontare di essersi impegnato intensamente per lunghi periodi, in modo deliberato e cosciente, nella ricerca di quelle che chiamò le funzioni fuchsiane, trovandosi però sempre di fronte a un vicolo cieco. Poi, un giorno… «Partii da Caen, per partecipare a un’escursione geologica sotto gli auspici dell’École des Mines. Le vicende

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del viaggio mi fecero dimenticare il mio lavoro matematico. Giunti a Coutances, salimmo su un omnibus per andare in qualche posto. Quando misi piede sul predellino, mi venne l’idea, alla quale nulla nei miei pensieri precedenti sembrava aver preparato la strada, che le trasformazioni da me usate per definire le funzioni fuchsiane fossero identiche a quelle della geometria non euclidea. Non verificai l’idea; non ne avrei avuto il tempo mentre stavo prendendo posto sull’omnibus. Continuai una conversazione già cominciata in precedenza, ma mi sentivo perfettamente certo. Al ritorno a Caen verificai con comodo il risultato». Un’illuminazione improvvisa, ma dopo mesi e mesi di applicazione continua e cosciente. Il secondo esempio è quello di João Magueijo, cosmologo portoghese in forza all’Imperial College di Londra. Nel suo libro Più veloce della luce, Magueijo scrive: «Nelle prime fasi di sviluppo di una nuova idea, in quella zona grigia in cui le idee non sono ancora né giuste né sbagliate, ma soltanto ombre di “possibilità”, ci comportiamo piuttosto come artisti, lasciandoci guidare dal temperamento e dal gusto. In altre parole, partiamo da un’intuizione, da una sensazione, o perfino dal desiderio che il mondo funzioni in un unico modo, dopodiché procediamo seguendo quel presentimento, e spesso vi restiamo ostinatamente attaccati anche molto dopo che i dati indicano che probabilmente stiamo conducendo noi stessi e coloro che credono in noi in un vicolo cieco. Alla fine ci salva la sperimentazione, che svolge il ruolo di un giudice supremo e dirime le controversie una volta per tutte».

Casstelsardo (Sassari) pastore, 1987

“Nelle prime fasi di sviluppo di una nuova idea, in quella zona grigia in cui le idee non sono ancora né giuste né sbagliate, ma soltanto ombre di “possibilità”, ci comportiamo piuttosto come artisti, lasciandoci guidare dal temperamento e dal gusto” [ 62 ]

Come si vede, non c’è quasi differenza tra i due ambiti. In entrambi, bisogna essere contemporaneamente esatti e ricchi d’immaginazione. Il grande fisico e cibernetico napoletano Eduardo Caianiello affermava: «Non esiterei a sostenere che la scienza è fatta di una mescolanza inestricabile di arte, tecnicismi e metodo». Qualunque scrittore degno di questo nome non esiterebbe a sostituire la parola “scienza” con “letteratura”, a dire lo stesso di un suo romanzo. Perciò, a dispetto del senso comune purtroppo affermatosi nell’ultimo secolo e mezzo o giù di lì, non sono poi tanto diversi gli occhi con cui gli scienziati e gli artisti guardano il mondo: se uno scrittore usa ingenti dosi di immaginazione, un fisico non è da meno. Anzi. Un qualunque fisico teorico, oggi, ha forse molta più immaginazione di molti narratori. Se così non fosse, sarebbe stato impossibile elaborare le arditissime ipotesi che sono alla base di molta della fisica del XXI secolo, quella che viene prefigurata oltre il Modello Standard, e che, solo una decina d’anni fa, sembravano confinate nel regno della fantascienza. E del resto, come è accaduto ai tempi di Galileo e Keplero, e poi in quelli di Einstein o di Schrödinger, l’indagine scientifica sulla realtà ha spesso completamente sovvertito anche l’immaginario degli uomini comuni nella loro vita di tutti i giorni, mentre l’immaginario letterario e artistico ha fornito molti spunti ai fisici per comprendere più a fondo la realtà. Perciò la passione e l’immaginazione che spingono me a scrivere romanzi e un fisico a esplorare gli angoli più remoti della materia, dello spazio e del tempo, mi sembrano intessute della stessa sostanza, dello stesso desiderio di conoscenza, delle stesse profondissime domande sulla nostra vita in questo sperduto pianeta di una piccola stella di una galassia periferica del cosmo.


[DONNE, UOMINI E ALTRI] ursula le guin e la forma del romanzo

❚ La teoria della sporta Ferrara, carcere, 1987

di Maria Rosa Cutrufelli

U

rsula Le Guin, che nel nostro paese è conosciuta soprattutto per i suoi romanzi di fantascienza, è anche una studiosa di teoria narrativa. In un saggio uscito nel 1989 (‘The Carrier Bag Theory of Fiction’, Grove Press, New York) scrive, citando l’antropologa Elizabeth Fisher, che “il primo strumento culturale fu probabilmente un recipiente atto a contenere i prodotti della terra”. Una sporta della spesa, insomma. Non quell’osso umano che l’Uomo-scimmia, in “Odissea nello spazio” (Kubrick), lancia in aria dopo il suo primo omicidio e che, nel film, diventa il simbolo dell’evoluzione della specie. Sono due visioni differenti del mondo che non si contrappongono soltanto in una ‘scienza umana’ come l’antropologia, ma anche nell’arte e nel modo del racconto. Dal paleolitico al neolitico alla preistoria, dice ancora Le Guin, gli uomini per restare in vita mangiavano principalmente quello che veniva raccolto. Insomma, più che andare a caccia, raccoglievano semi, frutti, radici. Ma [ 63 ]

❝ Perché le

eroine di cui si scrive in narrative che vengono definite epiche, sono a tutti gli effetti donne non mimetiche con gli uomini. ❞


Ferrara, zuccherificio, 1987

sarebbe, per l’appunto, quella della sporta. Una spepoi ecco i cacciatori di mammut, che tornano carichi cie di ‘sacchetto di medicina’ della tradizione indiana, di carne e, soprattutto, di storie: “non fu la carne a fare “contenente cose che stanno in un rapporto particolare la differenza, furono le storie.” e saldo fra loro e con noi stessi”. Ed è ovvio che, in una È allora, scrive Ursula Le Guin, che nasce l’Eroe. E, di simile sporta, l’Eroe non appaia al suo meglio. “Lui ha conseguenza, la storia dell’Eroe. Dell’assassino che atbisogno di un palco, un piedistallo o un pinnacolo. Lo tacca, colpisce, uccide, violenta e che solo così si sente metti dentro una sporta ed ecco che assomiglia a una ‘umano’. Il vero problema, secondo la scrittrice, è che patata o a un coniglio.” “noi tutti ci siamo lasciati coinvolgeÈ per questo, conclude Le Guin, re nella storia dell’assassino, e rischiache mi piacciono i romanzi: “anzimo di finire con quella.” Perciò è urPossibile, mi gente cercare il soggetto e le parole ché Eroi contengono persone”. O sono detta, che almeno così dovrebbe essere, per“dell’altra storia, la storia non ancora siamo ancora ché invece il cacciatore di mammut narrata, la storia della vita”. si rifiuta di starsene dentro una borNon è facile, perché l’Eroe, “spinto al paleolitico? com’è dalla sua natura imperialistisa della spesa. Dove molte scrittriPossibile che ca”, vorrebbe governare ogni cosa. ci vorrebbero metterlo. Essendo le gli uomini non donne, per storia e non per natura, E principalmente il modo di rapsia ben chiaro, più abituate alla racpresentare il mondo. La narrazione leggano le donne colta che alla caccia. del mondo. Tutto – “l’abilità degli (a parte qualche artigiani, i pensieri dei pensatori, le Ecco, grosso modo, come una teoria antropologica è diventata un canzoni dei cantanti” – e tutti, donrara eccezione), divertimento letterario. Una tene, uomini e bambini, tutti gli altri mentre le donne oria narrativa. Che mi è tornata ‘personaggi’ devono essere al servizio continuano a del racconto dell’Eroe. E pazienza se in mente questa estate, quando le questa non è loro storia, ma la sua. amiche della ‘Società delle letterainseguire gli te’ hanno dedicato il loro conveMa qual è la forma più ‘propria’ del uomini per essere, gno annuale all’epica. Titolo del romanzo? almeno, viste? convegno: “Perché eroina non è il Non questa, dice Ursula Le Guin. La forma più congeniale al romanzo femminile di eroe.” [ 64 ]


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AUTORE

Per spiegare la loro tesi, le organizzatrici sono partite da due domande: “Esiste un’epica femminile? E in quali scritture, in quali narrative prende forma?” La risposta (provvisoria) era: “Pensare a un’epica femminile è ridefinire un’esperienza, vederne mutamento e trasformazione… Perché le eroine di cui si scrive in narrative che vengono definite epiche, sono a tutti gli effetti donne non mimetiche con gli uomini.” E aggiungevano, parlando della critica letteraria in genere: “è come se, a proposito dell’epica, non si fosse andati oltre l’antieroe, maschile”. Poi, naturalmente, tiravano in ballo i Wu Ming, il loro “New Italian Epic” (Einaudi, 2009) e la loro definizione di ‘epica’. Così sono andata a riguardarmi il libro, e confesso che solo a questo punto mi è parso di capire perché, in quelle pagine (per me molto intriganti), s’incontra un numero davvero irrisorio di scrittrici. Goliarda Sapienza, se ben ricordo, e fra gli ‘antenati’, Anna Banti. Possibile, mi sono detta, che siamo ancora al paleolitico? Possibile che gli uomini non leggano le donne (a parte qualche rara eccezione), mentre le donne continuano a inseguire gli uomini per essere, almeno, viste? Eppure la cosa più interessante oggi, anche in letteratura, è proprio il confronto fra visioni ed esperienze diverse. Tra le tante differenze che convivono in questo nostro mondo. E com’è noto, o come dovrebbe esserlo, la differenza di sesso è quella che le attraversa tutte. Perché dunque ci ignoriamo a vicenda, con una testardaggine degna dei cacciatori di mammut?

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E a questo proposito… Se ho letto con autentico interesse lo “Stabat mater” di Tiziano Scarpa, è anche perché volevo confrontarlo con “Lavinia fuggita” della Banti. Non per partecipare al gossip estivo sulle eventuali ‘copiature’, per carità. D’altronde sono convinta che si scrive sempre sopra un palinsesto già scritto, come diceva una scrittrice – o uno scrittore, non ricordo. No, m’interessavano proprio le somiglianze e le differenze narrative (formali e di contenuto) fra un giovane uomo di oggi e una donna nata nella prima metà del secolo scorso. Ed ecco che, nel leggere Tiziano Scarpa, mi salta agli occhi il seguente paragrafo: “Perché non esistono musiciste? Perché le donne non compongono musica? Perché si accontentano di lasciarla risuonare dentro il loro animo, a tormentarle, a corrodere i loro pensieri? Perché non se ne liberano buttandola fuori?” Allora ho pensato: be’, deve essere proprio vero. Lui non l’ha letta Anna Banti. Così ha dichiarato e così dev’essere, perché altrimenti avrebbe saputo qual è la risposta a questa domanda. Anna Banti è proprio da lì che parte, dalla tragedia di un talento femminile che non può esprimersi perché la legge lo vieta. A Venezia, in quell’epoca, le donne non potevano comporre musica, ma solo eseguirla. Però gli scrittori, purtroppo, anche i più bravi, non conoscono la storia delle donne. Presumono, a volte, di conoscerla. Ma per sfortuna loro – e anche nostra – non è così.

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Almagro (Spagna), rigattiere, 1988

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[CONFRONTI] Leningrado (URSS), pompiere , 1989

a proposito di “bianco e nero”: una risposta al primo numero di “letteraria”

❚ L’Impossibile io di Salvatore Jemma

P

er iniziare, e uscire dalle pervadenti notazioni solo sociologiche che sempre più soffocano, nel discorso contemporaneo, il tentativo di formulare una riflessione tenacemente politica, va detto con forza che la questione sollevata in molti dei contributi apparsi sul primo numero di “Letteraria” si presenta innanzitutto come un problema di lotta politica assente, frantumata, invisibile ma vividamente presente nella sua fantasmaticità, sostituita dal tentativo sempre presente verso le minorità assolute, di creare loro una zona concentrazionaria alla quale le moderne città e metropoli fanno (e quindi danno, donano volentieri) spazio, cedendo una parte della propria comunità presunta1 e, nel proprio essere ciò, soprattutto cedendo all’immagine dell’assedio, all’ossessione di questo. In tutto ciò si aggirano le differenze etniche e socioeconomiche, che sono sempre differenze che incarnano lo scarto politico (lo scarto verso la polis) [ 67 ]

❝ E se l’allocutivo “tu” usato in realtà fosse la ricerca di uno spazio che non è dato in altro modo? ❞


nei confronti della comunità presunta, impersonate dalle “figure” oppure ombre che percorrono le strade o i luoghi di lavoro più o meno legali e legalizzanti, a cercare gli estremi per riuscire a vivere una vita. Senza togliere nulla all’orrore concentrazionario storico dei vari lager (ma lo si dovrebbe estendere, quell’orrore, fino ai giorni nostri), abbiamo in genere morti che camminano tra di “noi”, non per ora destinati a uno sterminio per estenuazione fisica (sebbene questo avvenga sempre e comunque), ma attraverso lo stesso meccanismo di privazione di ogni soggettività e di ogni possibile relazione con la presunta comunità entro la quale si sperdono e, quindi, privati di ogni relazione che non sia per l’appunto quella derivante dalla carità e dalla pietà o qualsiasi altro sentimento anche pregevole, ma di quelli che si ritiene di concedere per grazia del sovrano in genere a chi è posto in una situazione di assoluta minorità. Le città sono piene di questi morti in vita, di questi morti che camminano, privati non solo della dignità per una vita, ma della stessa soggettività del proprio essere (o tentare di essere) nella vita; per non poter essere corpi politici (zoon politikon, si sarebbe detto una volta) sono null’altro che carne esposta a ogni possibile abuso. E se non sei che questo, allora quale pronome personale puoi avere? e quale puoi dare o esprimere? Se non hai il tuo “io”, nel senso che non puoi esporlo essendo altro che polvere sparsa, quale pronome allocutivo puoi usare se non quello della minorità linguistica? Non credo che il pronome usato dall’obnubilato commesso o dallo sgangherato adolescente, pieni del proprio status identitario (reale o meno che sia), appartenga alla stessa categoria di coloro che ne sono privati. Direi che nel caso di chi è pienamente riconosciuto nella presunta comunità di riferimento, il “tu” non rappresenta la messa in atto «dell’io ipertrofico nell’espressione linguistica dei rapporti quotidiani con l’altro», come afferma Bertoni nel suo scritto, piuttosto mi pare esprimere l’illusione di un antagonismo debellato, illusione che nasce dal pensiero atrofizzato e veicolato anche per mezzo degli spot pubblicitari, sì che ogni barriera appare spezzata soprattutto per l’assenza di una vera lotta politica e, quindi, assenza di un vero contendente o nemico contro cui scontrarsi, sì che ogni fronte appare sciolto davanti all’unico obiettivo comunicativo che rimane e che sappiamo essere quello del consumo coatto. Questa (falsa) assenza di una distanza, che sottolinea una (vera) assenza della lotta politica, la possiamo verificare anche considerando quei micro o macro cosmi politici o produttivi, all’interno dei quali le formalità

relazionali sembrano sciogliersi sempre più nell’allocuzione pronominale di seconda persona singolare, con la quale si vuole intendere (o dare da intendere) che ogni contrapposizione è già stata risolta proprio nel nucleo “comune” di quel “tu” aggregante. Ovviamente, non è un segreto per nessuno ma ribadirlo forse non guasta, la soluzione delle contrapposizioni viene sempre presa in un altrove dove quel “tu”, se è usato, ha un efficacia completamente diversa. È anche per questo che si dovrebbe riacquistare comunque uno spazio relazionale (che è, o può diventare, spazio politico) nel quale dimenticare, spazzandola via, la falsa coscienza del “siamo tutti sulla stessa barca” o cose del genere, riaffermando così che c’è qualcosa da conquistare attraverso una dura contrapposizione. Per tornare al supposto spazio comune e a ciò che vi si aggira “clandestinamente”, la domanda linguisticamente contratta “[tu] vuoi comprare?” o qualsiasi altra frase che contenga un approccio al “noi” che si rivela come un contatto linguisticamente diretto, questa domanda induce al pensiero di una minorità linguistica per l’incapacità di dominare intanto una lingua e poi un linguaggio, nello spazio sociopolitico dove questi “clandestini” si muovono. Così quel pronome sembra sottolineare l’impossibilità al superamento della linea che separa la zona concentrazionaria in cui queste figure sono relegate, da quella di uno spazio dove l’espressione del proprio “io” potrebbe avvenire (o tentare di avvenire), sì ché la zona che possiamo definire di minorità non può che regredire a luogo di pura bestialità (è lo stesso meccanismo che dominava il rapporto tra aguzzini e internati nei lager e che ancora domina ogni luogo ove si costituisca tale regressione). Questo è ciò che ci appare, il testo leggibile che si svolge sotto i nostri occhi. Infatti, quanto appena detto è in parte vero e in parte, se non proprio falso, troppo regolare per non mancare di qualcosa, di una domanda soprattutto; la domanda dovrebbe essere: il significante di quel “tu” è veramente ciò che noi percepiamo? quanto c’è di vero in quel “tu” e, soprattutto, cosa significa veramente? senza scomodare proposizioni lacaniane o altro, sembra abbastanza evidente che qui il significante dell’allocutivo “tu” non conduce certo a quel significato che il “noi” della presunta comunità si aspetta, percependolo solo come minorità o, tutt’al più, come richiesta di benevolenza. Direi invece che il significante “tu” porta soltanto al significante “noi” di uno spazio da costruire, e che questo induce a pensare a qualcosa di più complesso di un problema di minorità grammaticale, se è vero che la lingua è innanzitutto il primo passo verso l’affermazione di

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AUTORE

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Copenaghen (Danimarca) top-less bar, 1987

una soggettività politica. E se l’allocutivo “tu” usato in realtà fosse la ricerca di uno spazio che non è dato in altro modo? Se fosse in gioco la costruzione di uno spazio conquistato al prezzo della distanza, ma questa volta decisa e praticata dalla minorità? Se quindi, con quell’atto di “presa di distanza”, fosse posta la costituzione dell’unico spazio, nella situazione di identità negata, entro cui ricostituire il proprio “io” altrimenti impossibile? Slavoj Žižek afferma che nei momenti di crisi politica tra stati, l’elemento della cortesia e delle forme che la regolano è vitale per la risoluzione delle eventuali vertenze in atto; in mancanza di questo, salta la comunicazione e allora ogni possibile fraintendimento può generare l’accelerazione della crisi stessa con conseguenze talvolta fatali2. Non è la stessa cosa tra le persone? In questo caso, l’arretramento delle regole attraverso quel “tu” produrrebbe, da parte di chi è clandestinamente privato del proprio “io”, un allontanamento progressivo dallo spazio “noi” della presunta

comunità, e in quella distanza si costituirebbe la possibilità di costruire una coscienza politica della propria minorità: pervertendosi, quel “tu” nega ciò che al “noi” della presunta comunità sembrava affermare. Abbiamo davvero bisogno di uno sguardo perverso, nel senso di una capacità di deviarlo per osservare le cose che ci si presentano e, quindi, vederle sotto una luce più sfrigolante. La perversione, qui, sta nel fatto che ancora non riusciamo a vedere e, quindi, a far emergere l’immenso potenziale di resistenza e di lotta politica che è insito in queste dinamiche. Nella sempre più accentuata contrapposizione tra lavoratori migranti e lavoratori indigeni, ad esempio, bisognerebbe riflettere sul fatto che, in questo caso, l’eterogenesi dei pronomi svolge un effetto di ribaltamento e questo porta a un potenziale di scontro politico; la fantasmaticità che deriva dall’“io” impossibile del lavoratore migrante si consolida, attraverso la zona e lo spazio conquistato (o che si vuole conquistare) nella distanza

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ottenuta attraverso l’allocutivo “tu”, in un “noi” che fa di quello spazio la zona franca e di potere che è proprio di tutte le minoranze: coesa e politicamente forte all’interno, temibile e socialmente oscura vista dall’esterno. Questo “noi” fantasmatico si contrappone al “noi” della presunta comunità, ma quest’ultima essendo frantumata dai suoi propri interessi particolari, ne viene attraversata come se fosse un aggregato di singole individualità. Questa situazione sfocia, come si è detto, nella logica dell’assedio e viene continuamente generata e rinforzata attraverso misure mirate a sostituire la lotta politica e di classe con quella tra etnie e razze. A questo punto, non si può non considerare l’argomento del razzismo quale elemento cieco che si sostituisce, come si diceva, alla lotta politica e di classe, proprio per non sminuire né le leggi dell’economia, magari quelle ben studiate dalla vecchia talpa né la questione del razzismo, che ha bisogno di essere verificato in modo non generico, ma con attenzione alle dinamiche sociali dalle quali è generato e che di suo genera, evitando il rischio di cadere in un volontarismo parrocchiale poco convincente. Se, a proposito dell’azione “letteraria” sul politico, ci si fregia del titolo di testimoni, come asserito da Wu Ming nello scritto che porta questa firma, e si dà alla propria azione (sperata e convintamente prospettata) il nome di testimonianza, allora mi pare che si corra il rischio di cadere in un’affermazione totalmente generica: lo scrittore non è chiamato a fare questo (o soltanto questo)3, a testimoniare sono chiamati testi che si presume descrivano in modo giuridicamente asettico ciò che è successo. È preferibile per uno

scrittore scrivere magari sbagliando, ma con la convinzione che il suo agire non descrive, costruisce invece oppure ribalta rivolta scassa fruga sbatte, insomma scava la fossa per qualcuno o qualcosa. Lo scrittore (l’artista in generale) avrebbe il compito di guardare le cose in modo rivoltato, secondo una prospettiva che non sia quella usuale o usabile; avrebbe l’obbligo di forzare lo sguardo e l’intelletto verso una forma non catturabile, altrimenti il lavoro è già fatto e definito dall’immensa macchina mass mediatica che ci avvolge come una confortevole e calda coperta. Questo può spesso tramutarsi in uno scomodo apparato di pensiero, in un isolamento dal tutto e da tutti, può ingabbiare nella paranoia da sconfitta, ma è l’unico modo per ricercare (o almeno tentare di farlo e poi fallire e fallire meglio) forme diverse del ragionamento e del mondo dove questo dovrebbe abitare. Per intanto: si dovrebbe precisare la questione dell’economico secondo un parametro che mi pare ne coglie l’essenza, soprattutto nella situazione odierna: sempre Žižek, citando una formula deleuziana, rileva che «l’economia esercita il suo ruolo di determinazione della struttura sociale solo “in ultima istanza” (...) la sua presenza è puramente virtuale, è la “pseudo-causa” sociale, ma appunto in quanto tale, assoluta, non relazionale, la causa assente, qualcosa che non è mai al “proprio posto”»4, insomma, è l’immanenza sotto la quale si gioca la lotta politica. La questione della politica e dell’immanenza dell’economico viene poi sintetizzata con un’affermazione fulminante, che dice tutto quello che c’è da dire su questo: «c’è la politica perché l’economia è “non tutto”»5. Non c’è dubbio che il capitale affondi le sue mani nella complessità economica, che ne tragga profitto, ma è pur vero che le dina-

Budapest (Ungheria), operatrice[di70Borsa, ] 1992


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JEMMA

miche di una possibile lotta politica possono far intravvedere le prospettive di lotta di classe. Se a proposito dell’esplosione del razzismo, leghista ma non soltanto ché questo sentimento trova largo spazio in tutti gli strati della società italiana, valutiamo questo solo come una caduta dei valori (caduta che, vorrei ricordare, data da molto e molto prima degli spargiveleno leghisti) o, addirittura come il ferigno disegno del capitale internazionale e finanziario (il quale, in realtà, ha bisogno di allargare il proprio mercato sul quale piazzare merci, non di restringerlo), allora perdiamo oltre che il senso della misura anche il senso della cosa. Proviamo a vederla, questa esplosione di razzismo, come una sorta di resistenza che non ha chiaro l’obiettivo, come una specie di ribellione che non sa dove andare a parare, come la necessità di trovare un bandolo al quale attaccare una ricerca di un senso, senza trovare altro che il vuoto prodotto dalla mancanza di lotta politica, situazione questa che caratterizza oramai da decenni la società italiana o quello che ne resta. A tutto ciò, nelle politiche legalitarie e securtarie, destra e sedicente “sinistra” se non si inseguono tendono comunque ad appaiarsi, anche se su piani diversi e, direi, invertiti: la destra scavalca le istituzioni e si affida o si rivolge sempre più spesso a una sorta di volontarismo (o interventismo) popolare; la sedicente “sinistra” spinge affinché le forze istituzionali vengano rafforzate, ma il messaggio resta identico per entrambe le parti: siamo meno sicuri. In tutte le situazioni di assedio o presunto tale, l’ossessione sta nella ripetizione della costante minaccia, vera o meno che sia, di quello che incombe o incomberebbe. E se per spezzare questa incombenza fosse necessario affermare che, in mancanza di una vera e propria lotta politica e lotta di classe, sostituita questa dallo scontro etnico, non c’è nessuna nazione da preservare, nessun popolo da salvaguardare, né italiano né tantomeno padano o altro che voglia o senta di essere, né una comunità e, quindi, nessuna legalità comune da garantire? si eviterebbero i pomposi quanto fastidiosi proclami di (falsa) identità nazionalistica e le ridicole sparate leghiste di nazionalismo in sedicesimi, e così si potrebbe passare a una (si spera) fase di riflessione su cosa debba e voglia essere questo Paese e su ciò che deve essere ricostruito, rimettendo in moto nuovi movimenti di riscatto anche attraverso una lotta dura e senza quartiere, liberando le menti dall’ossessione dell’assedio, ché quest’ultima è, direi in senso assoluto, il vero elemento dell’odierno razzismo.

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> Note 1 Dico “presunta”, poiché non mi pare che ci siano caratteristiche, per mancanza di valori comuni, tali da definire oggi lo spazio sociale che si chiama Italia come una comunità politica che invece risulta il più delle volte ideale o idealizzata; a meno di non voler scambiare la comunità politica con il suo attuale e terribile “personale politico” e lo spazio sociale quello che esce da talune tronfie dichiarazioni patriottarde, più il frutto di una becera risposta a certe spinte separatiste, che comunque si qualificano solo come espressione del peggior nazionalismo. 2 Slavoj Žižek, In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale, Milano, Ponte alle Grazie, 2009, pp. 268-269. 3 Neppure la funzione di uno scrittore, e di ciò che scrive, è così chiara e scontata come invece sembra pensare Trevisan in un suo articolo apparso su “la Repubblica”, quando afferma «che la funzione di un qualsivoglia scritto sia di essere leggibile» (Vitaliano Trevisan, Le inutili denunce dei nostri scrittori, “la Repubblica”, 21.07.2009, p. 37). Leggibilità e illeggibilità non fanno parte del senso nascosto al quale dovremmo appellarci quando, sia l’una che l’altra, ci appaiono troppo evidenti e schiaccianti? Un testo (o una situazione sociale) che appare leggibile rimanda a una sua nota oscura, così come un testo (o una situazione sociale) illeggibile ci richiama alla sua parte chiara e luminosa; ciò che viene nascosto e lo steso atto del nascondimento dovrebbero entrare a far parte di una più attenta visione di quel testo (o di una situazione sociale), sia per intenderne il contenuto che per vederne la sua reale forma. Non è quanto lo stesso Badiou afferma, scrivendo che «[è] quindi semplicemente falso che su ciò di cui non si può parlare (nel senso che non c’è niente che si possa dire che lo specifichi), si debba tacere. Bisogna la contrario nominarlo, bisogna discernerlo come indiscernibile. (...) Perché l’indiscernibile, se mette in crisi il potere separatore del linguaggio, non per questo è meno esposto al concetto, che può legiferare dimostrativamente sulla sua esistenza»? (Alain Badiou, Manifesto per la filosofia, Napoli, Cronopio, 2008, p. 95). 4 Ivi, p. 359. 5 Ivi, p. 363.

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Oviedo (Spagna), miniera di Pumarabule, 1986


[MEMORIE] Goro (Ferrara), pesca di valle, 1989

la caduta del muro nel ricordo di un grande fotografo

❚ La Berlino degli altri di Mario Dondero

I

l terremoto politico e sociale che scosse dalle fondamenta la Germania dell’Est si produsse in modo subitaneo, a differenza di quanto era accaduto in altri paesi legati all’Unione Sovietica. Mi trovavo già a Berlino da parecchi giorni, con l’intento di documentare, nella Repubblica Democratica Tedesca, gli aspetti visibili di una mutazione che si annunciava inevitabile. Il profondo turbamento che si avvertiva in seno alla società tedesca orientale era chiaramente avvertibile, in modo particolare fra gli intellettuali, inquieti per un avvenire che si annunciava oscuro. Molti fra di loro - e questo si avvertiva negli appassionati dibattiti che avevano luogo in quei giorni - avevano creduto con convinzione ad un modello di società più attento alla risoluzione dei grandi problemi sociali di quanto non lo fosse il sistema occidentale. A Berlino Est regnava un’atmosfera molto più austera che a Berlino Ovest, vetrina del consumismo occidentale. Un reportage che avevo realizzato nel ’59, sul Berliner Ensemble e i suoi straordinari spettacoli, era stato per

me una grande, istruttiva esperienza. In quella società rigorosa e severa gli spiriti critici avevano la vita difficile, ma grandi talenti artistici avevano avuto la possibilità di esprimersi e di lasciare il loro segno. Per contro, trovavo che nella Repubblica Federale, ricca, dinamica, vivace, fossero in auge soltanto i valori classici del mondo consumista e che non vi fosse stata condotta appieno la necessaria riflessione sul passato nazista. I miei giudizi erano influenzati, ovviamente, dalla mia storia personale, dalla stagione vissuta da giovane nella Resistenza di fronte al nemico tedesco. Ciò non riduceva, tuttavia, l’attrazione che esercitava su di me la vita in Germania e anche il fascino di un’esperienza socialista che si proponeva di cambiare in meglio la condizione dell’uomo. Non ignoravo di certo che nella Germania Orientale fossero presenti in maniera considerevole grigiore e conformismo, anche se vi si manifestava, da sinistra, un forte movimento di opposizione. Quando il Muro stava cadendo Christa Wolf, una delle scrittrici più note, lanciò un drammatico appello

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Ferrara, centro riabilitazione San Giorgio, 1994

ai suoi compatrioti della Repubblica Democratica, a nome di tutti i movimenti di opposizione: “Siamo consapevoli dell’impotenza delle parole di fronte a un movimento di massa, ma vi preghiamo, restate, aiutate. La visione di un socialismo democratico non è un sogno, se impedirete, non restando qui, che essa muoia sul nascere”. Tuttavia il destino di quella esperienza era ormai compiuto. La notizia del cambiamento giunse nelle case dei cittadini della RDT la sera del 9 novembre alle ore 19 e 34, quando l’annunciatrice di Aktuell Camera, comunicò, fatto sensazionale, le nuove disposizioni per gli espatri temporanei e anche definitivi. Questo scosse l’opinione pubblica e costituì l’avvio di un movimento irresistibile. Nella notte berlinese, nei pressi della Porta di Brandeburgo, si svolgevano, nel lato Ovest, scene di grande euforia e di entusiasmo. A queste immagini,

per il fotoreporter straniero, se ne sovrapponevano altre, in altri Paesi, in momenti della loro storia altrettanto cruciali: i primissimi momenti dell’indipendenza ad Algeri, la fine della dittatura militare in Grecia, la rivoluzione dei garofani a Lisbona e, ancora più remoti nel tempo, i giorni della liberazione dal nazifascismo in Italia. Rispetto a quei momenti di grande esaltazione collettiva che avevo vissuto, che mi apparivano più facilmente interpretabili, più unitari, la folla di Berlino Ovest che attendeva fra canti e libagioni, in un acre odore di wurstel, la storica caduta del Muro, mi sembrava mossa da molte e diverse motivazioni. Faceva comunque piacere che si tornasse a una normale e armoniosa convivenza tra compatrioti a lungo vissuti dentro sistemi tra loro antitetici e che fosse demolito, come scrisse sul “Manifesto” Luigi Pintor, “ Un odiosissimo muro, figlio deforme del blocco del 1948, residuo ormai inutile della Guerra Fredda.” Quando il popolo tedesco incominciò a rivivere. dopo il lungo incubo che era stato il nazismo, il paese devastato da una guerra estremamente sanguinosa venne suddiviso dalle potenze vincitrici in due entità statali. Nella parte occidentale si formò la Repubblica Federale. All’Est, invece, sotto l’egida dei Sovietici, venne creata la Repubblica Democratica Tedesca, che includeva nel suo territorio, enclave di estrema importanza, la grande agglomerazione di Berlino, con il suo particolarissimo statuto di città divisa. Il 7 ottobre 1949 la DDR si proclamò il primo stato socialista in terra tedesca, facendo risalire le sue origini alle rivolte contadine del ‘700, alla rivoluzione democratica del 1848, al partito comunista fondato nel 1919. L’anno precedente, per l’esattezza in un altro fatidico 9 novembre, la classe operaia tedesca si era lanciata in un tentativo insurrezionale chiaramente ispirato alla rivoluzione che nel frattempo stava trionfando in Russia. Seppur nato in modo artificiale, per volontà sovietica, dagli accomodamenti diplomatici tra le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, questo Stato, parte amputata del territorio tedesco, si proponeva come garante rigoroso dell’antifascismo, laddove, sull’altra parte, planavano dubbi e ambiguità rispetto a una reale volontà di liquidare il passato nazista. Si produsse allora una sorta di esodo alla rovescia, assolutamente elitario. Mossi da forti aspettative politiche e civili, numerosi intellettuali, esponenti famosi della vita culturale quali Bertolt Brecht e Heinrich Mann, ma anche tanti anonimi cittadini provenienti da altre regioni tedesche, andarono ad abitare nella DDR per partecipare all’edificazione del socialismo. Fra gli

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[ DONDERO ] intellettuali molti si trasferirono a Berlino, grande e bellissima città, antica capitale della Germania e situata a 170 chilometri dalle frontiere della Repubblica Federale Tedesca. Nel bel mezzo della Repubblica Democratica, sdegnosamente chiamata, nel linguaggio degli occidentali, la Soviet Zone, Berlino, oggetto di una singolarissima spartizione tra i quattro Alleati, divenne, nel clima della Guerra Fredda, l’epicentro della rissosità internazionale, il puntum dolens del malessere politico mondiale. La Berlino di allora, quella di prima del Muro, rimane nella memoria di chi la conobbe un luogo speciale, una grande metropoli in cui si confrontavano due antitetiche visioni del mondo, lontanissime tra di loro e comodamente raggiungibili con un biglietto della metropolitana. Prima dell’erezione del Muro, si passava infatti senza problemi dai settori francese, britannico e americano a Berlino Est, dove si potevano persino vedere i soldati americani in uniforme gremire la platea del Berliner Ensemble, l’esemplare teatro creato da Brecht. Lugubre come tutti i muri che segregano, che claustrofobizzano gli uomini, il Muro di Berlino fu messo su in fretta e furia da zelanti muratori tedesco orientali nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961. Un atto che provocò stupore e preoccupazione nel mondo, amarezza e disperazione nel cuore dei tedeschi. Il precario rapporto tra le due Germanie, durato pochi anni, si trasformò nel duro confronto tra due sistemi. Nella RDT, a vigilare con teutonica precisione il rispetto dell’ortodossia comunista, regnava il Ministerium fur Staatssicherheit, il celebre servizio di controspionaggio, più conosciuto sotto il nome di STASI. Questa organizzazione spiava con diuturna tenacia, accanendosi particolarmente contro gli spiriti creativi suscettibili di tradire. Un eccellente film tedesco, “La vita degli altri”, racconta molto bene, attraverso una singola storia, il clima kafkiano in cui si muoveva l’intellighenzia a Berlino Est. Poteva capitare a intellettuali di grande rilievo di entrare in rotta di collisione e passare nella lista nera dei reprobi anche quando si era degli assertori convinti delle idee socialiste. Wolf Bierman, conosciutissimo artista in Italia, fu tra coloro che vennero maggiormente perseguitati. Figlio di un operaio antinazista morto ad Auschiwtz, Wolf Bierman, nato nel 1936 ad Amburgo, emigrò presto a Berlino Est. Fu un’opzione politica, ma anche artistica, perché così ebbe il privilegio di diventare assistente al Berliner Ensemble, dove era attivo un buon numero di eccezionali artisti, dallo stesso Brecht a

Heiner Műller, al regista svizzero Benno Besson, a un cospicuo numero di grandi attori e al musicista Hans Eisler, che influenzò certamente la successiva scelta musicale di Bierman. Spirito decisamente libertario, colui che venne celebrato come lo straordinario ”trovatore della lacerazione tedesca” criticò aspramente da sinistra quelli che avvertiva come tradimenti del progetto marxista, con il risultato di vedersi censurato, processato, confinato per un tempo assai lungo nella sua casa al numero 137 della Chausseestrasse ed infine, previa espulsione dalla SED ( Sozialistische Einheitpartei Deutschland, il partito comunista della RDT) privato, mentre si trovava nella Repubblica Federale, della cittadinanza, senza possibilità di ritorno. Tali vicissitudini non hanno tuttavia indotto il poeta e cantautore a rinnegare le idee di giustizia per le quali si era battuto: non è passato nel campo avverso. E neppure tanti altri intellettuali e artisti della Repubblica Democratica, che, nei giorni precedenti la caduta del Muro, discutevano in appassionate assemblee, sembravano disponibili ad una qualsiasi conversione. Nonostante vi si parlasse la stessa lingua, tutto differenziava le due Germanie tra di loro, non soltanto sotto il profilo ideologico, ma anche e profondamente nel costume e nei modelli della vita sociale. Da un lato la luccicante vetrina dell’Occidente, dove si esaltava lo spirito di ascesa individuale e si offrivano, a chi era dotato di forti capacità, grandi opportunità di successo personale, nonché mirabolanti prospettive di comfort. Il lato opposto, decisamente più virtuoso, offriva soltanto modeste certezze per la vita privata e chiedeva l’impegno a lottare per un mondo più giusto. Non che la realtà corrispondesse poi veramente a questo schema, ma in esso c’erano sicuramente elementi di verità. Nella Repubblica Federale, rialzatasi con grande energia dallo sconquasso della guerra, la possibilità di rispondere alle istanze sociali sembrava sconfiggere l’assioma “conservatore sempre cattivo, socialista sempre buono” come sostenuto nella vulgata marxista. Un’intensa e costante propaganda anti-comunista, largamente foraggiata dagli USA, di cui Berlino Ovest era la base operativa, contribuiva a mantenere uno stato di tensione tra le due Germanie, cui faceva riscontro la pugnace ostilità della parte avversa. A più riprese ci furono momenti in cui la situazione divenne rovente e il malessere berlinese minacciò di diventare un nuovo casus belli. Il mondo stava con il fiato sospeso.

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La costruzione del Muro fu il prodotto di questa esasperazione. Apparve una mattina agli occhi stralunati dei berlinesi e, serpeggiante con la sua cupa presenza, diventò da subito una nuova potente attrazione turistica. Il fascino della straordinaria metropoli si accrebbe ancora, grazie anche ad una accentuata attenzione che le portavano la letteratura, il cinema, e, costantemente, la stampa internazionale. Ma il Muro non era soltanto un impressionate decor urbano. Era diventato, e lo è stato per molto tempo, il teatro di molte tragedie, dello stillicidio lento di tantissime vite perdute. Nel 1989 il Muro, “figlio deforme ed odiosissimo del Blocco di Berlino del 1948” era ormai solo il simbolo residuale della guerra fredda e della statica contrapposizione dei due blocchi.” La sua caduta, invece, fu “un evento che ha lasciato tutti senza fiato ad eccezione dei berlinesi pieni di felicità e anche di orgoglio perché la spallata risolutiva era stata la loro.” Così scriveva Luigi Pintor sul “Manifesto”, in un convinto e fervido omaggio al popolo tedesco. La caduta del Muro, impeccabile fotografia di uno stupefacente moto della Storia, vista in diretta da un osservatore straniero mescolato alla folla ebbra di felicità, suscitava però un grande numero di interrogativi, anche inquietanti, a cominciare dalla variegata composizione di quella folla, in cui non erano assenti, fra i più entusiasti, visibili ultras nostalgici. La stessa prospettiva di riunificazione delle due Germanie, una sorta di novello Quarto Reich, non appariva allo straniero, magari italiano ed ex-partigiano, un evento tra i più auspicabili. Ma nel suo insieme, quella notte di trepidante attesa appariva alla maggioranza dei berlinesi come un armonioso momento di fraternità, dopo una lunga, dolorosa separazione. Un’attesa che si annunciava gravida di buone notizie, un passo avanti verso la pace: fra la gente che ballava, che cantava, che rideva c’era la speranza di un mondo diverso, più giusto e più generoso. Lo spettacolo notturno sotto il Muro eretto davanti alla porta di Brandeburgo faceva pensare curiosamente ad un immenso zoo, in cui il ruolo di belve in gabbia, osservate in un perpetuo passeggio, spettava alle guardie frontaliere della Repubblica Democratica, che dovevano nutrire sentimenti analoghi contemplando la variopinta folla e la sessantina di troupes televisive che coprivano l’avvenimento. Mezza Berlino radunata sotto il Muro in gioiosa con-

vivialità, un’ immensa agape nell’aria frizzante della notte d’autunno, offriva certo un fantastico spettacolo, e l’agitarsi frenetico degli operatori televisivi, specialmente quelli dei grandi network di oltre oceano, erano loro stessi uno spettacolo nello spettacolo, anche molto istruttivo sul come si manipolano le notizie per il popolo ignaro. Ho una piccola testimonianza non fotografata, per obiettive difficoltà tecniche. Solo il ricordo di un episodio minore svoltosi non lontano dal Muro. In una stradina buia c’è un camion fermo con alcuni uomini che stanno dando dei mazzi di fiori a una decina di belle ragazze bionde. Insieme ai fiori stanno dando dei soldi. Poi le ragazze si portano sotto il Muro, attirano l’attenzione dei soldati tedesco-orientali che vanno avanti e indietro lungo il Muro. I soldati sono felici e commossi. Gli operatori della TV filmano. È tutto vero o quasi. Una piccola deliberata aggiunta, un espediente diffuso, in fondo, nello specifico piuttosto innocuo, che serve tuttavia per riempire i tempi morti nelle trasmissioni no-stop, che hanno bisogno di battitori alla ricerca di volti e di situazioni da offrire all’occhio sempre vivo della macchina da presa. L’attesa non è molto lunga. La mattina successiva arriva presto, con tutti i crismi della regolarità poliziescodiplomatica accordata dalle autorità tedesco-orientali. Tre quarti circa delle popolazione di Berlino Est più un altro grosso spezzone di quella della Repubblica Democratica affluiscono tutti insieme ai 22 varchi aperti per l’occasione e si rovesciano per una breve lancinante vacanza nella “città proibita”. Mentre la folla sciama, come un lento fiume tranquillo, è impressionate vedere l’espressione sui volti dei giovani soldati che sembrano boe immobili e rigide, non sai se per tristezza o per indignazione. La folla talvolta li interpella e loro rispondono con sobria cortesia, senza sorridere, simili ad atleti che, dopo una sconfitta, salutano con freddo fair-play i rivali vincitori. In mezzo a questa folla avvengono, una volta superato il confine, straordinari ricongiungimenti tra figli e genitori, tra innamorati, tra amici che il Muro ha per tanto tempo separato. Il Muro di divisione tra i popoli, la macabra creazione che si poteva sperare avesse finito a Berlino la sua carriera delittuosa, come l’araba fenice rinasce sempre dalle sue ceneri, linea orrenda che gli uomini tracciano per dividersi da altri, persino in mare, con un immaginario muro fluttuante, in barba a tutte le leggi del mare e dell’umanità.

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[MEMORIE] Leningrado (URSS), mercato Kolkoziano, 1989

in ricordo del pietro valpreda scrittore

❚ Il romanzo della vita quotidiana di Piero Colaprico

Q

uarant’anni fa, un Pietro Valpreda anarchico, che campava tra balli e piccoli lavori, veniva colpito dalla Storia con la S maiuscola come quei cercatori di erbe mediche che, usciti per boschi e cime, si ritrovano nel temporale, sotto il martello elettrico dei fulmini. L’ha «sfangata» perché era innocente, e anche per tante altre ragioni: e anche perché, parlandone con rispetto, Dio talvolta protegge i «cazzoni». E lui, Pietro, era un po’ cazzone, dando a questa parola il significato migliore: come diceva più o meno anche Italo Calvino, la leggerezza è un dono che bisogna sapersi conquistare e Valpreda ce l’aveva, in dosi da vendere, e se l’era sudato giorno per giorno, il suo dono. Sapeva essere leggero e vitale anche nella malattia, anche al posto di altri. Anche al mio, che sono un po’ cazzone: ma meno, mi dico. Ho un ricordo che conta moltissimo. Spesso - e da quando Pietro aveva cominciato a star male sempre - andavo a casa sua per scrivere i nostri gialli a quattro mani. C’eravamo dati pochi principi generali. Evitare la politica, evitare il passato più personale, concentrarsi su Milano, sulle identità, sui «buoni», sul popolare: e giocare la partita sino in fondo. Non era stato facile, ma nemmeno difficile trovare un accordo di spartizione del lavoro: [ 77 ]

❝ Mi ha invitato Bruno Vespa, ma da lui non ci vado, non ci andrò mai, disse in tv che ero “il mostro” ❞


Toledo (Spagna), centrale telefonica, 1990

lavoravamo insieme, punto e basta. Nella prima fase di scrittura fianco a fianco, poi magari io correggevo di notte e, dopo un po’, gli portavo il malloppo delle pagine stampate, lui rivedeva, correggeva, discutevamo, ci arrabbiavamo, bevevamo un rosso, ci lasciavamo con la convinzione che il maresciallo Binda stava camminando come volevamo, e cioè con la schiena diritta e il cuore senza ghiaccio. Un carabiniere: mai Valpreda avrebbe accettato di avere per protagonista un poliziotto, cosa che ho poi fatto da solo, perché lui diventò mostro per le indagini della polizia e nella questura di Milano morì il ferroviere anarchico Pino Pinelli. Poi, un detective del Nord: entrambi eravamo stufi di investigatori lontani dalla nostra realtà, perché le caserme e i commissariati sono pieni di lombardi, veneti e piemontesi, del tutto scomparsi da molti romanzi e, soprattutto, dalle fiction tv, dove impera il romanesco. Un maresciallo anziano: Valpreda aveva sognato il Binda che, in pensione, tornava con i ricordi alla sua maturità. Ma piano piano l’ho convinto a «prestargli» voce ed emozioni, trasformandolo nel primo anarcocarabiniere mai nato. E così, in questo prestito, era

emerso con forza anche l’uso del dialetto che Valpreda, in un’epoca pre-Camilleri, aveva già abbozzato, con il romanzo «Tri dì a luj», tre giorni a luglio. Un milanese senza fronzoli, da «ca’ de ringhera», da casa di ringhiera. Parlato in case che avevano il cortile in mezzo e crescevano, come ciambelle di cemento con il buco, per varî piani: un microcosmo nel quale, affacciandosi tutti alla stessa ringhiera, si sapeva molto, anche troppo, gli uni degli altri. In una casa simile Valpreda era nato e, pomeriggio dopo pomeriggio, lasciava «disseppellire» tanti ricordi. In uno di quei pomeriggi, dunque, ero arrivato a casa sua, terzo piano senza ascensore, in via Paolo Sarpi, con computer e fascio di fogli. C’era la moglie, Pia, ma lui chissà dov’era finito. Non era raro per me in quel periodo avere non dico i minuti contati, ma le ore contate sì. Sarei dovuto andare al lavoro, c’era in ballo un residuo di Tangentopoli. Finalmente si apre la porta, risuona la sua voce «da gazzosa», come si dice a Milano, e cioè un po’ rauca, e mi mostra un libro: «Te l’ho comprato. Posso leggerti l’inizio?». Pia mi guarda. Come moglie ha sempre capito Pietro forse più di quanto Pietro capisse se stesso: comincia a sorridere, un po’ sorpresa. È chiaro che Valpreda ha un

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obiettivo. Legge un po’ il libro in regalo e mi chiede: «Che te ne pare?». «Poteva fare un po’ meglio, ma...». «No, dì la verità. Questa è una...», aggiungendo una serie di considerazioni che non si trovano sulle pagine di critica letteraria. Ma anche una piccola grande verità: «Questo scrive, pubblica, vende e tu passi mezz’ora a rompermi le scatole su un aggettivo?». Capiamoci. In questo senso, Valpreda rappresenta la perdita della mia timidezza rispetto alla pagina. Non ho fatto piazza pulita degli scrittori che amo e temo, non li ho nemmeno accantonati, ma se loro hanno la voce potente, anche noi avevamo un piccolo gorgheggio da «gazzosa». Con le nostre voci forse non perfettamente intonate, ma sincere e appassionate sì, potevano cantare la canzone di Binda: anche perché c’è in giro chi scrive peggio (questo è sicuro, facciamo i conti con il presente). Nelle pause, qualche volta, parlavamo di politica, di qualche vecchio episodio. Piazza Fontana era, però, un territorio nel quale Pietro non voleva più entrare e lo capisco, perché affatica anche me sapere che quarant’anni non sono bastati a spalancare gli armadi. «Quando ero in carcere mi spedivano delle torte avve-

lenate»; «C’era un capitano dei carabinieri che mi dava del lei e mi ha confortato, era Varisco, quello ammazzato dalle Brigate Rosse»; «Non sono mica andato in carcere da solo, ma ormai che senso ha tutto questo?»; «Mi ha invitato Bruno Vespa, ma da lui non ci vado, non ci andrò mai, disse in tv che ero “il mostro”». Questo e poco altro diceva, anche se non mancava una commemorazione ufficiale. Anche se disprezzava i tanti mistificatori che ancora vanno in giro senza vergogna a proporre tesi demenziali o a salvare indagini a senso unico: «Basta pensare un dettaglio, per piazza Fontana hanno usato il plastico. E non c’è un anarchico che usa il plastico, le bombe anarchiche sono fatte con la polvere nera». Se aveva qualche piccolo segreto, non era sulla strage, ma sull’antico mondo di chi credeva possibile la rivoluzione. Un personaggio che a volte ragiona con Binda è «il Loris», un ex rapinatore anarchico: «Beh, ora che è morto te lo posso dire, l’ho modellato su un compagno di...», e mi parlava di vecchie storie, ancora legate alla Guerra di Spagna. Pinelli? Quasi non lo nominava. Giuseppe Pinelli, detto Pino, è diventato «vittima» anche lui da pochi mesi, grazie al presidente Giorgio Napolitano, che ha riunito al Quirinale la ve-

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dova del ferroviere e la vedova del commissario Luigi Calabresi. Due morti violente, due uomini che sono stati simbolo degli «anni di piombo». Valpreda una volta mi ha parlato di Pinelli e ha pianto di rabbia, ha detto frasi terribili: non aveva perdonato la morte del ferroviere, accusato di essere suo complice nella strage, entrato in questura vivo, interrogato fra gli altri da Calabresi, e uscito morto. Da notare che i processi «veri» non hanno trovato un solo aggancio tra la bomba neofascista e gli anarchici. Meglio parlare di romanzi gialli, dai. Scrivere con uno come Pietro era un piacere perché il tempo scorreva frizzante, come l’aria di montagna e come la croatina, un vino povero che non raramente mi offriva con qualche fetta di pane fatto in casa e salame di Varzi. Il libro che più abbiamo amato, sul quale abbiamo più faticato, quello che il povero Pietro non s’è goduto per colpa della malattia era «La primavera dei maimorti». Abbiamo finito di correggerlo nella sala d’aspetto di un ospedale, con gli altri degenti che si divertivano a sentirci, uno ci ha portato il caffè. Merito assoluto di Pietro è aver ricostruito un personaggio, soprannominato “Metim-Metim», e cioè mettiamo-mettiamo, che mescola dolore e felicità, coscienza e marginalità, un ex contrabbandiere che aveva espiato una colpa (e non dico di più, perché è una figura centrale per la trama) e si perdeva nei boschi per cercare erbe medicinali e siero di vipera. Pietro era andato in auto in val d’Ossola, aveva fatto sopralluoghi nei paesi e nei boschi, s’era invaghito del “Libro della memoria” delle vittime dell’Olocausto e grazie a lui un mio vecchio documento processuale non era solo rinato, ma aveva cominciato a brillare. Veder nascere «Metim-Metim» mi ha sintonizzato meglio su quanta verità sorprendente si incontra, quando si va in strada a cercare storie. Ma non sarei onesto con la memoria di Valpreda se non parlassi anche di un suo amico, non molto conosciuto: si chiama Lello Valitutti. Si sentivano spesso. Volete sentire qualche pezzettino della sua storia? Pasquale Valitutti aveva 23 anni ed era l’ultimo anarchico da interrogare la notte del 15 dicembre del 1969 nella questura di via Fatebenefratelli. Il penultimo era, appunto, quel Pino Pinelli che salì nell’ufficio politico e finì nel cortile, quattro piani più sotto. La bomba di piazza Fontana, con sedici morti, era esplosa da tre giorni. Per Lello, come lo chiamano gli amici, quel periodo è ieri: «Il rumore del corpo caduto ce l’ho stampato in mente. Per la verità su Sacco e Vanzetti ci sono voluti settant’anni, ma alla fine è emersa e noi anarchici vogliamo la verità su Pinelli non perché sia punito qualcuno, anzi sono tutti morti quelli che sta-

vano nella stanza, tranne forse il carabiniere, ma perché si sappia la verità. E io la so». Lello e Pietro tante volte hanno parlato di quello che è successo, entrambi hanno conosciuto dall’interno il tritacarne delle indagini faziose: «I poliziotti hanno cambiato più volte la versione dei fatti, prima che Pinelli s’era buttato dicendo “È la fine dell’anarchia”, poi se c’era o non c’era la scarpa, io non l’ho mai cambiata, la versione. Io c’ero. Posso dire che all’inizio della retata di anarchici eravamo decine di persone, poi restammo in due, io e Pino. Stavo nello stanzone e alle 22.30 avevano portato via Pino. Erano tre giorni che eravamo là, come mi sarei potuto distrarre?». Non erano anni per distratti, quelli: «Ho sentito, venti minuti prima di mezzanotte, un trambusto dalla stanza dell’interrogatorio. E la mia attenzione, già alta, diventa ansia. E poi, nel silenzio totale, dopo un po’, ho sentito il tonfo del corpo. Senza un grido, un “ma che fai?”, niente. Sono entrati dei poliziotti, mi hanno messo faccia al muro, poi mi hanno mandato via». Lello ha cercato di dire quello che crede di sapere, ma non gli hanno creduto e se ne rammarica: «Quando con il giudice del processo abbiamo fatto il sopralluogo, hanno obiettato: “Ma da dov’era lei, il corridoio che porta alla stanza dell’interrogatorio non si vede”, perché c’era una macchina delle bibite. Ma la notte di Pinelli non c’era… E infatti ho fatto notare io ai giudici dov’era prima, e c’era tanto di macchia sul pavimento. Dunque la macchina l’hanno spostata dopo. Non è strano». Ma l’ha detto al giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio? «D’Ambrosio? Non l’ho mai visto, lui che ha fatto l’inchiesta non mi ha mai interrogato. Non è strano anche questo? Io finché resto vivo, parlo. La nostra vendetta, che lo si creda o no, è – dice Valitutti - solo la ricerca di un mondo migliore». In quel mondo credeva anche il nostro amico Pietro Valpreda. E se forse ci credeva da «cazzone», un po’ come me, e come tanti di noi, è perché sappiamo che a essere troppo seri e compresi in un ruolo, si perde la freschezza: quella che ti fa andare in giro e scoprire quanti esseri umani siano migliori di come c’immaginiamo, che ti fa sperare che la verità non sia sepolta sempre con i morti, che ti spinge a scrivere dei romanzi dove la vita quotidiana, ogni tanto, ti manda un bacio, e un saluto tranquillo, come se non ci vedessimo da ieri.

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a Quarant’anni dalla strage di piazza fontana

❚ Io so...

accertate in sede giudiziaria sono almeno cinque, cinque punti fondamentali su cui si devono basare le ricostruzioni storiche o narrative dell’evento. ❞

Gorino (Ferrara) pescatori, 1985

di Carlo Lucarelli

B

isogna avere pazienza. Per occuparsi di storia, sia come storici veri e propri che come divulgatori - scrittori o giornalisti, non importa - bisogna avere molta pazienza. Parlo del passato più recente del nostro Paese, gli anni che vanno dal dopoguerra ad oggi - in particolare dagli anni Settanta - e parlo di un aspetto bene definito di quella storia: la sua metà oscura, l’intreccio tra potere politico e finanziario e atti criminali. Bisogna avere molta pazienza perché per conoscere e approfondire le fonti bisognerebbe leggersi decimila, centomila, a volte anche più di un milione di pagine. Perché le pagine degli atti giudiziari sono spesso così tante, e di solito quel passato è proprio lì che viene accertato e descritto, frequentemente per la prima e unica volta: negli atti giudiziari. Da tempo, da quando la politica si è intrecciata così strettamente agli eventi - e non solo alla loro interpretazione ma anche alla possibilità stessa che ne venga riconosciuta l’esistenza - la storia e la letteratura hanno smesso di occuparsene in maniera massiccia per lasciare alla magistratura il compito di accertare i fatti, addirittura di raccontarli mettendoli in fila e rivelandone i collegamenti. [ 81 ]

[MEMORIE]

❝ Le verità


Madrid (Spagna), barista, 1986

La storia degli anni di piombo, la strategia della tensione, la teoria del doppio stato, il concetto di sovranità limitata, le connessioni tra Mafie e potere politico ed economico, molti dei sistemi criminali che hanno governato e ancora governano questo Paese, sono stati raccontati – ripeto, spesso per la prima e ultima volta - nelle migliaia e migliaia di atti giudiziari che girano attorno ai dibattimenti e ai processi. Quell’ “io so”, che scriveva Pasolini nel suo citatissimo articolo “Il Romanzo delle Stragi”, quel ridare ordine al caos che spettava allo scrittore, dallo scrittore sembra passato al magistrato. Che agisce a volte proprio come lo scrittore Pasolini, “io so ma non ho le prove”, visto il numero di assoluzioni in presenza di fatti e connessioni accertate di cui sono pieni i processi ai cosiddetti misteri italiani. Con alcune distorsioni. Compito di un processo è accertare responsabilità penali. Lo studio dei fatti serve a stabilire se qualcuno deve o no andare in galera, non a disegnare il quadro storico di un Paese. Inoltre, anche la magistratura può essere soggetta a pressioni politiche - per natura meno conclamate ed evidenti, meno ammissibili, dello sto-

rico o del giornalista - per cui potremmo anche non fidarci delle conclusioni di certi “porti delle nebbie”. E poi ad un magistrato non si richiede il dono della sintesi che invece si pretende da uno storico o da uno scrittore, per cui ecco quelle migliaia e migliaia di pagine necessarie ma così negate alla divulgazione. Però è indubbio che per gli ultimi, oscuri anni della storia dell’Italia repubblicana questo lavoro di ricostruzione storico-narrativa l’abbiano fatto soprattutto loro, i magistrati. Anche perché da parte di alcuni storici e di alcuni scrittori si è sempre sottovalutato l’aspetto noir della nostra storia, come se certi eventi appartenessero ad un’altra sfera della realtà, quella criminale, ad un altro genere, come il giallo in letteratura, marginale e tutto sommato anche un po’ volgare. Movimenti politici e sociali, dinamiche economiche, principî morali sono solo la metà della nostra storia, a fronte di un’altra, molto più oscura ma altrettanto importante, fatta di violenza, di omicidi, di stragi e di mafia, di politica ed economia criminale. A spaventarci, spesso, è stata la complessità di quell’operazione alla Pasolini, “che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati

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e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. Complessità che ci ha comunicato l’ingannevole sensazione che tutto fosse oscuro, indistinto, inconoscibile. Che quelli che appartengono alla metà oscura della nostra storia siano appunto “misteri”. Ma non è vero. La confusione è sui ruoli. Pensiamo che un evento criminale - una strage per esempio - resti un mistero senza verità solo perché in galera non ci è finito nessuno. Mentre invece, negli atti prodotti, di verità accertate ce ne sono parecchie. Quella sentenza appartiene al magistrato, ma quelle verità appartengono agli scrittori e agli storici. Confonderle non va bene. Prendiamo per esempio la strage di Piazza Fontana del 1969, la “madre di tutte le stragi”, come è stata chiamata, che potrebbe anche essere considerata “la madre di tutti i misteri”. Ecco, su quanto è successo nella sede della Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana quel 12 dicembre, sappiamo molto, moltissimo. Ci manca solo di sapere esattamente chi mise quella bomba che uccise sedici persone più una morta un anno dopo per i postumi dell’esplosione, ma per il resto sappiamo quasi tutto. Abbastanza, almeno, per far muovere gli ingranaggi della narrazione basandosi sul buon senso che mette in fila i fatti e li coordina come avrebbe fatto Pasolini se fosse riuscito a leggere per intero il ciclo di sentenze che chiude, definitivamente, la vicenda processuale della strage. Le verità accertate in sede giudiziaria sono almeno cinque, cinque punti fondamentali su cui si devono basare le ricostruzioni storiche o narrative dell’evento. Anche per negarli, naturalmente, ma sulla base di altri fatti e di una controinchiesta altrettanto puntuale e definitiva. Non voci, frammenti di interviste o sedicenti rivelazioni su cui basare ricostruzioni fantasiose e suggestive teorie. Fatti concreti, nati dalla lettura e dall’esame degli atti, come già fece

Giorgio Boatti con il suo fondamentale “Piazza Fontana”, che, querelato da Massimiliano Facchini – più volte citato nelle inchieste che riguardano i fatti della strategia della tensione - vinse la causa con la motivazione che quello che era contenuto nel suo libro doveva ritenersi talmente vero da essere quasi considerato un atto giudiziario. Allora, i punti accertati fino ad ora sulla strage di Piazza Fontana sono cinque. La strage di Piazza Fontana va inserita in quella strategia della tensione elaborata fin dai tempi del convegno dell’Istituto Pollio tenuto all’Hotel Parco de’ Principi a Roma nel 1965 da personaggi di estrema destra e dei servizi segreti. Destabilizzare per stabilizzare, terrorizzare per fermare l’avanzata delle sinistre, alzare il livello dello scontro. La strage è stata organizzata all’interno della cellula veneta di Ordine Nuovo. Responsabili dell’organizzazione della strage sono Franco Freda e Giovanni Ventura, anche se per motivi giudiziari non possono più essere processati essendo stati assolti in altre fasi del processo. La strage ha goduto dei depistaggi e delle protezioni da parte dei nostri servizi segreti. La verità sulla strage era ampiamente conosciuta dai servizi segreti americani che avevano a libro paga molti elementi di Ordine Nuovo. Sentenza della Corte di Cassazione del 3 maggio del 2005. Nessuno in galera ma tante carte con tanta verità dentro. Adesso tocca a gli scrittori e agli storici – per Piazza Fontana, ma anche per tanti altri episodi su cui i processi hanno prodotto tonnellate di atti giudiziari, come la strage di Portella della Ginestra, per esempio - rimboccarsi le maniche e metterlo finalmente in pratica quel benedetto “io so”, di Pier Paolo Pasolini. Leggendosi le carte. Tutte.

Ci manca solo di sapere esattamente chi mise quella bomba che uccise sedici persone più una morta un anno dopo per i postumi dell’esplosione, ma per il resto sappiamo quasi tutto.

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Copenaghen (Danimarca) portuali, 1987


[RIPESCAGGI]

❝ Sono un maestro elementare e ho famiglia. Ho moglie e figlio, e il mio guadagno è sufficiente per arrivare alla fine del mese. Ada, mia moglie, mi ripete spesso: - Lasciami andare a lavorare […] ❞

a proposito di lucio mastronardi

❚ Il maestro e l’operaia Gorino (Ferrara) pesca delle ostriche, 1985

di Paolo Vachino

A

lcuni scrittori sono consegnati a precoce e immeritato oblio: come Lucio Mastronardi, autore della trilogia vigevanese: Il calzolaio di Vigevano - Il maestro di Vigevano - Il meridionale di Vigevano. Forse per affinità con la sua stessa professione, l’esito narrativo più felice dei tre romanzi è stato senza alcun dubbio - Il Maestro di Vigevano -, terminato di scrivere nel 1960 e pubblicato due anni dopo per un intercedente interessamento di Italo Calvino. Servendosi di un tono spietatamente satirico, l’autore è riuscito a delineare un quadro non acquarellato dell’Italia del “benessere”, raggiungendo vette espressive definite da Walter Pedullà come “il grottesco

furioso”, in cui vengono smantellati alcuni paradigmi della condizione di prosperità raggiunta attraverso la ripresa economica dell’Italia, nei primi decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Il romanzo comincia in medias res con il canto della fierezza: “Sono un maestro elementare e ho famiglia. Ho moglie e figlio, e il mio guadagno è sufficiente per arrivare alla fine del mese. Ada, mia moglie, mi ripete spesso: - Lasciami andare a lavorare […] ma il pensiero che mia moglie – moglie di un piccolo borghese – entri in una fabbrica, si metta alla stregua degli operai, mi è insopportabile”. Ma la convinzione catto-capitalistica in cui l’uomo debba provvedere al sostentamento economico della famiglia e la moglie permanga post-ottocentescamente nella condizione di “angelo del focolare” vacilla e

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crolla quando il padre di un suo allievo, dopo aver prestato cinquantamila lire proprio a sua moglie Ada, che ne aveva fatta esplicita richiesta, si reca a scuola per minacciare di sospendere la munifica prodigalità se il maestro non “la pianta di darci insufficenze al me menelik”. E così, come per magia, il maestro decide che i quattro e i cinque del figlio dell’industriale diventino immediatamente dei dieci. E un’inattesa gravidanza offre ad Ada di sferrare l’ultimo attacco verso le ringhiose resistenze del marito all’idea che lei possa diventare un’operaia: la parola suona al maestro come un epiteto di maledizione. Ma imperterrita Ada rilancia: “la fabbrica non è un postribolo”, e si accinge a inferire il colpo finale: “certo che le mie amiche non fanno le operaie[...] ma quelle hanno mariti che....”. Il catalogo dei contrasti relazionali, familiari e sociali, è stato delineato, dunque, sin dalle prime pagine: la donna marcia speditamente verso l’indipendenza economica per raggiungere quella emotivo-esistenziale tipica dell’universo maschile. L’eccellenza di Mastronardi consiste in questa capacità di descrivere, e in qualche modo di anticipare, i fermenti covanti in seno a una società che avrebbe di lì a poco dato abbrivo alle contestazioni di massa nelle strade di mezzo mondo occidentale, caratterizzanti il ventennio successivo, attraverso il racconto minimale di vicende familiari solo apparentemente disassate rispetto al baricentro della narrativa cosidetta “d’impegno”. Il racconto prosegue con Ada che si inorgoglisce perché la sua busta paga surclassa quella del marito maestro, ingenerando in lui una profonda umiliazione, la perdita della dignità al cospetto dei colleghi; mentre per lei è solo nel “non lavorare che ne va della dignità”. Scatta così tra i due coniugi - nuovi competitori monetari la sfida genitoriale su chi potrà permettersi l’acquisto della “muda per la Cresima” del figlio. Il maestro per fronteggiare economicamente la moglie si consegna a turni massacranti di lavoro straordinario, dando ripetizioni, dopo la mattinata di insegnamento a scuola, a un nugolo di bambini dal primo pomeriggio a sera. Alla fine lo sforzo stakanovistico viene ripagato: ottiene così il primato di provvedere all’acquisto della muda, consistente in una camicia finissima di popeline seta, di una cravatta con “le sfumature eteree”, oltre a scarpe lussuose ma manufatte a Bologna, per dare uno schiaffo morale a Vigevano, patria delle calzature. Solo che il figlio Rino, rincasando stracolmo di pacchi e pacchetti, si imbatte in conoscenti che “non hanno legna per scaldarsi e vivono dormendo sulle panche dei giardini”, e decide spontaneamente di donare a loro tutti gli acquisti fatti dal padre. La motivazione è semplice, pura, rivoluzionaria, come solo i bambini

sanno incarnare fino in fondo: “Almeno noi da scaldarsi e da mangiare ce l’abbiamo”. Il maestro manda il figlio “a morire ammazzato” e la muda della cresima diventa, ovviamente, quella comprata dalla madre. “La dignità è salva”, però. Esercizi quotidiani di ipocrisia borghese: assolti. La scalata all’egemonia economica familiare prosegue con la moglie che, insieme a suo fratello, lo invitano a dimettersi da maestro, onde consentire, con la percependa liquidazione, l’avverarsi del sogno di mettersi a produrre scarpe in proprio. “Preferisci avere una moglie operara o una moglie padrona?”. Questa ardua quest esistenziale ingenera un dilemma nella coscienza del maestro, che si incammina per una salvifica e meditativa passeggiata cittadina, da postumo peripatetico, sino a giungere ai margini periferici di Vigevano, infastidito dalla presenza dei volti urbanamente borghesi della comunità cittadina, per occhieggiare la placida campagna e provare ad avviare la decompressione dei (mal)umori compressi e scatenati dalla muliebre domanda sfingica: grazie a quello stato d’animo alterato riesce a vedere, quasi psichedelicamente, un “prato butterato di ranuncoli”. Uno degli ossimori più belli della letteratura italiana. Ebbene, dopo aver riflettuto e deciso di porre diniego alla richiesta della moglie, viene ricattato dalla stessa nel più meschino dei modi: “Interromperò la maternità”. Messo vigliaccamente con le spalle al muro, il maestro cede e si vede costretto a “s-maestrarsi”. E questo comporta inevitabilmente una lenta discesa agli inferi dell’interiorità ferita. Auto esiliatosi dal vivaio della formazione educativa della scuola, escluso dalla fabbrica in cui la moglie e il fratello sono autosufficienti nella loro principiante imprenditorialità, rimane solo la famiglia, in cui però la felicità non decolla; anzi, precipita. Il maestro è chiamato al compito arduo di “imparare a sopportare la solitudine”, dolorosa e sfinente proprio perché causata dal fatto stesso di vivere insieme a moglie e figlio. Stanco e sfinito da questa condizione di inetta inutilità, decide di ri-sostenere il concorso per ri-ottenere il ruolo di maestro. Cosa che accade, ma, vista la precedente diserzione lavorativa, viene reintegrato solamente nel ruolo di supplente degli insegnanti assenti. La disgregazione familiare si eleva a potenza sino a diventare disgrazia: muore la moglie, dopo avergli fatto delle rivelazioni sulla paternità dell’unico figlio, perché quello dai capelli rossi di cui era incinta per la seconda volta non sopravvive che pochi giorni; e l’unico figlio rimasto finisce in una casa di correzione. La parabola si è compiuta. Una nemesi sociale sull’intera esistenza del maestro. Ma la storia narrata non descrive solo l’irrompere della cultura della fabbrica

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[ VACHINO ] in una società che era stata per secoli contadina, ma mette in luce il progressivo divario tra il lavoro privato e quello pubblico, sino a constatarne l’incolmabilità e l’inconciliabilità: la laboriosa ignoranza degli uomini di fabbrica e dei loro padroni asserviti al Capitale, e la dotta vacuità dell’ambiente scolastico, sempre più affine a una catechesi di massa, per traghettare gli alunni da un’ignoranza agreste e primitiva e una urbana e contabile. Di come Cultura e Lavoro non cerchino osmosi elevanti a una condizione di superamento della miseria spirituale e materiale di una nazione in preda al non esile sforzo di ricucire le ferite inferte da una guerra cruenta e inutile (come peraltro sono cruente e inutili tutte le guerre), ma diventino valori antipodici e imperseguibili se non l’uno a scapito dell’altro, nella vita delle generazioni a venire.

in tutte le case, dando vita allo scisma sociale tra proprietari e nullatenenti. Gli status emergenti diventano unicamente quelli della potenza economica, mentre l’umanistica tradizione dell’educazione alle arti e alle lettere viene svilita a tal punto che tutti coloro i quali non sono parte della catena produttiva diventano degli apolidi, relegati solo apparentemente a un ruolo sociale formativo ed educativo, ma in realtà svuotati di ogni quintessenza culturale. L’Italia di Mastronardi, che vuole uscire dalla medioevale condizione di analfabetismo, viene affidata alla Scuola pubblica, in cui gli alunni devono sottostare alle grandinate di alfabeti e di tabelline dispensate ex cathedra da una classe di insegnanti sempre più kafkianamente smarriti nelle sconfinate lande dei coefficienti dei ruoli, all’interno dei vialattei organigrammi dei dipendenti dello Stato.

Cracovia (Polonia), venditore di immagini sacre, 1989

Mastronardi mostra il disincanto del nucleo familiare dietro al paravento della facciata pubblica, raccontando le genesi della doppia morale borghese: il disastro delle relazioni private pervicacemente mascherato in pubblico. La moglie Ada che si compra i monili da sola, con i proventi del suo lavoro, facendo credere alle amiche che vi ha provveduto il marito maestro. Parimenti alla coscienza di classe nasce la vergogna di appartenere a una classe. Il padrone e gli operai. Il ricco e i proletari. Il sistema capitalistico che irrompe a forza

Il Maestro di Vigevano è un libro profetico su quella che è diventata l’Italia del terzo millennio: in nuce sono raccontate le diaspore di senso di una societàfabbrica di futuri produttori e consumatori, e non di una comunità di semplici cittadini, anelanti a far parte della cosa pubblica, della res-pubblica, la repubblica democratica italiana che, a giudicare dagli esiti attuali, si è fondata costituzionalmente, ahimè, solo sul lavoro e non anche sullo studio.

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[RIPESCAGGI]

Oviedo (Spagna), miniera di Pumarabule, 1986

la classe operaia scozzese nell’opera di William mc ilvanney

❚ L’inchiostro e il carbone di Beppe Ciarallo

N

el corso di un’intervista televisiva nell’autunno del 1980, l’allora primo ministro britannico Margaret Thatcher, nota come la Lady di ferro per l’assoluta intransigenza di ogni sua scelta politica, dichiarò con pari arroganza e disarmante sincerità che il suo compito era quello di puntare al rilancio dell’economia del suo Paese nonché riportare in pareggio i conti dello Stato, e che il raggiungimento di un così importante obiettivo non poteva contemplare il computo del numero di disoccupati, il cui aumento la sua cura avrebbe necessariamente comportato. Una dichiarazione d’intenti così netta e spietata non poteva che accompagnarsi a fatti terribilmente concreti consistenti in un immediato abbattimento dei costi dello Stato Sociale, in un progressivo smantellamento della Sanità, dell’Istruzione pubblica e in un imbarbarimento del mercato del lavoro, azioni che ebbero come logica conseguenza un deterioramento delle qualità morali ed etiche della società britannica. Piccolo inciso: a dimostrazione del fatto che i vizi più che le virtù attecchiscono con maggior facilità e che la globalizzazione non riguarda solo lo scambio di merci e monete ma anche i comportamenti umani, la stessa frantumazione di valori consolidati si è avuto in tutto il mondo occidentale proseguendo poi, nei decenni successivi, il suo veloce e inesorabile cammino verso est. [ 88 ]


[ CIARALLO ] Il sistema di privatizzazioni (British Telecom, British Gas, British Airways, Jaguar, Rover, ferrovie, ecc.) che prevedeva il preventivo risanamento delle aziende pubbliche (come a dire: socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti, un po’ come è accaduto per la nostra Alitalia), la deregulation, lo sgretolamento del leggendario Welfare State britannico, voluti dal Primo Ministro nell’ambito di un programma economico basato sul libero mercato selvaggio, unitamente alla crisi in cui versava un partito laburista balbuziente e incapace di progettare un’opposizione efficace, ebbero come effetto diretto l’aumento vertiginoso della disoccupazione in tutto il Regno Unito. In particolare in Scozia, la crisi occupazionale riguardò i lavoratori dei cantieri navali e, soprattutto, delle miniere di carbone. L’intento di chiudere le miniere, ritenute antieconomiche e scarsamente produttive, più ancora che da una logica industriale era dettato dal sottostante reale obiettivo di attaccare e stroncare il potere dei sindacati. Non a caso lo sciopero dei minatori, che si protrasse per più di un anno e che vide i lavoratori impegnati in una delle battaglie più dure e sanguinose dell’intera storia del movimento operaio britannico, fu un vero e proprio snodo fondamentale dell’era Thatcher, così come lo furono le prese di posizione risolute e intransigenti in occasione della guerra delle Falkland contro l’Argentina e dello sciopero della fame dei militanti dell’esercito repubblicano irlandese, lasciati morire nelle loro celle pur di non riconoscere all’avversario lo status di prigioniero politico. Il primo ministro britannico, forte della sua posizione sia dal punto di vista politico che mediatico - aveva da poco incassato la rielezione per il secondo dei suoi tre mandati - sferrò un attacco senza precedenti contro i sindacati in genere, e quello dei minatori in particolare, sostenendo di voler debellare il malcostume dei privilegi e degli sprechi di denaro pubblico. Curioso il fatto che questa sua determinazione fosse rivolta a una categoria di lavoratori che svolgevano un’attività dura, rischiosissima per la salute e per la stessa vita e al contempo scarsamente retribuita, determinazione che vedrà, una volta terminato lo sciopero e con esso la speranza di vittoria da parte dei sindacati, intere comunità abbandonate a se stesse. Le agitazioni, che furono da subito caratterizzate da scontri cruenti tra i picchetti operai e le forze dell’ordine che intervenivano a sostegno dei crumiri, si protrassero per tutto il 1984, che diventò così un anno tragicamente orwelliano per l’intera nazione, frantumata dall’aspro scontro sociale. Le organizzazioni sindacali decisero di interrompere gli scioperi

agli inizi di marzo del 1985 in una totale capitolazione che avrà ripercussioni disastrose sulle lotte e le rivendicazioni sociali degli anni a seguire, sancendo così l’affermazione della linea governativa propugnata dalla Lady di ferro.1 È in questo clima e da questo humus che nascono le pagine più belle delle opere di William Mc Ilvanney, scrittore cresciuto in una famiglia piccolo borghese che viveva in un quartiere operaio della cittadina scozzese di Kilmarnock. Mc Ilvanney fin dagli inizi ha ben chiaro il taglio che intende dare alla sua scrittura. “In casa mia c’erano tanti libri, però la cultura intorno a me era operaia. È di quella che sentivo il bisogno di parlare; e anche se nessuno di loro ha mai letto i miei romanzi, è sulla loro vita che ho modellato la mia creatività. Lo sentivo come un dovere, un impegno sociale”.2 Un ruolo di testimone e di portavoce della propria comunità, dunque, quello che lo scrittore si assegna nel momento stesso in cui intraprende il suo itinerario artistico, una sorta di simbiosi nella quale riverserà pagine dense di commozione, di solidarietà e di sincera partecipazione alle vicende drammatiche della sua gente. Ma questo impegno non si esaurisce nell’essere scrittore: William Mc Ilvanney è un importante intellettuale estremamente attivo nel dibattito politico scozzese, le cui argute considerazioni vengono regolarmente pubblicate sui maggiori quotidiani del suo Paese. Pur rivendicando l’importanza dello sviluppo di uno stato scozzese, le sue posizioni non sono sempre in sintonia con quelle dei nazionalisti, propugnando egli valori imprescindibili che vengono ancor prima dell’indipendenza politica, quale ad esempio la giustizia sociale oltre che l’espressione delle proprie radici culturali. Un’idea di nazione, la sua, di marcato stampo socialista, soprattutto affrancata dalla religione del libero mercato, colpevole di favorire e garantire ricchezza a chi è già privilegiato sottraendo risorse a chi nella società più ne avrebbe bisogno. Deluso e amareggiato, in anni più recenti, dalla politica del laburista Blair che in molti ambiti non ha fatto altro che ricalcare e sostanzialmente continuare un progetto economico iniziato dai conservatori, Mc Ilvanney lamenterà il suo non sentirsi politicamente rappresentato autodefinendosi un “homeless socialist”, un socialista senza più una casa da abitare.3 I primi lavori vengono scritti in un inglese che non va oltre il proporre un timido richiamo alle sonorità della lingua scozzese. Mc Ilvanney decide quindi di correggere il tiro e in seguito, anche in ossequio a quella sorta di “promessa” fatta alla sua gente, decide di far

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Malaga (Spagna), commercianti, 2008

parlare i personaggi dei suoi libri, operai, minatori, sottoproletari ma anche poliziotti e delinquenti di medio e piccolo cabotaggio, in un modo più consono a quella società e a quella parte di Scozia che l’autore ben conosce e nella quale decide di ambientare le sue storie. Introduce, dunque, soprattutto nei dialoghi, l’uso di espressioni tipiche della sua lingua che “volendo fare un collegamento con l’Italia, ci rimandano al siciliano di Camilleri, con il quale c’è anche in comune la frequente commistione del genere poliziesco con tematiche storiche, sociali e politiche”.4 Già nella Trilogia nera di Glagow (che comprende i romanzi Laidlaw. Indagine a Glasgow, Le carte di Tony Veitch e Oscure lealtà)5, pagine che troppo frettolosamente oltre che impropriamente sono state catalogate di genere poliziesco, l’autore mostra con chiarezza la volontà di “indagare”, di scandagliare i luoghi più reconditi della sua città attraverso lo sguardo impietoso e disincantato del suo alter ego letterario, l’ispettore di polizia Jack Laidlaw, poliziotto anomalo che vive con estrema sofferenza lo sciorinarsi quotidiano, davanti ai propri occhi, di tutte le ingiustizie, le ipocrisie, le sopraffazioni e le violenze che incombono come nubi minacciose sulle teste della gente dell’amata Glasgow. Ma i lavori nei quali più esplicitamente Mc Ilvanney riflette l’intento dichiarato della sua scrittura sono i

romanzi The Big Man, La fornace e la raccolta di racconti Feriti Vaganti.6 In The Big Man l’autore descrive con drammatica precisione lo smarrimento nel quale è piombata un’intera comunità che ha visto attuare, in sostituzione di un insieme di regole e di principi da ognuno riconosciuti e accettati, la sistematica demolizione di tutti i valori della società civile, al solo fine di veder rivitalizzare i conti delle aziende. Dan Scoular, “the big man”, vive con estremo disagio l’indebolimento di quella forza etica, ed epica, operaia che aveva reso possibile, attraverso la pratica della solidarietà diffusa, la sopportazione dei momenti di crisi, sociale ed economica, che periodicamente si abbattono con effetto devastante sui gropponi dei meno garantiti. Dan Scoular ha perso il lavoro, come la maggior parte delle persone che dividono il suo tempo e il suo spazio nel pub, luogo che nei paesi anglosassoni non è il locale dove bere semplicemente un bicchiere, ma che rappresenta invece un ambito in cui è tangibile e si respira il senso di comunità. E teme di perdere Betty, la moglie, la quale ha sempre rimproverato, con ansiosa preoccupazione, quel suo essere fanciullescamente fatalista, la completa impermeabilità a qualsiasi tipo di ambizione personale e soprattutto la sua naturale incapacità di gestire il denaro. Ma l’insicurezza maggiore risiede nel dover constatare che anche l’eredità morale del padre, fatta di

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AUTORE

amore per il sacrificio, di condivisione coi suoi compagni, di solidarietà e di coscienza di classe imparata e praticata in anni e anni di dure lotte, è diventata una bussola difettosa, dall’ago impazzito, oramai incapace di indicare la giusta direzione. Gli resta solo l’orgoglio. Un orgoglio atavico che ha permesso alle generazioni che lo hanno preceduto, quelle che lui ritiene essere le sue radici genetiche, di difendere almeno la dignità. Preso nel vortice di questo sbandamento Dan, detto “the big man” per la sua stazza sia fisica che morale, finisce in un giro di combattimenti di boxe a mani nude, un circuito clandestino di scommesse gestito dalla gang di Matt Mason, un malavitoso locale. Dan ha però bisogno di un motivo valido per esprimere appieno il carico di violenza necessario a sconfiggere un avversario che egli sa, essere disperato e motivato quanto e forse più di lui. E questo stimolo lo trova nel cercare di diventare la molla attraverso la quale la gente della sua comunità possa avere la capacità di risollevarsi, di ritrovare la perduta fiducia e di ricominciare a lottare, unitamente come una volta, appunto come una comunità. Ma al termine del vittorioso combattimento, “the big man” prende coscienza di non essere stato altro che uno dei minuscoli ingranaggi utili a un sistema creato per arricchire la parte più marcia della società di cui egli stesso è, nonostante tutto, parte. E allora scatta la solidarietà nei confronti del pugile,

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anzi dell’uomo che ha battuto, solo e abbandonato in un misero ospedale, a rischio di perdere la vista per i colpi ricevuti durante l’incontro di boxe, senza alcun compenso per la sola colpa di essere stato sconfitto. L’offuscamento a quel punto si dirada e Dan ricomincia a vedere con chiarezza da quale parte della barricata deve combattere: dichiara guerra a Matt Mason, lo aggredisce, preleva dalla sua cassaforte una quantità di denaro necessaria ad aiutare l’avversario bisognoso di cure, ficcandosi in questo modo in un mare di potenziali guai. A sorpresa Betty, la moglie, si schiera con lui, sospesa tra la stima e l’orgoglio per il suo uomo e il terrore della vendetta di Matt Mason, che sicuramente non tarderà a scatenare contro di lui la violenza dei suoi sicari. Magicamente, però, si ricrea intorno al protagonista una fitta rete di atti solidali: la sua gente gli si stringe intorno e non lo lascia mai solo, proteggendolo e re-imparando così a proteggere se stessa, attraverso la riscoperta di valori che sembravano perduti per sempre. Anche ne La Fornace l’autore parla della vita di una famiglia operaia scozzese nell’era thatcheriana, e lo fa assumendo un particolarissimo punto di vista: quello di Tam Docherty, figlio di operai, dilaniato dallo scollamento dall’ambiente sociale da cui proviene che necessariamente produrrà la scelta di realizzare il suo sogno di diventare uno scrittore e un intellettuale. Tam

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sente sulla sua persona tutto il peso della perversa ambiguità con la quale una società ingiusta offre il dono avvelenato dell’istruzione ai figli dei ceti più poveri col secondo fine di sradicarli dalla loro cultura, di far perdere loro identità e carica emotiva nei confronti di un potere che li ha sempre schiacciati e relegati all’interno di opprimenti ghetti. In questo libro la conclusione di Mc Ilvanney è alquanto amara, dovendo egli constatare che quella classe che si è impegnato a spalleggiare e a raccontare nei suoi scritti, non esiste quasi più, inglobata nel corso degli anni ottanta, anzi fagocitata da quel mostro antropofago che è la società liberista, quella delle “città da bere”, società violenta, aggressiva, crudele, che non fa prigionieri, che non tollera le diversità e che tutto mastica e rende poltiglia indistinta. Ma è nella raccolta di racconti Feriti vaganti che Mc Ilvanney ci offre la summa del suo pensiero, nonché la prova che quell’impegno dichiarato, di mettere la penna al servizio della sua gente, non era una boutade radical-chic ma un vero e proprio obiettivo di intellettuale militanza. I feriti vaganti di Mc Ilvanney sono la gente comune delle città, sono la moltitudine di disperati che non fanno notizia, sono le nostre madri e i nostri padri umiliati e offesi, siamo noi stessi sfruttati e privati di ogni energia fisica e morale, sono i nostri vicini che frugano tra i rifiuti dei mercati alla ricerca di un frutto non del tutto marcio, sono i precari e i disoccupati privati dei più elementari diritti sanciti dalla Costituzione, sono i pensionati che dopo una vita di sacrifici stentano oggi a sbarcare il lunario. Ma la bellezza e la forza di questo libro sta nel fatto che l’autore non si limita a mostrarci i profili di quelli che Carmine Mezzacappa, traduttore, studioso e amico di Mc Ilvanney ha definito “vittime in tempo di pace”, e le cicatrici che essi portano sul corpo e nell’anima; con un impietoso “j’accuse” Mc Ilvanney indica chi quelle lacerazioni ha prodotto. Senza neanche sprecare il suo tempo facendo inutilmente nomi e cognomi rende immediatamente riconoscibili i pazzi criminali che hanno scambiato l’unico mondo che abbiamo, in un personale parco giochi. Ma non tutto è plumbeo nel presente di questa plebe, nemmeno più “all’opra china”; la valvola di sfogo che impedisce a quelle pentole a pressione che sono oramai le società occidentali di esplodere, è rappresentata dall’aria scanzonata e dalla giovanile strafottenza dei giovani che non ci stanno, che rifiutano l’asfittico mondo che li circonda, pieni come sono della loro fantasia e della loro “cultura” che li rende capaci di bastare a se stessi. In “Sognando”, il racconto che chiude la raccolta, grazie alla finzione letteraria, bacchetta

magica che tutto permette di realizzare, il giovane protagonista immagina che mentre il padre sonnecchia davanti al televisore, aldilà dello schermo il Primo Ministro del suo Paese – ma la Lady di ferro potrebbe tranquillamente essere Sua Emittenza il Cavaliere, il presidente U.S.A. star di Hollywood o il bugiardo petroliere texano – si lasci andare svelando così le nefandezze commesse e dichiarando, in un impeto di surreale sincerità: “I risultati di cui mi sono vantata in realtà non esistono. Quello che il mio governo ha davvero fatto è stato di cercare di smantellare generazioni e generazioni di progresso nella nostra società. Abbiamo creato la disoccupazione di massa. Abbiamo reso più ricchi i ricchi e più poveri i poveri. Abbiamo creato una nazione divisa. Abbiamo reso i vecchi miserabili e i giovani senza speranza. Il nostro primato è veramente abominevole e se voi aveste un po’ di buon senso non votereste di nuovo per noi”.7

> Note 1 Margaret Thatcher - There is no alternative di Marco Denti (2009) Bevivino Editore. 2 Registro segnali, sensazioni, frammenti di discorsi – Conversazione con William Mc Ilvanney di Carmine Mezzacappa, professore presso la University of Kent at Canterbury. 3 idem. 4 Feriti vaganti: ritratti di vittime in tempo di pace di Carmine Mezzacappa – postfazione a Feriti vaganti, vedasi nota 6. 5 Laidlaw. Indagine a Glasgow (2000), traduzione di Carmine Mezzacappa; Le carte di Tony Veitch (2000), traduzione di Roberta Buffi e Carmine Mezzacappa; Oscure lealtà (2001), traduzione di Carmine Mezzacappa. Le opere citate sono edite in Italia da Giovanni Tranchida Editore. 6 The Big Man (2003), traduzione di Nicola Lazzaro; Feriti vaganti (2004), traduzione di Nicola Lazzaro; La fornace (2008), traduzione di Cristina Cigognini. Le opere citate sono edite in Italia da Giovanni Tranchida Editore. 7 Da Sognando, in Feriti vaganti - vedasi nota 6.

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[RIPESCA GGI]

❝ Morirò un po’, molto Senza passione, ma con interesse E poi quando tutto sarà finito Morirò ❞ ricordando boris vian, a cinQuant’anni dalla morte

❚ L’eclettico tico ribelle di Giampiero Rigosi

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ono le dieci di mattina. Tra le varie persone in fila davanti al Petit Marbeuf per vedere la prima del film c’è un uomo alto con la fronte spaziosa, il naso a becco e la faccia lunga e pallida. È solo e se ne sta in disparte, con espressione stanca e un po’ imbronciata. Le maschere aprono la porta della sala, l’uomo entra assieme agli altri spettatori. È il 23 giugno 1959. Il film che stanno per proiettare, J’irai cracher sur vos tombes, è tratto da un romanzo noir uscito tredici anni prima e che in Francia ha sollevato molte polemiche. Le luci si spengono, il chiacchiericcio dei presenti va a scemare, la sala viene attraversata dal ronzio del proiettore. Sullo schermo non passano che poche scene. L’uomo dalla faccia lunga si agita sulla sua poltrona, un paio di spettatori seduti vicino a lui lo sentono protestare: E questi dovrebbero essere americani? Col cazzo! Dopo pochi istanti si accascia, colpito da una crisi cardiaca. Si chiama un’ambulanza, l’uomo viene trasportato in ospedale, ma quando ci arriva il suo cuore ha smesso definitivamente di battere. [ 93 ]


È così che mezzo dalla pelle chiara (solo secolo fa è morto, la voce, pastosa e proa soli trentanove fonda, lo tradirà), anni, Boris Vian, che si infiltra nella uno degli artisti più comunità bianca con eclettici della prima il proposito di venmetà del Novecento. dicare l’uccisione del Un’esistenza breve fratello. I temi cenma vissuta con intrali sono la vendettensità, a dispetto dei ta e il razzismo della disturbi cardiaci che società americana, il gli costeranno la vita. ritmo è incalzante, Ingegnere, scrittore gli ingredienti, quelli e musicista, Vian è tipici del noir: viostato traduttore (tra lenza, alcol, sesso. Il i tanti autori che libro - il primo pubtradotto: Chandler, blicato da Vian - esce Strindberg e Nelson a novembre, firmato Algren), ha suonato con lo pseudonimo la tromba e compodi Vernon Sullivan sto più di cinquecen(Vian si spaccia per to canzoni, ha diretto traduttore e ne scriuna casa discografica ve la prefazione). La ed è stato membro critica moralista lo (assieme a Raymond stronca ma il libro Queneau, René Clair, vende e diventa un Noël Arnaud, Jaques best seller. Col sucPrévert) del Collège cesso, però, arriva ande Pataphysique, l’Asche una denuncia per sociazione Letteraria oltraggio al comune Copenaghen (Danimarca), allevatrici, 1987 nata in memoria di senso del pudore. Alfred Jarry, è stato l’infaticabile animatore di caves Vian rischia due anni di prigione e un’ammenda di come Le Tabou e il Club Saint-Germain, dove si in300.000 franchi. Tenta di negare la paternità del rocontravano intellettuali e artisti come Prévert, Sartre, manzo - che anche in tribunale continua ad attribuire Camus, Aragon, Roger Vadim e Juliette Greco, e dove al fantomatico Vernon Sullivan - e per provare le sue suonarono musicisti del calibro di Duke Ellington, affermazioni decide di far uscire la versione americana Charlie Parker e Miles Davis, e nel breve arco della sua del romanzo, che traduce in inglese con l’aiuto di un vita ha scritto una decina di romanzi, opere teatrali, amico. Alla fine, però, Vian è costretto ad ammettere di libri di racconti, raccolte di poesie e un numero imessere l’autore del romanzo inquisito. L’autore, l’editore pressionante di articoli in cui si è occupato soprattutto e perfino i tipografi, vengono condannati, il romanzo di musica e di narrativa di genere. è interdetto per decreto ministeriale, Vian è costretto a Ma torniamo a Sputerò sulle vostre tombe. È il 1946, e pagare una multa salatissima. in Francia hanno appena ottenuto un grande successo Nel frattempo, ha realizzato l’adattamento teatrale di i polizieschi dello scrittore statunitense James Hadley Sputerò sulle vostre tombe e pubblicato altri quattro libri: Chase. Vian si trova a discutere con un giovane edidue con lo pseudonimo di Vernon Sullivan e due a suo tore, Jean d’Halluin, che sta cercando un noir amerinome: Autunno a Pechino e La schiuma dei giorni: un cano da pubblicare nella sua casa editrice, le Editions romanzo fantasioso ed effervescente che è allo stesso du Scorpion. Per sfida, Vian gli dice che è disposto a tempo uno sberleffo di ribellione al denaro e al potere, scriverlo lui, meglio di quanto farebbe un americano. un racconto autobiografico, un’intensa favola d’amore E lo scrive, in soli quindici giorni, dal 5 al 20 agosto. e di morte, e, come disse Queneau: “il più straziante Il protagonista del romanzo è Lee Anderson, un negro dei romanzi d’amore contemporanei”. [ 94 ]


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RIGOSI

I racconti di Vian hanno quasi sempre una cifra stralunata e surreale, scritti in una lingua acrobatica e piena di trovate. Irriverente e geniale nella scrittura come lo è nella vita, Vian ha il gusto per la piroetta e per il salto mortale: ama giocare con le parole, stravolgerle, squadernarle, inventarle. E anche quando le storie hanno un fondo malinconico, non mancano mai di divertire, proprio grazie allo spirito da enfant terrible che Boris Vian vi soffia dentro, con la stessa scanzonata vitalità con cui soffiava nella sua tromba tascabile, che amava chiamare trompinette. Fin da bambino, in seguito a una grave crisi di reumatismi, Boris Vian soffre di cuore. Dovrebbe fare attenzione alla propria salute e invece, forse proprio perché consapevole che la sua vita non sarà lunga, vive al massimo, senza risparmio di energie. Il medico gli consiglia di suonare con moderazione, o meglio ancora di non suonare affatto, e lui spreme i polmoni nell’amata trompinette fino a tarda notte nei jazz club di SaintGermain-des-Prés. Scrive articoli, opere teatrali, poesie e racconti, si laurea in ingegneria, inventa congegni strambi e surreali, collabora con diverse riviste, compone canzoni per altri, poi diventa chansonnier (Serge Gainsburg ha dichiarato che vedere Boris Vian cantare lo ha spinto a tentare di scrivere lui stesso delle canzoni). Una canzone tra tutte: Le Deserteur, che diventerà un manifesto del pacifismo e sarà ripresa da numerosi cantanti, e non solo in Francia. In Italia il primo a tradurla fu Luigi Tenco, che però non la incise mai. L’hanno cantata invece, tra gli altri: Gino Paoli, Ornella Vanoni e Ivano Fossati. Negli anni Cinquanta, Vian anima le serate della Rive Gauche parigina, suona in vari locali col suo gruppo, organizza baccanali nei quali sperimenta cocktails ad alto tasso alcolico, diventa amico di Camus, Sartre e Simone de Beauvoir. Però, appena le caves fumose e l’esistenzialismo diventano troppo di moda, lui se ne allontana. È in questo periodo che, su richiesta di un editore squattrinato, Vian scrive il Manuale di SaintGermain-des-Prés, una guida ironica e affettuosa ma, com’è nel suo stile, impertinente, nella quale racconta i caffè, le strade, le piazze e i personaggi che li popolavano, consegnando alla leggenda la Parigi dell’esistenzialismo e i suoi protagonisti, che resero celebre quel quartiere. Quando il libro è già in stampa, la casa editrice fallisce: le copie vengono trattenute dalla tipografia e le bozze originali si perdono. Solo molti anni più tardi, per volontà di Noël Arnaud e grazie alle ricerche delle due mogli di Vian, Michelle e Ursula, vengono ritrovate due copie dattiloscritte, una delle quali corretta, e finalmente, nel 1979, il Manuale viene pubblicato. Il

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libro esce anche in Italia, ma solo vent’anni più tardi, presso Editori Riuniti, e ci auguriamo vogliano ristamparlo perché, a distanza di sessant’anni, rimane un’imperdibile e scoppiettante guida ai giorni - e alle notti - dei caffè esistenzialisti e della Parigi sartriana. Ma gli anni Cinquanta volgono al termine e le condizioni fisiche di Vian peggiorano. La casa di produzione SIPRO acquisisce i diritti di Sputerò sulle vostre tombe e gli commissiona la sceneggiatura. Lui consegna una prima versione ma i produttori gliela contestano, affermando che 75 cartelle non sono sufficienti per ricavarne un film. Vian prende nota, e dopo qualche settimana consegna una seconda stesura: questa volta le pagine sono 177! La casa di produzione lo esautora dal progetto e fa ricorso ad altri sceneggiatori, tra cui lo stesso regista Michel Gast. Per tutta risposta, Vian riscatta il titolo del romanzo con l’intenzione di rivenderlo alla CTI (Cinema e Televisione Internazionale) e realizzarne un altro film. Ma la CTI è legata alla SIPRO, e le due produzioni di alleano contro di lui. Il film viene realizzato, e siamo tornati alla fine della storia: il giorno della prima, solitario e di malumore, Vian va al cinema dove si terrà la proiezione. E lì, nella sala del Petit Marbeuf, proprio come un personaggio dei suoi racconti, dopo aver lanciato il suo ultimo improperio, muore. Aveva scritto in una delle sue poesie: Morirò un po’, molto Senza passione, ma con interesse E poi quando tutto sarà finito Morirò Perché la morte se l’era sempre portata dentro, in quel cuore dai giorni contati, che lui bruciò ancora più in fretta, per la frenesia e la vitalità con cui li spese. Perché c’è una grande vitalità in tutto ciò che Vian scrive, che siano canzoni, racconti o poesie. Basta ascoltare quel che lui stesso scrive di sè, nel finale di una scherzosa autobiografia: Metto al primo posto le poesie di Alfred Jarry, la fornicazione, Un rude hiver e la mia beneamata sposa. Non dimentico, anche se vengono dopo: la musica di New Orleans, Duke Ellington, Lana Turner (...). Le ragazze dei jazz club universitari (soprattutto quella bionda col vestito verde... vabbe’, lasciamo perdere). (...) Detesto Paul Claudel (l’ho già detto ma è piacevole ripeterlo ed è per questo che non ho mai letto nulla di suo), aborrisco anche Le grand Meaulnes, Alain (non mio fratello, che è un tipo completamente fuori), Peaguy, il violoncello jazz come lo suonano i francesi, le opere di immaginazione, le bugie, gli

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apparecchi di piccolo formato, Ivan il Terribile (...). Odio anche: Monseigneur Suhard e il papa. Borbotin, mi piace molto. Invece non mi piace il davanti piatto (questo nelle donne), poi l’invidia e la merda salvo quando sono ben preparate. Inoltre sto cercando un appartamento di cinque stanze con tutti i confort. Ho avuto una vita movimentata ma sono pronto a ricominciare!!! > Bibliografia Romanzi Conte de fées à l’usage des moyennes personnes (scritto nel 1943, pubblicato postumo). Trouble dans les Andains (scritto nel 1947, pubblicato postumo). Vercoquin et le Plancton (1946), traduzione italiana: Vercoquin e il plancton, Corbaccio. L’écume des jours (1947), traduzione italiana: La schiuma dei giorni, Marcos y Marcos. L’Automne à Pékin (1947), traduzione italiana: L’autunno a Pechino, Sellerio. L’herbe rouge (1950), traduzione italiana: L’erba rossa, Marcos y Marcos. L’Arrache-Coeur (1953), traduzione italiana: Lo strappacuore, Marcos y Marcos. Manuel de Saint-Germain-des-Prés (pubblicato postumo), traduzione italiana: La Parigi degli esistenzialisti, Editori Riuniti.

Ferrara, zuccherificio, 1987

Racconti Les Fourmis (1949), traduzione italiana: Le formiche, Marcos y Marcos. Le Loup-Garou (1970), traduzione italiana: Il lupo mannaro, Marcos y Marcos. Le ratichon baigneur (pubblicato postumo), traduzione italiana: Un mestiere da cani, Editori Riuniti. Con lo pseudonimo di Vernon Sullivan: J’irai cracher sur vos tombes (1946), traduzione italiana: Sputerò sulle vostre tombe, Savelli (1979), Marcos y Marcos. Les morts ont tous la même peau (1947), traduzione italiana: Tutti i morti hanno la stessa pelle, Marcos y Marcos. Et on tuera tous les affreux (1948). I Shall Spit on Your Graves (1948). Elles se rendent pas compte (1950), traduzione italiana: Perché non sanno quello che fanno, Marcos y Marcos. [ 96 ]


[RIPESCAGGI]

❝ [...] eravamo

ormai una società, noi tre. Eravamo riusciti a non far danno, a equilibrarci, a non metterci il piede sul collo a vicenda. Avevamo soltanto cercato di non negarci una cosa giusta e possibile in un mondo non ancora giusto e difficile... ❞ Bologna, officina Ferrovie dello Stato, 1988

giovanni arpino e la “giusta distanza” dall’oggetto narrativo

❚ La lingua impossibile di Mauro Boarelli

N

el febbraio 1962 la casa editrice Mondadori dà alle stampe il nuovo romanzo di Giovanni Arpino, Una nuvola d’ira. Nel pieno del boom economico e dell’industrializzazione, Arpino sceglie di scrutare i mutamenti profondi che attraversano il paese con gli occhi e le parole di tre operai comunisti torinesi. Tre operai che non vengono raccontati nella fabbrica, nei

rapporti di lavoro, nel conflitto sindacale, ma nella vita privata, nel cerchio ristretto della loro relazione personale. Arpino trasporta in un contesto operaio il ménage à trois di classica ambientazione borghese. Matteo e sua moglie Sperata ospitano a pensione Angelo, un operaio meccanico qualificato relegato in un reparto-confino a causa della sua attività politica. Angelo e Sperata intrecciano una relazione, senza dichiararla e senza fare nulla per nasconderla, e Matteo sembra accettare questa situazione fino all’epilogo finale,

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quando - accecato dalla nuvola d’ira che dà il titolo al libro - fugge dall’ospedale nel quale era ricoverato in attesa di un’operazione, ritorna nel proprio appartamento e, nell’assenza di sua moglie e del suo amante, distrugge gli oggetti-simbolo del miracolo economico: il frigorifero, il televisore, il phon, il telefono. La relazione fra i tre è la soluzione narrativa escogitata da Arpino per dare corpo al disagio esistenziale e politico che, in forme diverse, avvolge i protagonisti. Matteo, ex partigiano e disilluso dalla politica, diffidente nei confronti di ciò che il benessere economico porta con sé, testimonia il legame con i valori preindustriali, con la campagna nella quale cerca l’ultimo rifugio prima di morire. Angelo incarna la supremazia ideologica nei confronti della “massa” vittima dell’integrazione consumistica, la ribellione verso il suo stesso partito, dal quale si isola per sottolineare la propria alterità nell’incapacità di condividere con altri qualsiasi idea di trasformazione sociale. La convinzione di essere dalla parte del giusto - sia pure nella forma sterile della testimonianza individuale, verbale e passiva non l’abbandona neanche quando la tragedia sta per consumarsi, mentre insieme a Sperata si mette alla ricerca di Matteo, scomparso una volta esaurita la propria furia distruttiva e in fuga verso la morte. A lei, che ora inizia a vacillare sotto il senso di colpa, si rivolge con queste parole: “Ma tu l’hai capita una buona volta la differenza che passa tra noi e gli altri? Noi capiamo sempre, anche quando gli altri stanno zitti. E gli altri non vogliono capire anche quello che noi diciamo nel modo più chiaro”. Sperata è in bilico tra l’integrazione nella nascente società consumistica (e non a caso il marito colpisce gli oggetti domestici a lei più cari, frutto del proprio riscatto sociale) e la consapevolezza dei suoi limiti. Il rapporto con Angelo le appare come la soluzione a queste contraddizioni, la scelta consapevole e matura di liberarsi dalle convenzioni morali, una liberazione che non si realizza grazie al raggiunto benessere, ma attraverso una nuova ideologia: “[...] eravamo ormai una società, noi tre. Eravamo riusciti a non far danno, a equilibrarci, a non metterci il piede sul collo a vicenda. Avevamo soltanto cercato di non negarci una cosa giusta e possibile in un mondo non ancora giusto e difficile. Non avevamo teso trappole, anche se non si era mai arrivati a una spiegazione vera”. In una lettera all’autore della fine del 1979, Osvaldo Soriano definì l’atteggiamento dei due amanti come il “dilemma [...] del tradimento senza voler tradire”.

L’impossibilità di sciogliere questo dilemma è il nucleo fondamentale di tutta l’opera. Arpino non vuole indagare il rapporto tra il lavoro in fabbrica e la vita quotidiana, né i meccanismi del consumismo nascente, ma metterne in luce gli aspetti “alienanti” e la difficoltà del discorso politico a comprenderli e modificarli. Per questo assume un punto di vista esterno al lavoro e mette in scena tre personaggi che costruiscono una storia-limite, alla ricerca di una giusta distanza rispetto all’oggetto della sua indagine narrativa. Questo approccio è spiazzante per la cultura comunista, che infatti accoglie molto freddamente il romanzo. Dapprima Carlo Salinari su “Vie nuove” (l’8 marzo), poi Michele Rago su “L’Unità” (il 23 marzo) esprimono la propria delusione di fronte alla nuova opera di un autore per il quale nutrono stima. Nulla a che vedere con le recensioni aspre e ideologiche che negli anni cinquanta avevano messo all’indice gli autori non allineati (basta ricordare quella di Mario Alicata a proposito del romanzo di Carlo Levi L’orologio, su cui ci siamo soffermati nel primo numero di questa rivista). I tempi sono cambiati, ma si tratta pur sempre di una accoglienza negativa. Entrambi i critici riconoscono il coraggio di Arpino nella scelta del tema, ma non fanno nulla per mascherare il fastidio rispetto a una rappresentazione della classe operaia troppo distante da quella “ortodossa”. Per Salinari, l’autore semplifica troppo temi e personaggi, mentre Rago accenna senza però approfondirla - a una “visibile trascuratezza letteraria”. Ma nessuno dei due prende di mira il punto sul quale Arpino si dimostra più vulnerabile: la lingua con cui fa dialogare i personaggi. Alberto Asor Rosa coglie questo problema nella sua recensione su “Mondo nuovo” (il 25 marzo), dove sottopone a critica l’uso del “dialogo insistito” dei protagonisti del libro, i cui ascendenti individua in Elio Vittorini. Quell’“onda incalzante di parole” - a suo parere - si infrange nel vuoto, perché Arpino non si rende conto “che le cose creano le parole, e non viceversa”. In questo modo, però, riconduce il tema del linguaggio entro una cornice ideologica, perché ciò che rimprovera ad Arpino è - in ultima analisi - di aver rinunciato a raccontare le fabbriche, i partiti, la lotta di classe. È questo a rendere il linguaggio qualcosa che gira a vuoto senza approdare a nulla, senza rappresentare nulla. È un rimprovero sul piano politico, prima ancora che su quello letterario. L’analisi più lucida dell’aspetto linguistico è quella di Italo Calvino, che in una lunga lettera privata rovescia il punto di vista dei detrattori del romanzo, ed elogia

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AUTORE

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Ferrara, mercato rionale, 1985

proprio la scelta dei personaggi e del loro modo di rapportarsi al mondo: “la tua illuminazione è stata di farne in realtà i più alienati di tutti, quanto più si credono liberi [...]”. Ma, interrogandosi se sono anche personaggi poetici, senza giri di parole sentenzia: “non mi va come parlano”. La sua obiezione è che Arpino ha scelto un linguaggio “unitario”, funzionale ad esprimere una coscienza etica, politica e culturale entro uno stile parlato e popolare. È qui che il meccanismo del romanzo si inceppa, perché “non si può costruire in narrativa un linguaggio armonico per esprimere qualcosa che armonico non è ancora”. Ricordando i suoi personali insuccessi - ma anche quelli di Vittorini

e Pavese - nel tentativo di trasferire sul piano narrativo il linguaggio politico, Calvino sostiene che la strada da seguire doveva essere quella di mostrare il conflitto tra i vari linguaggi, quello ideologico, quello quotidiano, quello letterario, anziché sperimentare una impossibile omogeneità o sintesi, oppure affidare il racconto a un narratore esterno (Italo Calvino, Lettere 1940-1985, Mondadori, 2000, pp. 700-704). È questo il nodo che Arpino non riesce a sciogliere. Ma l’invenzione di un nuovo linguaggio poetico in grado di rappresentare il conflitto politico resterà un compito arduo per molti scrittori che si cimenteranno con questo tema dopo di lui.

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Ciudad Real (Spagna), venditrice di olive, 1990

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[RIFLESSIONI]

❝ La città mi ha

insegnato infinite paure: una folla, una strada mi han fatto tremare, un pensiero talvolta, spiato su un viso. Sento ancora negli occhi la luce beffarda dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccio ❞ Ferrara, montaggio palco, 2009

lavoro, città, spaesamento: sul set di lavorare stanca

❚ L’adorata immediatezza... di Niva Lorenzini

I

versi in epigrafe appartengono a una delle più note poesie-racconto di Lavorare stanca, I mari del Sud, situata in apertura della raccolta e datata 7-19 settembre / novembre 1930. L’incubo metropolitano, la folla, un incontro occasionale, e per contrappasso la solitudine, lo spaesamento, il silenzio, riempiono di sé non solo questi versi, scanditi da un’andatura ritmica solfeggiata su metro narrativo, ma l’intero volume pubblicato nel ’36 per le edizioni di “Solaria”.

Si possono leggere, quei versi, anche senza pensare al Pavese assiduo frequentatore di cinema ed esperto estensore, tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, di riflessioni saggistiche sulla tecnica cinematografica. E si penserà allora, per vicinanza tematica, all’ispiratore che suona più facile chiamare in causa, il Baudelaire pittore della vita moderna, che nei suoi tableaux parisiens ritrae passanti anonimi e boulevards affollati, scalpiccio delle strade e desolazione di un “io” che si scopre spersonalizzato, sedotto e respinto sino all’abiezione dal fascino della città e dalla scoper-

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ta del molteplice (l’“io è un altro” di cui tratta anche Rimbaud). Non sbaglierà certo chi risalirà a quelle fonti. Ma l’uso così preciso e diretto di uno scrivere per immagini, qui come in molti altri luoghi di Lavorare stanca, spinge a esplorare anche in altre direzioni, che riservano sorprese soprattutto se si affiancano ai versi quegli scritti sul cinema cui si accennava, riuniti ora nel recente volume einaudiano Il serpente e la colomba curato da Mariarosa Masoero. Torino non è Parigi. Aleggia un sentore decadente, qua e là gozzaniano o scapigliato, sulla folla che ondeggia tra “la sterile mole / delle case ammucchiate” che costituiscono lo sfondo urbano della raccolta. E non è neppure la Torino della Fiat, commenta Marziano Guglielminetti introducendo nel 1998 le Poesie nei tascabili Einaudi, anche se parlare, come si fa qui, di “fabbriche”, interrompe e ribalta una consuetudine di poesia lirica che non le contemplava di certo. È semmai la Torino in cui il Pavese cinefilo trascorre ore e ore nelle sale cinematografiche sia del centro che della periferia, assistendo di preferenza alle pellicole americane intrise del realismo anni Venti, che veicolano un’epica popolare e di massa. Non sarà difficile, al lettore un po’ a sua volta cinefilo, collegare a quella sua Torino di prostitute e ubriachi, operai, muratori, meccanici, diseredati, la Folla protagonista del capolavoro di King Vidor realizzato nel 1928, con l’epopea di sconfitti dalla logica del profitto che aliena e spersonalizza, nella spietata realtà metropolitana. Qualche spunto lo lasciano anche le ultime propaggini del cinema muto, e certo espressionismo tedesco, certe ricerche della cinematografia russa, dalla Nuova Oggettività di Ruttmann allo Arsenal (1928) di Dovženko, vero inno all’epopea dell’operaio-eroe. Ma è il cinema statunitense a segnare di sé con maggiore intensità l’apprendistato poetico di Lavorare stanca, specie se si pensa a storie di vita proletaria, temi di disoccupazione e miseria, cronache di degrado, fuga dalle campagne verso il miraggio di città in cui si intrecciano ciecamente, con impatto traumatico, vite e destini. I temi che sono al centro anche della letteratura frequentata da Pavese, da Dos Passos con la descrizione di una New York brulicante e corrotta, a Faulkner e alle sue metafore di una società in sfacelo, e ancora dall’impegno sociale di Steinbeck a Cain, non a caso sceneggiatore in proprio di un’America squallida e violenta. A me pare che certe poesie di Lavorare stanca – quelle maggiormente interessate dai segni dello sfruttamento e dell’emarginazione – se visualizzate secondo quest’ottica, si rivelino già di per sé appunti di sceneggiature. Siano cioè poesie pensate in qualche modo

per una resa in immagini, fotogrammi da montare in sequenza, soggetti potenzialmente cinematografici (prima ancora che Pavese ne realizzi, negli ultimi mesi di vita, otto, tutti senza successo). Il cinema aleggia su tutte le prime poesie del libro, quelle che risalgono in particolare agli anni ’30 – ’33, che lo accolgono anche direttamente come motivo tematico, dal vagabondare tra sale di periferia, luoghi-rifugio di solitudini, ove si fuma di nascosto e si “portano” ragazze (così in Canzone di strada), alla descrizione dei “cartelli dei cinematografi” affissi sui muri e caratterizzati da un realismo figurativo pienamente rispondente a quello di trame scarnificate (ne riferisce il Masino di Ozio, simulando un linguaggio parlato, ruvido, sgrammaticato, riprodotto senza filtri: “Fa bene quel buio / alla vista spossata dei troppi lampioni. / Tener dietro alla storia non è una fatica : / vi si vede una bella ragazza e talvolta c’è uomini / che picchiano secco. Vi sono paesi / che varrebbe la pena di viverci, al posto / degli stupidi attori”). Ma c’è poi un altro livello, più complesso e profondo, che interessa le stesse trame di emarginazione e solitudine, tratteggiate tra città e periferia. Trame di gente umiliata e sfruttata, si tratti di ex carcerati o prostitute come Deola e Gella, o di operai, meccanici, muratori, uomini “dalle mani indurite”. Se un libro si intitola Lavorare stanca potrà pure essere normale che di lavoro trattino i testi. Meno normale, e meno scontato, è che il termine “lavoro” venga ripetuto a volte sino all’ossessione iterativa, e rintocchi di testo in testo, da Paesaggio a Pensieri di Deola, e soprattutto da Disciplina a Rivolta a Esterno, con frequenza altissima, a volte più fitta di quella di lessemi altrettanto presenti, come “città”, “folla”, “strada”, “case”, “corso”, “vie”, “passanti”, “gente”, “asfalto”, “lampioni”, “muri”, “fabbriche” (contrapposti a “terra”, “erba”, “prati”, “colline”, “luce”, “sera”, “buio”, “ombra”, “stelle”, “notte”). È soprattutto Disciplina (1934) a ospitarne un’eco inebetita. Il termine “lavoro” vi si replica infatti senza sviluppo tematico, con una fissità raggelante che conferisce alla poesia il valore di un manifesto dell’alienazione e dello sfruttamento (“I lavori cominciano all’alba. Ma noi cominciamo / un po’ prima dell’alba a incontrare noi stessi / nella gente che va per la strada. Ciascuno ricorda / di esser solo e aver sonno scoprendo i passanti / radi – ognuno trasogna fra sé, / tanto sa che nell’alba spalancherà gli occhi. / Quando viene il mattino ci trova stupiti / a fissare il lavoro che adesso comincia”). Il termine lavoro torna quattro volte in quattordici versi. Può avere ragione chi legge in Lavorare stanca

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AUTORE

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Gorino (Ferrara), pescatore, 1983

una concezione proto-industriale o post-gozzaniana del lavoro, non riscattata da una sensibilità da chapliniani Tempi moderni: ma che dire però di Esterno, ove si discorre della “mezz’ora” consentita agli operai per “mangiare affamati”, e riprendere subito dopo il “lavoro” su cui “la schiena si rompe”? O dei toni materici, cupi, illividiti, di Rivolta? (“Quello morto è stravolto e non guarda le stelle: / ha i capelli incollati al selciato. La notte è più fredda. / Quelli vivi ritornano a casa, tremandoci sopra […] Domani qualcuno sogghigna / disperato, al lavoro. Poi, passa anche questa”). È comunque un lavoro di individui soli, quello che si rappresenta, incapaci di socializzare e di organizzarsi per difendere diritti comuni, credere in un riscatto collettivo.

Ma negli anni della repressione di regime, con a fianco la piena egemonia ermetica, quella di Pavese è perlomeno voce anomala, spiazzante, anche se i suoi testi non raggiungono sempre la piena autonomia delle immagini oggettivate: non è, la sua, “bella” poesia, non è poesia armonizzata o sublimata nel lessico. E i suoi punti di riferimento non sono né Quasimodo né Ungaretti o Montale. Il cinema, piuttosto, e la letteratura angloamericana, consentono di apprezzare, se si segue quell’ottica, gli abbozzi di racconto che le poesie sviluppano in sintonia con la scrittura in prosa, e certe innovazioni espressive, certa ricerca sintattica, che dal cinema paiono autorizzate. A queste punta sicuramente Pavese quando nei saggi critici, in particolare in uno scritto del ’27 intitolato

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Per la famosa rinascita, insiste sul bisogno del cinema di mettere a punto una “immediatezza espressiva” in grado di dare “espressione nuova” a “i sussulti, le sofferenze, le ricerche, le contraddizioni, le vibrazioni più spasmodiche e profonde” della vita moderna. Non è il cinema che si pratica in Italia a interessarlo, con trame ispirate ai romanzi storici o d’appendice, moralistici e pieni di “ciarpame”, di “puzza di riscaldato”; ama piuttosto la ricerca ardita di nuove espressioni tecniche poste in atto dal grande espressionismo tedesco (come in Metropolis di Fritz Lang, del 1926), e la “sveltezza del taglio” consentita dalla fotografia, o il montaggio, che restituisce la “visione in movimento” e quella rallentata, costringendo a sintesi espressive cui collabora efficacemente la stilizzazione tra luce e ombra. Sulla scorta di quelle indicazioni Lavorare stanca può rivelare a chi legge nuove prospettive, se si fa attenzione proprio al rapporto luci-ombre, al gioco di dissolvenze, alle contrapposizioni tra campi lunghi e primi piani, alla fissità di inquadrature che sospendono il gesto, l’azione, in piena evidenza figurativa. Pavese confessa di essere ignaro di terminologia cinematografica; ma è però capace di isolare un dettaglio, fermarlo sotto l’obiettivo dell’occhio-cinepresa, come in Mania di solitudine (“Mangio un poco di cena seduto alla chiara finestra. / Nella stanza è già buio e si guarda nel cielo […] Le stelle son vive, / ma non valgono queste ciliegie, che mangio da solo […] Basta un po’ di silenzio e ogni cosa si ferma […]”), o in Cattive compagnie (“Questo è un uomo che fuma la pipa. Laggiù nello specchio, / ce n’è un altro che fuma la pipa. Si guardano in faccia”). C’è molta immobilità in Lavorare stanca, molta fissità, densa, materica, rappresa, molto buio, molta ombra, per definire immagini attraverso uno stile fatto di cadenze ripetitive e ritorni ossessivi, che si ostinano a posizionarle “nella realtà”, come scriverà più tardi Pavese in uno scritto del ’49, Raccontare è monotono. Posizionare le immagini nella realtà. E la realtà, la Torino che fa da sfondo a testi di degrado ed emarginazione di Lavorare stanca, se non è – come la Parigi o la Berlino di Kracauer – labirinto di segni frammentari e

di reificazione, se non è insomma a pieno titolo spazio metropolitano, consente però di sperimentare l’alienazione, la separatezza, e i margini di rivolta impotente contro il conformismo, la violenza, il degrado urbano. L’impatto è ancora interiorizzato, nonostante i propositi di oggettivazione, come è interiorizzato il confronto, l’attrito, tra città e campagna, folla e silenzio, asfalto ed erba, interiorizzata la dicotomia luce-buio. Ma è forse proprio quella dicotomia a chiederci poi un supplemento di indagine. Non c’è dubbio che l’insistenza sul buio, l’ombra, la notte, la scrittura insomma da racconto nero – potrei indicare in sintesi, collegandomi alla inchiesta promossa da “Letteraria” nel suo primo numero – contenga un potenziale di lucida coscienza critica. Ambientazione nera, scrittura nera, contenuti neri, di cui scriveva ad esempio Giampiero Rigosi in un suo denso studio sul “romanzo bianco”, occupano le trame di Lavorare stanca, così esposte all’improvvisa sottrazione di luce, che risulta destabilizzante, eversiva, per l’inquietudine che le si collega: è un buio che fa emergere inquietudine esistenziale (“Nella stanza è già buio […]”, Mania di solitudine), ma insieme rivela miserie sociali, paura, ferocia, frustrazione, degrado, è buio di denuncia (È una gente che beve soltanto di notte […]”, Il tempo passa; “L’uomo fermo ha davanti colline nel buio […]”, Legna verde; “Nella notte la piazza ritorna deserta […], Lavorare stanca; “Ogni notte è la liberazione […]”, Due sigarette). Per concludere: è la “terza attività” (quella del cinema, per intendersi) a consentire a Pavese questo sguardo oggettivato, questa attenzione cromatica, questa nettezza stilistica, questa evidenza fantastica. È il cinema a indirizzarlo verso il “taglio incisivo”, il “timbro netto” (“Immaginavo un caso o un personaggio – confessa nel Mestiere di scrivere – e lo facevo svolgersi o parlare”). È il cinema a trasmettere il bisogno di concretezza che pervade personaggi e tematiche di vita urbana, operaia, proletaria, con la loro “sobria energia di concezione”. Una sfida lunga quanto la vita, per il Pavese poeta sempre in urto con la realtà, sempre in difetto rispetto all’ “adorata immediatezza” che persegue senza poterla raggiungere.

...storie di vita proletaria, temi di disoccupazione e miseria, cronache di degrado, fuga dalle campagne verso il miraggio di città in cui si intrecciano ciecamente, con impatto traumatico, vite e destini.

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[RIFLESSIONI] lettura e critica ai tempi della narrazione multimediale

Ferrara, microscopia elettronica, 1987

❚ Racconti meticci di Alberto Sebastiani

I

n Fahrenheit 9/11 (2004), quando Michael Moore racconta il momento in cui George Bush jr. dichiara la fine della guerra in Iraq (01/05/03), sono usate le riprese ufficiali sulla portaerei Lincoln. Mentre queste scorrono, tra sorrisi e applausi, un motivo pop emerge gradualmente. Si tratta di una canzonetta: Believe it or not di Joey Scarbury. Chi non la conosce, e non parla inglese, sente un solare motivo commerciale. Chi sa la lingua, sente strofa e ritornello scandire: “Look at what’s happened to me, / I can’t believe it myself. / Suddenly I’m up on top of the world, / It should’ve been somebody else. / Believe it or not, / I’m walking on air. / I never thought I could feel so free. / Flying away on a wing and a prayer. / Who could it be? / Believe it or not it’s just me”. In entrambi i casi, è chiaro un evidente intervento dell’autore, un commento con amara ironia. Se però si sa che la canzone è la sigla di Ralph Supermaxieroe,

telefilm americano dei primi anni ’80 (The Greatest American Hero), la scelta si rivela feroce. Ideato da Stephen J. Cannell, il telefilm racconta infatti le (dis)avventure di Ralph Hinkley (William Katt), insegnante che riceve dagli extraterrestri un costume speciale che gli dà abilità superumane. Il problema, però, è che Ralph perde il manuale di istruzioni, non sa usare il costume correttamente, e procede per maldestri tentativi. In pratica, ha tutti i poteri del mondo, ma non sa usarli. Non ne è in grado, è un pasticcione. Attraverso la colonna sonora, quindi, Bush jr. è paragonato a Ralph. La voce dell’autore diventa così feroce nella sua ironia, non più amara. La colonna sonora è parte del testo filmico, del suo elemento sonoro, che si deve (dovrebbe) integrare con quello visivo, per creare paesaggi sonori, atmosfere, effetti di reale, ma anche per esprimere un commento alla situazione. Il brano musicale (colto o pop che sia) è una voce del testo filmico. Il che comporta problemi.

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Prendiamo una canzone pop (di qualsiasi genere), cioè un testo complesso composto da parole e musica: se la si sceglie solo per le atmosfere musicali che essa crea, ignorando i versi, si rischiano situazioni stridenti. È il caso di Nirvana di Gabriele Salvatores (1997): quando Jim Dini (Christofer Lambert) entra nel quartiere periferico, tra pioggia e fredde luci elettriche alla Blade runner, parte John Barleycorn (must die) nella versione del 1970 dei “Traffic”. Una folk-song meravigliosa, struggente, ma il problema è che il brano, che risalirebbe al XV secolo e di cui esistono decine di versioni, canterebbe metaforicamente l’epopea del whisky, dalla semina alla distillazione. John Barleycorn è infatti un buffo omino, personificazione del whisky e della birra nella tradizione popolare. Storia cantata e film, quindi, hanno poco in comune. La musica crea l’atmosfera adatta, ma il testo stride. È un problema di concertazione per un discorso complesso. Ciò riguarda non solo la produzione e la critica cinematografica, ma anche quelle letterarie, oggi. Finora si è più che altro pensato all’interazione tra musica e letteratura nella messa in musica testi letterari, cantati o recitati, sia nel passato che in anni recenti (come Il porto sepolto, del 2002: il cantautore Andrea Chimenti musica e interpreta le poesie di Ungaretti). Da tempo, però, si parla di audiolibri (da anni diffusi nei paesi anglosassoni, finora rivolti più che altro ai non vedenti in Italia). Non hanno un ampio successo nel nostro Paese, ma scrittori, poeti e musicisti si sono cimentati in registrazioni sia di sola voce (e qui si è trattato “soltanto” di un cambio di supporto rispetto alle tradizionali registrazioni su cassetta, 45 o 33 giri, come ha ricordato Maria Serena Palieri su “l’Unità”, 05/06/09, recensendo gli audiolibri della casa editrice Emons), sia di voce e musica. Prodotti nati magari da reading pubblici, come La via del mare (2005), di Claudio Lolli, Paolo Capodacqua e Gianni D’Elia. In generale, i brani letterari sono accompagnati o intervallati da musiche originali, o da brani celebri, spesso strumentali, in grado di inserirsi armoniosamente nella narrazione, per tema, ritmo, atmosfera. Ci sono poi audiolibri che sono anche spettacoli teatrali, come Allucinéscion. Una storia di jazz di Giampiero Rigosi (Mobydick 2008), racconto ambientato a Bologna, letto dall’autore e da Ferruccio Filipazzi, e musicato dal quartetto bluejazz “Faxtet”, che per la Mobydick ha lavorato a prodotti analoghi con Stefano Tassinari, Guido Leotta, Carlo Lucarelli, Giovanni Nadiani, Aldo Gianolio, Paolo Nori. L’audiolibro Allucinéscion presenta un racconto, ma anche, al suo interno, una canzone cantata da Serena

Bandoli, Air, scritta da Guido Leotta: immagini d’amore (per il) jazz. Non è nel testo del racconto di Rigosi, ma ne diventa parte. È il destino di tutte le narrazioni multimediali. Oggi sempre più narrazioni fondate sulla scrittura crescono multimediali, spesso su più canali. I supporti stessi lo consentono, e forse lo richiedono. Basti pensare ai romanzi in formato tradizionale che si sviluppano sul web in narrazioni partecipate (come Il ladro di anime di Sebastian Fitzek, per citare un caso recente), ma anche agli ebook, termine col quale in Italia ancora si chiama sia il supporto materiale, il visualizzatore, sia il testo. Dopo anni che se ne parla, anche nella speranza di costruire una biblioteca universale, come disse Kevin Kelly (Scan This Book!, “New York Times”, 14/05/06, nytimes.com), nell’estate 2009 sembra che l’ebook sia tornato di moda. Se da un lato non sorprende l’elogio che ne fa Christian Rocca su “Wired” di agosto (Il mio amico ebook), fa specie la pagina di Angelo Aquaro su “la Repubblica” (I colossi Usa alla guerra dell’ebook, 07/08/09), che racconta della “guerra” negli Usa per il controllo del mercato degli ebook. Non interessa, in questa sede, entrare nel dibattito sull’abbandono della carta, cosa impensabile secondo Umberto Eco (si veda il suo dialogo con Jean-Claude Carrière, Non sperate di liberarvi dei libri). D’altronde persino su “Wired”, mentre Rocca esalta le proprietà del Kindle 2, Maurizio Ferraris sostiene ancora, strenuamente, il cartaceo. Resta però il fatto che l’ebook ha rilevanza mediatica nel contesto odierno, ricco più che mai di attese. Da tempo si dice che potrebbe modificare il nostro modo di leggere, vendere, comprare libri (la loro immediata fruibilità, la loro connettibilità e la possibilità di navigarvi, di farvi ricerche lessicali, o per temi, argomenti, motivi, aiutati magari da tag…). E anche di scriverli. Per Steven Johnson (How the E-Book will change the way we read and write, “Wall Street Journal”, 20/04/09, online.wsj.com), ad esempio, comporterà una mutazione nel modo di costruire storie da parte degli autori, e di organizzarle graficamente (tra tag, link e altro ancora) in collaborazione con gli editori. Inoltre, il supporto si presta a nuove costruzioni: testi narrativi e poetici aperti a video e suoni, da concertare. Se poi si osserva la rete 2.0, le narrazioni multimediali in testi fondati sulla scrittura, non necessariamente letterarie, sono onnipresenti. Sempre più spesso esse abbandonano lo schema “classico” del prodotto testuale confezionato dall’autore e offerto ai lettori, percorso creativo unidirezionale dell’era pre-digitale, incrinato dalla mediattività, e si fanno partecipativi. Nuove for-

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[ SEBASTIANI ] per stabilire parametri critici. Per definire, ad esempio, quando si tratti di una riuscita costruzione testuale complessa, o di giustapposizione o di (tentativi di) abbellimento del prodotto. Per capire se e come si possa parlare di letteratura. Un’operazione per distinguere, e riconoscere eventuali trasposizioni su un nuovo media di forme e di tecniche già note. Una ricerca che richiede, evidentemente, apporti da più discipline, perché non si può osservare solo la parola scritta di testi multimediali. Sarebbe come, per un fumetto, valutare solo o il disegno o l’elemento verbale. Insomma, l’ibridazione è la cifra del nostro tempo meticcio, tra prodotti multimediali, crossmediali e transmediali. Gli autori letterari incontrano i nuovi media. In parte non c’è nulla di nuovo: prima flirtavano con radio, televisione, cinema, poi anche col fumetto. Supporti diversi per narrare, e modi diversi di scrivere, che magari rendono gli autori solo fautori di una parte del testo. Nelle nuove narrazioni multimediali si troveranno autori-coautori, autori che orchestrano più media, autori di testi e curatori di colonne sonore, registi di video, aiutati da operatori o in proprio… E ai lettori saranno richieste sempre più competenze per leggerne i testi. Quindi anche ai critici. Ed è solo l’inizio, ma è già cominciato da un po’. Ferrara, sala operatoria, 1986

> Bibliografia

me di narrazione, nuovi concetti di autore, e nuovi modi di leggere, di interpretare, di valutare. Non è pensabile che la critica, di fronte a una realtà incalzante, volti la faccia. La trasformazione delle forme narrative e dei supporti, il loro successo, hanno già richiamato sguardi sociologici, mediologici, culturologici. Gli studi tendono però a non analizzarne il valore estetico. La linguistica da tempo descrive e studia il web writing, tra chat, forum, e-mail e blog, c’è chi ha osservato il rapporto tra romanzo e rete, chi inizia a parlare di net literature, di letteratura fluida o di e-letteratura. Si tratta dunque di superare ritrosie ed entusiasmi, e discutere lo statuto e la qualità sia delle produzioni legate alla scrittura tradizionale (come i blog e la fanfiction scritti), sia quelle nuove, complesse, in cui l’ibridazione è la norma. La situazione è estremamente fluida, e si fa sempre più necessario, per i prodotti testuali che si fondano ancora in (larga) parte sulla parola, capire a quali tradizioni compositive siano riconducibili, riconoscere nei testi misti l’interazione delle parti scritte con gli elementi audio, video, grafici (prosodia, sintassi, retorica…). Ciò per valutare il grado di complessità e di qualità,

È utile partire da un testo propedeutico come Pensare digitale di U. Guidolin (2005). Poi, almeno: N. Negroponte, Essere digitali (1996), T.H. Nelson, Literary Machines 90.1. Il progetto Xanadu (1992) e L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media (2002), su avvento e potenzialità del digitale; P. Lévy, L’intelligenza collettiva (1996), D. De Kerchove, L’intelligenza connettiva (1999) e P. Musso, L’ideologia delle reti (2007) sulla partecipazione, tra riti e miti; S. Johnson, Tutto quello che fa male ti fa bene (2006) sulla complessità della pop culture; H. Jenkins, Cultura convergente, (2007) e Fan, blogger e videogamers (2008), M. Giovagnoli, Fare cross-media (2005) e Cross-media (2009) ed E. Fleischner, Il paradosso di Gutenberg (2007), sulle nuove narrazioni multimediali; F. Carlini, Lo stile del web (1999), F. Orletti, Scrittura e nuovi media (2004) e M. Prada, Lingua e web (in La lingua italiana dei mass media, 2003), su lingua e stile; A. Abruzzese e I. Pezzini, Dal romanzo alle reti (2004), Abruzzese e G. Ragone, Letteratura fluida (2007) e Ragone e F. Tarzia, Mutazioni. La letteratura nello spazio di flussi (2004) sulla questione letteraria.

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Padova, laboratorio di restauro, 2006

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[DAL MONDO] traduzione e spaesamento nella scrittura della diaspora indiana

❚ Salman e gli altri Cuenca (Spagna), laboratorio di terracotta, 1990

di Federica Zullo

P

er comprendere la posizione dello scrittore migrante indiano è fondamentale analizzare il concetto di traduzione che Salman Rushdie ha utilizzato sia nella produzione saggistica, sia in romanzi come La vergogna (1983) e I versi satanici (1989). Il termine proviene etimologicamente dal latino “trasportare” e lo scrittore, a riguardo, sostiene che tutti i migranti sono persone tradotte, per cui è naturale che qualcosa si perda nel passaggio della traduzione, ma che molte cose vengano allo stesso tempo conquistate. È indubbio che nel passaggio da un Paese all’altro, oltre alla perdita di elementi legati al luogo di provenienza, si acquisiscano nuove ricchezze culturali,

le quali vanno a mescolarsi al patrimonio intellettuale d’origine, facendo dello scrittore migrante un archivio stratificato di culture, capace di rievocare la terra amata da una prospettiva che arricchisce ancor di più tale ricordo. In La vergogna, Salman Rushdie, riferendosi al problema del Bangladesh e al movimento di massa dei profughi scoppiato nel 1971, anno di nascita della nazione indipendente, sottolinea l’ironia della storia che colpisce il triste destino di chi è stato costretto ad abbandonare la propria casa senza sapere se ci sarà mai l’opportunità di trovare un altro posto nel mondo. Lo scrittore indiano migrante, rievocando il Paese d’origine e facendone materia di narrazione, può solamente scrivere un libro di ricordi sul tema della memoria, creando una propria India, una versione delle

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Ferrara, centro riabilitazione San Giorgio, 1994

centinaia di milioni di versioni possibili. L’alienazione fisica dal proprio paese porta inevitabilmente a non essere più capaci di riprodurre con precisione qualcosa che è andato perduto. L’India della mente ci viene raccontata, ad esempio, in I figli della mezzanotte (1981) di Salman Rushdie, cui si deve la vera e propria esplosione sul mercato editoriale di una letteratura indiana in inglese: un’opera che per la ricchezza del linguaggio, la carica innovativa dello stile e l’originale trattazione della storia dell’India contemporanea, è presto destinata a fare da spartiacque tra un “prima” e un “dopo”, cosí come tra prima e dopo l’indipendenza dell’India si colloca la storia del protagonista Saleem Sinai, che viene al mondo nel momento che segna la nascita dell’India moderna: “Sono nato nella città di Bombay il 15 agosto del 1947 allo scoccare della mezzanotte... Quando io arrivai le lancette dell’orologio congiunsero i palmi in un saluto rispettoso. Nell’istante preciso in cui l’India pervenne all’indipendenza, io fui scaraventato nel mondo”. I figli della mezzanotte ha molteplici meriti: quello di aver decretato la nascita di un grande scrittore, forse il più grande scrittore in lingua inglese vivente; quello di aver segnalato al mondo l’esistenza di una letteratura indiana di grande bellezza e maturità; di aver dato

fiducia in se stessi a molti potenziali autori favorendo l’emergere di una generazione di nuovi talenti; di aver stimolato il mercato editoriale incoraggiandolo non solo a pubblicare e a far circolare quanto si andava via via scrivendo, ma anche a ripresentare le opere di scrittori della cosiddetta generazione di mezzo, quali ad esempio Mulk Raj Anand (Intoccabile), Raja Rao (Kanthapura), R. K. Narayan, o Khushwant Singh (Quel treno per il Pakistan), consentendo loro di venire riscoperti da un nuovo e più vasto pubblico di lettori. Il mercato editoriale italiano non è rimasto insensibile a questo fenomeno, come attesta l’ampio numero di opere di autori indiani attualmente presenti in traduzione. Una caratteristica della narrativa indiana contemporanea è il bisogno da parte degli autori di unire storia a storia in complesse tessiture che richiamano i grandi poemi epici o le molte immagini che l’iconografia di quel mondo ci ha consegnato. Romanzi di ampiezza innaturale per un pubblico occidentale, con intrecci narrativi che, potenzialmente, potrebbero non concludersi mai, come, ad esempio, Il ragazzo giusto (1994) di Vikram Seth e Terra rossa e pioggia scrosciante (1995) e Giochi sacri (2007) di Vikram Chandra. La memoria può essere soggetta a continui errori e, secondo Rushdie, si può solo riprodurne le storie attraverso specchi rotti, alcuni frantumi dei quali potrebbero essere stati perduti per sempre.

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zullo

Per scongiurare il pericolo della dislocazione lo scrittore immigrato si aggrappa così alla storia del Paese lasciato alle spalle, spesso legata alle vicende della colonizzazione e alla pesante eredità del dominio britannico. Per costruire il presente, occorre aver “digerito” il passato coloniale, averlo rielaborato e fatto scomparire come categoria che continua ad ossessionare gli scrittori della diaspora e a condizionare le loro narrazioni. Nel linguaggio del migrante anche i verbi di movimento “andare” e “venire” assumono significati diversi da quelli usuali: nel romanzo che ha consacrato Amitav Ghosh a scrittore di fama internazionale, Le linee d’ombra (1988), le parti in cui si divide il volume, “Going away” e “Coming Back”, non corrispondono a situazioni definitive di emigrazione o ritorno, perché il protagonista si muove continuamente fra India e Inghilterra alla ricerca di verità che riguardano momenti di vita della propria famiglia, fatti drammatici tenuti segreti per lungo tempo, in cui la relazione fra il mondo britannico e quello indiano risulta centrale. Per il narratore-protagonista il viaggio a Londra, un luogo della mente mitizzato fin dall’infanzia, è cruciale nella definizione di un passato fortemente intrecciato con la storia politica dell’India e che è necessario rivelare per poter continuare a vivere nel presente. Solo in questo modo, Ghosh riesce ad offrire una speranza di riconciliazione con i fantasmi del passato e a comunicare al lettore quanto sia necessario oltrepassare lo specchio della memoria, compiere un salto all’indietro e poi tornare a galla, nonostante questo comporti sofferenza e la scoperta di ferite mai rimarginate. Salman Rushdie, nella sua epopea sulla migrazione I versi satanici (1988), racconta - con la straordinaria capacità narrativa che lo caratterizza - le possibili distorsioni della diaspora e i disastri che da essa possono generare. Solamente nel finale comprendiamo quali elementi siano necessari per poter uscire dai pericoli delle chiusure culturali e delle questioni di appartenenza: Saladin Chamcha fa ritorno a Bombay dopo essersi anglicizzato a Londra ed è pronto a iniziare una nuova vita in India. Tornato alle sue radici, emerge nel finale come personaggio positivo al pari della figura di Mishal Sufyan, la giovane indiana musulmana trapiantata piccolissima a Londra che rifiuta il vecchio mondo perché ormai fa assolutamente parte di un’altra realtà, quella dei blacks londinesi alla conquista di una dignità negata. Ci sono personaggi di narrazioni della diaspora che affrontano con difficoltà il rapporto con la loro cosiddetta “indianness”, una relazione che si è troppo spesso concentrata sulla salvaguardia della cultura di partenza, sottovalutando il problema delle modalità di con-

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tatto con la cultura d’arrivo. Kulwant, la protagonista del romanzo della scrittrice Ravinder Randhawa, Una vecchia signora malvagia (1987) vive in uno di quei quartieri senza identità che sorgono alla periferia delle metropoli, ridotto dagli abitanti in “simulazione del subcontinente”. La donna subisce un grande fascino per l’Inghilterra, con il suo sistema d’istruzione e le possibilità di crescere professionalmente, ma si scontra con le problematiche derivanti dalla condizione di migrante, per la quale l’esperienza della “homelessness” scaturisce non solo dall’angoscia che accomuna tutti gli emigranti unita al disagio di vedersi rifiutati nel Paese ospite su basi di razza e colore, ma anche e primariamente dalla perdita di un ruolo e di una realtà “forte” di riferimento. Randhawa evidenzia elementi di contraddizione nella salvaguardia della identità indiana e nell’apertura totale alla cultura britannica, optando per l’elaborazione di nuovi modelli che possano cancellare le forzature e permettere di conoscere le chiavi del passato utili ad affrontare un presente in evoluzione e multiforme. Le stesse problematiche investono anche numerosi personaggi di narrazioni della diaspora ambientate negli Stati Uniti d’America, in cui il tema dell’identità risulta senza dubbio centrale. In alcuni romanzi come Digiunare, divorare (1999) di Anita Desai, la separazione fra India e Stati Uniti, fra due culture diverse e non comunicanti fra loro è quasi totale, il libro stesso si divide in due parti ben distinte, una corrispondente alla vita di Uma in India, in una famiglia che la opprime e la mortifica, e l’altra riguardante la vita del fratello Arun in una non precisata città americana. In entrambe le storie, il disagio del vivere è centrale, nonostante gli ambienti e le situazioni di vita assai diverse. Le vicende degli studenti indiani che cercano di interpretare, esplorare, immergersi e mettersi in gioco nel mondo americano, all’interno e fuori dalle università, sono narrate in altre opere esemplari come Gli imperscrutabili Americani, (1991) di Anurag Mathur e le parti statunitensi del romanzo di Vikram Chandra Terra rossa e pioggia scrosciante. Anche nei racconti che fanno parte dei volumi di Jhumpa Lahiri, L’interprete dei malanni (1999) e L’Omonimo (2003), il gioco di definizione delle identità è ancora un nodo cruciale del discorso diasporico, le storie si dipanano fra India e USA, e si intravedono alcuni elementi positivi di conciliazione e interrelazione fra i diversi mondi. Queste tematiche sono riproposte, di pari passo con le evoluzioni delle dinamiche sociali e culturali nel presente globale, da autori come Nirpal Singh Dhaliwal (Turismo, 2006), Kiran Desai (Eredi della sconfitta, 2006) e Aravind Adiga (La tigre bianca, 2008).

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Bologna, manutenzione della stazione ferroviaria, 1988

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