Letteraria n° 4

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n. 2 · novembre 2010

semestrale di letteratura sociale

SILVIA ALBERTAZZI, BRUNO ARPAIA, GUIDO CALDIRON, SALVATORE CANNAVÒ, MASSIMO CARLOTTO, FRANCESCO CATTANI, GIUSEPPE CIARALLO, EMIDIO CLEMENTI, STEFANO COLANGELO, MARIA ROSA CUTRUFELLI, DANILO DE MARCO, MARCELLO FOIS, LUCA GAVAGNA, PIETRO GRECO, NIVA LORENZINI, GIOVANNI MARCHETTI, MARIA NADOTTI, ALBERTO SEBASTIANI, ROBERTO SERRA, STEFANO TASSINARI, PAOLO VACHINO, MASSIMO VAGGI, WU MING



di S.T.

I

l rapporto tra la Sinistra politica e la cultura (letteraria e non) è stato, periodicamente, al centro di discussioni infinite e spesso infruttuose, nel senso che, alla fine, i due mondi sono rimasti ancorati alle proprie posizioni, con quello più forte (la sinistra politica, va da sé) nel ruolo di chi continua a dare le carte, magari un po’ truccate. E proprio perché il confronto non ha dato grandi risultati, ogni tanto questo dibattito ricomincia, a partire dalla denuncia dei due limiti principali ascrivibili alla Sinistra: il continuare a ritenere la cultura come un terreno secondario d’intervento politico e il non accettare il concetto di autonomia della cultura nei confronti delle linee politiche e/o partitiche (tutto ciò nei fatti, al di là delle dichiarazioni d’intenti). D’altronde, per capire la gravità della situazione è sufficiente dare un’occhiata ai programmi elettorali delle forze “progressiste” e verificare quante volte è citata la parola cultura. Noi l’abbiamo fatto e vi garantiamo che ne siamo usciti avviliti. Anche per questo, e forse per inguaribile ottimismo, abbiamo deciso di dedicare al tema la prima parte monografica della rivista, nella speranza di fornire il nostro piccolo contributo a un potenziale cambiamento di rotta. Nel farlo, abbiamo privilegiato il recupero del pensiero di quei dirigenti e/o intellettuali della Sinistra del Novecento che alla questione culturale avevano dato il giusto peso (in particolare Gramsci, Trotsky e Foucault). Riproporne oggi le riflessioni specifiche non significa – come qualcuno potrebbe obiettare - fare un’operazione nostalgica, bensì proporre una rilettura segnata da una forte dose di attualizzazione, dato che nelle teorie di questi intellettuali – al netto di ciò che il tempo ha offuscato o reso inutilizzabile – sono ancora presenti molti elementi necessari a rifondare un pensiero critico e di sinistra. Accanto a queste riproposizioni – alle quali vanno aggiunti un “viaggio” nel rapporto tra intellettuali e politica durante la guerra civile spagnola, momento cruciale di quello scontro a cui accennavamo all’inizio, e il recupero di un Vittorini meno conosciuto in quanto “fumettista” – abbiamo messo alcune riflessioni su chi ha subìto forme di repressione da parte della Sinistra autoritaria e post-stalinista (Svetlana Aleksievič), sull’odierno tentativo della Destra di appropriarsi di un terreno lasciato sguarnito, sui linguaggi comunicativi della Sinistra (a partire da quello delle prime radio libere degli anni Settanta), sulle posizioni espresse dal grande Edoardo Sanguineti e sul rapporto tra la Sinistra e la poesia. L’accento sulla contemporaneità viene messo, invece, da tre articoli dedicati alla vicenda degli autori anti-berlusconiani che pubblicano con le case editrici del Gruppo Mondadori (pensati ben prima dell’esplosione del caso Mancuso), da un lungo dialogo con il vincitore del premio Viareggio Poesia. Ampio spazio, infine, ai nostri “ripescaggi” (Izzo, Dickens, Atzeni, Carnevali e Bolaño) e agli sguardi sulle letterature degli altri Paesi, con particolare riferimento a quelle del Senegal e del Messico (con la seconda parte dell’inchiesta iniziata nel numero precedente). In chiusura, per chi prendesse in mano per la prima volta la rivista, ribadiamo che questo è il quarto numero, anche se siamo costretti a scrivere “numero 2” per via della decisione del nostro vecchio editore di non concederci l’uso della testata “Letteraria”, oggi trasformata in “Nuova Rivista Letteraria”. Le ragioni le abbiamo già spiegate sei mesi fa e, francamente, non abbiamo più voglia di parlarne… 1

Le foto di Roberto Serra Le immagini che pubblichiamo in questo numero sono tutte opera del fotografo bolognese Roberto Serra, che le ha realizzate in diversi luoghi tra il 1979 e il 1993. Avendo dedicato la parte monografica della rivista al rapporto tra la sinistra, la politica e la cultura ci è sembrato naturale incentrare il servizio fotografico su varî eventi culturali e di spettacolo promossi, per lo più, da amministrazioni locali e partiti della sinistra. Ne esce uno straordinario “catalogo” dei più grandi artisti degli ultimi decenni (da Miles Davis a Mick Jagger, da Frank Zappa a Fabrizio De André, da Robert Plant a Patty Smith e così via), arricchito da alcuni scatti molto privati, come quello che ritrae Guccini, Dalla e Morandi nel retro della trattoria da Vito di Bologna, per anni luogo di ritrovo dei principali artisti di quella città. Buona visione!

EDITORIALE

❚ Vedi alla voce “cultura”


nuova rivista letteraria Edizioni Alegre semestrale di letteratura sociale, anno 1 numero 2, novembre 2010, prezzo di copertina euro 10, abbonamento annuale a due numeri euro 15, da versare sul Conto Corrente Postale 65382368 intestato a "Edizioni Alegre soc. coop. giornalistica, C.ne Casilina, 72/74 - 00176 Roma". Causale: "abbonamento Letteraria" Autorizzazione del Tribunale di Bologna n.8078, rilasciata in data 24 aprile 2010 Direttore responsabile Stefano Tassinari Collettivo redazionale Silvia Albertazzi, Bruno Arpaia, Dunja Badnievic, Marco Baliani, Guido Barbujani, Alberto Bertoni, Pino Cacucci, Guido Caldiron, Salvatore Cannavò, Massimo Carlotto, Beppe Ciarallo, Emidio Clementi, Mauro Covacich, Maria Rosa Cutrufelli, Mario Dondero, Angelo Ferracuti, Marcello Fois, Luca Gavagna, Niva Lorenzini, Carlo Lucarelli, Milena Magnani, Giovanni Marchetti, Pier Damiano Ori, Giampiero Rigosi, Alberto Sebastiani, Stefano Tassinari, Paolo Vachino, Massimo Vaggi, Grazia Verasani, Simona Vinci, Wu Ming Hanno collaborato Francesco Cattani, Danilo De Marco, Pietro Greco, Maria Nadotti, Roberto Serra Progetto grafico Le Immagini - Ferrara

copertina

Stampa Spedalgraf Stampa Via Cupra 23, 00176 Roma

sommario

colophon

n.2 · novembre 2010

EDITORIALE

Vedi alla voce “cultura” S.T.

CONFRONTI

1

Che ne direste di comprarci 53 l’Einaudi? Stefano Tassinari

3

L’annosa questione Wu Ming 2

56

La mossa del cavallo Salvatore Cannavò

59

SINISTRA, POLITICA E CULTURA

Tra civiltà ed opera d'arte Stefano Colangelo Per una filosofia della prassi Pietro Greco Un politico prestato alla poesia Niva Lorenzini Rivoluzione ed arte quotidiana Stefano Tassinari

6

L'INTERvISTA

11

Trimant il vivi (tremando il vivere) Danilo De Marco RIFLESSIONI

15

In ultima istanza Wu Ming 1

19

Le armi della cultura Giuseppe Ciarallo

25

Poesia (a) sinistra Paolo Vachino

29

Voci da un mondo sommerso Maria Nadotti

33

Aperti al cielo, legati alla terra Guido Caldiron

37

Una nuova geografia per l’Europa Francesco Cattani

73

mEmORIE

Quei profetici versi Marcello Fois

77

RIPESCAggI

Elogio di Jean-Claude Izzo Massimo Carlotto

79

I sentieri laterali di Roberto Bolaño Bruno Arpaia

82

85

L’ubiquo Belzebù Massimo Vaggi

43

Il nostro amore per Dickens Silvia Albertazzi

La sinistra tra le nuvole Alberto Sebastiani

49

Uno sberleffo al dolore Emidio Clementi

91

DAL mONDO

Tra classicismo e meticciato Maria Rosa Cutrufelli Fabrizio De Andrè in concerto al Palasport, Bologna, 1982

63

Una scrittura più esigente Giovanni Marchetti

95 99


SINISTRA, POLITICA E CULTURA Lucio Dalla e Francesco De Gregori durante il sound check del concerto della tourné Banana Republic allo Stadio Comunale di Bologna, 1979

RipaRtiRe da GRamsci e dalla sua visione della letteRatuRa

❚ Tra civiltà ed opera d'arte di Stefano Colangelo

R

aramente parla di sé, Gramsci, nei Quaderni del carcere. Il suo esercizio interpretativo della dialettica sociale, iniziato per sopravvivere e per cercare il dialogo con il mondo di fuori, negli anni della sopraffazione di regime, non sopporta l’ingombro di un soggetto che si guardi allo specchio. Per questa necessità ci sono, se mai, le lettere, che danno un preciso conto della gestione dell’esistente, dello spazio dei cameroni e delle celle, dell’azione del tempo sul corpo, del degrado fisico, delle progressive disillusioni, del ramificarsi dei progetti e, al tempo stesso, delle idiosincrasie e nostalgie familiari. Ci sono punti, tuttavia, nei quali i due esercizi di interpretazione e descrizione, l’impulso dei quaderni e quello delle lettere, vanno a convergere.

❝ Avviene il naufragio, il rifugio nella scialuppa ecc. Dopo qualche giorno, essendo mancati i viveri, l’idea del cannibalismo si presenta in una luce diversa, finché a un certo punto, di quelle persone date, un certo numero diviene davvero cannibale. Ma si tratta delle stesse persone? ❞ 3


nuova rivista letteraria Ad acquistare, anzi, una fisionomia chiara e ineluttabile. Accade, soprattutto, nel momento del loro farsi e disfarsi: nel primo fervore progettuale, cioè, quando Gramsci vede la possibilità di scrivere e di studiare, di prendere appunti e di schedare libri e riviste; e poi negli avvertimenti della fine, quando la condanna non arriva solo dal tribunale speciale, ma da tutte le chances che si perdono, dai fili che si strappano, dal fisico che cede, e quando il ritratto di sé finisce per includersi sommariamente in quello, devastante, di un gruppo di naufraghi senza scampo, costretti a scegliere tra il suicidio e il cannibalismo. La lettera a Tania Schucht del 6 marzo 1933 contiene il passaggio chiave di questo racconto autobiografico in figura: «avviene il naufragio, il rifugio nella scialuppa ecc. Dopo qualche giorno, essendo mancati i viveri, l’idea del cannibalismo si presenta in una luce diversa, finché a un certo punto, di quelle persone date, un certo numero diviene davvero cannibale. Ma si tratta delle stesse persone?». E in parallelo, dicono tutto le Note autobiografiche del Quaderno 15: «se Tizio, nel pieno delle sue forze fisiche e morali viene messo al bivio, c’è una probabilità che s’ammazzi (dopo essersi persuaso che non si tratta di una commedia ma di cosa reale, di alternativa seria); ma questa probabilità non esiste più (o almeno diminuisce molto) se Tizio si trova al bivio dopo aver subito un processo molecolare in cui le sue forze fisiche e morali sono andate distrutte». Nel parlare di sé, constatando l’abbandono definitivo di quelle forze, Gramsci rimette in causa il proprio metodo di analisi critica della cultura: seguire il farsi della mutazione, dare conto della complessità; non fermarsi alla sorpresa, e magari allo scandalo, di fronte a un fenomeno che non si prevedeva. Non solo: nella distanza degli anni, appare proprio l’attenzione a quel «processo molecolare», a quello sviluppo ramificato di interazioni continue, il territorio dell’indagine gramsciana. Un territorio in cui i Quaderni realizzano un progetto critico di tipo – se così si può dire – infrastrutturale. Non vi si costruiscono edifici monumentali del pensiero, statue, cattedrali; al loro posto si disegnano ponti, stazioni, vie d’acqua e strade: strumenti del movimento e del collegamento, portatori di mutamenti continui e di complesse relazioni «molecolari». Inutile ripetere quanto sarebbe d’aiuto, oggi, imparare ad abitare di nuovo un territorio come questo, soprattutto per chi non ha ancora smesso di fare domande alla letteratura. Su questo punto Gramsci – l’umorale, il vetroso Gramsci – scrive un paio di cose scomode: 1) la letteratura è un’attività funzionale, che

non si sviluppa per generazione spontanea nel proprio tempo, bensì in una rete fittissima di rapporti con ogni altro aspetto della cultura; 2) la critica letteraria è un esercizio di distanza - di sarcasmo, persino - e insieme di passione, di condivisione, capace di assorbire e svelare le strutture e le forme della bellezza, ma anche di comprendere il fatto che la bellezza, in sé sola, non basta; che c’è altro, che ci vuole altro. Scrive, appunto, Gramsci: «la letteratura deve essere insieme elemento attuale di civiltà e opera d’arte, altrimenti alla letteratura d’arte viene preferita la letteratura d’appendice, che, a modo suo, è un elemento di cultura, di una cultura degradata quanto si vuole ma sentita vivamente»: così nel Quaderno 21, 1934-1935; ma l’appunto, in forma lievemente diversa, è già nella prima miscellanea di impressioni raccolta dall’inizio del 1929, dopo oltre due anni di prigionia, nel Quaderno 1. Come è facile vedere, l’idea di sottocultura, esplosa in Pasolini e oggi assurta ad alibi dell’inazione, della rassegnazione acritica, non è contemplata: nella stratificazione della cultura tutto dialoga, tutto si rimette in gioco. Così Gramsci procede per dialoghi diretti, e fa percepire la propria voce nelle differenze specifiche. Sta rileggendo e postillando, infatti, un intervento di Leo Ferrero: il giovane sociologo che, emigrato a Londra e poi negli Stati Uniti, leggerà gli Ossi di seppia a Irma Brandeis, la futura Clizia di Montale, prima di morire in un incidente d’auto a Santa Fe, Nuovo Messico, nel 1933. In quell’articolo aveva scritto, Ferrero, che «una letteratura non può fiorire che in un clima di ammirazione e l’ammirazione non è, come si potrebbe credere, il compenso, ma lo stimolo del lavoro». Ma quest’idea di ammirazione, così unilaterale e servile, non può soddisfare Gramsci, che identifica il pubblico in un concetto forte di popolo-nazione: «ci vuole un determinato contenuto intellettuale e morale che sia l’espressione elaborata e compiuta delle aspirazioni più profonde di un determinato pubblico, cioè della nazione-popolo in una certa fase del suo sviluppo storico». Di fronte alla ricerca di quest’opera – o meglio, di questo sistema di opere, e di questo rideterminarsi del processo di composizione letteraria in una molteplicità di concause - che non c’è ancora, lo scrittore che si nomini “creatore”, o che ostenti l’immobilità del proprio ritratto davanti all’evidenza e all’ampiezza del suo compito storico, fa la figura del presuntuoso o del poseur. Così Ungaretti, ad esempio, citato e sferzato nel Quaderno 3, a partire da un articolo sul “Resto 4


COLANGELO del Carlino” dell’ottobre 1929, che Gramsci legge in rassegna stampa sull’”Italia Letteraria”: «‘chi è il pubblico? Chi è costui? Questo testone onnisciente, questo gusto squisito, quest’assoluta probità, questa perla dov’è?’». Così Ungaretti; e la chiosa di Gramsci, in risposta: «ma intanto domandano che sia instaurata una protezione contro le traduzioni da lingue straniere e quando vendono mille copie di un libro fanno suonare le campane del loro paese». Nella vicinanza tra critica e polemica, Gramsci guarda a un modello ottocentesco di parola, condivisione e azione critica, continuamente rivendicato, riattualizzato, anche in funzione di una ribellione alla cultura dell’oppressore: quello di De Sanctis. Ma questa lotta di Gramsci raggiunge quote più alte, più radicali, arrivando a scalfire Manzoni, la mitologia degli «umili» e tutte le visioni e i comportamenti di casta, a partire dal Rinascimento. In questo senso, i Quaderni costituiscono un’ultima, strenua difesa interpretativa della parola letteraria, collocata al suo posto in un’economia dei fenomeni sociali con la quale vive da sempre intrecciata: prima di Gramsci c’è solo Dante, c’è solo Guicciardini, con efficacia paragonabile. E intanto, fuori dalla cella, si ramifica quel sistema di connessioni repressive e propagandistiche fondato, come scriverà nel 1960 Franco Venturi, sul trionfo della manipolazione verbale, e impegnato nella costruzione di un tenebroso castello di slogan e di gesti, di «un ordine di fenomeni che finisce per credere reali». Non a caso, uno dei primi bersagli del sarcasmo critico dei Quaderni è un piccolo esempio del fintume narrativo di Margherita Sarfatti, l’ispiratrice del mito fascista della romanità, oggetto di una leziosa e ammirata recensione di Goffredo Bellonci, che nel dopoguerra fonderà lo “Strega”. Nipotini, anche loro, di quel padre Bresciani, così atrocemente bien posé, che più di mezzo secolo prima aveva trovato in De Sanctis un critico inoppugnabile e corrosivo, e che tuttavia, in fondo, avrebbe finito per trionfare - nei tempi della prigione di Gramsci e dopo, e anche fuori dal campo letterario - in tante forme, variamente rassicuranti e ipocrite. Ad avere pazienza, nel cercare a ogni pagina i dovuti riferimenti, varrebbe ancor più la pena di ritrovare oggi, nei quaderni di Gramsci, lo svolgimento di una contro-storia della vita letteraria italiana del primo Novecento: una rete di rispondenze, contrasti e illusioni fotografata, messa a nudo, sorpresa mentre prova a scappare dalla responsabilità che si deve alle parole.

Eric Clapton al Teatro Tenda, Bologna, 1985 5


SINISTRA, POLITICA E CULTURA

❝ Il realismo cui

guarda Gramsci non è dunque ingenuo, triviale e acritico. Non è senza l’uomo. Al contrario, è il frutto del consenso razionale d’opinione tra molti uomini, tendenzialmente tra tutti. Non ci compete entrare, come abbiamo detto, nel merito di questa concezione che potremmo definire di «realismo intersoggettivo» ❞ antonio GRamsci e la fisica dei quanti

John Taylor alla Rocca Brancaleone, Ravenna Jazz Festival, 1985

❚ Per una filosofia della prassi di Pietro Greco

A

ntonio Gramsci non cita mai, nei sui Quaderni dal carcere, la parola quanti. E si occupa della «nuova fisica» solo in poche pagine, quasi tutte concentrate nel Quaderno XI, scritto tra il 1932 e il 1933. Eppure non è affatto una forzatura parlare del rapporto tra l’attento intellettuale comunista e la fisica dei quanti. Perché i problemi sollevati dagli sviluppi della meccanica quantistica inducono quasi in tempo reale Gramsci a riflettere in profondità sul rapporto tra teoria politica, filosofia e conoscenze scientifiche. Riflessioni tanto più significative perché elaborate da una persona che si ritrova, appunto, in carcere e, quindi, ha un accesso limitato alle informazioni nel periodo in cui – dalla metà degli anni Venti all’inizio degli anni Trenta del 6


GRECO XX secolo – la rivoluzione dei quanti e i suoi correlati filosofici raggiungono l’acme. Si tratta di considerazioni che assumono notevole importanza non solo agli occhi dello storico della cultura e della filosofia politica, ma anche agli occhi di chi – come chi scrive – si occupa dei rapporti attuali tra scienza e società. Perché le riflessioni del politico, del filosofo e (non bisogna dimenticarlo) del giornalista sardo toccano punti filosofici e, più in generali, culturali dove ancora oggi, per dirla con Albert Einstein, «la scarpa fa male». Gramsci mostra subito un punto dove la scarpa quantistica, a suo sentire, fa più male quando apre il capitolo La scienza e le ideologie «scientifiche», il terzo del Quaderno 11, richiamando un’immagine che il fisico e filosofo della scienza Arthur Eddington ha proposto in un libro di grande successo, La natura del mondo fisico, che Gramsci ha letto nell’edizione francese pubblicata nell’anno 1930. L’immagine è questa: «Se nel corpo di un uomo eliminassimo tutto lo spazio privo di materia e riunissimo i suoi protoni ed elettroni in una sola massa, l’uomo (il corpo dell’uomo) sarebbe ridotto a un corpuscolo appena visibile al microscopio». Sebbene Eddington aderisca a una filosofia sostanzialmente eclettica, egli è percepito (e si percepisce) come una filosofo portatore di un nuovo idealismo, un idealismo scientifico appunto. Ed è contro questo neoidealismo scientifico che Gramsci prende netta posizione, a dispetto di chi lo vorrebbe oste intento a travasare il vino nuovo della terminologia marxista nelle vecchie otri hegeliane. Tuttavia gli strali dell’estensore dei Quaderni sono rivolti alla versione popolarizzata che dell’affermazione di Eddington ha dato lo scrittore italiano Giuseppe Antonio Borgese, in un libro di viaggi, Escursioni in terre nuove, pubblicato a Milano nel 1931. L’irritazione è dovuta alla cattiva divulgazione proposta dallo scrittore italiano, secondo cui Eddington avrebbe dimostrato che la materia solida non esiste. Quella di Borgese, sostiene Gramsci, è «scienza romanzata». Pura fantasia. Ma se si trattasse solo di questo, se si trattasse solo di un esempio di «scienza romanzata», perché tanto disappunto? Di cattiva divulgazione – da che mondo è mondo – ce n’è tantissima in giro. Perché soffermarsi così tanto sui «puri giochi di parole» di Borgese e dello stesso Eddington? Be’, per un motivo molto semplice. Perché Antonio Gramsci vede nelle righe scritte da Borgese quel neoidealismo scientifico attribuito a Eddington uscire

dall’ambito letterario della scienza romanzata e diventare cultura diffusa. Capace di informare di sé non solo la cultura delle masse, ma anche la stessa visione metafisica degli scienziati. Qualcosa, dunque, di molto più serio e profondo del peccato di cattiva divulgazione. Perché nella negazione del realismo scientifico egli vede un attacco alle basi filosofiche su cui si regge la visione razionale del mondo. E, con questa sua critica, sebbene rinchiuso in un carcere e senza alcuna specifica competenza, entra nel merito del dibattito epistemologico che, in quegli stessi anni – persino in quegli stessi mesi – anima la comunità dei fisici europei. E, infatti, Gramsci si chiede: che «forse la materia vista al microscopio non è più materia realmente oggettiva, ma una creazione dello spirito umano che non esiste oggettivamente o empiricamente?» Il fatto è che lui in quegli stessi mesi ha letto un altro saggio irritante, che uno scienziato, Mario Camis, fisiologo veneziano che fa ricerca di punta a Liverpool, ha pubblicato nel numero della Nuova Antologia uscito il primo novembre 1931. In quell’articolo Camis fa cenno proprio agli sviluppi della fisica quantistica di cui si è discusso in un importante congresso filosofico a Oxford e i cui lavori sono stati recensiti da Borgese. Camis parla «dei fenomeni infinitamente piccoli cui l’attenzione di tanti è oggi rivolta», osservando che «essi non si possono considerare indipendentemente dal soggetto che li osserva». L’articolo del professor Camis inquieta Gramsci. Perché, scrive: «A quanto consta, è questo uno dei pochi esempi di infiltrazione tra gli scienziati italiani del modo di pensare funambolesco di certi scienziati specialmente inglesi a proposito della “nuova” fisica». Consigliamo il lettore di leggersi le pagine dei Quaderni dedicata a Camis, perché troverà la dimostrazione di come una persona non esperta ma dotata di senso critico possa entrare nel merito e demolire il falso ragionamento scientifico di un esperto. Noi invece passiamo oltre e rileviamo che a questo punto la preoccupazione di Antonio Gramsci è chiara: teme che il neoidealismo scientifico si diffonda nella cultura italiana, sia a livello delle grandi masse (attraverso la divulgazione á la Borgese) sia nella stessa comunità scientifica (attraverso posizioni á la Camis). Nella sua critica puntuale a Camis, Gramsci coglie uno dei temi principali – se non il tema principale – su cui, fuori dal carcere fascista, discutono i protagonisti stessi della nuova fisica: il problema della «misura» e, dunque, del rapporto tra realtà e osservatore nel mondo minimoscopico (per usare un’espressione dello 7


nuova rivista letteraria stesso Gramsci) dei quanti, di cui si è parlato nel conpuò «due volte» creare (osservare) lo stesso fatto. Non vegno di Oxford e, soprattutto, di cui parlano i fisici si tratterebbe neppure di “solipsismo” ma di demiurteorici in quei mesi. gica o di stregoneria. Non i fenomeni (inesistenti) ma La metafora che meglio rappresenta il problema è queste intuizioni fantastiche sarebbero allora oggetto quella del “gatto quantistico” proposta dallo scettico di scienza, come le opere d’arte». Erwin Schrödinger, fisico quantistico di scuola reaInfine si domanda: «La teoria atomistica moderna è lista. Secondo l’interpretazione prevalente, «l’interuna teoria “definitiva” stabilita una volta per sempre? pretazione di Copenaghen», nel mondo dei quanti Chi, quale scienziato oserebbe affermarlo? O non è un gatto chiuso in una scatola è «vivo e morto» nel invece anch’essa semplicemente una ipotesi scientifica medesimo tempo, finché qualcuno non apre la scache potrà essere superata, cioè assorbita in una teoria tola e lo osserva. Solo quando si effettua un “misura”, più vasta e comprensiva?» il gatto diventa o vivo o morto. Fuor di metafora: È davvero straordinario come Gramsci usi non solo un oggetto quantistico si trova sempre in tutti gli concetti ma persino parole che, in quell’inizio degli stati possibili finché un’interferenza (la misura) non anni Trenta, potrebbero essere state pronunciate da fa collassare la «funzione d’onda» e l’oggetto viene Einstein o da Schrödinger, che proprio in quel peosservato in uno solo degli stati possibili, come avriodo sono impegnati, come si è detto, nell’acceso diviene nel mondo macroscopico. A differenza che nel battito scientifico e filosofico sulla «completezza della nostro mondo macro, dove i gatti o sono vivi o sono meccanica quantistica» e nella critica all’idealismo di morti a prescindere se c’è in giro qualcuno che va a Copenaghen. verificare, nel mondo quantistico il ruolo dell’osserLa puntualità e la profondità di queste domande – vatore è, dunque, determinante. alla frontiera della discussione di quei tempi – non I fisici realisti faticano ad accettadeve, naturalmente, indurci a penre questa interpretazione che nega sare che Gramsci entri o anche solo l’esistenza di una realtà oggettiva. intenda entrare nel vivo della diLa questione Tu credi davvero che la luna (quanscussione interna alla “tribù quantistica) non è lì se nessuno la guartistica”. Né che il suo approccio della «realtà da, chiede scettico Einstein all’amirealistico sia omologo a quello di oggettiva del co Pais? Per inciso: il problema del Einstein o di Schrödinger. Il suo mondo esterno» realismo, del ruolo dell’osservatore obiettivo è di tutt’altra natura: non e della misura resta ancora oggi un è di filosofia della scienza, ma di fiè per Gramsci un («il») problema aperto nel cuore losofia della politica. Gramsci vuotema di filosofia della fisica quantistica. le definire una corretta «filosofia È, dunque, alla luce di questo didella prassi», che prevede anche la politica, prima battito tra i fisici teorici di tutta Eusistematica critica del pensiero che ancora che di ropa tra la fine degli anni Venti e i Nikolaj Bucharin ha espresso nel primi mesi degli anni Trenta che si Saggio popolare di sociologia marxiepistemologia. comprende appieno il significato e sta con cui ha inteso definire, La tela stringente attualità delle domanoria del materialismo storico, apparde che il “realista” Gramsci si pone so in edizione francese nel 1927. retoricamente, quando critica sir Arthur Eddington Nell’ambito di questa analisi del pensiero di Bucharin e il professor Mario Camis: «forse la materia vista al rientra anche la critica di Gramsci al “realismo triviamicroscopio non è più materia realmente oggettiva, le” e alla “metafisica della materia” proposti dal polima una creazione dello spirito umano che non esiste tico e pensatore russo in un altro saggio, Theory and oggettivamente o empiricamente?». practice from the standpoint of dialectical Materialism, Per poi rispondere: «Se fosse vero che i fenomeni inpubblicato in inglese nell’agosto 1931. Si tratta di una finitamente piccoli in questione non si possono conmemoria presentata al Congresso internazionale di siderare esistenti indipendentemente dal soggetto che storia della scienza e della tecnologia tenuto a Londra li osserva, essi in realtà non sarebbero neppure “osserdal 29 giugno al 3 luglio 1931 e pubblicata nel voluvati”, ma “creati” e cadrebbero nello stesso dominio me Science at the Cross Roads che Gramsci riceve in della pura intuizione fantastica dell’individuo. Sarebcarcere già nell’agosto 1931. be anche da porre la questione se lo stesso individuo Già nel Saggio popolare Bucharin si mostra molto 8


GRECO La questione della «realtà oggettiva del mondo esterno» è per Gramsci un tema di filosofia politica, prima ancora che di epistemologia. Perchè se affrontata e risolta «metterebbe fine a una serie di discussioni futili quanto oziose e permetterebbe uno sviluppo organico della filosofia della prassi, fino a farla diventare l’esponente egemonica dell’alta cultura». Solo che la questione non può essere affrontata né tanto meno risolta così come la pone Bucharin. La polemica contro il soggettivismo e per il riconoscimento della «realtà oggettiva del mondo esterno» da parte di Bucharin, sostiene Antonio Gramsci, è «male impostata, peggio condotta e in gran parte futile e oziosa». Il soggettivismo non è questione banale. Non è un pensiero né ingenuo né triviale. La concezione idealistica e soggettivistica del mondo appartiene a gruppi intellettuali evoluti: appartiene a Hegel e alla sua scuola. Così come nella sua forma scientifica attuale, ci viene da aggiungere, appartiene a Bohr e ai fisici della scuola di Copenaghen. È il realismo, nota Gramsci, che deriva, invece, dal senso comune. Ci è stato trasmesso dalla superstizione, dal mito, dalla stessa religione. È il senso comune ad affermare «l’oggettività del reale in quanto la realtà, il mondo, è stato creato da dio indipendentemente dall’uomo, prima dell’uomo; essa è pertanto espressione della concezione mitologica del mondo». Tanto che, continua Gramsci, il «pubblico popolare» neppure pensa che possa essere messa in discussione l’idea che esista un mondo indipendente da noi: «Il pubblico “crede” che il mondo esterno sia obiettivamente reale». E «d’altronde il senso comune; nel descrivere questa oggettività, cade negli errori più grossolani; in gran parte è ancora rimasto alla fase dell’astronomia tolemaica, non sa stabilire i nessi reali di causa ed effetto, ecc., cioè afferma “oggettiva” anche certa “soggettività” anacronistica, perché non sa neanche concepire che possa esistere una concezione soggettiva del mondo e cosa ciò voglia o possa significare». Il realismo del senso comune è, dunque, credenza “ingenua” e “fallace”. E può essere facilmente esposta a critica. Al contrario, sostiene Gramsci: «la concezione soggettivistica è propria della filosofia moderna nella sua forma più compiuta e avanzata», quella hegeliana. Tanto moderna e avanzata che non dal senso comune, ma da essa e come superamento di essa, che è nato il materialismo storico. Per superare l’idealismo, compreso l’idealismo scientifico, il filosofo della prassi deve andare, dunque, ben oltre il realismo ingenuo del pubblico popolare e non deve incorrere in quella forma di «materialismo meta-

John Zorn, Teatro Romano, Verona, 1985

attento agli sviluppi della fisica quantistica e si dice convinto che la teoria atomistica, con la sua nuova concezione della materia, distrugga per sempre l’individualismo e le robinsonate (le idee secondo cui un singolo uomo, come il Robinson Crusoe di Daniel Defoe, si libera con le sua capacità dei legami e dei vincoli posti dalla natura). Ma Gramsci non condivide affatto l’approccio con cui Bucharin mette insieme filosofia naturale e filosofia politica. Lo giudica superficiale. E ancora una volta ha facile gioco nel criticare il suo interlocutore, facendo ricorso a due tesi che un filosofo della scienza potrebbe facilmente sottoscrivere. La prima è che non c’è alcuna deterministica sovrapposizione tra le leggi della natura e le leggi che governano la società umana. La seconda è che quelle scientifiche non sono teorie «definitive». Sono il modo più economico «per salvare i fatti noti». Ma, proprio per questo transitorie, destinate a essere superate e persino abbandonate non appena la conoscenza di nuovi fatti dovesse renderle non più economiche. 9


nuova rivista letteraria fisico» che considera l’oggettività, compresa l’oggettività del mondo, «all’infuori dell’uomo». Quando si afferma questo, sostiene Gramsci, quando si afferma che «la realtà esisterebbe anche se non esistesse l’uomo o si fa una metafora o si cade in una forma di misticismo». Non bisogna commettere questo errore. Non bisogna cercare di conciliare il senso comune con il materialismo storico per opportunità tattica o per polemiche contingenti, assumendo posizioni materialistiche che con un mero approccio meccanicistico accettano «la concezione della realtà oggettiva del mondo esterno nella sua forma più triviale e acritica». Il realismo cui guarda Gramsci non è dunque ingenuo, triviale e acritico. Non è senza l’uomo. Al contrario, è il frutto del consenso razionale d’opinione tra molti uomini, tendenzialmente tra tutti. Non ci compete entrare, come abbiamo detto, nel merito di questa concezione che potremmo definire di «realismo intersoggettivo». Tuttavia è interessante notare che Gramsci ricorre, per dimostrare che la realtà è «umanamente oggettiva» ovvero che è un «universale soggettivo» e che non avrebbe neppure senso porsi il problema dal «punto di vista del cosmo in sé» ovvero della realtà che escluda l’uomo, a una frase di Friedrich Engels: «l’unità del mondo consiste nella sua materialità dimostrata... dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali». Nella costruzione dell’«universale soggettivo» attraverso la conoscenza Gramsci riconosce alle scienze naturali (oltre che alla filosofia) una capacità superiore. C’è una lotta per l’oggettività, ovvero una lotta per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci, scrive, e questa lotta consiste nell’unificazione culturale del genere umano. «La scienza sperimentale è stata (ha offerto) finora il terreno in cui una tale unità culturale ha raggiunto il massimo di estensione: essa è stata l’elemento di conoscenza che ha più contribuito a unificare lo “spirito”, a farlo diventare più universale; essa è la soggettività più oggettivata e universalizzata concretamente». Ciò ci riporta all’attenzione che Gramsci riserva sia alla fisica dei quanti, sia alla comunicazione della nuova fisica. Da un lato, infatti, ribadisce che il «fenomeno oggettivo», anche a livello minimoscopico, non emerge come forma di un qualche realismo ingenuo, ma come «universale soggettivo»: quando, cioè, il «fenomeno si ripete, e può essere osservato oggettivamente da vari scienziati, indipendentemente gli uni dagli altri». In pratica, sembra sostenere Gramsci, non ha senso dire: la luna esiste anche se nessun uomo la guarda. Ha invece senso dire: la luna, anche quando è quantistica,

esiste se tutti gli uomini, indipendentemente gli uni dagli altri, la vedono se alzano lo sguardo al cielo. Il problema del realismo a livello quantistico non è dunque concettualmente diverso dal problema del realismo a livello macroscopico. Non c’è dubbio, tuttavia, conclude Antonio Gramsci, che nel descrivere e nel rappresentare il bizzarro mondo minimoscopico, ci siano delle difficoltà comunicative che sono sconosciute nel mondo macroscopico. E che queste difficoltà siano di almeno quattro diversi ordini. Vale la pena citar per esteso e a mo’ di commento finale la lucida e attualissima lezione di teoria della comunicazione della scienza che Gramsci offre alla fine del paragrafo dedicato alla scienza e alle ideologie scientifiche. Una lezione breve, ma intensa. Che spiega come Gramsci, a tre quarti di secolo di distanza, riesca ancora a catturare l’interesse non solo del filosofo o dello storico, ma anche del divulgatore scientifico. Per Gramsci la questione culturale è assolutamente centrale. La cultura diffusa è la forma più elevata di democrazia. Ma proprio per questo è questione che va affrontata con grande rigore. Occorre il dialogo tra chi sa e chi non sa, ovviamente. Ma questo dialogo non deve risolversi in forme di accomodamento col senso comune. Al contrario deve tendere a spostare la cultura delle masse al più alto livello possibile. È in questo quadro che si pone il problema della comunicazione al «pubblico popolare» delle scienze naturali e non si nasconde le difficoltà. Che per la nuova fisica sono davvero particolari e si spiegano: «1) con l’incapacità letteraria degli scienziati, didatticamente preparati finora a descrivere e rappresentare solo i fenomeni macroscopici; 2) con l’insufficienza del linguaggio comune, foggiato anch’esso per i fenomeni macroscopici; 3) col relativamente piccolo sviluppo di queste scienze minimoscopiche, che attendono un ulteriore sviluppo dei loro metodi e criteri per essere comprese da molti per comunicazione letteraria (e non solo per diretta visione sperimentale, che è privilegio di pochissimi); 4) occorre ancora ricordare che molte esperienze minimoscopiche sono esperienze indirette, a catena, il cui risultato “si vede” nei risultati e non in atto (così le esperienze di Rutherford)». A ben vedere i quattro ordini di difficoltà indicati da Gramsci sono quelli che si presentano a noi ancora oggi. E con cui faremmo bene a misurarci se non vogliamo incorrere, noi divulgatori scientifici, nel medesimo errore di Giuseppe Antonio Borgese: romanzare la scienza, invece di comunicarla. E abbassare la cultura generale a livello di senso comune, invece di cercare di elevare la cultura di tutti al più alto livello possibile. 10


SINISTRA, POLITICA E CULTURA Cab Calloway, Umbria Jazz, Perugia, 1987

a pRoposito del mateRialista stoRico edoaRdo sanGuineti, pensando a GRamsci

❚ Un politico prestato alla poesia di Niva Lorenzini

I

nizio da una constatazione. Un libro di piccolo formato, dato alle stampe da Sanguineti nel 2006, continua a fare registrare al suo editore un’accoglienza superiore alle aspettative, soprattutto se si tiene conto che quell’editore non è uno dei colossi che si spartiscono, in regime di monopolio, il mercato librario italiano (accentrandolo, omologandolo), ma un coraggioso promotore di cultura posizionato alla periferia dell’impero: mi riferisco al leccese Piero Manni. Quali le ragioni dell’interesse? In primo luogo di certo il titolo, Come si diventa materialisti storici?, così spiazzante e provocatorio, così anacronistico, in epoca di economie globalizzate, di neoliberismo, di revisionismi rampanti. Assieme al titolo, l’illustrazione di copertina, che pone in primo 11

❝ Con le due mani nati a lavorare, nati con i due piedi a camminare, con lavorare si va per salire per una scala che va a proseguire ❞


nuova rivista letteraria

Ornette Coleman con il Double Quartet alla Festa Nazionale dell'Unità, Bologna, 1994

piano due volti: quello di Marx, ritratto frontalmente, e quello di Sanguineti a fargli da controcanto, restituito qui da un profilo puntuto, schizzato con icasticità caricaturale. Il “manualetto” (secondo la definizione che ne dà l’autore) si propone al lettore con i caratteri, precisa ancora Sanguineti, di un prontuario per un “fai-da-te” rivolto all’aspirante materialista storico, perché assuma quelle istruzioni “a livello del pensiero e a livello della pratica concreta”, sperimentandole proprio nella “vita quotidiana”. Occasione della stesura del testo, sarà bene ricordarlo, i festeggiamenti per il novantesimo compleanno del “compagno Ingrao”. Inattuale per il contenuto, impraticabile nei modi e nelle prospettive, il libretto mette a fuoco, senza nessuna concessione alle mediazioni o agli aggiornamenti di comodo, alcuni punti fermi della riflessione politica di Sanguineti (un “politico prestato alla poesia”, come amava definirsi) che meritano attenta considerazione. A partire dalle riflessioni sul compito e la ragione d’essere degli intellettuali, in una stagione che di tanto in tanto riprende a interrogarsi, quasi per un tacito passa-parola, sulla loro scomparsa o sulla loro perdita di ruolo (Intellettuali senza era ad esempio il focus del dibattito ospitato sul primo numero della nuova “alfabeta2”; ma non è certo il caso di ricordare ora come riviste e quotidiani si occupino da tempo del problema – e del resto sarebbe istruttivo buttare uno sguardo alla prima “alfabeta”, che della messa in crisi dell’intellettuale trattava quasi a ogni numero già nei primi anni Ottanta). Ma il punto di vista di Sanguineti è particolare. Trat-

tare della funzione dell’intellettuale non può prescindere, per lui, dall’avviare un confronto con il pensiero di Gramsci: e infatti già nelle 139 Schede gramsciane, pubblicate nel 2004 per i caratteri della torinese UTET, aveva affrontato in maniera del tutto singolare, e da par suo, il problema, selezionando, da lessicologo e lessicomane espertissimo, parole che si collegassero, in Gramsci, alla volontà – che l’intellettuale dovrebbe, per Sanguineti, sempre praticare – di segnalare i rischi di una cultura che punti a colonizzare il pensiero cancellando il dissidio e favorendo l’acquiescenza al potere. Venivano così attentamente selezionati da lui termini come “accomodantismo” accanto al più diretto e indiziato “affamamento” (e cioè, direttamente da Gramsci, dal suo scritto del 1921, Il pressemolismo, compreso nel saggio Socialismo e fascismo, lo sfruttamento esercitato dai “capitalisti sugli operai”, che rende “logico, normale, naturale – scriveva appunto Gramsci – che gli operai lottino contro i capitalisti per limitare lo sfruttamento e l’affamamento”); o “barabberia”, “concussore”, “farabuttismo”, che molto hanno da spartire, per Gramsci, con quel “socialriformismo” che egli giudicava “paralizzatore”, pericoloso nelle “illusioni” che promette e ancor più nella “complicità”, nell’ “opportunismo” che lo contraddistinguono (scriveva nella Tattica del fallimento, un testo del 1921 sempre compreso in Socialismo e fascismo: “Le organizzazioni operaie e contadine sono ora nella loro maggior parte dirette da social riformisti, le cui opinioni politiche si sa quali sono: collaborazione, partecipazione al potere e via di seguito”). 12


LORENZINI

Chick Corea, Rocca Sforzesca, Imola, 1992

La selezione proposta da Sanguineti è intenzionale e provocatoria: mira a mettere in evidenza che l’intellettuale cui guarda Gramsci è alternativo al mantenimento dell’ordine e del benessere borghese, mentre è organico alla classe che lotta per emergere dallo sfruttamento, facendosi portatrice di un modello alternativo che nasca dal proprio interno. Non è, insomma, figura calata da fuori, l’intellettuale che viene configurandosi nei Quaderni dal carcere, ma è parte in causa della rivendicazione di una funzione politica gestita direttamente dalla classe degli sfruttati, è riappropriazione, da parte loro, di una cultura e di un pensiero non colonizzato da chi detiene il potere. Utopia? Proposta inattuale? Se di questo si tratta Sanguineti, che le utopie ha sempre rintuzzato, la persegue con tenacia e pertinacia, nel suo libretto rosso e ocra, ponendole accanto, vicino ai richiami classici a Marx e Engels, una lunga riflessione sul pensiero, altrettanto inattuale, provocatorio, anacronistico, esposto nel lukacsiano Storia e coscienza di classe. Così come con tenacia e pertinacia tiene testa, nel lungo dialogo-intervista condotto da Antonio Gnoli (lo si legge in Sanguineti’s song. Conversioni immorali, uscito nello stesso 2006 presso Feltrinelli), alle obiezioni del suo interlocutore, qua e là garbatamente spazientito per la tenuta coriacea, intransigente, delle idee del Professore “malpensante”, “intellettualmente feroce”, “testardo”, intriso di una ideologia classista. E però, riconosce l’intervistatore (che non condivide quella sua “archeologia di ritorno”, come non condivide “quel suo punto di vista ideologico sul mondo”), quel

“signore settantacinquenne” non è mai, ammette - per chi ha la fortuna di trovarsi a conversare con lui - né convenzionale né prevedibile; al contrario, sempre spiazzante, in quelle sue adorniane conversazioni immorali così intrise della prosa pratica del mondo (che per Sanguineti significa poi piena partecipazione alla storia e alla coscienza di classe, e adesione alla corporeità, nella consapevolezza che la scrittura, e il linguaggio, comportano sempre una scelta di campo, sono dunque, in positivo, ideologia). Come si diventa materialisti storici?, per tornare al volumetto che ha dato avvio a queste brevi considerazioni, non mostra alcun segno di rinuncia alla scelta di campo, nessuna ipotesi di cedimento o stanchezza. Quella che pure segna molta parte della poesia di Sanguineti, poeta civile nel profondo, bisognerebbe finalmente riconoscerlo, e altrettanto profondamente disilluso ma mai rassegnato, fino da quando, all’avvio degli anni Sessanta, nei panni del neoavanguardista, scriveva le poesie ferocemente antiborghesi di Purgatorio de l’Inferno (“ti attende il filo spinato, la vespa, la vipera, il nichel […]”; “piangi piangi, che ti compero una lunga spada blu di plastica, un frigorifero / Bosch in miniatura, un salvadanaio di terra cotta, un quaderno / di tredici righe, un’azione della Montecatini:” ; “questo è il gatto con gli stivali […] / e questo è il denaro, / e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri / con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette / di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie”). Ma poi, negli anni del consumismo sfrenato e del13


nuova rivista letteraria la confutazione delle ideologie, nel trionfo dell’indistinzione omologante, il materialista storico arriva ad autoparodiarsi, in testi di amara presa d’atto della sconfitta di una militanza politica. Siamo nel 1979 quando scrive, in Stracciafoglio 34.: “invecchio apatico, temo: e tuttavia, liquidata l’utopia, / mi allontano a velocità fantastica, se non altro, da sirene, da mostri, da chimere:”. E ancora, nel testo che immediatamente gli tiene dietro e che andrebbe riportato per intero, non fosse altro che per il riferimento diretto a Gramsci, la desolazione diventa denuncia, seppure nel tono da basso parlato che la ospita: “volevo dire (dirti) che il marxismo mi sta / diventando molto raro, intorno, e che c’è qualcuno che si annacqua, ogni giorno, / e si contamina, e si ripiega, e si perde […] / (e che non è la flessione dei voti, quella / che mi preoccupa, ma lo sfascio di un’ideologia): / all’utopia ho rinunciato senza pena:”. Ricondotto al “sobrio realismo”, svuotato di utopia, l’ “aspirante materialista storico” enuclea a quel punto, apertamente, il proprio ‘credo’, affidandolo a versi lapidari, quasi nei modi del lascito testamentario: “credo nel compromesso storico, nella via italiana / al socialismo, nella dittatura del proletariato (con le sue varie, e se vuoi anche / infinite incarnazioni storiche possibili, d’accordo): / e in Antonio Gramsci: / (e quell’invecchiare apatico, bada bene, l’ho dedotto da lui, come un sospetto):” Intellettuale scomodo, Sanguineti non esita neppure qui a esporsi come portatore di un pensiero superato, controcorrente rispetto alle formule e alle mode del momento: è insomma in fondo un materialista critico, che riesce a far convivere, nel tempo e nelle tante diverse espressioni della sua scrittura, il materialismo con le pulsioni dell’anarchia, sino a sfiorare i limiti del nichilismo sabotando le tradizioni, decostruendo le convenzioni, ribaltando ogni volta l’idealizzazione della storia in nome della prassi concreta. Per lui tutto è politica, a partire naturalmente dal linguaggio chiamato e restituire, nei suoi testi, “piccoli fatti veri”, che spetterà al lettore decifrare. Ma non c’è poi né anarchia né nichilismo quando, nel manualetto, Sanguineti si occupa di ridefinire il compito dell’intellettuale, che resta per lui collaboratore, diffusore, consolidatore della “coscienza di classe” (“Non è cambiato niente” – scrive – Il compito rimane lo stesso”). Lo ripete con l’ostinazione di un proclama di fede, di un paradigma che contiene in sé la forza della verità. Neppure questa parola scomoda Sanguineti censura, anzi nella pagina conclusiva del suo libello la richiama con forza, citando un testo di

Brecht che giudica “assolutamente straordinario”, e che si intitola appunto Cinque difficoltà per chi scrive la verità. Con quel testo vorrebbe concludere il suo omaggio a Ingrao, anche se poi decide altrimenti: ma basta prenderle in mano, quelle pagine, per trovare indicazioni su come si deve comportare “chi ai nostri giorni – scrive Brecht nel 1935 – voglia combattere la menzogna e l’ignoranza”. I cinque punti indicano che occorre avere il coraggio di scrivere la verità (“benché essa venga ovunque soffocata”); l’accortezza di riconoscerla (“benché venga ovunque travisata”); l’arte di “renderla maneggevole come un’arma”; l’avvedutezza di saper scegliere “coloro nelle cui mani essa diventa efficace”; l’astuzia “di divulgarla tra questi ultimi”. I lettori di Sanguineti dovranno stare all’erta. È nei momenti in cui la parola raggiunge la “semplicità” del dettato, nel suo farsi cosa, prassi praticabile, che la si sfiora, la verità. Come nella Ballata del lavoro, del novembre 1982, con il suo messaggio tutto materico, corporeo, e le sue iterazioni, che conservano l’efficacia della ballata brechtiana: “con le due mani nati a lavorare, nati con i due piedi a camminare, con lavorare si va per salire per una scala che va a proseguire: […] Con le due mani nati a lavorare, nati con i due piedi a camminare, con tutto il corpo nati qui a sudare, e ancora nati a ruscare e a sgobbare, e nati a faticarer e a travagliare, poer questa scala ci impari a lottare, e fare fine a tutto il dominare, e, te con gli altri, tutti a liberare”. Andrà riletto, Sanguineti, l’intellettuale raffinatissimo, il magistrale lessicologo capace di giocare con i registri e gli stili, felice quando le sue parole venivano apprezzate, in comizi politici, dai camalli del Porto Antico di Genova, lui che aveva ricoperto incarichi politici (da consigliere comunale a Genova, da deputato eletto come indipendente nelle liste del PCI) per spirito di servizio, come amava ripetere, e per rispetto della cosa pubblica; ed era spietato con la faccia ipocrita di un potere che osava giungere, per ignoranza e menzogna, a farsi beffe di Gramsci come degli antifascisti inviati al confino: fino a esprimere da poeta, e urlarla in diretta televisiva, la verità storica, dal palcoscenico di un premio Campiello, con il viso intenso, lo sguardo penetrante, la voce ferma nell’invettiva dantesca. 14


SINISTRA, POLITICA E CULTURA l’impoRtanza della cultuRa nella teoRia e nella pRatica politica di lev tRotsky

❚ Rivoluzione ed arte quotidiana James Brown, Palasport, Bologna, 1986

di Stefano Tassinari

M

i sono sempre chiesto come abbia fatto Lev Trotsky, mentre combatteva in prima persona contro le guardie bianche del generale Kornilov o cercava di resistere alla mostruosa macchina repressiva di Stalin, a trovare il tempo e la freschezza mentale per occuparsi di Dante e di Shakespeare, di Byron e di Puškin e poi, via via, di Blok, Esenin, Majakovskj e persino di D’Annunzio e di Silone. Alla fine mi sono sempre risposto, banalmente, che ci riusciva perché era una persona geniale, ma anche – ed è ciò che ci interessa di più in questo contesto – perché aveva capito, primo fra tutti, che la sfera culturale era decisiva in assoluto (e cioè per la formazione di una diffusa coscienza critica, valore decisivo di per sé) e in relativo (e dunque per consentire uno sviluppo coerente di una rivoluzione che, per essere tale, non poteva restare confinata nella dimensione economica). Purtroppo, la sistematica cancellazione della sua figura e delle sue opere da parte dei dirigenti stalinisti dei partiti comunisti (particolarmente riuscita nell’Italia togliattiana e anche post-togliattiana) ha fatto sì che intere generazioni di militanti e intellettuali della sinistra non siano state in grado di confrontarsi con posizioni e proposte specifiche 15

❝ ...È anche vero

che, a un personaggio come Trotsky, il Surrealismo non poteva non provocare una grande simpatia fin dai suoi albori, dato che, se il primo manifesto metteva l’anticonformismo al centro della propria dichiarazione d’intenti... ❞


nuova rivista letteraria - inerenti al cosiddetto “mondo della riproduzione” – attraverso le quali Trotsky aveva seminato un percorso politico che, se intrapreso, forse avrebbe impedito all’utopia comunista di sgretolarsi nelle forme che ben conosciamo, finendo con l’essere sommersa da quelle macerie che appare sempre più difficile rimuovere per costruire qualcosa di diverso. È evidente che stiamo ragionando in termini di ipotesi, perché non abbiamo a disposizione una controprova, ma è altrettanto chiaro che, se le sue teorie sull’autonomia della sfera culturale da quella politica, sulla possibilità che proprio nell’agire artistico e culturale si sviluppi la coscienza critica e sul legame tra dimensione collettiva (la rivoluzione) e dimensione individuale (la vita quotidiana) si fossero radicate a livello popolare, quanto meno si sarebbero evitati i disastri del socialismo reale. Ciò non significa che, soprattutto nei primi anni successivi alla rivoluzione d’Ottobre, Trotsky non abbia espresso anche posizioni ambigue e gravi, come quando giustificò la scelta del governo bolscevico di aver mandato in esilio lo scrittore dissidente Arcybašev, in quanto, disse, “il bene della rivoluzione è per noi la legge suprema”, e chi metteva in discussione tale bene era “giustamente” soggetto a misure repressive come l’esilio. Qualche anno dopo, come è noto, lo stesso Trotsky fu vittima di un provvedimento odioso come l’esilio, e anche questo, non vi è dubbio, contribuì ad allargare le sue vedute in materia di dissenso politico. Detto questo, anche nel periodo più controverso – quando, cioè, Trotsky occupava ruoli di grande potere – le sue posizioni sulla cultura furono le più avanzate tra quelle espresse nel mondo bolscevico. Fu lui, ad esempio, a contrastare con forza le idee dei cosiddetti “napostovcy”, secondo i quali era necessario imporre agli autori di seguire i dettami di una presunta “letteratura proletaria”, che Trotsky non solo considerava sbagliata, ma addirittura inesistente (a tal proposito è rimasto celebre l’intervento sarcastico con cui si rivolse al redattore della rivista “Na postu”, Lelevič, dicendogli: “Siamo pronti ad accettare la definizione di Letteratura proletaria, basta che, oltre alla definizione, ci diate anche la letteratura!”). In sostanza, per Trotsky non aveva alcun senso piegare la creatività artistica alle esigenze, anch’esse presunte, del partito e/o del governo, così come non ne aveva stabilire quali fossero le giuste linee tematiche e stilistiche della letteratura sulla base di quanto deciso dal Comitato centrale del Partito Comunista (come invece avverrà, purtroppo, ai tempi di Zdanov e di Stalin). Non a caso, fu l’unico tra i dirigenti bolscevichi a schierarsi apertamente a favore dei cosiddetti “compagni di strada”, invisi ai

John Surman alla Rocca Brancaleone, Ravenna Jazz Festival, 1985

burocrati – e in primo luogo ai mediocri scrittori che puntavano a consolidare una carriera letteraria potendo vantare, come unico talento, la propria fedeltà all’apparato di partito…. – e al centro di attacchi durissimi, soltanto per via dei loro riferimenti al simbolismo o alla poesia immaginifica. Quando, ad esempio, Sergej Esenin si suicidò, Trotsky – che lo definì “un poeta così splendido, così fresco, così vero” – si domandò, polemicamente, “come fosse possibile gettare un rimprovero dietro al più lirico dei poeti, che noi non siamo stati capaci di conservare?”. Eppure, proprio quel lirismo e quei riferimenti “contadini” così presenti nella sua poesia avevano fatto di Esenin un bersaglio della critica ufficiale, il che testimonia come Trotsky fosse del tutto immune da certe logiche manichee, come aveva già dimostrato anni prima, quando lo stesso fuoco di fila investì Alexander Blok, scomparso a soli quarantun anni nel 1921. Blok, prima amatissimo anche dagli intellettuali di cultura nobiliare e poi odiato da questi stessi personaggi per aver 16


TASSINARI scritto il poema “I dodici” (da loro giudicato “bolsceria indipendente”. In quel manifesto, tra l’altro, si divico”), non fu mai accettato realmente dagli ambienti chiara che “l’arte e la poesia devono rimanere interarivoluzionari in quanto la sua lirica, scritta in gran mente libere”, concetto che, se oggi sembra ovvio (a parte prima dell’Ottobre, venne bollata da chi vanoi, ma non a tutti, specie a certi dirigenti comunisti gheggiava una letteratura “di partito” come simboliche non si sono mai realmente affrancati dallo stalinista, misticheggiante e romantica. Anche in questo smo), a quei tempi era assolutamente minoritario. È caso fu Trotsky a difenderlo (malgrado ritenesse, sbaanche vero che, a un personaggio come Trotsky, il Surgliando, che la componente più lirica della sua poesia realismo non poteva non provocare una grande simnon gli sarebbe sopravvissuta), non solo esaltando “I patia fin dai suoi albori, dato che, se il primo manifedodici” ( e fin qui è comprensibile, dato il tema molto sto metteva l’anticonformismo al centro della propria politico del poema), ma sposando la tesi di Blok sulla dichiarazione d’intenti, nel secondo manifesto surreanecessità di “raffrontare i fatti di tutte le sfere della lista l’approccio politico è reso ancor più esplicito nel vita accessibili al mio occhio in un dato momento”, momento in cui si chiarisce di non poter evitare di nella convinzione che “tutti insieme, quei fatti creino “porci in modo bruciante il problema del regime soun unico accordo musicale.”. Per Trotsky, questa diciale sotto cui viviamo”, e quindi “l’accettazione o la chiarazione confutava l’idea dell’estetismo autosuffinon accettazione di questo regime”. Sbaglierebbe, ciente, deponendo a favore del legame naturale tra però, chi pensasse a un Trotsky attento alla sfera artil’arte e la vita sociale, convinzione da sempre alla base stica solo in relazione alla sua “politicità”. Non è così, del suo pensiero. Per lui, infatti, la giusta autonomia nel modo più assoluto, e in tal senso è sufficiente legdella sfera culturale da quella strettamente politica gere qualcuna delle sue tante pagine dedicate alla ponon ha mai significato indipendenza dell’arte dalla diesia o all’arte figurativa, per comprendere come fosse mensione sociale (cosa ben diversa), fortemente sollecitato dagli aspetti ma, casomai, la possibilità di utilizformali ed estetici, la cui innovazare la cultura come strumento per zione riteneva una conquista. E inl’arte e mettere quotidianamente in discusfatti, già negli anni Venti, a propola poesia sione lo stato delle cose (concetto sito delle forme usate dai futuristi, devono ben espresso dalla sua famosa frase: scriveva: “La poesia è cosa non tan“l’arte non è uno specchio, ma un to razionale quanto emozionale, e rimanere martello.”). D’altronde, questa non la psiche umana, che ha assorbito i interamente facile – per il contesto storico – preritmi e i nodi ritmici biologici e sa di posizione a sostegno dell’idea social-lavorativi, cerca la loro imlibere. stessa di “messa in discussione” culmagine idealizzata nel suono, nel turale e sociale (poi sviluppata ancanto, nella parola artistica. Finché che in termini direttamente politici, grazie alla sua questa esigenza è viva, le rime e i ritmi futuristi, più teoria della “rivoluzione permanente”) è alla base anflessibili, audaci e variati, costituiscono una conquista che del suo grande interesse nei confronti delle avanindubbia e pregevole. Altrettanto indiscutibili sono le guardie e dei movimenti artistici, in particolare del conquiste dei futuristi nel campo della strumentazioFuturismo prima (pur con qualche perplessità, dato ne del verso. Non si può dimenticare che il suono delche lo riteneva “piombato” dentro la rivoluzione) e del la parola è l’accompagnamento acustico del senso.”. E Surrealismo poi. E se al Futurismo russo riconosceva sempre a proposito del Futurismo e delle polemiche di rappresentare “la rivolta dell’ala sinistra semipaupeportate avanti nei suoi confronti dalla burocrazia bolrizzata degli intellettuali contro l’estetica chiusa e di scevica – secondo i cui esponenti, il Futurismo andava casta degli intellettuali borghesi”, e di costituire “la combattuto perché le opere futuriste erano “inaccessilotta contro il vecchio vocabolario e la vecchia sintassi bili alle masse” – Trotsky rispose ancora una volta con della poesia”, quindi “contro un vocabolario chiuso, l’arma dell’ironia, identificandosi in quei futuristi per artificialmente selezionato in modo che nulla d’estrai quali “anche Il Capitale di Karl Marx è inaccessibile neo venisse a perturbarlo”, nei confronti del Surrealialle masse”, dato che “le masse, naturalmente, non smo espresse forme di adesione più entusiastiche, al hanno una preparazione culturale ed estetica e si elepunto da creare un vero e proprio sodalizio con il suo veranno lentamente.”. Anche in questo caso, Trotsky fondatore André Breton, con il quale scrisse a quattro pone con forza la questione della crescita culturale del mani il manifesto intitolato “Per un’arte rivoluzionaproletariato, nella convinzione che si tratti di un 17


nuova rivista letteraria zione, dicendo che “porre così il problema significa semplicemente cancellare la Divina commedia dalla sfera dell’arte (…), trasformandola in un documento storico soltanto, perché come opera d’arte la Divina commedia deve dire qualcosa ai miei propri sentimenti e stati d’animo.”. Ecco, ci sembra che questa piccola polemica sia in grado di illustrare al meglio la concezione trotskiana della cultura e dell’arte, non dimenticando che per il grande rivoluzionario la cultura è innanzi tutto un fenomeno sociale, che ha bisogno della lingua come strumento più prezioso di comunicazione, ma anche di essere recuperata integralmente da chi non la conosce (“La padronanza dell’arte del passato è una condizione necessaria non solo per la creazione della nuova arte, ma per la costruzione di una nuova società”). Vien da dire che, a parte Gramsci, nessun rivoluzionario di quell’epoca ha sostenuto queste posizioni e che, proprio nella loro marginalità, sta forse la principale chiave di lettura della sconfitta storica del comunismo, per lo meno nella versione con cui siamo stati costretti a fare i conti, e cioè quella staliniana prima e stalinista poi. Dietro la mancanza di dialettica culturale, infatti, c’è stata la mancanza di dialettica politica, prima fonte di creazione dell’autoritarismo che, di per sé, dovrebbe essere la negazione di una società socialista. Ripartire dalla concezione trotskista della cultura e dall’individuazione della “questione culturale” come priorità può rappresentare un modo (l’unico? Il principale?) per cominciare a ricostruire un pensiero critico, depurato da molte scorie novecentesche e fondato su un assunto che ci pare ovvio e che era già chiaro allo stesso Trotsky quasi un secolo fa: la nostra liberazione, anche culturale, non può dipendere dalla trasformazione economica e strutturale della società, ma deve andare di pari passo con quest’ultima, esprimendosi anche in forme del tutto autonome, quindi come valore in sé. Per seguire questa strada, però, non bisogna farsi condizionare da quei meccanismi tipici di un certo modo di fare politica, che, paradossalmente, hanno trionfato (entrando nella testa dei più) provocando automaticamente una sconfitta storica. E per farlo, forse, sarebbe utile ripescare le riflessioni e le teorie di quel Trotsky che, un grande pensatore e militante anarchico (dunque lontano dalle sue posizioni), il francese Maurice Joyeux, descrisse con queste parole. “Si possono certo discutere le posizioni politiche di Trotsky, sia riconoscergli una certa responsabilità nell’evoluzione del comunismo in Russia, ma è, a mia conoscenza, il solo marxista che si sia rifiutato a porre l’espressione letteraria o artistica a rimorchio di un partito”.

Robert Plant, Festival Sonoria, Milano, 1994

obiettivo decisivo se si vuole che il potere, dopo aver cambiato mano, non rimanga un affare di pochi. Purtroppo perderà, anche sotto questo profilo, lasciando però delle indicazioni che oggi sarebbe giusto riprendere, in quanto ancora di stretta attualità (è la Storia ad essere andata così poco avanti o siamo noi ad essere rimasti così indietro?). Non abbiamo spazio, in questa sede, per affrontare le tante polemiche, o le tante riflessioni, dedicate da Trotsky a svariati scrittori ed artisti di diverse epoche (da Cervantes a Wedekind, dall’amato Puškin a Tolstoj, da Pil’njak a Kljuev, da Egger-Lienz a Schulda), rimandandovi, per questo, alla lettura del suo fondamentale “Letteratura e rivoluzione” pubblicato da Einaudi, ma qualche riga dobbiamo dedicarla a una specifica diatriba riguardante il giudizio sull’opera di Dante, in quanto emblematica del pensiero di Trotsky sull’arte. Nel suo scontro con i sostenitori della letteratura proletaria, Trotsky riprese un giudizio espresso da Raskol’nikov sulla “Divina commedia”, la quale, secondo lo stesso Raskol’nikov era da “considerare preziosa, proprio perché permette di capire la psicologia di una classe determinata di un’epoca determinata”. Trotsky reagì a questa posi18


SINISTRA, POLITICA E CULTURA foucault in iRan. Rivoluzione, entRopia, uGuaGlianza

Don Cherry e Ornette Coleman, Reggio Emilia, 1992

❚ In ultima istanza di Wu Ming 1

N

ell’ottobre del 1978 Michel Foucault (d’ora in avanti MF) visita un Iran già scosso dai moti di piazza contro lo Scià, moti che il regime reprime nel sangue, con l’unico risultato di rafforzare la determinazione popolare. La cacciata di Reza Pahlevi è ormai imminente, tutti sentono che una rivoluzione è dietro l’angolo, ma nessuno sa dire di quale rivoluzione si tratti. In quest’autunno, le parole d’ordine sono poche, chiare, focalizzate. Tutte le correnti politiche e le classi sociali fanno convergere gli sforzi in un’unica, pressante richiesta: «Via lo Scià!» C’è già chi parla di un “governo islamico”, ma l’ayatollah Khomeini è ancora in esilio a Parigi, l’evento rivoluzionario ha tante anime ed è ancora “in fusione”. MF si entusiasma per l’energia che circola, scrive diverse corrispondenze per il “Corriere della sera”, ha intuizioni folgoranti ma è anche vittima di “sviste”. “Sviste” in parte intenzionali: MF si dichiara incapace di «scrivere la storia del futuro», non si pone il problema di quale regime nascerà dall’evento rivoluzionario. Quel che gli preme è 19

❝Un'altra

fandonia ricorrente è che Foucault si sia incontrato con Khomeini, circostanza mai avvenuta. MF vide l’Ayatollah solo da lontano e non scambiò mai una sola parola con lui. ❞


nuova rivista letteraria analizzare quest’ultimo come frattura storica, rottura di un ordine, fine di un assetto politico e di un modello sociale. MF interpreta quel che vede come un prolungato «sciopero contro la politica», con il rifiuto di ogni compromesso, di ogni schema tradizionale di negoziato. Dove c’è un solo e unico scopo dichiarato urbi et orbi con chiarezza cristallina, non può esserci mediazione. A fronte della temporanea unanimità del corpo sociale nel volere la cacciata del tiranno, MF si interroga su cosa sia la volontà collettiva e quale importanza vi abbia la dimensione di una spiritualità politica, dimensione che l’occidente ha perso da tempo. È possibile tornare a porsi il problema di un rapporto tra il politico e lo spirituale? Nel chiederselo, il filosofo mette le mani avanti: «Sento già degli europei ridere; ma io, che so ben poco dell’Iran, so che hanno torto.» Tornato in Francia, MF continua a seguire gli avvenimenti. Finalmente lo Scià va in esilio, ma da quel momento l’evento rivoluzionario inizia a “rapprendersi”, la componente teocratica ne assume la direzione e la molteplicità inizia a lasciare posto all’Uno, comincia a farsi regime. L’unanimità della singola richiesta cambia di segno quando viene dirottata in plebiscito: nell’aprile del ‘79 un referendum ratifica per l’Iran l’assetto di “repubblica islamica”. La componente teocratica già perseguita le altre anime della rivoluzione, la “fusione” di ieri lascia il posto a una glaciazione. Benché incalzato pubblicamente da diversi soggetti (femministe, attivisti per i diritti umani, esuli della sinistra iraniana), per un po’ di tempo MF non sposta l’accento, si rifiuta di porsi il nuovo-vecchio problema di un Terrore che è già Termidoro. Sono altri gli aspetti su cui gli preme riflettere, in primis quello dell’Islam come portatore di un nuovo rapporto (rivoluzionario, ça va sans dire) tra spiritualità e politica. Così, quando prenderà le distanze dalla nuova repressione, molti giudicheranno il suo intervento tardivo e timido. Dalla primavera del ‘79 alla sua morte nell’84, MF non si occuperà più dell’Iran. Il periodo del suo entusiasmo per la rivoluzione iraniana è il più famigerato nella sua biografia, e ha attirato molte critiche. Eppure, se guardiamo ai molti gauchistes che riposero speranza in quell’evento, spesso inserendolo a forza in griglie concettuali pre-esistenti (marxiste-leniniste, anti-imperialiste), gli “abbagli” di MF sembrano poca cosa. Nei suoi articoli (anche questo andrebbe rimarcato: sono articoli scritti a caldo, non saggi ponderati), MF legge la rivoluzione iraniana nella sua singolarità, indagando il suo essere diverso da ogni evento rivoluzionario conosciuto. Proprio per questo, non

è davvero di Iran che vorrei parlare in questa sede: non ci sono mai stato, non sono competente in tema di Islam sciita, non mi sono mai occupato di cose persiane. Mi interessa questa storia perché c’è un potenziale «Iran» ovunque, nel senso che ogni evento che possa dirsi tale è singolare. I falsi eventi e gli pseudo-eventi mediatici vengono presentati come unici (“senza precedenti” è una delle formule più abusate e inflazionate della nostra epoca) ma si somigliano tutti tra loro, mentre i veri eventi sono accomunati dal fatto di somigliarsi poco. Forse non dirò nulla di radicalmente nuovo. Diversi commentatori e studiosi hanno affrontato i problemi sollevati dal modo in cui MF seguì quegli eventi. Solo che la letteratura secondaria su MF è un ginepraio, non tutti hanno modo o voglia di accedervi. Inoltre - con poche eccezioni degne di nota - è alquanto noiosa. Il contrario dell’effetto che producono gli scritti di MF, come in diversi hanno fatto notare. Può dunque essere utile un momento di sintesi operato da un “profano” (un autore di romanzi d’avventura!) fuori dai soliti contesti. Solo alla fine trarrò una conclusione che esula dall’ambito degli “studi foucaultiani”. Negli ultimi anni si sono amplificate a scopo polemico le “sviste” di MF a scapito di quel che riuscì a vedere molto prima di altri. La sua “débacle” iraniana è stata presentata come emblema della bancarotta dell’intellettuale impegnato/interventista, della leggerezza con cui gli intellettuali di sinistra degli anni Settanta scherzarono col fuoco anti-occidentale e terzomondista. Nella versione più destrorsa di quest’approccio, si arriva a vere e proprie calunnie. Qualche anno fa “Il Giornale” scrisse che MF «non esitò a riconoscere in Khomeini le stigmate di un profeta della libertà», affermazione falsa, poiché MF si limitò ad analizzare la figura di Khomeini come «punto d’incontro della volontà collettiva» e a interrogarsi sulle ragioni di tale centralità. Di recente, la rivista USA Reason, organo di propaganda ultraliberista, ha scritto che MF «visitò due volte il paese sotto gli Ayatollah». Altra falsità, dato che Foucault non tornò mai in Iran dopo la rivoluzione. Un’altra fandonia ricorrente è che Foucault si sia incontrato con Khomeini, circostanza mai avvenuta. MF vide l’Ayatollah solo da lontano e non scambiò mai una sola parola con lui. Sull’altro versante, quello della critica postmoderna e post-coloniale, di MF viene denunciato un approccio eurocentrico e paradossalmente “orientalista”. Sarebbe stato questo approccio a produrre la sua “cecità” di fronte agli abusi. 20


WU MING 1 Procediamo con ordine. MF non rientra nella categoria degli intellettuali di sinistra se non in modo molto sghembo: il suo essere “di sinistra” somiglia poco all’essere di sinistra di chiunque altro, come il suo “impegno” è molto diverso da quello di Sartre, nonostante le cause sostenute siano in gran parte le stesse. Perciò MF non rientra nel novero dei “cattivi maestri”; non rientra nel novero dei maestri tout court, perché non vuole essere maestro di nessuno, non mette su cenacoli, non si circonda di adepti come Lacan. Anzi, in più occasioni ammette di sentirsi solo. La solitudine è in fondo un effetto collaterale del suo approccio filosofico: vale la pena conoscere solo se questo implica «la messa in crisi di colui che conosce», e il pensiero critico deve innanzitutto criticare se stesso. MF si rifiuta costantemente di dare qualsivoglia “linea” e contesta la pretesa da parte degli intellettuali di assumere una “posizione profetica”: «è vero che un certo numero di persone [...] non riescono a trovare nei miei libri dei consigli o delle prescrizioni che permettano loro di sapere “che fare”. Ma appunto il mio progetto è proprio fare in modo che essi “non sappiano più che fare”: lavorare affinché gli atti, i gesti, i discorsi che fino a quel momento parevano loro ovvi diventino problematici, rischiosi, difficili...» (da una tavola rotonda sulla prigione, maggio 1978, pochi mesi prima del viaggio in Iran). Se si può parlare di un “eurocentrismo” di MF, ciò ha a che fare coi suoi campi di interesse, non coi “valori”. La ricerca di MF è “eurocentrica” in senso letterale, perché mantiene un focus sulla storia europea. Più di questo non si può proprio dire. Non c’è libro o intervento in cui MF non rifiuti - con foga persino eccessiva - tutti gli “universali antropologici”. Nei confronti di questi ultimi rivendica «uno scetticismo sistematico». Non che per lui sia impossibile trovare invarianti trans-storici e trans-culturali, e che ritenga doveroso precludersi l’approdo a un universale, ma ciò deve avvenire solo in ultima istanza: «Non si deve ammettere nulla di quest’ordine che non sia rigorosamente indispensabile.». A MF interessa la specificità di ogni pratica, di ogni discorso, di ogni evento. Il suo metodo affronta la storia come una successione di cesure, di svolte improvvise non sempre visibili. Bisogna ritrovare queste svolte sotto le apparenti continuità. Quest’approccio è ben presente nei suoi articoli sull’Iran: la sua costante preoccupazione è far capire a cosa non somigli quell’evento, cos’abbia di singolare, rispetto a cosa rappresenti una rottura. MF vuole rintracciare le linee di un “discorso” specifico, quello della rivoluzione iraniana nella sua fase iniziale. Per questo

è molto guardingo nei confronti delle “grandi parole” con la maiuscola reverenziale: a essere importanti non sono l’Oriente o la Modernità, e a ben vedere nemmeno la Rivoluzione (MF usa la parola con un evidente circospezione, circondandola di distinguo), nemmeno l’Evento. Questo è al tempo stesso il punto di forza... e il limite del pensiero foucaultiano. Ci tornerò sopra tra non molto. Torniamo ai reportages di MF da Teheran e altre città iraniane: non saranno poche le intuizioni a rivelarsi valide negli anni a seguire. Ho già accennato al rapporto tra spiritualità e politica, tema che nel XXI secolo tornerà all’ordine del giorno. Uno dei passaggi più «controintuitivi» e azzeccati è quello in cui MF descrive le pretese dello Scià di “modernizzare” il Paese come unico, vero arcaismo nella vita pubblica dell’Iran. Una modernizzazione intesa come importazione acritica di modello, che da un lato insegue e scimmiotta l’occidente, dall’altro cerca - ma solo blandamente un “adattamento”, una “localizzazione” falsa tramite l’import di kitsch orientalistico da un altrove già «modernizzato»: «...a decine si allineavano sulle bancarelle incredibili macchine per cucire, enormi e decorate, come se ne possono vedere nelle réclame dei giornali del XIX secolo; istoriate di disegni a forma di edera, di piante rampicanti e di fiori sboccianti, esse imitavano in modo grossolano vecchie miniature persiane. Questi occidentalismi fuori uso, marcati del segno di un Oriente desueto, portavano tutti la dicitura: made in Corea del Sud.» MF vede anche profilarsi un nuovo ruolo dell’Islam radicale a livello planetario. Qui, come sempre, è attento a non generalizzare: non parla dell’Islam come di un unico blocco, ma cerca le singolarità. Ad esempio, ci tiene a precisare che sta parlando dell’Islam sciita, poi rimarca che nel clero sciita ci sono differenze di vedute. MF esprime l’idea che ci sarà uno sviluppo rivoluzionario dentro l’Islam: «[Da oggi] ogni Stato musulmano può essere rivoluzionario dall’interno, cominciando dalle sue tradizioni secolari». Nel leggere questa frase vanno tenute presente due cose: MF non intende «rivoluzionario» nel senso della lotta di classe, ma nel senso di un evento che produce una frattura storica; inoltre, questo “dentro” è relativo. Nella globalizzazione è impossibile individuare con nettezza i confini perché siamo tutti eredi di diverse tradizioni. Ogni tradizione (in senso stretto, la pratica del consegnare a chi viene dopo) è multilineare e ha tante origini. Si può parlare di “interno” di una tradizione solo se la premessa è che i confini sono 21


nuova rivista letteraria aperti. Perciò, quando MF dice: «cominciando dalle sue tradizioni secolari», l’accento va su cominciando. È una partenza, non un approdo. Nemmeno in questo caso MF pensa a una continuità dei processi: lo sviluppo rivoluzionario in seno all’Islam incontrerà altri reagenti. In quest’ottica, MF si chiede se l’Islam radicale si approprierà della causa palestinese: «Cosa accadrebbe se questa causa ricevesse il dinamismo di un movimento islamico, ben più forte di un riferimento marxista-leninista o maoista?». Mancano ben nove anni alla fondazione di Hamas. Teheran, giugno 2009. Un trentennio esatto dopo la proclamazione della repubblica islamica, divampano le proteste contro i brogli elettorali a favore del presidente Ahmadinejad. Scende in strada un movimento in gran parte giovanile (a parte l’alto clero, in Iran pressoché tutto è in gran parte giovanile). È il cosiddetto “Movimento Verde”. In Occidente - almeno inizialmente - è descritto come filo-occidentale, liberale etc., mentre quegli attivisti urlano dai tetti di Teheran “Dio è grande”, sostengono Mir-Hossein Mousavi (già primo ministro nel periodo 1981-89) e si richiamano alla rivoluzione del ‘79 nel suo momento “in fusione”, quando l’ingresso della spiritualità nella politica (e viceversa) apriva nuove possibilità anziché chiuderle. A proposito di “altri reagenti”, usano la rete e i social network, ricorrono agli strumenti forniti loro dalla «rivoluzione» digitale, e lo fanno a modo loro, “agendoli” con le loro pratiche. In un articolo dell’8 settembre 1978, MF descrive metaforicamente il rapporto tra il movimento e i predicatori del clero sciita: «Questi uomini di religione sono come lastre sensibili sulle quali si incidono le collere e le aspirazioni della comunità. Volessero andare contro corrente, perderebbero questo potere che si basa essenzialmente sul gioco della parola e dell’ascolto.» È quello che succede trent’anni dopo. Il Movimento verde, rifiutando un ruolo subordinato nel gioco della parola e dell’ascolto, mette in crisi il clero, che infatti entra in una fase di nuove divisioni e conflitti interni. Osservatori vicini al movimento accusano la “guida suprema” Khamenei di cercare il suo consenso «nelle caserme anziché nelle moschee». Messo in crisi il gioco della parola, non resta che la repressione. Veniamo a quello che secondo me è il vero limite dell’approccio foucaultiano. Teso com’è a cercare le discontinuità, le fratture, le singolarità, i discorsi specifici, MF non si accorge di un invariante che si ripresenta in ultima istanza. Ignora i segnali del riproporsi, sotto le discontinuità, di “vecchi” problemi che possiamo senza remore definire universali.

Sì, tutti i veri eventi hanno in comune il fatto di somigliarsi poco. Ma la termodinamica ci insegna che a una dissipazione di energia corrisponde una trasformazione irreversibile, che porta un sistema verso lo stato uniforme e indifferenziato che chiamiamo “equilibrio termodinamico”. Quando un evento rivoluzionario perde energia, si riducono anche le sue specificità. Inizia a perdersi ciò che lo distingueva da tutto il resto, che lo aveva staccato dallo sfondo. L’evento rivoluzionario iraniano è diverso dagli altri, ma quando le energie calano inizia a incontrare gli stessi problemi di tutti gli eventi rivoluzionari, in un passaggio acceleratissimo dalle lotte interne al Terrore al Termidoro. Ancora una volta il ripiegamento è sul terreno dell’uguaglianza, e le donne rivoluzionarie sono le prime sacrificate. In Francia, nell’autunno del 1793, la Convenzione giacobina scioglie tutte le associazioni rivoluzionarie femminili. In Iran, la restrizione della libertà femminile è una delle prime preoccupazioni dell’appena insediato regime khomeinista. Nella primavera del ‘79, nel giro di poche settimane, una gragnuola di leggi discriminatorie si abbatte sulle donne. A Teheran, l’8 marzo, militanti di Hezbollah attaccano il grande corteo di donne che contesta il giro di vite. Le manifestanti gridano: “No alla dittatura!” e “Abbiamo fatto la rivoluzione per essere libere!”. Gli aggressori rispondono con pietre e bastoni. È l’entropia dell’evento rivoluzionario a rivelare la famosa “ultima istanza” in cui è giustificato il ricorso all’universale, e quest’universale è l’idea di uguaglianza. Quella che - con un’iperbole che a Foucault non sarebbe piaciuta - Alain Badiou chiama “Idea Eterna”. Lo scacco di una rivoluzione si misura sempre nel suo cozzare contro quest’idea, nel suo non essere all’altezza di questo universale. Universale che, benché più volte incompreso, resta comprensibile a chiunque, perché comprensibili a chiunque sono le implicazioni del motto: «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te». Se, pur con tutto lo sporcarsi le mani e le scelte gravose, una rivoluzione non mostra di puntare all’inveramento di questo motto, allora non è più niente, torna ad essere falso evento. La vicenda di Foucault in Iran ha dunque molto da dirci: dimostra che un approccio anche fecondo e ricco di intuizioni non toccherà davvero il reale se non affronta il problema dell’universale. Che per me è come dire: il problema del comunismo. Oggi l’universale viene rifiutato anche in ultima istanza, anche quando il ricorso ad esso è inevitabile. L’inizialmente giusto discorso delle “differenze” e delle “singolarità” si è trasformato in incontrollata prolifera22


WU MING 1

Dexter Gordon, Umbria Jazz, Perugia, 1987

Dimensione che è compito del filosofo evocare. L’universale è oggi l’impensato in cui bisogna riemergere, l’uguaglianza è il mistero che va evocato. Forti anche della lezione di “buoni maestri” (di maestri riluttanti) come Michel Foucault.

zione di nuove identità (nazionali, etniche, politiche, sottoculturali, sessuali). Sembra interdetta la ricerca di un “nocciolo” di esperienza comune all’intera specie umana, e di idee di eguaglianza e giustizia che valgano per tutti. Anche a sinistra, ogni universalismo è considerato a priori totalitario, come se il pericolo fosse ancora questo anziché la perniciosa cultura del tenere-lo-sguardo-basso e dell’ognuno-al-posto-suo. Perché è questo il significato di “tolleranza”, soprattutto oggi: sopportare l’altro purché non invada il mio spazio. Quello del tollerante è un “vade retro” più gentile di quello dell’intollerante, ma è comunque un vade retro. Ognuno rimanga nella sua nicchia, con un po’ di “discorso dei diritti” a far sì (chissà ancora per quanto) che la tensione non degeneri in guerra aperta, identità-contro-identità. Bisogna tornare a porsi il problema dell’universale, senza per questo scordarsi della singolarità. Concludo con le parole di un filosofo che nella sua vicenda biografica non fu all’altezza dell’idea di uguaglianza (ed è il minimo che si possa dire) ma ci ha regalato un’immagine molto bella. Nella sua Lettera sull’umanismo, Martin Heidegger parla della spinta al «naufragio», dell’uscire dalla propria vicenda per emergere «nell’impensato», in un mondo al quale è stata restituita la dimensione di «mistero primigenio».

Bibliografia J. Afary & K. Anderson, Foucault and the Iranian Revolution: Gender and the Seductions of Islamism, University of Chicago Press, 2005 A. Badiou, L’hypothèse communiste, Nouvelles Editions Lignes, Paris 2009 D. Eribon, Michel Foucault, Leonardo, Milano 1991 M. Foucault, Biopolitica e liberalismo, Medusa, Milano 2001 M. Foucault, Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, Mimesis, Milano 1994 M. Foucault, Taccuino persiano, Guerini e associati, Milano 1998 M. Lilla, Il genio avventato. Heidegger, Schmitt, Benjamin Kojève, Foucault, Derrida e i tiranni moderni, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2010 J. Miller, La passione di Michel Foucault, Longanesi, Milano 1994 P. Veyne, Foucault. Il pensiero e l’uomo, Garzanti, Milano 2010 23


Mick Jagger in concerto con i Rolling Stones, Torino, 1982


❚ Le armi della cultura

Claudio Lolli, Palasport, Bologna,1994

di Giuseppe Ciarallo

L

a Storia è costellata di guerre interne, nelle quali stati esteri intervengono a sostegno di uno dei contendenti per meri interessi politici, economici o di espansione territoriale. Un caso unico, invece, è quello della guerra civile spagnola di parte repubblicana. Mentre le potenze nazista e fascista si schierarono apertamente con i rivoltosi nazionalisti guidati dal generale Francisco Franco, i sostenitori della Repubblica, che avevano appena vinto le elezioni regolarmente, non ricevettero alcun aiuto dalle grandi potenze occidentali (Francia e Gran Bretagna in primis), ma poterono contare sull’apporto entusiastico di migliaia di singoli cittadini giunti da ogni parte del globo. Comunisti, socialisti, anarchici, repubblicani e democratici di ben 52 paesi, sentirono il bisogno di scendere direttamente in campo per combattere a difesa della democrazia repubblicana spagnola. La Guerra di Spagna, in realtà, conteneva in sé tutti gli elementi necessari per far sì che i combattenti accorsi sentissero motivi e ideali talmente forti da spingerli a mettere in gioco la loro vita: una causa giusta, la speranza di 25

❝ Scrivere per il popolo è chiamarsi Cervantes in Spagna, Shakespeare in Inghilterra, Tolstoi in Russia ❞

SINISTRA, POLITICA E CULTURA

il Ruolo deGli intellettuali nella GueRRa civile spaGnola


nuova rivista letteraria poter finalmente realizzare una rivoluzione veramente contadina e proletaria e, per alcuni (Simone Weil, ad esempio), nel più profondo degli animi l’affascinante idea quasi mistica di combattere l’eterna lotta del bene contro il male, rappresentato dallo spettro della dittatura. Non solo, per la prima volta si comprendeva il vero significato del termine “internazionalismo” e si aveva l’occasione di metterlo in pratica. Ma aldilà di questa visione apparentemente romantica, i volontari stranieri giunti in Spagna, inquadrati o meno che fossero nelle Brigate Internazionali (costituite nell’ottobre del 1936), sapevano benissimo che combattere e sconfiggere il fascismo spagnolo significava arrestare l’espansione in atto del nazismo tedesco e del suo naturale alleato italiano. In molti accorsero proprio dall’Italia, o dalla Francia dove viveva una nutrita colonia di antifascisti italiani fuggiti dalla propria terra per sottrarsi alle persecuzioni mussoliniane. Anche gli intellettuali, interpretando la loro naturale funzione di coscienza critica in seno al popolo, non rimasero inermi e si schierarono in massa, salvo poche sporadiche eccezioni, dalla parte della Repubblica. Nell’opuscolo, pubblicato nel 1937 negli Stati Uniti, vengono elencati gli scrittori favorevoli alla causa repubblicana; tra i numerosissimi intellettuali d’oltreoceano spiccano nomi molto importanti della cultura mondiale: Faulkner, Pearl Buck, Sinclair, Steinbeck, Richard Wright, per non parlare di Hemingway e Dos Passos, personalmente e “fisicamente” a fianco del popolo spagnolo. Non meno nutrito è l’elenco degli intellettuali del vecchio continente, con l’entusiastica partecipazione dei Koltsov, Malraux, Gide, Camus, Eluard, Aragon, Virginia Woolf, Simone Weil, Tristan Tzara, Koestler e soprattutto Orwell, il quale scriverà un ricco resoconto della sua esperienza di miliziano nelle file del POUM (il Partido Obrero de Unificacion Marxista, di ispirazione trotskijsta), vissuta con il fucile in una mano e con la penna nell’altra. Anche nel mondo delle arti figurative vi fu l’accorata partecipazione di Picasso (la sua è divenuta nel tempo espressione iconografica stessa degli orrori della guerra), Guttuso, Sassu, Leger e Mirò, autore del celeberrimo manifesto nato come bozzetto di un francobollo che verrà venduto in tutta la Francia per 1 Franco. Dal fronte interno, gli intellettuali spagnoli, che mai prima si erano identificati così fortemente con un regime politico, dedicarono senza risparmio ogni loro energia alla causa della cultura popolare da diffondere capillarmente tra le masse. Tra loro, il poeta Rafael Alberti, Antonio Machado, Hernandez, Unamuno,

Garcia Lorca, quest’ultimo trucidato senza pietà dai falangisti nella sua Andalusia. Oltre che nelle riviste di cultura politica, sociale e letteraria, gli intellettuali miliziani alternano i loro obblighi militari all’attività d’insegnamento, con la creazione di biblioteche, la proiezione di pellicole, dibattiti, conferenze, rappresentazioni teatrali. Numerosissime le riviste che vedono la luce tra il 1936 e il 1938, dai periodici di Divisione, di Brigata, di Battaglione, a quelli più “professionali” e importanti, che escono a firma di scrittori di prestigio. Tra questi, “El Mono Azul”, diretta da Rafael Alberti, segretario della Alianza de Intelectuales Antifascistas, “Nueva Cultura”, “Madrid - Cuadernos de la Casa de la Cultura”, “Cuadernos de Madrid”, e soprattutto la “Hora de Espana: al servicio de la causa popular”. Per comprendere a fondo la compenetrazione tra lavoro culturale e lotta politica e armata, è necessario ascoltare l’appello che Antonio Machado rivolge, a Valencia nel 1937 durante i lavori del Congresso Internazionale degli scrittori, quando invita gli intellettuali presenti ad abbandonare il ruolo di “maestro” e di calarsi nel mondo di quel popolo che dicono di voler servire con la loro arte, creando così qualcosa di profondamente radicato nella realtà vera: “Se desideri scrivere per il popolo, impara da lui quanto puoi, molto meno - sia ben chiaro - di ciò che lui sa. Scrivere per il popolo è scrivere per l’uomo della nostra razza, della nostra terra, della nostra lingua, tre cose di inesauribile contenuto che non riusciremo mai a conoscere esaurientemente. Ed è molto di più, perché scrivere per il popolo ci obbliga a varcare le frontiere della nostra patria e quindi scrivere anche per gli uomini di altre razze, di altre terre e di altre lingue. Scrivere per il popolo è chiamarsi Cervantes in Spagna, Shakespeare in Inghilterra, Tolstoi in Russia”. Se massiccia fu la partecipazione degli intellettuali di tutto il mondo in termini di solidarietà per la Repubblica, ci fu chi decise di partecipare attivamente al conflitto. André Malraux, Gustav Regler e George Orwell raggiunsero la Spagna per battersi con i miliziani antifascisti. Malraux, considerato all’epoca la massima incarnazione dello “scrittore rivoluzionario”, coinvolgendo volontari idealisti e mercenari reclutati tra gli ex piloti di guerra creò, con i pochi mezzi a disposizione, l’aviazione repubblicana trasformando apparecchi da commercio in aerei da combattimento, e tenendo testa alla più organizzata aviazione tedesca e italiana, fino all’arrivo dei primi aeroplani russi. Il frutto letterario dell’esperienza spagnola di Malraux è racchiuso nel romanzo, un libro di propaganda mai 26


CIARALLO diventato veramente popolare, col quale l’autore tutto si prefiggeva, tranne che di rappresentare un elemento rassicurante per i benpensanti tranquillizzandoli sulla natura democratica della lotta antifranchista e sulla moderazione dei rivoluzionari spagnoli. Regler, scrittore tedesco che al termine del conflitto racconterà la sua esperienza nel libro, entrò a far parte come ufficiale, nella XII Brigata Internazionale riportando varie ferite nella vittoriosa battaglia di Guadalajara.

ma linea. Nell’intero complesso della caserma Lenin credo non ci fossero altri fucili oltre quelli usati dalle sentinelle”. È curioso il modo in cui un altro combattente “straniero”, inquadrato però nelle formazioni rigidamente comuniste ortodosse e dunque fedeli a Stalin, veda la questione. Nelle sue memorie spagnole, l’allora diciottenne garibaldino Giovanni Pesce, che successivamente, nel 1943, sarà comandante dei Gruppi d’Azione Patriottica, costante spina nel fianco dell’occupante Ma forse l’intellettuale che più di ogni altro ha “sentedesco nell’Italia repubblichina, dà la sua versione dei tito” forte l’impegno per la causa repubblicana come fatti, ed è una versione che fa a pugni con quella di Orun vero e proprio dovere morale, è stato George Orwell: “Da molto tempo i trotzkijsti del POUM accuwell. Ed è proprio in Spagna che Orwell conoscerà mulavano a Barcellona quantità ingenti di armi, tanper esperienza diretta il vero volto delle dittature che ks, mitragliatrici, anziché inviarli al fronte di Aragona denuncerà nei suoi romanzi successivi, e soprattutto: che ne aveva estremo bisogno”. E aggiunge, nell’inquello del nazifascismo, certo, ma anche quello di tento denigratorio che per tutta la guerra gli staliniStalin, incomprensibilmente spiesti terranno, definendo poumisti e tato anche in una situazione delianarchici una vera e propria quinta cata come quella del fronte antifacolonna dei franchisti: “Sul fronte Ma forse scista spagnolo. Orwell nel narrare catalano-aragonese si attendeva che l’intellettuale la sua esperienza, oltre al racconto gli avvenimenti maturassero come della vita di trincea e delle fasi dei le albicocche sulle piante, mentre che più di ogni combattimenti cui prende parte, nella terra di nessuno i fascisti e i altro ha “sentito” attraverso articoli e altri scritti fa trotzkisti giocavano al football”. E forte l’impegno una profonda analisi politica delle ancora: “Elementi legati al POUM varie fasi della guerra, giungendo a e trotzkisti hanno fatto correre la per la causa conclusioni che a posteriori si sono voce che siamo qui per eliminare gli repubblicana rivelate più che fondate. anarchici, per portare via il raccolto Innanzitutto lo scrittore inglese ai contadini. […] I cittadini, colpicome un vero e taglia corto sui motivi dell’ “alzati dal nostro contegno, dall’umaniproprio dovere miento” e del conseguente conflitto: tà e dalla sincerità dei garibaldini, “L’odio che la Repubblica spagnola riescono a capire meglio gli uomini morale, è stato è riuscita a suscitare tra i milionari, i del POUM, che requisivano tutto George Orwell. duchi, i cardinali, i signorotti, i miper forza, vuotavano i pollai, comlitari tronfi e reazionari e tra molti mettevano violenze”. altri basterebbe da solo per capire Risulta chiaro come un tale odio, quel che bolliva in pentola. Nella sua essenza quella è tra combattenti che lottavano dalla stessa parte della stata una guerra tra classi”. barricata, non potesse che sfociare nella vittoria del E sui motivi della sconfitta del fronte repubblicano il nemico. Vittoria che giunse non prima che all’interno suo giudizio è altrettanto : “La tesi trotskijsta che la della fazione repubblicana i comunisti fedeli a Stalin, guerra si sarebbe vinta se la rivoluzione non fosse stata inizialmente minoritari per numero e per radicamento sabotata, è probabilmente falsa. […] I fascisti hanno tra il popolo spagnolo, compissero atti di ingiustifivinto perché erano più forti, perché avevano armi mocata violenza nei confronti di anarchici e trotzkijsti. derne di cui gli altri erano sprovvisti. Nessuna strateNel pomeriggio del 5 maggio 1937, un manipolo gia politica poteva compensare questo dato”. formato da una quindicina di persone, pistole in puA tal proposito Orwell racconta quello che ha potuto gno, fa irruzione nell’abitazione dove vivono l’intelverificare con i suoi occhi: “Nella milizia del POUM la lettuale anarchico Camillo Berneri e il suo “aiutante penuria di fucili era così disperata che le nuove truppe di campo” Francesco Barbieri (appartamento già rimandate al fronte erano sempre costrette a rilevare i petutamente perquisito da miliziani comunisti e della fucili dai compagni di cui prendevano il posto in priUGT); i due vengono prelevati e i loro corpi verranno 27


nuova rivista letteraria trovati il mattino successivo sulle Ramblas da uomini della Croce Rossa. Qualche settimana dopo, il POUM è messo fuori legge, il suo gruppo dirigente viene incarcerato insieme a molti militanti del partito e il suo segretario, Andrés Nin, viene sequestrato, torturato e successivamente assassinato da emissari sovietici. E anche sulla morte del capo anarchico Buenaventura Durruti, il 20 novembre 1936 a Madrid, non tutti avevano concordato sulla raffica che accidentalmente si diceva fosse partita dal suo stesso mitra o dalla pallottola del cecchino fascista, attribuendola piuttosto a un consigliere militare russo. Così come si nutrirono dubbi sulla fine del comunista tedesco Hans Beimler e su quella del mitico comandante degli Arditi del Popolo, l’italiano Guido Picelli, famoso tra le tante altre sue imprese per aver issato e fatto sventolare, il primo maggio 1924, e dunque in pieno fascismo, una bandiera rossa sul balcone del Parlamento. Tornando a Orwell, lo scrittore dopo aver manifestato sconcerto per l’atteggiamento delle grandi potenze europee ed aver sostenuto chiaramente che la guerra è stata vinta dai tedeschi e dagli italiani che avevano evidenti motivi per sostenere i rivoltosi franchisti, denuncia l’imperscrutibilità della posizione sovietica: “Sono intervenuti, come credeva la sinistra, per difendere la democrazia e per battere i piani nazisti? Ma, in questo caso, perché sono intervenuti su scala così ridicola lasciando la Spagna in grande difficoltà? Oppure è vero, come sostenevano i cattolici, che sono intervenuti per promuovere la rivoluzione? E in tal caso perché hanno fatto tutto il possibile per far fallire i movimenti rivoluzionari, per difendere la proprietà privata, per dare il potere alla classe media e non alla classe lavoratrice?”. E la conclusione dell’intellettuale inglese è tanto amara quanto anticipatrice di verità svelate solo dopo la morte del dittatore georgiano: “La verità è che la condotta dei russi si spiega facilmente se si parte dall’assunto che erano guidati da una serie di principi contraddittori. Sono sicuro che in futuro finiremo col pensare che la politica estera di Stalin, lontana dall’essere, come s’è detto, di un’astuzia diabolica, sia stata solo turpe e piena di opportunismi”. D’accordo con le tesi di Orwell sulle ragioni della sconfitta del fronte antifascista, sembra essere Bertolt Brecht. Sintomatico il breve discorso che lo stesso pronunciò a Parigi, a conclusione del II Congresso Internazionale per la Difesa della Cultura, svoltosi dal 4 al 17 luglio 1937 tra Valencia, Madrid, Barcellona e la capitale francese, nel quale il drammaturgo tedesco non si limitò a generiche parole di condanna per il bar-

baro attacco alla cultura operato dai fascisti, ma spostò l’attenzione dei suoi colleghi dalla visione ideale della lotta alla necessità di sostenere “fisicamente” la guerra dei fratelli spagnoli, individuando al contempo il vero problema della fazione repubblicana, e cioè la manifesta inferiorità di equipaggiamento bellico rispetto al nemico: “La cultura che a lungo, troppo a lungo, è stata difesa solo con le armi spirituali, ma attaccata con armi materiali, questa cultura è essa stessa una faccenda non solo spirituale ma anche, e anzi prima di tutto, una faccenda materiale, che deve essere difesa con armi materiali”. Quelle armi che mancarono all’esercito repubblicano e che ne decretarono la sconfitta, aprendo la strada al potenziamento del nazismo e, con tutta probabilità, a quella disumana carneficina passata alla storia col nome di Seconda Guerra Mondiale.

Don Byron, Teatro Romano, Verona, 1992

Riferimenti bibliografici George Orwell, Omaggio alla Catalogna, Mondadori, 1993; George Orwell, Ricordi della guerra di Spagna, Datanews, 2005; Giovanni Pesce, Un garibaldino in Spagna, Edizioni EsseZeta – Arterigere, 2006; AA.VV., Dizionario biografico degli anarchici italiani, Biblioteca Franco Serantini, 2003; Aldo Garosci, Gli intellettuali e la guerra di Spagna, Einaudi, 1959; Angel Sanchez-Gijon, Le riviste letterarie nella guerra civile spagnola: Hora de Espana, Carte segrete, n.1 (gen./mar. 1967). 28


SINISTRA, POLITICA E CULTURA Giorgio Bracardi e Mario Marenco, Teatro Duse, Bologna, 1992

la cRisi di una foRma espRessiva fondamentale, la sua maRGinalità sociale e il suo possibile Riscatto

❚ Poesia (a) sinistra di Paolo Vachino

L’

avvento del terzo millennio, con il dilagare babelico di tutti i mezzi di comunicazione di massa, impone una riflessione sul ruolo sociale occupato dalla Poesia. Sarebbe entusiasmante, ma allo stesso tempo ambizioso, ripercorrere la biografia della forma più alta in cui una lingua abbia mai tentato di esprimere l’indicibile e catturare l’ineffabile: l’utopia felice di tradurre pensieri e immagini in parole cariche di una musicalità muta. La definizione dello storico Hobsbawm del Novecento come “il secolo breve” calza perfettamente con il destino della Poesia, il cui crollo sembra essere avvenuto assai prima di quello del Muro di Berlino. Pare essersi ribaltata l’acuta osservazione di Guido Ceronetti: “la poesia non va in cerca di scaffali, ma di popolo”; per cui la cimiterialità di una mensola sulla quale riporre i versi rilegati dei poeti male si addice alla funzione primaria cui essa sarebbe stata destinata dalla 29

❝ Si

facciano avanti quelli che sanno fare il pane... ❞


nuova rivista letteraria notte dei tempi. Risvegliare coscienze intorpidite sia dai freddi materiali delle indigenze sia da quelli morali delle rassegnazioni con il canto della parola, che attraverso la partitura metrica e ritmica del verso crea una sorta di continuità ideale tra il battito cardiaco e il tamburo della riscossa. Vita travasata in versi, nervi trasferiti in verbi. L’uomo da sempre ha avvertito il bisogno di raccontare le proprie storie, la maggior parte delle quali non è mai penetrata nell’alveo della Storia ufficiale, quella studiata e tramandata nei libri di scuola. Per comprendere meglio questa impellenza esistenziale, si rimanda allegoricamente alle quattro funzioni aritmetiche basilari. Immaginiamo la presenza di sei uomini sul marciapiede di una via cittadina: l’addizione e la sottrazione sono le operazioni con cui fare i conti nella realtà, scegliendo di volerne conoscere soltanto alcuni dei sei passanti, oppure di giungere alla totalità d’incontro, sommando e sottraendo sguardi e attenzioni. Ma l’uomo è dotato di una fantasia tale da poter compiere una terza operazione: la moltiplicazione. Tre per tre uguale a nove. Improvvisamente si avverte la voglia di far lievitare le presenze e raccontare non solo le storie riguardanti le sei persone iniziali, ma di fabbricare biografie immaginarie delle nuove tre presenze frutto della creazione. Questa è la narrazione di prosa, i tempi lunghi delle parole per esprimere caratteri e contesti, oggetti ed emozioni. La nascita del romanzo per lievitazione fantastica del reale. Rimane un’ultima operazione da compiere: la divisione. Tre diviso tre uguale a uno. Quest’ultima e ardua elaborazione alchemica è il ruolo che si è scelto da sempre la Poesia. In quell’Uno cercare di cogliere il Tutto. Uno sguardo talmente penetrante in grado di fondere in un unico punto tutte le esistenze possibili, ma non attraverso un puzzle verbale in cui milioni di singoli pezzi composti ricostruiscono l’universo intero, ma la precipitazione universale dentro ogni singolo frammento. Dare un verso al mondo attra-verso versi. Il poeta rivoluzionario salvadoregno Roque Dalton ha riassunto straordinariamente la funzione sociale della Poesia: “Credo che il mondo è bello che la poesia è come il pane, di tutti e che le mie vene non finiscono in me bensì nel sangue unanime di coloro che lottano per la vita l’amore le cose il paesaggio e il pane la poesia di tutti.” Il cuore della Poesia da sempre quindi batte a Sinistra, per una sorta di involontaria convergenza di valori

fondanti il comune interesse per l’uomo. Occuparsi delle forme della marginalità onde riportarle al centro degli interessi vitali. L’ascolto laico del lamento, onde non svilirlo in caritatevole compassione, ma in un volano energetico alimentante le ribellioni interiori. Individuare proprio nella debolezza la forza del mondo. Ma allo stesso tempo la Sinistra ha da sempre visto nel poeta la figura dell’autoesiliato dal mondo, trasferente la sua residenza dai contesti ai testi poetici; di colui che rompe la catena sociale delle alleanze per emaciarsi ingenuamente dei dolori di tutti; di ergersi a parafulmine cosmico delle violenze solo per poterle meglio cantare, dimenticando l’impegno quotidiano della lotta per il miglioramento effettivo delle vite di tutti. Questa idiosincrasia non è degenerata in catastrofe fino a quando era la Poesia a rappresentare la vastità del cielo e i poeti a costituirne le infinitesimali erogazioni notturne di luce. L’insieme delle stelle a dare vita al tetto dell’umanità in cui mettersi al riparo non dai sogni ma dai soli bisogni, coltivando l’utopia dello stare bene insieme. Mentre oggi sembra essersi capovolta la relazione, ed essere quasi completamente sparito il cielo della Poesia, oscurato proprio dalle stelle supernovae dei poeti, un’anarchica via Lattea priva del sistema solare originario, rimasta peraltro forse l’unico spazio ad avere ancora la consapevolezza che il cielo esiste ancora, da qualche parte. Ecco allora che la Poesia diventa sinistra, nella sua accezione etimologica: nascosta sotto le pieghe della veste; quindi incutente, se non timore, gli ultimi barlumi riverenziali per l’animale morente; quando non addirittura il totale disinteresse, proprio per questa sua natura ambivalente di presenza allo stesso tempo nascosta. Più nessuno sembra essere interessato alla Poesia se non gli stessi che la scrivono, che sono poi a ben guardare gli stessi che la leggono, quasi in una sorta di autotelico girone dantesco dell’autoreferenzialità. La Poesia che non solo non è più il pane di tutti, ma soltanto il pane che ognuno è costretto a cucinarsi prima per mangiarselo poi. La mensa di poveri nostalgici delle rime e delle allitterazioni. Come si è potuto arrivare a tanto? Forse una prima traccia di responsabilità dell’ineducazione di un popolo intero, come quello italiano, alla Poesia è da imputarsi proprio alla scuola, che continua a tramandare un’idea obsoleta della stessa, attraverso lo studio dei cosiddetti autori “imprescindibili”, senza rendersi conto di una realtà giovanile in continua ebollizione, a causa di una espansione illimitata dei (loro) mezzi di comunicazione attivi e passivi. Tutti i lettori di Poesia inneggiano a un recupero tardivo della stessa, poiché nel corso dei loro studi scolastici 30


VACHINO la disciplina poetica è stata vissuta come un vero e proprio cilicio necessario, sopportato stoicamente soltanto per ottenere il diploma finale. E se in Italia il numero dei lettori è purtroppo già bassissimo rispetto al resto d’Europa, i lettori che leggono Poesia costituiscono una quantità infinitesimale dei già pochi lettori di prosa, una sottospecie silente in prossima via d’estinzione. E ad accorgersi di tutto ciò è stato per primo il mondo editoriale, che investe oggi i suoi capitali principalmente nella narrativa e nella saggistica, destinando una miserrima parte dei proventi di quelle vendite, quando non addirittura attraverso la richiesta di finanziamento allo stesso pubblicando, per la messa in circolo, verrebbe da dire per puro spirito di liberalità, di un numero esiguissimo di copie di testi poetici, destinati a comporre il fondale di una mensola poco illuminata delle librerie, piuttosto che tra le braccia nude del popolo. La crisi della Poesia e del suo pressoché irrilevante ruolo sociale forse è da ricercarsi non tanto nell’ipertrofia dei mezzi di comunicazione che hanno stillicidicamente disinnescato la forza dirompente ed eversiva della scrittura in versi, quanto nel suo poco discusso peccato originale, da ravvisarsi proprio in un distico di nostro padre Dante: “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Nell’orazion picciola di Ulisse viene a crearsi un pericoloso spartiacque tra le coscienze: anche se tutti gli uomini di cultura e di arte sono concordi con il monito proclamato, consistente nell’anelare a un’esistenza che voglia affrancarsi dalla brutalità animale per seguire un modo civile anche se non virtuoso di relazionarsi nello stare al mondo, attraverso lo stimolo costante della conoscenza, rimane uno scoglio ultimo da superare, prima di affrontare il folle volo della vita: che l’espressione più corretta sarebbe stata: “fatti non fummo”, anziché il celeberrimo “fatti non foste”. Forse il destino della Poesia era votato alla catastrofe già racchiusa in nuce nei vaticinali versi danteschi: quel diritto arrogato dall’artista di chiamarsi fuori dalla collettività, sovrastando il resto della comunità di appartenenza. La Poesia si è così conquistata la fama di un’algida

rappresentazione delle sorti del mondo, pronunciata dal poeta dalla sommità di un pulpito composto dal marmo lucidato di un lessico museale, quasi alieno, alle vite che si consumano nelle strade. Allora il Poeta deve riappropriarsi di quel noi rimasto impronunciato sin dall’inizio, e continuare ad ascoltare le voci e i rumori del mondo, smettendo una volta per tutte il corteggiamento sterile delle Muse per essere investito fino in fondo dagli umori dei corpi umani che danno vita alla trama sociale dei popoli, standovi però saldamente piantato nel mezzo. C’è un verso molto incisivo di una poeta italiana, Mariangela Gualtieri, che sembra incarnare il viatico terzomillennariale per ri-avvicinare la Poesia al popolo e il popolo alla sua lettura e comprensione: “Si facciano avanti quelli che sanno fare il pane”. Ecco la strada suggerita per azzerare quell’alone sinistro che avvolge la Poesia. Ritornare a quel fare antico, a quel forgiare la vita soffiando vita tra le persone, compiendo gesti semplici che prenderanno la forma di parole. Ricandidare il noi come pronome del riscatto sociale dall’imbarbarimento delle comunicazioni, sempre più intolleranti nei confronti delle espressioni, in particolare di quelle artistiche. L’impresa non sarà né agevole né breve. Occorreranno i tempi lunghi delle riflessioni partecipate, quella voglia di tornare a parlare di gente alla gente; di recidere i cordoni ombelicali dei narcisismi e dei vezzi intellettual/ edonistici degli artisti, che dovranno abdicare all’empireo della popolarità mondana, per ri-avviare il contagio della parola che vuole uscire dalla condizione ancillare del mezzo che la supporta, per tornare a essere il centro dell’attenzione di chi la pratica, credendo fino in fondo nella forza dirompente del verso. Verso un mondo migliore. “Non una lacrima di più /non una lacrima di meno”, per dirla con il distico finale di una bellissima poesia di Claudia Klaus Miser. La Poesia non andrebbe spiegata e forse nemmeno introdotta, ma semplicemente consegnata ai lettori. La Poesia non fornisce risposte. Semmai aiuta a fare e a farsi delle domande. Non insegue certezze. Alimenta il caos. Quindi, anche la vita. E come il cuore, la Poesia continuerà a battere a Sinistra.

Ritornare a quel fare antico, a quel forgiare la vita soffiando vita tra le persone, compiendo gesti semplici che prenderanno la forma di parole.

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B. B. King al Blues Festival, Pistoia,1980


SINISTRA, POLITICA E CULTURA ˇ una scRittuRa svetlana aleksievic: complessa al seRvizio della Realtà

Charlie Haden, Reggio Emilia, 1992

❚ Voci da un mondo sommerso di Maria Nadotti

L

a bielorussa Svetlana Aleksievič1 è una scrittrice amata in tutto il mondo e invisa al regime del suo paese. “Oggi”, mi ha scritto qualche giorno fa, subito dopo l’assassinio camuffato da suicidio del giornalista bielorusso Oleg Bebenin, fondatore del sito d’opposizione ‘charter 97’, “è particolarmente importante sentire che non si è soli”. La sua metodologia di scrittura è complessa, rigorosa, controcorrente. Come lei stessa dice: “Ho cercato un metodo letterario che mi permettesse di accostarmi quanto più possibile alla vita reale. La realtà mi ha sempre attirata come un magnete, torturandomi e ipnotizzandomi. Volevo catturarla sulla pagina e alla fine ho scelto un ‘genere’ che combina la viva voce di uomini e donne, confessioni, testimonianze oculari e

1 E/o ha pubblicato i suoi Preghiera per Černobyl (2002), Ragazzi di zinco (2003) e Incantati dalla morte (2005). 33

❝Per scrivere

un libro non basta raccogliere i fatti e parlare anche con mille persone. Per sentire cose nuove, bisogna porre domande nuove. ❞


nuova rivista letteraria

Patty Smith, Stadio Comunale di Bologna, 1979

definitivamente la strada del reportage di ampio respiro e della scrittura per il teatro, ha lavorato per varie testate giornalistiche. In Francia, Germania, Svezia, Svizzera, Bulgaria i suoi libri sono stati adattati per il teatro e portati sulla scena, mentre dai suoi drammi teatrali sono stati ricavati svariati film documentari. Nonostante l’enorme popolarità, dopo il successo di The War’s Unwomanly Face (il settimanale “Internazionale” ne ha di recente pubblicato alcuni stralci) è stata accusata di “aver dipinto a tinte non sufficientemente eroiche la donna sovietica” e, fino all’avvento della perestroika, ha vissuto anni durissimi di persecuzione. È nel 1989, tuttavia, con il reportage Ragazzi di zinco (sulla guerra tra URSS e Afghanistan vista attraverso gli occhi dei protagonisti), che Aleksievič deve affrontare il periodo più cupo della sua vita professionale. Accusata di disfattismo, è denunciata e portata in tribunale. La salverà la mobilitazione degli intellettuali

documenti. È così che percepisco e vedo il mondo: un coro di voci individuali e un collage di dettagli quotidiani. Solo in questo modo il mio potenziale mentale e emotivo trova piena realizzazione. Non posso fare a meno di essere allo stesso tempo scrittrice, reporter, sociologa, psicologa, sacerdote”. Le opere di Aleksievič potrebbero essere definite una cronaca della nostra epoca, il tracciato evolutivo di varie generazioni sovietiche, dall’infatuazione seguita dal disincanto di fronte alla grande utopia al disorientamento del cittadino post-sovietico davanti al suo crollo e alla nuova realtà. La storia nel suo farsi viene ‘riferita’ da donne e uomini comuni. Compito di chi scrive è restituirla con onestà e lucidità, senza sovrapporsi ai propri ‘informatori’ e senza mai dimenticare il debito di fiducia che si è contratto nei loro confronti. Nata nel 1948, Aleksievič si è laureata in giornalismo presso l’Università di Minsk e, prima di scegliere 34


NADOTTI democratici russi e bielorussi e di varie organizzazioni internazionali per i diritti umani, che si schiereranno al suo fianco e bloccheranno l’azione legale intentata contro di lei. Nel 1993 pubblica Incantati dalla morte, un requiem sulla fine dell’utopia e sullo smarrimento di chi, non sapendo ripensarsi fuori dalla cornice del socialismo reale, sceglie di sottrarsi all’ignoto attraverso il suicidio. Nel 1997 dà alle stampe Preghiera per Černobyl’, un amoroso, monumentale oratorio sul ‘dopo-disastro’. Sulla terra di Černobyl’, nella piccola Belarus’, di cui – prima che la catastrofe nucleare della primavera del 1986 la trasformasse in laboratorio dell’orrore – non si era quasi sentito parlare, l’autrice smette di “scrutare” le sofferenze altrui per riconoscersi ella stessa testimone, “una in mezzo agli altri”. È da qui, dalla semplice constatazione che tra voce narrante e cosa narrata non c’è margine o possibile distanza, che ha origine un esperimento di scrittura e un’invenzione narrativa che vanno dritti al cuore e alla coscienza di chi legge. Quel dichiararsi dell’autrice parte del “popolo di Černobyl’” produce una sorta di vortice emotivo: d’ora in avanti le molteplici voci da lei raccolte (frutto di oltre quattrocento interviste), le infinite piccole storie di vita, sofferenza, malattia e morte pazientemente registrate in tre anni di ricerca sul luogo del cataclisma, diventeranno la sua voce. Un abisso di dolore e di sgomento, la presa d’atto che a Černobyl’ è successo l’impensabile, qualcosa che la nostra lingua non è attrezzata a raccontare, che ha azzerato ogni nostro riferimento concettuale o schema interpretativo. Quel giorno, insieme al quarto reattore della centrale, si è infranta per sempre la possibilità di affidarci alle percezioni corporee, di contare sui nostri sensi. Più feroce e iniquo di una guerra, l’accadimento di Černobyl’ ha proiettato l’umanità in un tempo che non può più declinarsi al futuro e in uno spazio poroso e sfuggente, che non offre ripari o zone franche. Come sporgersi su questa voragine a occhi ben aperti, senza difendersi dietro a tecnicismi e statistiche, senza consegnarsi allo schermo protettivo del ragionamento indiziario che cerca cause, colpe, responsabilità nell’illusione di dare un senso alle cose? Il metodo di Aleksievič ha del vertiginoso. È chiaro che non le interessano i dati e neppure le versioni ufficiali o le interpretazioni politiche. Ciò che la muove è la volontà di capire dall’interno e dal basso come si sia riorganizzata la vita di chi, in pochi secondi, si è visto proiettare in un universo che neanche la letteratura fantascientifica più terminale aveva saputo anticipare.

Il suo strumento d’indagine è l’ascolto, la capacità di stare a lungo, indifesa e modesta, accanto a tante persone comuni – donne, uomini, vecchi, bambini –, fino a guadagnarsene la fiducia e a ricostruire con loro, attraverso un amorevole esercizio di attenzione, quei dettagli che, assai meglio di qualsiasi teoria, sanno illuminare i processi della Storia. “Noi Černobyliani”, le dice ad esempio un insegnante di applicazioni tecniche, “siamo spesso silenziosi. Non gridiamo e non ci lamentiamo. Sopportiamo, come sempre, sopportiamo. Anche perché non ci sono ancora le parole. Abbiamo timore a affrontare questo argomento… Non sappiamo da che parte prenderlo… Un’esperienza insolita, questioni insolite… Il mondo si è diviso: ci siamo noi, quelli di Černobyl’, e ci siete voi, tutte le altre persone… Qui nessuno mette l’accento sulla nazionalità: io sono bielorusso, io ucraino, io russo. Si chiamano tutti Černobyliani”… Come se fosse un popolo a parte… Una nuova nazione…”. Questo ‘popolo a parte’, cui il male assoluto ha fornito una cittadinanza inedita, è ora alla ricerca di un senso. Non per farsi una ragione di ciò che è accaduto, ma per non affondare nel caos totalitario della paura. Perché ciò che più disumana non è la morte o la sofferenza, bensì proprio la paura e i sentimenti terribili che essa produce. Paradossalmente, infatti, questa corale ‘Preghiera per Černobyl’ che si interroga e interroga sul mistero del male, su ciò che non si può vedere né capire o descrivere se non attraverso la lente della pietas, è un formidabile testo sull’amore. Perché, come dice l’autrice, “La mia scrittura è un atto di protesta interiore: voglio restare un essere umano e non arrendermi all’enormità del male. Il lavoro dell’intellettuale è avvicinarsi sempre più alla realtà. Se però non si riesce a mettere a fuoco il senso di questa ricerca, ne viene fuori solo il magazzino degli orrori. Dobbiamo chiederci come liberare i nostri testi da ogni incrostazione emotiva, pur senza perdere la nostra individualità; come trasformare in arte, in parola, ciò che nella vita reale può farci svenire. Descrivere lentamente la morte di un uomo non è estetizzarla, è dire che non è giusto morire così”. Testimone del male, ma non da esso sedotta, Aleksievič nega che solo la sofferenza sia erotica, là dove la piccola felicità sarebbe un sentimento senza storia e la bontà un bene in disuso. “Dostoevskij diceva che solo la sofferenza fa di un uomo un uomo. Non sono d’accordo. In Georgia, sulle tombe, si incidono solo gli anni di felicità vissuti da un individuo”. In queste sue pagine sono le donne e i bambini, chi ha affetto per la vita e non si lascia incantare da miti eroici 35


nuova rivista letteraria e militaristici, a sapere che il creato è un luogo dove esseri umani e animali, terra, acqua, aria, alberi e fiori convivono in un equilibrio delicato e prezioso. La loro è la voce di chi, senza colpa, ha assistito all’irreparabile, diventando depositario di un contro-sapere aurorale e mortifero. Nella terra di nessuno che ora abitano, il linguaggio, il repertorio rassicurante delle parole che stanno a indicare le cose note e le persone care e ciò che ad esse ci lega, si è disarticolato. Di quale lingua servirsi, infatti, a quale sistema di segni ricorrere, se il medico che ha in cura la persona a te più cara ti avverte: “Davanti a lei non c’è più suo marito, l’uomo che lei ama, ma un oggetto radioattivo con un alto potenziale di contaminazione”? Oggi Svetlana sta scrivendo due nuovi libri. Il primo, il cui titolo provvisorio è The Wonderful Deer of the Eternal Hunt, ha come tema proprio l’amore. Interrogando donne e uomini dell’ex URSS sulle loro esperienze sentimentali e amorose, l’autrice chiede e si chiede chi siamo, cosa siamo diventati, in che paese viviamo. Sussurrate, meste, sincere e pudiche, le voci dei suoi interlocutori ripercorrono a ritroso la storia del secolo appena trascorso, dimostrando che privato e politico costituiscono un unico e indissolubile nodo che è impossibile trattare solo con le armi della ragione, della forza o della volontà. Il secondo, Tempo di seconda mano: la fine dell’homo sovieticus, un’indagine in profondità sulle alterazioni prodotte dal crollo dell’Impero sovietico nella vita materiale e nello spirito dei suoi non più ‘asserviti’ cittadini, è portatore di verità brucianti e dolorose. Con la consueta capacità di guardare il reale senza distogliere lo sguardo Aleksievič racconta la disfatta del modello comunista restituendo con implacabile fedeltà le voci dell’uomo e della donna della strada. La guerra in Cecenia narrata dai suoi intervistati è, per esempio, un mestiere come tanti. Ci si arruola per sbarcare il lunario, visto che ormai senza soldi non si riesce più a fare niente e che, se non si accetta di partire per il fronte, si viene licenziati. “La nuova situazione”, per citare le parole di un’anziana donna che ha perso la figlia, militare in Cecenia, “ha fatto di tutti noi dei volontari forzati”. “Prima di imparare a scrivere bene”, mi diceva tempo fa l’autrice “bisogna trovare se stessi. Quel che definisce il grande scrittore non è soltanto la sua capacità di scrittura. Questo è solo il primo gradino di una scala in salita. Il grande scrittore è una totalità, un mondo, una maniera di pensare, di cui lo stile non è altro che il risultato.

Bobby McFerrin, Umbria Jazz, Perugia, 1988

Per scrivere un libro non basta raccogliere i fatti e parlare anche con mille persone. Per sentire cose nuove, bisogna porre domande nuove. Per farlo bisogna crearsi una propria visione delle cose. Solo allora si può trarre un qualche senso dai fatti, perché a questo punto si ha un centro che lo attiva. Là fuori ci sono centinaia di romanzi che aspettano di essere scritti, ma per riuscire a scriverli bisogna che le voci di cui si compongono coincidano con qualcosa che è dentro di noi, nella nostra anima. Che i miei libri siano pubblicati in tanti paesi dipende dal fatto che parlo non di eventi, ma di sentimenti. Cosa sentiva, cosa sognava, come ha ucciso o è stata uccisa, come amava, cosa diceva ai suoi bambini quella tal persona? Come si svolge la vita attorno al concetto di utopia? Il XX è probabilmente il secolo della fine delle idee che hanno più valore della vita umana. Quando scrivo i miei libri vedo l’essere umano su due piani: l’essere sociale, vale a dire l’individuo del suo tempo, ed è la sfera del giornalismo puro; e poi la persona nuda sulla nuda terra, e qui, nell’interrogarsi sulla natura umana, inizia la letteratura”. 36


SINISTRA, POLITICA E CULTURA

❝ La novità maggiore che riguarda la cultura della destra è il suo passaggio da un riferimento elitario, aristocratico, a volte esoterico, con una polemica costante verso la democrazia di massa, a un riferimento popolare, se non populista, con un’accentuazione della sovranità democratica e una polemica costante verso le oligarchie intellettuali, politiche ed economiche ❞

Claudio Abbado, Teatro Comunale, Modena, 1993

il “GRamscismo di destRa” nell’eRa di beRlusconi

❚ Aperti al cielo, legati alla terra di Guido Caldiron

«P

ochi soldi e spesi male; poche idee, sempre le stesse; talenti pochi e solo se amici degli amici. E poi raccomandazioni, nepotismo, familismo amorale. Un ministero tutto prestigio e niente sostanza e assessori che al massimo leggono le cronache mondane per vedere chi sono le star del momento. E ancora ci riempiamo la bocca col Rinascimento e il Futurismo. Verrebbe da ridere. Se non ci fosse da piangere...». A tracciare un simile, disastroso bilancio dello stato delle politiche culturali nel nostro paese non è un organo legato all’opposizione parlamentare o una testata della sinistra, bensì un giornale della destra “dura”, quella che dal neofascismo è traghettata nel corso di poco più di un decennio nella famiglia allargata berlusconiana, senza per questo perdere il gusto e i richiami alla propria identità. Nell’estate del 2010 la rivista Area, voce della “destra sociale” che 37


nuova rivista letteraria nel Pdl fa riferimento al sindaco di Roma Gianni Alemanno, ma che rappresenta anche l’unico mensile di centrodestra ad andare regolarmente in edicola, ha dedicato un ampio approfondimento a questo tema con un titolo che suonava come un’aperta critica a quanto fatto fin qui: “Una cultura piccola piccola”. Con parole che ricordano gli appelli di intellettuali e artisti verso la gauche politica perché non consideri la cultura come una sorta di soprammobile da esibire quando serve, magari a raccogliere consensi, e da riporre quando non appare più utile, anche le voci raccolte da Area lamentano lo scarso impegno e interesse mostrato dal governo Berlusconi verso quella cultura di destra, intesa in termini plurali quanto a riferimenti e a tradizioni, che dovrebbe pur sempre costituirne l’orizzonte di riferimento. Desolante il quadro tracciato da Marcello Veneziani che per gli intellettuali di destra non vede possibile che “il passaggio al bosco”, l’isolamento del ribelle, evocato da Ernst Jűnger. «Da una parte l’arroganza culturale di sinistra, dall’altra il disinteresse dimostrato dai governi di destra - non importa se nazionali, regionali o cittadini - dinanzi ad un investimento serio in questo campo. - spiega Veneziani - Sperare che a un certo punto qualcuno si svegli e faccia qualcosa di nuovo ormai è utopia». Mentre Marcello de Angelis rimprovera al Pdl una mancanza di coraggio per non aver scatenato una vera offensiva culturale “globale”: «Non si può scindere la politica dei beni culturali dall’educazione, dalla comunicazione, dall’istruzione, dal cinema e dalla televisione». E Alex Voglino sottolinea come «una politica culturale non intrusiva e certamente non pedagogica, aperta al nuovo, ma custode della memoria, sarebbe essenziale in un Paese dalle ricorrenti quanto capziose smemoratezze». Il tutto da realizzarsi attraverso la ricerca del «giusto equilibrio fra il modello americano e il Minculpop». Nelle pagine della rivista, che non risparmia critiche a quello che definisce come “il duopolio funesto Amici/X Factor”, prendono corpo le ansie di una destra che non fa mistero della propria concezione organicista della società come della cultura. Ma come, sembrano dire i post-postfascisti, dopo un quindicennio di egemonia politica ancora non è venuto il momento della nostra piena egemonia culturale? Se questa è la prospettiva da cui si guarda alle cose, è forse difficile dar loro torto. Perché, per quanto successo possano aver ottenuto Il sangue dei vinti o i tv-movie paraleghisti, la lunga stagione del berlusconismo, che ha portato con sé anche l’uscita dalla marginalità politica della “destra nazionale”, si è affermata più

negli ascolti del Grande Fratello che nelle ristampe dei libri di Drieu La Rochelle o dello stesso Jűnger, per altro autori, specie il secondo, di grande interesse. Ciò detto, non si può però dimenticare come proprio l’occupazione clientelare della cultura lamentata da Area abbia in realtà fatto negli ultimi anni la fortuna di quegli intellettuali di destra, apparentemente così critici verso la politica culturale del governo, che siedono oggi negli organismi dirigenti della Rai o di Mediaset e scrivono sui giornali di proprietà della famiglia Berlusconi. L’ingresso della destra nei meccanismi di funzionamento dell’industria culturale è arrivato al punto che oggi è la Rizzoli, anch’essa parzialmente riconducibile all’impero editoriale del Cavaliere, a pubblicare il “romanzo di formazione” di uno degli animatori di Casa Pound, realtà molto nota dell’ultradestra romana. Questo dopo che le amministrazioni locali del centrodestra, a cominciare dall’esperienza compiuta negli anni Novanta a Milano dall’allora Assessore alla Cultura della Regione Lombardia Marzio Tremaglia, hanno spesso sostenuto associazioni e gruppi radicali e neofascisti nella realizzazione di convegni, mostre e concerti. Di fronte a noi sembra perciò prendere corpo un vero paradosso: se da sinistra il successo della cultura di destra nella società italiana non è più oggetto di discussione, ma è considerato un dato di fatto, c’è chi, nello stesso campo berlusconiano, sembra metterlo ancora in dubbio. Come può essere? Per rispondere a questa domanda ci si deve in realtà interrogare su due elementi che ci parlano della destra ma anche di un inevitabile confronto con la sinistra. Il primo elemento riguarda la definizione stessa di cosa sia considerato “cultura” a destra, il secondo ha a che fare con “l’uso” che della cultura si vuole fare nella battaglia politica e nella formulazione del proprio progetto di società. È passato davvero molto tempo da quando Oswald Spengler diede una definizione della cultura cui la destra nazionale italiana sarebbe rimasta legata a lungo. «L’unica cosa che promette la saldezza dell’avvenire è quel retaggio dei nostri padri che abbiamo nel sangue; idee senza parole», scriveva nel 1934 in Anni decisivi l’intellettuale considerato insieme a Carl Schmidt uno dei padri della Rivoluzione conservatrice tedesca. «Una cultura – spiegava Spengler - nasce nell’attimo in cui una grande anima si desta dallo stato psichico originario e (...) fiorisce sulla base di un territorio delimitabile in modo preciso, al quale rimane vincolata come una pianta. Una cultura perisce quando quest’anima ha realizzato l’intera somma delle sue possibilità sotto forma di popoli, di lingue, di dottrine 38


CALDIRON

Salvatore Accardo, Musica Insieme al Palazzo dei Congressi, Bologna, 1994

religiose, di arti, di stati e di scienze, ritornando quindi nel grembo della spiritualità originaria». Parole che ancora nel 2002 sembravano trovare eco in quanto veniva affermato da Marcello Veneziani che nel suo libro La cultura della destra scriveva che «l’archetipo della cultura per la destra coincide con l’idea di tradizione: la cultura, in questo senso, è l’anello di congiunzione tra culto e coltivazione, ovvero tra apertura al cielo e legame con la terra, senso del sacro e senso delle radici». Nello stesso contesto quello che è forse il più noto, anche sui media, tra gli intellettuali della destra che dopo essere stata missina ha partecipato a pieno titolo alla nascita di ciò che viene chiamato nel nostro paese “centrodestra”, chiariva anche come da quel ceppo fondativo di “idee senza parole” si potesse giungere al berlusconismo e alla sua cultura. Al centro di questa trasformazione per Veneziani emerge infatti chiaramente «il triangolo vincente delle nuove destre: leadership forte, comunicazione diretta, democrazia efficace, senza mediazioni oligarchiche, ideologiche e partitiche. In una parola, populismo. In una accorta

miscela di estremismo e moderazione, di arcaismo e ipermodernità, di liberismo e di comunitarismo a-ideologico, pragmatico, televisivo». Il tutto passando, sempre secondo l’autore di La cultura della destra, in qualche modo da Julius Evola e Oswald Spengler a Maria De Filippi: «La novità maggiore che riguarda la cultura della destra è il suo passaggio da un riferimento elitario, aristocratico, a volte esoterico, con una polemica costante verso la democrazia di massa, a un riferimento popolare, se non populista, con un’accentuazione della sovranità democratica e una polemica costante verso le oligarchie intellettuali, politiche ed economiche». Che questa lettura delle recenti vicende italiane sia tutt’altro che superficiale, e che “la cifra” dell’evoluzione conosciuta dalla cultura di destra sia oggi quella sintetizzata da Veneziani, è in qualche modo sostenuto anche dalle tesi espresse a più riprese dal ministro Giulio Tremonti, un commercialista di Sondrio con un passato di sinistra trasformatosi negli ultimi anni in uno degli alfieri della rivoluzione 39


nuova rivista letteraria berlusconiana. Tremonti, che certo non si può dire abbia subìto negli anni della sua formazione l’influsso di Spengler e della destra tedesca che precedette l’arrivo al potere dei nazionalsocialisti, ha definito nel 2008 in questi termini, nel suo libro-manifesto La paura e la speranza, il vocabolario con cui proteggersi dal “lato oscuro della globalizzazione” che ci minaccerebbe sotto forma di “invasione delle merci cinesi” e di “impoverimento dei lavoratori europei”: «Il codice che dobbiamo e possiamo fabbricare per sopravvivere può essere creato solo con la combinazione tra due parole essenziali, che sono insieme vecchissime e nuovissime: “identità” e “valori” (...) L’identità è fatta dai valori, i valori fanno l’identità. Nella storia tutte le comunità si basano e trovano infatti la loro identità nella prevalenza di tradizioni, idee, nozioni “proprie”. (...) Una comunità può e deve definire la sua identità solo per mezzo dei suoi valori storicamente consolidati; rispetto a questi, le altre comunità sono “altre”. Perché è proprio e solo nella “differenza”, nella comparazione differenziale, che si forma il carattere unitario di una comunità. Identità non è infatti solo ciò che siamo, ma anche differenza da ciò che non siamo. Tutto è chiuso nella coppia dialettica “noi-altri”. Se il “noi” non viene marcato, ma all’opposto viene obliterato e censurato, finisce che tutto è “altro” e niente è “noi”». Se la cultura evocata da Giulio Tremonti non è poi così lontana da quella rivendicata con orgoglio da Marcello Veneziani significa che, ben al di là delle coalizioni elettorali, nell’arco di poco meno di vent’anni ha preso corpo nel nostro paese un’idea della destra molto più coesa e “organica” di quanto si sia soliti affermare. Le critiche che anche alcuni ambienti del Pdl muovono oggi alla politica culturale del governo, non hanno perciò a che fare con i contenuti profondi che il berlusconismo porta con sé, quanto piuttosto con le forme che ha inevitabilmente assunto. Perché, se negli anni Ottanta Marco Revelli parlava, a proposito degli sforzi della cultura neofascista di uscire dal ghetto della nostalgia, del tentativo di costruire un “gramscismo di destra” che cercava di conquistare la società attraverso la cultura considerando preclusa la via dell’egemonia politica dopo la sconfitta del ’45, oggi quella sfida si è trasferita in un’altra arena. Dalla battaglia delle idee si è passati a quella dei segnali e della comunicazione, alla conquista di ciò che è diventato lo spazio pubblico del nostro paese, sempre più dominato, ma anche caratterizzato, dal ruolo della televisione. Come ha sintetizzato il sociologo francese Pierre Musso, che ha coniato in una sua recente opera il termine Sarkoberlusconismo, per

Art Blakey, Ravenna Jazz Festival, 1980

tenere insieme “le due facce della nuova rivoluzione conservatrice europea”, l’egemonia culturale un tempo inseguita da Antonio Gramsci, nell’Italia di oggi si gioca soprattutto attraverso la televisione. In questo senso la destra occupa già il paese reale che non esiste se non attraverso la sua rappresentazione televisiva. Una condizione che può non piacere, ma da cui difficilmente si può prescindere se si è interessati ad incidere realmente sullo stato di cose presenti. La narrazione berlusconiana ha così rimpiazzato per molti versi - ma come si è visto con le parole di 40


CALDIRON Anche in questo caso, alcuni degli approdi attuali sembrano raccontare in realtà di un costante percorso di scavo e definizione. Così, ad esempio, l’annunciato distacco di Gianfranco Fini da Berlusconi e il debutto del movimento di Futuro e libertà sono accompagnati da un “manifesto” di intellettuali, in larga parte provenienti dagli ambiti della Nuova Destra giovanile degli anni Ottanta ma anche da sinistra - tra loro Peppe Nanni e Monica Centanni -, che segnalano il distacco dei finiani dal populismo mediatico e la ricerca di uno spazio di “destra repubblicana”. Che Fini stesso debba quasi tutto alla discesa in campo dell’uomo di Arcore o che tentare la via del conservatorismo per sganciarsi dalla nuova destra in odore di xenofobia mentre in tutta Europa i conservatori abbracciano i razzisti, significa più o meno costruire un grosso bluff. Una sottolineatura che però conta fino a un certo punto in questo caso. A contare, nel nostro ragionamento, è invece il fatto che la proposta politica - nuove alleanze o nuova destra o qualunque altra cosa sia - si vuole naturalmente inserita in una proposta culturale “alta”, in una lettura complessiva della società, nella costruzione di una vera e propria nuova narrazione. È del resto questo lo sforzo fatto negli ultimi anni dal Secolo d’Italia, un quotidiano sostanzialmente costruito intorno alla proposta culturale di cui è portatore, piuttosto che sulle notizie che raccoglie, che ha rappresentato il laboratorio dove si è andato definendo il nuovo profilo politico incarnato da Fini. È chiaro come un simile percorso affidi proprio alla “cultura” un significato e un ruolo di primo piano e che lo faccia indicando nella sperimentazione culturale, intesa come ricerca, come indagine e come racconto della realtà di un paese a cui ci si vuole rivolgere, la strada maestra per la politica. Come ha scritto, non senza una notevole dose di empatia, il Corriere della Sera a proposito degli intellettuali coinvolti nella stesura del “manifesto di ottobre” che ha accompagnato la nascita del partito finiano: «magari saranno degli acchiappanuvole, ma non sono dei propagandisti e non sono nemmeno, come si diceva un tempo, “organici”. È possibile che Fini intenda pescare tra loro futuri dirigenti per il suo partito. Ma, intanto, sono chiamati ad aprire nuove strade, avventurandosi, all’occorrenza, in territori impervi e sconosciuti». Nel momento in cui una parte della sinistra, sconfitta elettoralmente e in deficit di relazioni sociali con quella che dovrebbe essere la sua base, si rifugia nei territori chiusi dell’identità, fa una certa impressione scorgere il vascello della cultura di destra che veleggia senza timori in mare aperto.

Tremonti, ha anche integrato e rielaborato - la cultura della “destra nazionale” profondamente segnata dalla temperie del Novecento. Quella che va in scena oggi è perciò una sorta di ulteriore lotta per l’egemonia, la possibile ricerca di una terza via culturale «fra il modello americano e il Minculpop». Se la definizione del proprio spazio culturale sembra caratterizzare la destra italiana lungo gli anni della sua recente, nuova, formazione, resta da chiarire quale sia la strategia che su questo terreno si intende adottare. In altre parole, quale “uso” si vuol fare della cultura. 41


Dizzy Gillespie al Palazzo dei Congressi per Jazz Club Bologna, 1984


SINISTRA, POLITICA E CULTURA

AUTORE

Cremonini, Morandi, Dalla, Guccini nel retrobottega della trattoria Vito, 1989. (Guccini sta scrivendo la canzone "A Emilia")

movimenti Giovanili e Ruolo politico delle “Radio libeRe”: ancoRa sul caso “alice”

❚ L’ubiquo Belzebù di Massimo Vaggi

S

inistra, cultura. Un tema che inizialmente mi aveva suggerito una riflessione a proposito di un fenomeno sufficientemente vicino nel tempo per essere ampiamente conosciuto, e che ritenevo presentasse aspetti che considero paradigmatici delle difficoltà - se non del conflitto - che hanno caratterizzato il rapporto tra la sinistra politica e la produzione culturale. Una riflessione che mi portava al 1976, data a partire dalla quale, nel giro di due anni e dopo che una sentenza della Corte Costituzionale lo permise, sorsero migliaia di radio che trasmettevano su frequenze libere. Tra queste, Radio Alice. 43

❝ Antonio: “sono entrati, sono qui!” Valerio: “sono entrati! Sono entrati! Siamo con le mani alzate, sono entrati, siamo con le mani alzate…” Rumori. ❞


nuova rivista letteraria Radio significa linguaggio, a volte sperimentazione, sempre comunicazione. Un universo complesso, da molti punti di vista analizzato a tal punto che, più mi addentravo nell’argomento, più mi accorgevo che nulla avrei potuto aggiungere di significativo alle riflessioni già sviluppate. Tuttavia, una conversazione e la contemporaneità di un fatto di cui darò conto mi hanno fatto considerare che l’interesse, in realtà, andava a un aspetto forse marginale del problema ma che per la sua generalità e per la trasversalità che lo caratterizza merita un’attenzione particolare. Mi riferisco da un lato all’emergere insistente e quasi inevitabile di una spinta censoria da parte della politica più fortemente ideologizzata, di ogni politica, anche della sinistra, a fronte di fenomeni, temi e linguaggi ritenuti eccessivi, sconcertanti, smodati, e dall’altro al granitico livello di incapacità non tanto di comprendere quanto di affrontare da pari a pari una discussione libera da pre-giudizi. Echi di questa mia convinzione hanno infatti continuato a emergere nel corso di una chiacchierata tenuta davanti a una bottiglia di Ribolla gialla, per poco tempo rimasta stappata e piena, che ho avuto con Valerio Minnella, che - per chi non lo conoscesse - è “Valerio” la cui voce è stata registrata in quella che ancora oggi è una delle trasmissioni radiofoniche più ripetute, ascoltate, analizzate, e che piace sempre ricordare.

Valerio, siamo nel… “È il 12 marzo del 1977, a Bologna, verso le undici di sera. Dentro i locali di Radio Alice siamo rimasti in quattro, gli altri se ne sono andati scappando per i tetti”. Una fine emblematica? “Una fine e basta. Noi avevamo fatto quello che dovevamo fare, e lo avevamo fatto bene”. Resta il fatto che i rapporti tra la radio e le istituzioni sono finiti con un’irruzione della polizia, con i giubbotti antiproiettile e con le Beretta puntate. E non mi sembra che il rapporto con la sinistra al governo della città fosse andato molto meglio. Cosa era successo? “Guarda, per capire cosa sia successo bisogna considerare che in quegli anni le radio stavano spuntando come funghi. Nella nostra città tutto è cominciato dalla roulotte di Radio Bologna nel 1974 con Roberto Faenza. E poi nel 1976 Alice e Radio Città e Punto Radio dove c’era Vasco Rossi e Radio Nettuno e altre, molte altre. Fatto sta che la radio per chi la faceva era una passione, più che un progetto di comunicazione. Era trasmettere musica, soprattutto, e in alcuni casi proporre controinformazione. Così era per tutti, tranne che per Radio Alice”. Alice era tanto diversa? “Alice ce l’aveva, un progetto. Era nata con un intento ben preciso di comunicazione e di linguaggio, che presupponeva l’abbattimento di ogni censura. La censura del ruolo, la censura del palinsesto, la censura del microfono. Alice voleva comunicare e far comunicare, per cui non c’era più il conduttore e chi ascoltava, c’era invece la libertà di partecipare alla trasmissione. Nei locali della radio si presentavano tutti, telefonavano tutti, anche qualche fascista lo faceva, un paio di loro ci venne pure a trovare. E il palinsesto fu sostituito dalla forza invasiva del desiderio e della disponibilità di chi ascoltava ad accogliere nuovi argomenti, qualunque fossero. Lo racconto anche a te: avevamo un nastro registrato in continuo, brevissimo, che usavamo quando non c’era nessuno al microfono. Una mattina telefonò un tizio dicendo che erano tre ore che stava ascoltando il

Vai al diavolo, dunque. Alice è il diavolo, titolava un libro che racconta la storia di una radio sovversiva. Alice era buono o pessimo che fosse il suo progetto terreno minato, pura forza eversiva capace di sradicare ogni certezza.

Antonio: “sono entrati, sono qui!” Valerio: “sono entrati! Sono entrati! Siamo con le mani alzate, sono entrati, siamo con le mani alzate…” Rumori. Valerio: “ecco stanno strappando il microfono…” Polizia: “mani in alto, eh!” Valerio: “ci abbiamo le mani in alto. Stanno strappando il microfono…(rumore)…hanno detto (rumore) questo è un posto del mandato...” Silenzio.

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VAGGI nastro, e cominciava a essere stufo. Capisci? Tre ore! E poi il microfono, la barriera fisica. Alice era aperta a tutti, ma era aperta per davvero”. Nel dicembre del 1976 A/traverso scrive che “la controinformazione ha denunciato il falso che il potere produce, dovunque lo specchio del linguaggio riflette la realtà in maniera deformata. La controinformazione ristabilisce il vero, ma in maniera puramente riflessiva. Come fa uno specchio. Radio Alice è il linguaggio al di là dello specchio. Fingiamo di essere al posto del potere, parliamo con la sua voce, emettiamo segnali come se fossimo il potere, con il suo tono di voce. Ma sono dei segnali falsi”. Avete sparigliato le carte? “Ah, si abbiamo prodotto falsificazioni magnifiche: bellissimo un finto volantino della Confindustria che esprimeva entusiasmo per la linea politica del PCI”. Non hanno capito. “Dipende chi. Certo che almeno prima del 11 marzo, prima dell’uccisione di Francesco Lorusso e dunque prima che la situazione precipitasse non ci voleva molto a capire. Bastava partecipare. Ma credo che quello che proponevamo era davvero inaccettabile”. Troppo dada? “Di più. Noi volevamo una massa di ascoltatori partecipativi e liberi. Questo era il nostro scopo. Che faceva a pugni con la volontà che la massa fosse diretta e guidata dalle sue avanguardie o dagli amministratori, come pretendeva il partito. Io penso che sia stato questo a determinare l’impossibilità di comprendere cosa stava accadendo con Radio Alice. Per la dirigenza della sinistra era davvero troppo.” La lezione di Artaud. Non voler essere funzionari del consenso. Alice sconcertava, dunque, più che spaventare. “Sconcertare? È che erano fuori dal concerto, più semplicemente. Con l’etica del sacrificio, dell’autorità, con una concezione separata della politica, della comunicazione e dell’arte erano fuori dal nostro concerto. Per cui non gli rimaneva altro da dire che eravamo i figli dei ricchi che sfasciavano le vetrine”. I tuoi genitori erano ricchi? “Ma vai al diavolo”.

di reggere l’alcol, mi sono rimasti un’eco e un rumore di fondo, oltre che una particolare temporanea sensibilità a cogliere segnali nello stesso senso. Dei quali uno, clamoroso, non ha tardato ad arrivare: il giorno seguente la morte di José Saramago, l’Osservatore Romano ha pubblicato un articolo con il quale ha affermato che, “uncinata com’è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro e da un materialismo libertario che quanto più avanzava negli anni tanto più si radicalizzava, Saramago non si fece mai mancare il sostegno di uno sconfortante semplicismo teologico: se Dio è all’origine di tutto, Lui è la causa di ogni effetto e l’effetto di ogni causa”. Così liquidata la sua riflessione, criticava aspramente il premio Nobel in quanto “si dichiarava insonne al solo pensiero delle crociate, o dell’inquisizione, dimenticando il ricordo dei gulag, delle purghe, dei genocidi, dei samizdat culturali e religiosi”. Ma, cosa c’entra Saramago con Radio Alice? Fatto sta che a me pare evidente come il vizio che si manifesta in due vicende così differenti sia in qualche modo accomunato dall’identità dei motivi determinanti. Da questo punto di vista, non è interessante analizzare il senso delle affermazioni dell’Osservatore Romano - ammesso che un senso qualsiasi possano vantarsi di avere - se non per cogliere quell’aspetto dei rapporti tra la politica italiana e la cultura che non credo affatto esclusivo della più arroccata sponda conservatrice, ma attraversa trasversalmente seppure con diverse intensità mondi che pure predicano reciproco antagonismo. La vicenda di Radio Alice, pur tenuto conto delle straordinarie differenze, continua a esprimere significati. Ciò che ricorre è infatti la ripetuta incapacità di cogliere la qualità della produzione del pensiero, se e in quanto quella produzione non acquista anche un valore consolatorio e non si pone come elemento stabilizzante rispetto alla propria autoreferenziale visione del mondo e della struttura delle idee. Incapacità che giunge a proporre uno scontro puramente ideologico: secondo l’Osservatore Romano José Saramago, di professione narratore, non deve essere letto non perché pessimo scrittore ma in quanto non ha ricordato i gulag pur offrendosi di ricordare le crociate. Così come, in altri ma non antichissimi tempi, secondo alcuni esponenti molto bigotti per quanto di una certa sinistra poco “istituzionale”, Céline o Borges non dovevano essere letti non perché pessimi scrittori (ahi, cosa mi tocca ipotizzare) ma in quanto fascisti o presunti tali o

Vai al diavolo, dunque. Alice è il diavolo, titolava un libro che racconta la storia di una radio sovversiva. Alice era - buono o pessimo che fosse il suo progetto terreno minato, pura forza eversiva capace di sradicare ogni certezza. Da quella conversazione, oltre che un leggero senso di stordimento da attribuire alla mia cronica incapacità 45


nuova rivista letteraria fiancheggiatori di regimi fascisti (per nulla presunti, questi). Il Diavolo, dappertutto. E con il diavolo, con qualunque faccia si presenti, non si parla mica: il progetto di Alice - che non si comprendeva ancor prima di non condividerlo - era sprezzantemente considerato un detrito perché ritenuto proprio di quel popolo di sfasciavetrine figli della bella borghesia, e per questo snob e vigliacco. In questa sorta di conventio ad escludendum viene da tutti utilizzato come ultima possibilità quel criterio che non manca mai di fare capolino - secondo il quale nella discussione l’importante è spostare la critica dall’oggetto concreto a ciò che non esiste, in quanto la vastità di orizzonte di ciò che non esiste offre sempre uno spunto utile: Saramago non si è nemmeno mai occupato, per quanto ne so, dell’allevamento di polli in batteria e dunque ciò darebbe motivo ad ogni animalista serio di non leggere i suoi libri. Resta un dubbio: e se la durissima polemica cristianamente proposta il giorno dopo la morte di un uomo stesse semplicemente a significare che Saramago viene considerato dall’Osservatore Romano alla stregua di un demone non tanto perché non piace, ma perché spaventa? E se Viaggio al termine della notte dovesse essere valutato come una schifezza solamente perché non si riesce a fare i conti sino in fondo con un pensiero semplice e profondamente libero, secondo il quale anche l’altro, il nemico politico e\o ideologico, è in grado di pensare e di produrre egregiamente? Ciò che voglio dire è che ogni riflessione che non tenga conto di questo dato e di questa rigidità ideologica comuni (il recupero parzialissimo e carico di sensi di colpa dei significati del ‘77 è stato tentato dalla sinistra istituzionale non prima di una decina di anni…) è destinata ad apparire monca e non convincente anche quando inalbera il vessillo della libertà contro le censure altrui. E ovvio che non ho alcun interesse a proporre una discussione sul valore intrinseco dell’opera di Céline o di Borges o di Saramago, né - tanto meno sull’efficacia comunicativa di Radio Alice, e dunque sulla fondatezza o meno delle critiche che sono state loro rivolte (anche se, per quanti sforzi di autocontrollo possa fare, nessun attacco a Saramago riesce a non colpire indirettamente anche il mio fianco e il mio cuore). Cerco invece di riflettere sull’esistenza o meno di un dato comune che percorre nel corso degli anni un solo filo rosso dall’Osservatore Romano del 2010 all’Unità del 1977.

Gil Evans, Umbria Jazz, Perugia, 1987

Torniamo al punto. Sono convinto che al fondo di questa incapacità spietata di confronto ci sia un forte difetto di libertà che è anche della sinistra italiana, e conseguentemente una debolezza fondamentale di pensiero, che spinge dovunque a compattare la presunta propria - in realtà molto altrui - visione del mondo intorno a un rassicurante elemento ideologico o ai risultati, non sempre eccelsi, dei criteri di rappresentanza politica o istituzionale. Difetto di ampiezza, di respiro e di libertà di cui è in generale la politica (la politica italiana, intendo, molto 46


VAGGI so anche che, nonostante questa sostanziale identità di esperienze, al referendum proposto per l’estensione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori alle piccole imprese uno votò sì e uno votò no. Non ho bisogno di chiederlo, lo so perché una categoria sindacale si schierò per il sì (la FIOM) e l’altra per il no. Una cosa è certa: viviamo in Italia. Dato che non ha una sua semplice rilevanza geografica, ma significa qualcosa in più. Significa ad esempio riconoscere una ricorrenza precisa della nostra profonda matrice nazionale e soprattutto religiosa, che per nessuno di noi è stata completamente indifferente e che è capace di caratterizzare, nel nostro paese più che in altri, ogni manifestazione di pensiero. Che un forte amalgama religioso sia parte della nostra storia e di conseguenza della nostra coscienza credo infatti sia un dato incontestabile. Più discutibile forse è - come sostiene Pamuk - che la questione religiosa non sia solo un problema di intelligenza o di fede, ma sia al contrario la questione di tutta la vita. Ritengo personalmente che Saramago, così apparentemente antireligioso ma allo stesso tempo tanto drammaticamente alla ricerca di un’etica di pietà laica, libera e umanissima, avrebbe potuto essere d’accordo con un’affermazione di questo tipo. Nel suo Caino ci ha ricordato che per quanto non lo vogliamo siamo inesorabilmente figli del divieto originario, quello di cogliere il frutto dell’albero della conoscenza, vale a dire di un dato ineliminabile dal punto di vista teologico, perché nessun uomo può dirsi pienamente libero di comprendere a fronte del miracolo della fede. Saramago lo capisce bene eppure - sconcertante banalizzatore del sacro - ne inorridisce. Se non altro perché la rozza traduzione quotidiana del precetto religioso comporta la conseguente necessità di limitare la libertà di pensiero, che cresce e si moltiplica più dei biblici pesciolini nella forza made in Italy della struttura inossidabile del pensiero ideologico, nella sua capacità di censura, anzi nel suo dovere di autocensura. Nulla, in questa deriva, ha impedito che fosse trasformato dalle più diverse parti nell’incapacità di misurarsi con la libertà profonda e convulsa, e che in questa sua diffusissima e volgare mondanizzazione sia quotidianamente esportato, acquisito, manipolato, sedimentato. Così che spesso anche quella sinistra che magari si spinge a criticare le ragioni dittatoriali di una Chiesaistituzione, difficilmente si ricorda di considerare quelle analoghe proposte da Partiti-chiesa.

più di quella di altri paesi europei) in senso ampio ad abbondare. Mi spiego con un esempio. Faccio l’avvocato del lavoro da trent’anni, e dunque parlerò con tutto il rispetto e l’affetto possibile del mio mondo e del luogo dove ho riversato le mie passioni giovanili e non. Ho visto operai chimici e operai metalmeccanici in una certa quantità, diciamo che so che due di loro, il signor X e il signor Y, vivono nella stessa città, lavorano in condizioni simili, hanno lo stesso orario e - più o meno - la stessa retribuzione, frequentano la stessa sede della CGIL e magari la stessa sede di partito, ma 47


Fabrizio De Andrè al Palasport, Bologna, 1982


SINISTRA, POLITICA E CULTURA Enzo Iannacci in concerto "pro terremotati" al Palasport, Bologna, 1980

il fumetto, elio vittoRini e le “scRittuRe pRimitive”

❚ La sinistra tra le nuvole di Alberto Sebastiani

P

er anni in Italia il fumetto è stato considerato roba per bambini. E ancora oggi, quel linguaggio in potenza capace di raccontare e intervenire in questioni complesse, con intelligenza e profondità, affrontando qualsiasi argomento, muovendosi tra i più disparati generi del discorso, è per molti una forma d’espressione minore, di intrattenimento. Se non altro, però, è lontana l’aperta avversione mostrata a lungo dai vertici culturali, letterari, politici, religiosi, pronti a crociate contro testi detti poveri nei contenuti e nello stile, minacce per l’integrità morale dei giovani. Insomma, i fumetti da sempre fanno i conti coi pregiudizi. Reietti, isolati, amati dai lettori, snobbati dalle sfere alte della cultura, perseguitati dalla politica. Oggi sembra difficile crederlo. Per le persone nate tra gli anni Ottanta e Novanta, questo linguaggio non è “minore”. In un contesto di 49

❝ Arriva la contestazione, e i fumetti esplodono. Anche in politica. Il fumetto appare ovunque... ❞


nuova rivista letteraria ibridazioni di linguaggi, stili, generi, è ovvio che sempre più autori letterari appaiano come sceneggiatori di fumetti: Pino Cacucci, Enrico Brizzi, Claudio Piersanti, Vincenzo Cerami, Valerio Evangelisti, Gianluca Morozzi, Massimo Carlotto, Gianrico Carofiglio, Giancarlo De Cataldo, Simone Sarasso, Marco Vichi, Wu Ming… A ben vedere, ciò ha radici lontane: negli anni Trenta, Cesare Zavattini crea il primo fumetto di fantascienza italiano con il soggetto Saturno contro la terra (1936), poi sceneggiato da Federico Pedrocchi e disegnato da Giovanni Scolari. E Dino Buzzati, altro appassionato del fantastico, nel 1969 pubblica Poema a fumetti, e nel 1968 scrive una Prefazione al volume Vita e dollari di Paperon de’ Paperoni, definendo quelle storie «una delle più grandi invenzioni narrative dei tempi moderni», paragonando Paperino e Paperone ai personaggi di Molière, Goldoni, Balzac e Dickens, in quanto non caricature o macchiette, ma «creature ogni giorno e in ogni avventura un po’ diverse da se stesse», con «la variabilità, l’imprevedibilità, la mutevolezza tipiche degli esseri umani». Intanto, le nuvolette entrano nelle opere letterarie, non solo come oggetto, citazione o repertorio di personaggi. Nel racconto di Italo Calvino L’origine degli uccelli, del 1964 (in Ti con zero, 1967), il personaggio Qfwfq ricorda la prima apparizione degli uccelli, il suo innamoramento per la loro regina, e lo sconvolgimento dei paradigmi culturali che l’apparizione di quei “mostri” comporta. Il tutto, narrato mettendo in parallelo, o intersecando, il racconto in prosa e la descrizione o l’indicazione delle tavole, delle vignette e delle soluzioni grafiche che, in un fumetto, avrebbero potuto raccontare la stessa storia. In effetti, però, solo negli ultimi due decenni tanti scrittori sono andati tra le nuvolette. Anche perché ormai non è più tabù associare fumetto e letteratura. Si parla di romanzi a fumetti, o “graphic novel”. Un’etichetta spesso datata 1978, dal sottotitolo di A contract with God. A Graphic novel di Will Eisner. Ma ci sono anche lavori antecedenti indicati come precursori, tra cui Una ballata del mare salato di Hugo Pratt (1967, in volume dal 1972), o il già citato Poema a fumetti. Ci sono poi discussioni sull’identità dei graphic novel: chi li considera la nuova forma del romanzo, o una forma di romanzo, chi un genere letterario, chi una novità letteraria, chi nulla di nuovo nel panorama dei fumetti, che, in quanto testi narrativi, da sempre tenderebbero al romanzo. Lasciando da parte queste discussioni, ciò che qui va sottolineato è che nel suo percorso durato decenni,

Bob Dylan all'Arena di Verona, 1984 50


SEBASTIANI emarginato, il fumetto è cresciuto e ha raggiunto una maturità e una forza tale da “insidiare” la cittadella letteraria. Nonostante ben pochi aiuti da parte della cosiddetta cultura alta, e prolungate ostilità da parte della politica istituzionale, tanto a destra quanto a sinistra. Se il fascismo al tempo stesso censura e cerca di trarre vantaggi propagandistici dalle nuvolette, nel dopoguerra la Democrazia Cristiana le attacca per questioni morali, e il Partito Comunista non le difende di certo. La polemica tra Pci e fumetto è sottotraccia nello scontro tra Palmiro Togliatti ed Elio Vittorini, fondatore e direttore del “Politecnico”. La rivista non è gradita al segretario del Pci, ed è la prima che apre alle nuvolette con toni entusiastici: non sono intrattenimento, moralmente pericoloso. Pubblica strip di Popeye (considerato «al fianco dei personaggi del racconto di tutti i tempi: e come un personaggio di Dickens, non come un personaggio di De Amicis») di Elzie Crisler Segar (nn. 31-32, luglio-agosto 1946) e di Barnaby di Crockett Johnson (nn. 37, 38, 39 del 1947), e addirittura un intervento di Walt Disney (La mia officina, n. 20, 9 febbraio 1946). Giuseppe Trevisani sostiene poi la qualità del fumetto e le sue potenzialità narrative (Il mondo a quadretti, n. 2, 6 ottobre 1945). Di sicuro il Partito non ama questa apertura. All’inizio degli anni Cinquanta, già chiuso il “Politecnico”, Nilde Iotti esprime un giudizio chiaro sui fumetti, su “Rinascita” (La questione dei fumetti, n. 12, dicembre 1951). Mentre alla Camera dei Deputati si svolge un dibattito sulla moralizzazione della stampa per ragazzi, la Iotti sostiene da un lato che sia risibile vedere nei fumetti la causa della delinquenza minorile, dall’altro che essi siano però portatori di figure e situazioni stereotipate e violente, e di un tipo di lettura debole. Per loro natura, i fumetti sarebbero vicini a «certe scritture primitive» e legati per origine e cultura alla recente storia americana capitalista, della cui ideologia sarebbero voce (non a caso fa riferimento ai fumetti delle testate di William Randolph Hearst). Per la Iotti, quindi, non serve una commissione che controlli le pubblicazioni, ma «affrontare e risolvere tutta la questione dell’orientamento ideale e pratico della educazione, dello sviluppo intellettuale e morale dei giovani». Insomma, i fumetti sono male, ma non la causa del male, bensì parte della sua manifestazione. Forse perché si sente chiamato in causa, il primo a reagire è Gianni Rodari, al tempo direttore del “Pioniere”, settimanale per ragazzi del Pci che pubblica anche fumetti. Lo fa con una “Lettera al direttore” proprio su “Rinascita” (n. 1, gennaio 1952), dove critica la

Iotti per aver esteso il giudizio negativo sui fumetti pubblicati da Hearst al «fumetto come genere». Ciò che si chiede Rodari è perché non sarebbe legittimo raccontare qualcosa di buono a fumetti, cioè un modo di raccontare che i ragazzi amano, anche perché non viene loro offerta una letteratura per l’infanzia degna. Come «strumento, anche secondario», potrebbero aiutare nella lotta per la formazione culturale. Alle domande di Rodari, però, risponde subito, in una postilla non firmata, Togliatti stesso. Ribadisce il «carattere antieducativo dei fumetti», e parla a nome del Partito, dicendo: «non metteremo in fumetti la storia del nostro partito o della rivoluzione». Non c’è più spazio di discussione, la linea è dettata, e così Gianfranco Corsini scrive, sempre su “Rinascita” (Un mondo in decadenza. Cultura a fumetti, n. 2, febbraio 1952), che l’educazione al successo dei giovani americani è «eminentemente oscurantista e permea tutta quella letteratura a fumetti» con cui sono cresciuti. Il fumetto è quindi una pedina nella scacchiera argomentativa della guerra fredda. Eppure resiste e cresce, persino su riviste comuniste. Pur snobbato, trova estimatori. La prospettiva progressista del “Politecnico” è però ripresa solo vent’anni dopo, da “Linus”, che tratta i fumetti come le riviste letterarie trattano i romanzi. Esce nel 1965, con la celebre conversazione tra Oreste del Buono, Umberto Eco ed Elio Vittorini, che paragona Schulz (padre dei Peanuts) e Salinger. E non è l’unico scandalo che suscita lo scrittore quell’anno, visto che nello stesso periodo escono le strip di Johnny Hart (L’antichissimo mondo di B. C., trad. it. Fruttero e Lucentini) in uno dei suoi volumi “Nuovi scrittori stranieri” per la Mondadori. Le cose stanno cambiando. Sono gli anni Sessanta, della liberazione culturale, anche per il fumetto, e solo un anno prima dell’uscita di “Linus”, nel 1964 (lo stesso della morte di Togliatti), arriva il celeberrimo Apocalittici e integrati di Eco. A fronte di interventi scandalizzati (si parla di fumetti e cultura pop come se fossero cosa seria!) dei quotidiani più conservatori, e a quelli negativi su “l’Unità” (Michele Rago) e “Paese Sera” (Corsini), buona parte della stampa di sinistra segna aperture, pur critiche: Mario Spinella su “Rinascita”, Francesco Indovina su “Mondo Nuovo”, Vittorio Spinazzola su “Vie Nuove”. L’attenzione è rivolta per lo più allo studio della cultura di massa, ma anche alla questione dei fumetti, che entra poi nel dibattito ospitato su tre numeri da “Le ore libere”, dell’Arci, con commenti di Rossana Rossanda, Franco Fortini, Walter Pedullà e altri. Letture anche molto diverse tra loro 51


nuova rivista letteraria dello studio di Eco, con accenni al fumetto, espresse da esponenti di primo piano della sinistra marxista. Sono risposte eterogenee: i tempi stanno cambiando. Arriva la contestazione, e i fumetti esplodono. Anche in politica. Il fumetto appare ovunque, dai ciclostilati, alle riviste e ai volumi. Fa politica, a sinistra. Informa, racconta, irride, comunica, riflette. Così ecco La calata di Mac Similiano XXXVI e la critica alla guerra in Vietnam di Guido Crepax (1969), la benpensante Donna Celeste e l’operaio Oreste di Renato Calligaro (1970), Punto final sul golpe cileno di Pinochet di Al-

fredo Chiàppori (1973), La guerra della Cocca-Cocca sull’imperialismo di Enzo Lunari (1973), La nascita di Repubblica e la satira sui protagonisti del giornalismo nazionale di Tullio Pericoli e Emanuele Pirella (1975), tutti su “Linus”. E ancora: la vita ai tempi del Movimento con Stefano Tamburini (Cannibale, 1977), o Andrea Pazienza o Filippo Scòzzari, la critica alle potenzialità negative della televisione di La guerriglia videologica di Guido Buzzelli (Alter Alter, 1978), il clima di controllo e repressione del ’78 con La pratica AB di Vittorio Giardino (1980), lo scandalo Italcasse e dei fratelli Caltagirone con “Caltagirò” di Francesco Tullio Altan (Panorama, 1980), l’ironica amarezza sul socialismo reale in Oltre il guado di Daniele Panebarco (La città futura, 1981), la fine di un periodo storico nei Funerali di Berlinguer di Sergio Staino (l’Unità, 1984). Storie apparse su quotidiani, volumi e riviste di informazione e approfondimento, addirittura legate al Pci (La città futura, l’Unità), dove il veto togliattiano pare ormai lontano. È un percorso tra satira e letteratura, la cui complessità non è esauribile in questo breve excursus. Ma il risultato di questo percorso dal basso è che il fumetto è sdoganato, e può far paura. Un Caltagirò non passerebbe più inosservato come al tempo, se uscisse oggi con “Panorama”, o “l’Espresso”. Un fumetto non solo per bambini può dire cose importanti, per grandi, con voce robusta e attendibile, con una gran varietà di stili. Oggi riviste come “Internazionale” ospitano pagine di graphic journalism, e i reportage di Joe Sacco, Igort e tanti altri salvano dall’oblio con la forza del disegno e della parola storie che si vorrebbero rimosse. E non finisce qui. Le nuvolette, d’altronde, sono fatte d’aria: passano ovunque. Emarginate a lungo, si sono infiltrate comunque nei territori che non le dovevano riguardare. Impossibile arginarle.

Bibliografia Oltre agli articoli e ai volumi citati, si rimanda a Breve storia della letteratura a fumetti di Daniele Barbieri (2009), Irripetibili di Luca Boschi (2007) per la storia del fumetto in Italia; a Vittorini e i ballons di Annalisa Stancanelli (2008) per il rapporto tra l’autore e i comics dai tempi del “Politecnico” alla sua morte; a Gianni Rodari di Marcello Argilli (1990) per la polemica sul fumetto. Le storie citate degli anni Settanta sono raccolte in L’immaginazione e il potere, a cura di Sergio Rossi (2009).

Jerry Mulligan in Piazza Grande, Modena, 1980 52


CONFRONTI Lester Bowie in concerto con la sua Brass Fantasy, Umbria Jazz, Perugia, 1994

editoRia: mondadoRi sì, mondadoRi no, mondadoRi foRse. un tentativo di Riflessione oGGettiva

❚ Che ne direste di comprarci l’Einaudi? ❝ Della serie:

di Stefano Tassinari

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er una buona metà dell’estate scorsa siamo stati tutti immersi, volenti o nolenti, nella polemica relativa alla scelta di molti autori italiani di sinistra di pubblicare i propri libri presso una delle tante case editrici di proprietà del presidente del Consiglio Berlusconi, polemica aperta da un intervento del teologo Mancuso e da alcuni articoli pubblicati sul quotidiano “la Repubblica”. Alcuni mesi 53

ovunque ti giri, per un motivo o per un altro hai sempre a che fare con B., ragion per cui… ❞


nuova rivista letteraria li, aggiungendo una riflessione oggettiva in merito al tema principale: è indubbio che, comunque la si voglia vedere, per uno scrittore antiberlusconiano non può non costituire un problema il fatto di incrementare i bilanci del premier attraverso la vendita dei propri libri. Se è vero, come viene dichiarato, che “Gomorra” ha venduto circa cinque milioni di copie, ciò significa che, considerando anche i diritti cinematografici e quelli internazionali, il best-seller di Saviano ha portato nelle casse di Berlusconi un fatturato di oltre cento milioni di euro, con un guadagno netto stimabile in almeno trentacinque milioni. E quando, anche giustamente, si afferma che per uno scrittore è un titolo di merito rientrare nel catalogo di una casa editrice che comprende autori straordinari come, ad esempio, Cesare Pavese, Italo Calvino, Philip Roth o Don De Lillo (solo per citarne alcuni), bisogna anche ricordare che nel catalogo Einaudi, con tutto il rispetto, oggi è presente anche Melissa P., il che dovrebbe far riflettere su cosa significhi l’avvento di Berlusconi nel mondo dell’editoria libraria, al di là delle professionalità storicamente presenti in azienda, spesso di ottimo livello ma, evidentemente, con un’autonomia limitata. Torneremo su questi punti più avanti, ma adesso tentiamo di capire in quale situazione si trova l’editoria italiana, il cui fatturato globale sarebbe diminuito, nel 2008, del 6,5 percento (il condizionale è d’obbligo, perché il dato non è ufficiale). Il primo elemento “bizzarro” è relativo alla sperequazione tra l’altissimo numero di case editrici operanti in Italia (al 31 dicembre del 2008 erano 8.814, comprese quelle del Canton Ticino) e il bassissimo numero di quelle che svolgono un’attività editoriale reale, e cioè producono libri nel rispetto dei contratti di edizione (pagando regolarmente gli autori e non chiedendo loro dei soldi) e distribuiscono le proprie pubblicazioni nelle librerie. Pur non disponendo, in tal senso, di un dato preciso, siamo comunque in grado di stimare in alcune centinaia (sette/ottocento) le case editrici che rientrano in questi parametri, semplicemente incrociando altri dati. Il primo, molto interessante, riguarda il numero di titoli stampati ogni anno: a questa domanda, ad esempio, il cinquantaquattro percento degli editori nemmeno risponde, mentre il venticinque percento dichiara di pubblicare meno di cinque titoli all’anno, a fronte di un diciassette percento che ne pubblica da sei a cento e di un tre percento che ne pubblica più di cento, il che significa che solo il venti percento degli editori ha un’attività “normale”, e quindi appetibile per i distributori nazionali. Tra l’altro, se si tiene conto dell’esistenza di tante aziende editoriali specializzate (spesso distribuite attraverso canali propri) e di altre

Roberto Freak Antony, portone della Chiesa della Vita, Bologna, 1993

prima (maggio 2010), nel corso della nostra riunione di redazione, avevamo deciso di dedicare una parte di questo numero proprio allo stesso tema, sul quale non avevamo e non abbiamo una posizione univoca, se non nel respingere le proposte di boicottaggio dei libri avanzate da chi, da un lato, dimostra di non conoscere bene come funzioni il mondo editoriale, e dall’altro lato di aver dimenticato la lezione legata a pericolosi eventi della Storia del Novecento. Alla base delle nostre diverse valutazioni ci sono ragioni soggettive (alcuni redattori di “Letteraria” pubblicano i propri romanzi con case editrici del Gruppo Mondadori, in particolare con Einaudi), nonché – per chi nutre dei dubbi – la convinzione che, al di là del rispetto per le decisioni personali, il problema esista. Avendo scelto di occuparci comunque della questione – proprio perché l’avevamo pensato ben prima che esplodesse la nota diatriba – abbiamo affidato a Wu Ming 2 il sostegno della posizione “a favore” e a Salvatore Cannavò – direttore editoriale di “Alegre” – il compito di proporre alternative possibili (i loro contributi li troverete negli articoli successivi). In queste righe, invece, cercheremo di affrontare le contraddizioni dell’attuale situazione editoriale a partire da alcuni dati struttura54


TASSINARI che, pur stampando molti titoli, hanno interesse a distribuirli solo localmente (è il caso di molte editrici universitarie e di tutte quelle di storia e cultura del territorio), allora capiamo facilmente come l’ipotesi che le case editrici nazionali ammontino a poche centinaia sia molto vicino al vero. D’altronde, gli editori che si avvalgono di una distribuzione nazionale (in mano a una sorta di oligopolio formato da Mondadori, Messaggerie, Pde/Feltrinelli, anche se i distributori, ufficialmente, ammontano addirittura a 677) sono meno del dieci percento, mentre quasi il settanta percento dichiara di non utilizzare un distributore o di distribuire i libri in proprio, magari spedendoli direttamente ad alcune librerie mirate. A tutto ciò, poi, bisogna aggiungere qualche breve valutazione sul mercato al minuto dei libri, sempre più concentrato nelle mani di pochissime aziende, quasi tutte legate o a grandi distributori, o a grandi editori, il che provoca una sorta di “selezione innaturale” dei libri messi in commercio. L’inarrestabile avanzata delle grandi catene (Feltrinelli, Melbookstore, Mondadori, Fnac), unita all’apertura di “scaffali” librari all’interno della grande distribuzione alimentare, sta uccidendo rapidamente il circuito delle librerie indipendenti, soffocato dagli alti costi degli affitti (in un settore a reddito fisso e non tutelato, come avviene in altri Paesi europei, da specifiche leggi di sostegno), dalla politica degli sconti portata avanti dai gruppi maggiori (che, di fatto, verrà garantita dalla pessima legge in discussione in Parlamento) e dalle “proposte indecenti” avanzate ai librai da questi stessi grandi gruppi (io ti do i libri con fattura a dodici mesi e possibilità di resa, ma in compenso decido io con quali titoli e in che quantità riempirti la libreria, in modo tale da espellere fisicamente la concorrenza). L’egemonia berlusconiana in campo editoriale, quindi, si sta esprimendo a tutti i livelli, dalla produzione alla distribuzione, fino alla vendita, e anche questo è un argomento su cui riflettere. Per correttezza, va anche detto che Berlusconi, oltre ad essere proprietario di case editrici quali Mondadori, Einaudi, Sperling & Kupfer, Piemme, Frassinelli, Electa ecc., detiene, attraverso società finanziarie e bancarie, anche azioni di minoranza del principale gruppo concorrente, e cioè Rizzoli (che significa anche Bompiani, Marsilio, Garzanti, ecc.). Insomma, si salvi chi può, e anche l’esistenza di questo intreccio è una giustificazione spesso utilizzata dagli autori che pubblicano con questi editori (della serie: ovunque ti giri, per un motivo o per un altro hai sempre a che fare con B., ragion per cui...). È vero, ma la domanda è: possibile che non esista una via d’uscita? Il pubblico segue gli autori o gli editori? Il recente caso del roman-

zo scritto a quattro mani da Camilleri e dal “nostro” Lucarelli – che ha comandato le classifiche di vendita per parecchi mesi, malgrado sia stato pubblicato da un piccolo editore, Minimum fax) – ci farebbe optare per la prima risposta, ma non è così semplice, e in tal senso lasciamo all’articolo di Wu Ming 2 le riflessioni specifiche. Un cosa, però, va sottolineata: se siamo arrivati a questo punto la responsabilità è anche della sinistra politica, la quale, anche quando ne aveva la possibilità economica, non ha voluto (o non è stata capace di) mettere in piedi un polo editoriale alternativo e in grado di competere con i grandi gruppi, non riuscendo, così, a diventare un riferimento per i tanti scrittori che gravitano nella sua area. Alla base – e lo ripetiamo da tempo – c’è l’ormai storica sottovalutazione dell’intervento culturale da parte di tutte le sinistre di questo Paese, compresa quella più radicale, che ha preferito, anche quando ne aveva le disponibilità finanziarie, decuplicare i propri apparati di partito anziché investire denaro in una casa editrice degna di questo nome, per non parlare di quanto non sia stato fatto nel campo dell’informazione e dell’aggregazione culturale. È anche vero che esistono case editrici private di buon livello che hanno mantenuto un certo profilo (penso a quelle del Gruppo Il Saggiatore, alla Feltrinelli, alla e/o, per certi versi anche al Gruppo Mauri-Spagnol, solo per citarne alcune), ma evidentemente non bastano a spingere tanti autori ad abbandonare i marchi attualmente nelle mani di Berlusconi (a proposito: a nessuno è venuto in mente che l’Einaudi si potrebbe anche comprare, magari attraverso un diffuso azionariato popolare? È una provocazione, ma nemmeno tanto….). Considerando il contesto generale che abbiamo tracciato in precedenza, nonché il drammatico quadro politico nazionale, è chiaro che il problema non è di semplice soluzione, eppure esiste e non possiamo far finta che non sia così. A questo punto, la reazione migliore potrebbe essere quella di abbassare i toni (smettendola, da un lato, di ricoprire di insulti degli ottimi autori e di proporre il boicottaggio dei loro libri, e dall’altro lato di arroccarsi in una posizione difensivistica e talvolta persino aziendalistica, negando alla radice una questione reale), puntando ad aprire un percorso – che potrebbe essere anche lungo – finalizzato a rimettere al centro l’autonomia della letteratura e della saggistica dai grandi potentati politico-economici e a costruire una vera alternativa in campo editoriale, necessaria anche ad aumentare le possibilità di far crescere e sviluppare un nuovo pensiero critico in questo disastrato Paese. Forse ci stiamo sbagliando, ma ora come ora ci sembra l’unico gesto di buon senso da proporre. 55


CONFRONTI

❝ Una battaglia lenta e di lunga durata, per non illudersi che il groviglio si possa sciogliere con un colpo di spada: semplice, rapido, molto mediatico. Perfetto per incassare gli applausi di un’Italia berlusconizzata ❞ ancoRa sul caso mondadoRi: un altRo punto di vista

Lorin Maazel, Palazzo dei Congressi, Bologna Festival, 1992

❚ L’annosa questione di Wu Ming 2

P

enisola italiana, Pianeta Terra, estate 2010: mentre in Parlamento si discute una legge letale per le piccole librerie indipendenti, il mondo editoriale fibrilla per gli scrupoli di coscienza di Vito Mancuso, autore e consulente di Mondadori, che in una lettera aperta pubblicata da La Repubblica, dichiara il suo imbarazzo nel proseguire la collaborazione con la casa editrice di Segrate. Torna così alla ribalta, in grande stile, quella che Alessandro Bertante ha definito “l’annosa questione”: è giusto che gli scrittori e gli intellettuali d’opposizione pubblichino i loro libri con il gruppo editoriale di Silvio Berlusconi? Dove la parola “giusto” si deve intendere in due accezioni: etica e strategica. Sul piano etico, questi autori si trovano a rispondere di una duplice accusa. In primo luogo, l’incoerenza tra parole e azioni, dato che essi contribuiscono a gonfiare il portafogli di un editore che invece avversano come uomo politico. In seconda battuta, c’è l’aggravante dell’interesse, perché anche il portafogli dei suddetti autori si gonfia, grazie a un patto col Diavolo e alla loro capacità di mangiare nel piatto dove sputano. Quest’ultima è senz’altro la questione meno pertinente. Il denaro che entra nelle casse di uno scrittore, infatti, 56


WU MING 2 è quello che esce dalle tasche dei suoi lettori, quando vanno in libreria e acquistano le sue opere. In gergo tecnico si chiamano royalties e sono una percentuale del prezzo di copertina. L’editore, in certi casi, versa all’autore un anticipo, che però viene scalato, in un secondo momento, dal cumulo delle royalties. In altri termini, lo scrittore è un lavoratore autonomo, non un dipendente della casa editrice. Per questo motivo, chiunque voglia “punirlo” per la sua condotta, può farlo non acquistando i suoi libri, proprio perché uno scrittore guadagna per le copie che vende. Il che significa, d’altra parte, che uno scrittore affermato non perde lo stipendio, se abbandona la sua casa editrice. Certo, Mondadori è un colosso, gode di una presenza massiccia sugli scaffali, è in grado di “spingere” i suoi titoli con molti mezzi (ufficio stampa, pubblicità, librerie in franchising), eppure sono convinto che da Lucarelli a Evangelisti, da Dazieri a De Cataldo, la maggior parte degli autori in questione, se lasciasse il gruppo e si vendesse al miglior offerente, ne ricaverebbe un vantaggio economico, oltre al ritorno d’immagine per il bel gesto, il gran rifiuto al Caimano, la conversione ad orologeria. La questione dell’incoerenza, invece, mi pare più interessante, perché ci obbliga a riflettere su un principio etico fondamentale. Di un sistema assiomatico si dice che è coerente se non permette di dimostrare un teorema e il suo contrario. In altri termini: se non genera contraddizioni. Possiamo dire lo stesso per la condotta delle persone? Io credo di no. Agli individui non si richiede una coerenza logica: l’etica - per quanto more geometrico demonstrata - non è aritmetica. Quel che conta, quando si passa dai sillogismi ai comportamenti, è la fedeltà a un progetto, la perseveranza disinteressata sul cammino di un’idea. Si può “essere di sinistra” anche senza essere “del tutto estranei a Berlusconi”, se questa contraddizione ha un obiettivo, e non viene semplicemente nascosta sotto il tappeto. Perché sia chiaro: la contraddizione esiste, solo che non è individuale (e quindi etica), bensì generale (e dunque politica): il più vasto gruppo editoriale del Paese, nonché uno dei più preziosi cataloghi letterari e d’opposizione, sono di proprietà del leader del centrodestra, un uomo il cui potere si basa sulla speculazione, i privilegi ad personam, le palesi ingiustizie, il controllo dei media e un gigantesco conflitto d’interessi. Il problema - come direbbe Mario Tronti - non è il Cavaliere. Il problema è il Cavallo. Sciogliere i contratti con Mondadori e accasarsi presso un’altra casa editrice non risolverebbe nulla, perché quella contraddizione non sta di casa in un palazzo di Segrate. Siamo piuttosto tutti noi a stare di casa dentro di essa, costretti

ad abitarla e a pagare l’affitto. Nel caso di Wu Ming - mi si perdoni l’autoreferenzialità - rendere conto di quella contraddizione, additarla e farsene carico, sporcarsi le mani e sciacquarsele in pubblico, fa parte fin dalle origini di un progetto politico e narrativo. Fingere di poter aggirare il problema con un semplice cambio d’abito ci sembrerebbe non soltanto ipocrita e consolatorio, ma davvero incoerente. E lo stesso credo possa dirsi per molti altri “scrittori di sinistra”, fedeli alle loro storie, ai loro contenuti, convinti di rappresentare la proprietà culturale della casa editrice, e di dover resistere a quell’altra proprietà, più passeggera ed effimera, finché sarà possibile farlo senza compromessi o censure. Una battaglia lenta e di lunga durata, per non illudersi che il groviglio si possa sciogliere con un colpo di spada: semplice, rapido, molto mediatico. Perfetto per incassare gli applausi di un’Italia berlusconizzata. Il che ci porta alla seconda questione, quella strategica. C’è chi si dice convinto che l’uscita in blocco di molti autori dal gruppo Mondadori si tradurrebbe in un danno per Silvio Berlusconi: danno economico, d’immagine e politico. Sul versante economico, mi permetto di avere dei dubbi. I posti lasciati vacanti verrebbero presto occupati da altri, magari più in linea con le idee della proprietà. Molti cavalli di questa schiera scalpitano ormai da tempo, chiedendosi come mai il Capo si ostini a pubblicare gente che non la pensa come lui. Risultato: Einaudi e Mondadori diventerebbero più berlusconiane, e il buco troverebbe presto una toppa, prima che la ferita diventi davvero preoccupante per i forzieri della casa editrice. Quanto al danno d’immagine, c’è chi sostiene che Berlusconi si fa bello del suo essere un editore aperto, che bada solo alla qualità e non teme di pubblicare autori che stanno “dall’altra parte”. Ora, tra tutte le maschere indossate dal nostro primo ministro - dal presidente operaio al barzellettiere - quella di editore (di libri) mi sembra la meno sfruttata, e il motivo è presto detto. L’immagine di una casa editrice dipende molto dai suoi autori e molto poco dalla proprietà. Per indirizzarla e plasmarla bisognerebbe modificarne il catalogo passato e presente: un’operazione lunga, vistosa, di grande impatto. Meglio lasciare le cose come stanno. Molto più facile cambiare la linea di un giornale o di un canale TV: si sostituisce il direttore, si licenziano una decina di professionisti, se ne assumono altri, e il gioco è fatto. Ecco perché Berlusconi incontra più difficoltà, nel fare un uso politico di Mondadori - Einaudi. Una difficoltà che smetterebbe di avere, se tutti i collaboratori “non allineati” uscissero dalla casa editri57


nuova rivista letteraria ce e gli lasciassero cameditore significherebbe po libero. La pluralità succhiargli ogni enerdi voci che si esprimogia, saturare tutto il no nei libri Mondadori suo spazio di manovra, non è merito della protogliere ossigeno a queprietà: non è uno spagli esordienti di qualizio concesso, ma uno tà che vengono spesso spazio difeso e conqui“scoperti” proprio dalstato. Il gruppo editole piccole case editririale di Segrate non è ci. D’altra parte, sono affatto un’isola felice, pochissimi gli scrittori anzi: ci sono pressioitaliani che solo con ni, tensioni, battaglie la loro firma possono da combattere. Come cambiare le sorti di una del resto in molte altre casa editrice. Più spescase editrici, legate agli so, è il giusto connubio interessi della grande tra il libro, l’editore e borghesia nazionale. Il l’autore a decretare il problema, ancora una successo di un’opera. Se volta, è il Cavallo. Carlo Lucarelli scrivesInfine, resta da analizse il suo prossimo rozare il supposto danno manzo per Minimum politico e culturale. Fax, probabilmente ne Abbandonare in massa uscirebbero entrambi Mondadori - si chiedoscontenti e scottati. Se no alcuni - non potrebinvece lo stesso editobe essere l’occasione re pubblica un “gioco per dare manforte a un letterario” tra Lucarelli progetto editoriale più e Camilleri, ecco che in sintonia con i valori e mezzo milione di peri principi della sinistra, sone se lo portano in di tanti autori e lettori spiaggia o sul treno. che non si riconoscono Sono anch’io convinto, nel mondo catodico di come tanti altri colleSilvio Berlusconi? Queghi, che i lettori italiani sta domanda, tutt’altro meriterebbero una proche peregrina, parte posta editoriale davvespesso dal presupporo alternativa, e con i sto che certi autori “di muscoli per farsi largo sinistra” siano mondaanche nella grande didoriani dalla testa ai stribuzione. Ma non è piedi, mentre molti di con un’iniezione masloro già collaborano siccia di transfughi da con piccole case editriMondadori che si potrà ci meritevoli, a seconda pensare di gonfiarle i Augusto Daolio, Palasport, Bologna, 1991 dei progetti che intenbicipiti. Si tratterà indono promuovere. Mi vece: primo, di metterpare infatti questo, per un autore affermato, il modo la in piedi, e secondo, di fare agli autori giusti le giuste migliore di sostenere la piccola editoria, senza muoproposte, dato che per pubblicare con Mondadori/ versi come il classico elefante nel negozio di cristalli. Einaudi non è richiesto un patto di sangue e non è Uscire da Mondadori e passare in blocco a un piccolo nemmeno necessario vendere l’anima al Diavolo. 58


CONFRONTI peR un’alteRnativa (possibile?) allo stRapoteRe beRlusconiano in campo editoRiale

❚ La mossa del cavallo Astor Piazzolla, Ravenna Festival, 1986

di Salvatore Cannavò

N

el pieno dello scontro tra il direttore generale della Rai e Roberto Saviano, relativo al programma “Vieni via con me”, il Giornale, quotidiano alle strette dipendenze del gruppo Fininvest, titolava “I mantenuti di Berlusconi” per indicare attori, giornalisti, scrittori che lavorano per le aziende del presidente del Consiglio. Quel titolo permette di chiarire preventivamente un aspetto della polemica che pure ha attraversato gran parte del mondo della cultura e della critica letteraria sull’opportunità o meno di scrivere per Mondadori o Einaudi o altre case editrici legate al premier da parte di autori e autrici interessati e interessate a un progetto di cambiamento, legate a un’ipotesi culturale non mercifi-

59

❝ La cultura è uno

strumento decisivo per capire il mondo ma anche per trasformarlo. Questa responsabilità non può essere elusa. ❞


nuova rivista letteraria cata e opposta agli archetipi del mainstream berlusconiano. Una polemica rilanciata in estate dallo scrittore Vito Mancuso, attraverso un articolo su Repubblica che non ha avuto particolare successo tanto che nemmeno il fondatore del quotidiano romano, Eugenio Scalfari, ha accettato l’invito a smettere di pubblicare per Einaudi. Al di là della “provocazione” lanciata da Mancuso, la questione ha attraversato, e attraversa, il cosiddetto antiberlusconismo, agita passioni diffuse, provoca scontri aperti, un dibattito a volte crudo e di difficile gestione. Quel titolo del Giornale, dicevamo, permette quindi di chiarire un aspetto di questa querelle: a essere mantenuti non sono gli scrittori o le scrittrici ma l’azienda di Berlusconi e quindi Berlusconi medesimo. Il mercato editoriale ha un funzionamento molto rigido e chiaro, permette facilmente di definire i termini del problema: grazie alla vendita dei libri, si generano delle aliquote percentuali che vanno a beneficio dell’editore, del distributore, della promozione e solo in minima parte dell’autore o autrice (i più forti arrivano al 10 o anche al 15%). Quindi il conto è presto fatto: sono quest’ultimi a “mantenere” gli editori e quindi lo stesso Berlusconi, non il contrario. Ristabilire questo rapporto permette di affrontare il contenzioso nei giusti termini e anche di fare la domanda esatta. È giusto contribuire a mantenere “il puzzone”, cioè è giusto che il proprio lavoro artistico e creativo permetta all’arcipelago di aziende editoriali berlusconiane di ingrassare e quindi continuare a fare i danni che hanno fatto finora? La domanda non può certamente essere disgiunta da un secondo quesito: cosa deve fare oggi uno scrittore che non voglia cedere al dominio editoriale berlusconiano, dove deve andare a scrivere e pubblicare? Da qualsiasi altro concorrente come se i principali competitors fossero intonsi e immuni da responsabilità? Sono stati i Wu Ming a far notare che Rizzoli, per fare l’esempio del secondo gruppo editoriale dopo Mondadori, sia di proprietà del “salotto buono” del capitalismo italiano e che nel suo azionariato figurino realtà “illuminate” come Mediobanca (partecipata a sua volta da Fininvest), Assicurazioni Generali (da pochi mesi diretta da Cesare Geronzi), Pirelli (Tronchetti Provera), il gruppo Ligresti, Della Valle, la società degli Agnelli, Intesa San Paolo, i Benetton e altri ancora. Le alternative non sono quindi “à la carte”, non si scappa dalla logica industriale e del profitto che muove Rcs così come Mondadori o Feltrinelli o lo stesso gruppo Mauri-Spagnol (Gems). È parimenti importante, del resto, il fatto che i grandi gruppi editoriali

condensino al loro interno competenze e abilità importanti, assistenza all’autore, forza di promozione e affermazione del proprio lavoro editoriale che società più piccole spesso non si sognano nemmeno. Tutto questo non può non colpire un autore, affascinarlo e tirarlo dentro un circuito che solo uno sguardo esteriore e distaccato, se non disinteressato, riesce a cogliere nei suoi aspetti deteriorati e corrosi. Ne abbiamo avuto una prova inconsueta, sempre la scorsa estate, con un commento di Luca Casarini – leader del centri sociali del Nordest – in cui si spiegava la propria scelta di pubblicare con Mondadori il primo romanzo anche in virtù della professionalità dell’azienda e della sua completa disponibilità a pubblicare senza riserve un autore non proprio coerente con la prima industria culturale del paese. È quindi del tutto corretto estendere il giudizio sull’industria editoriale al di là della sola Mondadori. E questo giudizio non può che essere impietoso e non bastano i successi di Lucarelli, dei Wu Ming, di Carlotto o Camilleri a imbellettare una realtà fatiscente. Il meccanismo dei best-sellers è diventato martellante e dominante e mangia tutto il resto; la distribuzione è un territorio da caccia presidiato e guardato a vista da veri e proprio “corpi armati” nutriti da una bulimia produttiva che scaccia dalle librerie qualsiasi altra sigla minore - nel nostro piccolo conosciamo bene il sistema - costretta, gioco forza, a rincorrere il meccanismo del libro “mordi e fuggi”, dell’”istant” a tutti i costi, della produzione superficiale per provare non a competere ma a ritagliarsi piccole briciole di un mercato che è sostanzialmente appannaggio di cinque o sei grandi gruppi (Mondadori, con un terzo del mercato, Rizzoli e Mauri-Spagnol che si dividono un quarto, DeAgostini, Giunti, Feltrinelli). Questo meccanismo fa emergere ancora delle eccellenze ma complessivamente ha contribuito a livellare la produzione, a premiare la mediocrità del prodotto, risultante dal marketing mediano che cerca di estrapolare statisticamente il libro commercialmente ideale. La gestione dei premi letterari sta lì a dimostrarlo con la casa di Segrate che riesce ancora a fare la parte del leone ma con gli altri marchi che stanno affinando le loro particolari abilità dimostrando di saper stare al gioco. Mondadori ha avuto un peso rilevante in questo processo ma, come si vede, i suoi principali concorrenti non scherzano e non possono essere estromessi da una critica altrettanto netta e impietosa. Resta integra però la questione specifica, l’ammissibilità, morale, politica, culturale, di lavorare per arricchire il sovrano perché a differenza di Rcs, 60


CANNAVò

Riccardo Chailly registra le Quattro Stagioni di Vivaldi con i musicisti del Teatro Comunale di Bologna, a Villamazzacurati, 1990

maggioranza delle azioni del fratello di Berlusconi solo una copertura), quotidiano manganello mediatico del gruppo che insieme alle televisioni del premier contribuisce a reggere quell’aggregato sociale, umano e culturale che è il centrodestra. Mondadori, quindi, svolge una funzione direttamente politica, è quasi uno strumento di partito. E di famiglia. Se ne contendono la direzione le due figlie di Berlusconi, Marina, attuale presidente e Barbara, figlia di Veronica, astro nascente con forte propensioni “progressiste”. La domanda se sia giusto, utile, opportuno, lavorare per questo agglomerato è lecita, ce la poniamo anche noi. La risposta ovviamente la possono dare, nella loro libertà, autonomia e consapevolezza, solo gli autori e le autrici. Sta alla loro indole, sensibilità, senso culturale e politico, decidere come comportarsi, non ce la sentiamo di puntare il dito, di gridare al “tradimento” o di imbastire una campagna di boicottaggio dei libri che ricorda sempre latitudini opposte alle nostre. Un autore o un’autrice si giudica per quello che scrive, per come lo scrive, per il senso del suo lavoro culturale. Per parte nostra, possiamo solo dire che noi non scriveremmo per quella casa editrice, faremmo cioè fatica a conciliare una concezione di vita e di lavoro politico con una collocazione editoriale siffatta (ma è anche vero che

Gems o Feltrinelli, Silvio Berlusconi governa il paese, lo costringe a una condizione supina e infima, mescola la propaganda politica con l’iniziativa culturale, coltiva miasmi e ambiguità. E palesi opportunismi. Mondadori pubblica un autore che, comunemente, viene percepito come il personaggio attualmente più antiberlusconiano in circolazione, quel Roberto Saviano protagonista di un vivo dibattito politico e che recentemente è stato oggetto di un’analisi, in parte ingenerosa ma complessivamente interessante, da parte di Alessandro Dal Lago nel suo “Eroi di carta”. Ed è bastato che, qualche mese fa, Saviano alludesse soltanto all’ipotesi di un suo abbandono della casa editrice guidata da Marina Berlusconi o che la presidente del gruppo prendesse carta e penna per offrire le più ampie garanzie di indipendenza e libertà. Mondadori è tutto questo ma è anche l’editore di settimanali da gossip indecente come Chi, di un giornale come Panorama che ha recentemente guidato una “spedizione punitiva”, dal punto di vista editoriale, contro gli operai di Melfi licenziati dalla Fiat. Mondadori, soprattutto, è la proprietaria di fatto - come hanno rivelato le recenti intercettazioni telefoniche che hanno riguardato la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia - de Il Giornale (partecipato al 37% ma dominato di fatto, essendo la 61


nuova rivista letteraria nessuno alla Mondadori si sogna di farci una qualsiasi proposta e quindi la questione resta sul piano dell’astrazione). La questione dunque resta aperta ed è bene, a nostro giudizio, cercare di affrontarla da un altro punto di vista, più produttivo e fecondo. Perché si può contestare Mondadori e la sua galassia fino a perdere la voce, si può imbastire una lotta senza quartiere alla degenerazione culturale incubata in quel di Segrate, ma il problema di un’alternativa praticabile e possibile resta intatto, ci riguarda e finché non troveremo una soluzione non potremmo fare altro che lamentarci e lanciare strali. Qualche decennio fa, la forza materiale di quel “paese nel paese” organizzato dal Pci e dal movimento operaio italiano ha permesso di realizzare l’impresa dei pionieri, far nascere quel “bene pubblico” che è ancora Einaudi, dare forza al fiancheggiamento culturale costituito dagli Editori Riuniti (ci asteniamo dai commenti sulla parodia che rappresenta la gestione attuale), costruire l’esperienza delle Case della Cultura. Il contesto ha generato un intero testo che costituisce ancora il punto più alto della produzione culturale italiana e che, non a caso, rappresenta ancora un modello di riferimento o comunque una genealogia di cui vorremmo veder nascere gli eredi. Oggi non c’è nulla di tutto questo, non c’è un progetto editoriale indipendente - dalla cultura dominante, dai meccanismi infernali dell’industria editoriale, dai padroni dell’editoria italiana e, quindi, anche dal berlusconismo - non c’è un’alternativa a cui guardare. Purtroppo non c’è neanche l’ombra di un’intenzione, o un’aspirazione, magari frustrata, a realizzare un prototipo. Parliamoci chiaro, non ci sono risorse, è vero - e non c’è dubbio che, allo stato attuale delle cose un progetto indipendente avrebbe bisogno di un sostegno pubblico altrimenti non avrebbe il fiato adeguato perlomeno al proprio abbrivio - ma non c’è volontà soggettiva. Esiste una sorta di parallelo triste tra l’atomizzazione di tante forze della sinistra italiana e le forze in campo nel panorama dell’editoria indipendente e di qualità. Ognuno coltiva la propria nicchia, a volte con successo e soddisfazione, ma sempre più spesso soffrendo difficoltà che rinviano minacciosamente all’ipotesi del fallimento e della chiusura. L’obiezione ricorrente a questo ragionamento è che una casa editrice è figlia di un progetto culturale, di una sensibilità specifica, di un’intuizione a lungo coltivata che ha bisogno di spazio e tempo per coltivare le proprie potenzialità. Non si possono unire e mettere in relazione propensioni troppo diverse, si rischia di implodere. È vero, ma nel mercato attuale si rischia di chiudere, non ci sono dubbi a proposito. E del resto,

i grandi gruppi sono tali perché nel tempo hanno inglobato, ingoiato quasi, marchi più piccoli costretti ad arrendersi alla logica industriale del capitalismo editoriale. Anche Fazi, piccola casa di qualità poi cresciuta a colpi di best-sellers, si è dovuta “accasare” nel gruppo Gems. Chi assicura che la stessa sorte non toccherà ad altre case, altri marchi, progetti editoriali di qualità, spesso raffinati e indispensabili? La sfida è lanciata ormai da diverso tempo e la sensazione è che la piccola editoria o l’editoria indipendente balli sul ponte del Titanic in attesa degli eventi. E invece gli eventi potrebbero essere determinati diversamente da un colpo d’ala o, come si usa dire, da una “mossa del cavallo”: un progetto editoriale nuovo che riunisca energie esistenti, convergenti su una ispirazione di fondo comune e che trovi in autori e autrici disponibili a costruire una storia diversa un sostegno fondamentale. Del resto, l’exploit estivo di Minimum Fax con il libro estemporaneo di Camilleri e Lucarelli - primo in classifica per diverse settimane, circa 200 mila copie vendute - ha dimostrato le potenzialità che esistono. Un nuovo progetto editoriale, in grado di far convergere espressioni culturali diverse ma contigue, che ovviamente sia solido sul piano distributivo, amministrativo e gestionale, in grado cioè di dare fiducia ad autori e autrici di livello. Questa strada potrebbe avere fisionomie diverse, coerenti con il grado di integrazione possibile materialmente: una vera e propria integrazione oppure un logo comune di case diverse o, ancora più in basso, una rete distributiva comune. Oppure un comitato editoriale unitario che metta in rete idee comuni e limiti la concorrenza suicida. È tutto molto difficile, ne siamo consapevoli, e per certi versi la proposta può apparire naif. Ma l’alternativa a questa ipotesi è solo quella di vedere qualche media casa editrice oggi crescere fino al punto di divenire concorrente dei grandi gruppi e questa ipotesi magari non è ingenua ma molto improbabile. A fare la differenza, però, potrebbero essere gli autori e le autrici, e questa ci sembra l’unica via di uscita dalla morsa “berlusconismo-antiberlusconismo”. Un pool di autori e autrici che si mettesse a disposizione di un simile progetto, anzi che lo promuovesse, senza proclami e senza generare illusioni, ma con discrezione, tessitura di relazioni, costruzione di intese preventive, determinerebbe una svolta possibile. Avrebbe la possibilità di dare vita a un nuovo corso, un new Deal culturale che potrebbe innescare processi conseguenti. La cultura è uno strumento decisivo per capire il mondo ma anche per trasformarlo. Questa responsabilità non può essere elusa. 62


L'INTERVISTA dialoGo con pieRluiGi cappello, vincitoRe del pRemio viaReGGio poesia 2010

Elaborazione digitale su foto che ritrae Pierluigi Cappello

❚ Trimant il vivi (tremando il vivere) di Danilo De Marco

P

oeta civile, Pierluigi Cappello è un essere tenero, dolce e vivace, squisitamente verbale: perdere la sensibilità e la potenza che ha la parola, per lui vuol dire regredire ad uno stadio primario. Ogni volta che lo si va a trovare nella sua casa di Tricesimo, dove le colline moreniche iniziano la loro definitiva discesa verso la pianura friulana, in uno degli ultimi residui/prefabbricato/memoria del terremoto del 1976 in legno d’abete consunto con grosse macchie di umidità agli angoli del soffitto, le parole diventano il centro di gravità provviste di ciglia vibratili nel loro protendersi al tutto. Attorno ad esse prende senso lo stare assieme. Più che una casa, tutto ricorda la cella di un monaco con la vocazione alla lettura: non troppo in ordine, sparsi anche a terra romanzi, saggi, libri di poesia. Un’aria greve da fumo impregna lo spazio, avanzo delle troppe siga63

❝ Giorgio Caproni, a cui sono particolarmente legato, diceva che gratta gratta in fondo al pentolone dell’io si trova il noi. ❞


nuova rivista letteraria rette che PierPoeta, come a me piace chiamarlo, consuma durante le sue lunghe giornate. In questa manciata di metri quadri, ultimo simulacro di morte e vita di un tempo tragico, vive nella ritualità di un’esistenza essenziale come le sue parole. Quasi un sussurro. La condizione del poeta, per Cappello, è quella di una primitiva innocenza, di ingenuità intuitiva di fronte alla nascita delle parole. Le parole si adoperano allora per “avvicinarsi alle cose”, un po’ come avrebbero fatto le realtà artigianali alle prese con il loro mestiere. La paziente attesa – la solitudine di Cappello non è mai rancorosa – diventa l’arnese critico/creativo di questo ‘artigiano’ della parola: “la parola che sale alla bocca” e “la nuova che dal buio trabocca” perché è solo così che le parole possono disporsi in “relazioni più intime, che fruttificano in forme di intuizione” e fanno di ogni incontro un unico e irripetibile momento.

Troppe volte si pensa che per scrivere versi basti essere padroni di una certa grammatica; c’è l’idea che andando a capo si possono scrivere dei versi. Così si fa come quando si era bambini: le file dei soldatini allineati. Proprio per questo di poeti ne nascono forse cinque in un secolo. Ricordo il grido disperato di Moravia alla notizia della morte di Pasolini. Era quasi un pianto. Le vibrazioni delle sue corde vocali quando gridò “è morto un poeta” sembravano scorrere… legnose, senza possibilità di sollievo, lamento senza possibilità di redenzione. Ti piace definire “polmone verde della nostra coscienza civile” tutta quella attività linguistica che si è formata da una lunga tradizione umana, filosofica e letteraria. Una memoria collettiva dunque, dove ci si salva o ci si perde tutti assieme. Giorgio Caproni, a cui sono particolarmente legato, diceva che gratta gratta in fondo al pentolone dell’io si trova il noi. Mi piace richiamarmi a questo polmone verde della coscienza perché ha dentro di sé l’immagine della foresta e la poesia entra in questa foresta. Tu entri nella temuta foresta, ma da essa hai la possibilità di portare alla luce, dilatare la parola, perché abbia di nuovo senso, come soffiare nuova vita dentro parole che sono vecchie o consumate…con l’esattezza del poeta e l’ambiguità che trascina con sé… Si lavora sull’alone semantico.

Le parole le adoperi per avvicinarti alle cose ma nel momento stesso in cui le adoperi, appunto perché parole, diventano segni delle cose stesse che tendono ad allontanarti da esse: “i pensieri si sono fermati nei gesti, nel silenzio delle cose fatte...Tengo per me cos’è curare il fuoco / l’odore spesso di legna bruciata, lo stoppino fra le dita / lo stare di tutti i giorni nelle cose da fare...” E il senso non è nell’inizio né nella fine, ma nella tensione: ecco, se esiste una verità credo stia proprio lì, nella tensione tra…la poesia raggiunge la sua incandescenza quando trattiene la componente del nostro muoverci assieme alle cose, averne lo stesso ritmo, il medesimo passo, il medesimo polso. La parola ama anche il silenzio e un poeta tende al silenzio; o meglio alla qualità del silenzio, per dilatarne le sue significanze. E le forme del silenzio sono tantissime e variegate: c’è il silenzio della cenere, quello delle pietre, il silenzio della pacificazione interiore che è la forma più alta che può assumere una parola. C’è il silenzio della morte della coscienza, e quello indotto da un dolore così grande in cui tutto, compreso l’urlo, si fa muto. Per esempio in poesia quando in una pagina intera si occupa solo una porzione limitata di spazio, lo spazio attorno non è casuale. Rappresenta il silenzio. Quando si va a capo, quando si spezza il verso a metà, quando lo si dispone disossato…quelle sono parti di silenzio. È in questa complessione che vive il verso; tra suono e silenzio che si danno alternativamente. È un viaggio di spola, un continuo ritornare sulle cose: ma al di là di questo esiste una grammatica seconda, che è la musica interna delle parole. È il tentativo di dare con le parole un’immagine misteriosa e prossima. Inappellabile per chi la usa. Un tentativo per chi la legge. Le parole sono materia.

Invece nel nostro modo abituale di pensare e di vivere il quotidiano, questo alone semantico del discorso poetico è, il più delle volte, difficile, ostico, inquietante; crea disorientamento nel ‘tempo reale’ in cui siamo accerchiati. Tempo reale invaso dai detriti del linguaggio poetico riversati a valanga nel dire pubblicitario, che si insinua e alla fine impone facili e semplicistiche conferme, senza sollecitare alcuna riflessione... Certamente quando le coscienze diventano simili, meglio si può proporre loro una alimentazione attraverso slogan pubblicitari uguali per tutti. È così che la parola viene depotenziata, corrosa, immediatamente consumabile e si adegua alla nostra perdita percettiva. Noi ‘parliamo’ sempre, sia quando lo facciamo in forma di dialogo sia quando il colloquio avviene entro noi stessi, dentro un silenzio che è soltanto nostro. È dentro quel silenzio che le parole si dispongono alle relazioni più intime, che fruttificano in forma di intuizione, una volta ho definito quell’ininterrotto parlarsi dentro il polmone verde delle nostre coscienze, la nostra ricchezza più segreta, la possibilità di immaginare mondi in assoluta libertà. Bene. A me sembra che quella foresta sia sotto assedio, minacciata dal trionfo della civiltà mediatica; se si sra64


DE MARCO dica quel silenzio vivo dall’essere umano si sradica, a mio parere, anche la possibilità dell’uomo di essere uomo. Stiamo seppellendo quel silenzio sotto una colata di clamore, nutriamo una malsana paura di quel silenzio, che confondiamo con il vuoto, e viviamo per rimozioni: rimozione del dolore, rimozione della morte, rimozione di ogni forma di debolezza che turbi e induca a pensare; e inneschi quel parlato interiore capace di restituirci libertà, di ricondurre il nostro sguardo alla salutare imperfezione della nostra natura.

ad esso. Non si temeva la sconfitta, la sconfitta era un’occasione per imparare, meno che mai eravamo tormentati dall’ansia del risultato. Mi dici dell’incidente: non amo parlarne, ma qualcosa la dirò. L’inizio è stato tragico: le gambe non si muovono più, impari a stare seduto e in equilibrio solo con la forza dei muscoli dorsali che ti sono rimasti perché non rispondono più nemmeno gli addominali; ho affrontato un anno e mezzo di ospedale prima di tornare a casa; mi avevano raccolto dall’asfalto con il cucchiaino, mi rifiutavo di fare fisioterapia perché non concepivo, io che in pista lottavo per limare un decimo di secondo, come dovessi compiere sforzi sovrumani per fare male gesti che chiunque faceva con fluidità ed eleganza senza nessuna fatica. Poi, piano piano, mi sono riconciliato con la mia carne, o la mia carne si è riconciliata con me: a tutt’oggi ancora non lo so. Molti, specialmente all’inizio, hanno associato quel fatto tragico della mia vita alla mia poesia, qualcuno si è spinto a dire che anzi, è in forza di quel fatto che io ho scritto. La verità, purtroppo, è diversa: io ho scritto malgrado quell’incidente. Essere divelti dalla sensualità del proprio corpo, vuol dire dilapidare patrimoni di sensibilità. Non è uno svantaggio da poco per chi intende lavorare (anche, ovviamente, non solo) con i propri sensi, tutti, nessuno escluso. Tuttavia, un evento del genere è capace di incidere sulla scrittura: amavo viaggiare, forse per liberarmi dell’ombra delle montagne, quelle stesse montagne che sono state il propulsore della mia immaginazione perché nascondevano il cielo, mi sarebbe piaciuto entrare nel corpo vivo delle città e dei luoghi, per rubarne il cuore segreto, un po’ come fa Eraldo Affinati; invece mi è toccata in sorte una stanzialità obbligata, un organismo cocciuto nel negare i desideri e le curiosità, così ho imparato a fare mio il poco che conosco, a scandire fotogramma per fotogramma ogni più minuto gesto quotidiano, ogni singolo taglio di luce nel mio giardino, e ho scoperto, no, meglio: ho “sentito” che il mondo è ovunque il mondo si riveli e non è indispensabile attraversare oceani per farsene abbracciare. In questo mi ha aiutato anche la lettura di Joë Bousquet. “L’uomo più veloce è l’uomo immobile”, ha scritto, bisogna viverla nella carne una frase simile per comprenderla fino in fondo.

Nella tua nuova raccolta di versi dal titolo ‘Mandate a dire all’Imperatore’, una quarantina di liriche raggruppate in tre sezioni assieme ad un breve poemetto, edito da Crocetti, che ti ha portato a vincere il Premio Viareggio Poesia 2010, insisti sulla parola e sull’oggi “Così come oggi tanti anni fa / mandate a dire all’imperatore / che tutti i pozzi si sono seccati / e brilla il sasso lasciato dall’acqua / orientate le vostre prore dentro l’arsura / perché qui c’è da camminare nel buio della parola”. Una paura questa, un timore esistenziale per quello che ti circonda – ci circonda –, e che tu stesso in qualche modo sei alla ricerca di esorcizzare anche per noi, con una energia poetica gettata fuori da te: “Ho condotto fuori da me la mia paura, l’ho versata sulla testa dei miei nemici”. O l’altra paura, questa ben più concreta: il ricordo indelebile di quel terribile incidente di gioventù, quando la moto su cui viaggiavi, guidata da un compagno più anziano, si è schiantata contro la parete di roccia della montagna. A 16 anni ero un buon centometrista, mi seguiva Ovidio Bernes, una leggenda dello sport udinese. Era stato campione italiano di salto in alto negli anni Cinquanta e noi ragazzini lo chiamavamo suste (molla, in friulano) per via della straordinaria elevazione di cui era capace anche in età ormai avanzata. Si presentava al campo con un paio di pantaloni di velluto a coste e delle logore polo, qualche volta con delle camicie a scacchi, tutto il contrario degli allenatori cui siamo abituati adesso, al collo aveva un fischietto e un antiquato cronometro a mano. Quell’uomo mi ha insegnato il rispetto dell’avversario, che gli unici con cui dobbiamo fare i conti siamo noi stessi, che colui che corre spalla a spalla con te non è un nemico, ma il te stesso che devi superare anche quando ne vedi la schiena perché la gara per te è finita male. Per lui il totem del “risultato” non aveva alcun valore e forse proprio in virtù di questi presupposti è riuscito a formare degli ottimi atleti, che hanno avuto una ribalta anche internazionale. Con lui l’atletica la si amava e si imparava a mettere in sintonia il proprio corpo con lo spazio che stava intorno

A Chiusaforte, un puntolino infilato nel Canal del Ferro all’estremo nord-est del Friuli sono andato con Pierluigi alla guida della sua piccola vettura. Qui ha vissuto quasi tutta l’infanzia e la giovinezza. Il paese, poco più di 700 abitanti, è tutto raggomitolato sul fianco della montagna, da dove si fa fatica a raccogliere con lo sguardo squarci di cielo. Negli anni Cinquanta parte di questa gente si incolonnava tutte le mattine per andare a lavorare nella minie65


nuova rivista letteraria ra di zinco e piombo di Cave del Predil, più a nord, al confine con l’Austria. Chi non riusciva ad infilarsi nel terribile Pozzo Clara della Miniera di Raibl, era costretto all’emigrazione. Come Antonio, tuo padre che ricordi in alcuni versi così “...un uomo di mezza età / raccolto, gli zigomi alti, la bocca larga / pronta alla vita, il collo di un cavallo da tiro” e che per anni se n’è andato a lavorare in Svizzera. All’arrivo è subito festa: ci aspetta Latino che conosce bene Pierluigi da quando era bambino e gli fa volentieri da spalla. Al Bar del paese subito alcune persone si fanno incontro a salutare “il nostro grande poeta”. Un’anziana donna lo saluta con un “mandi frut” dalla finestra del primo piano. Una bambina, Sara, che ha sentito parlare di lui e visto il suo volto in televisione e sui giornali, non si intimidisce e gli si siede accanto.

contraccolpi anche di carattere antropologico. La Miniera, come la chiamavano a Chiusaforte, nelle parole di mio padre aveva raggiunto una consistenza leggendaria era l’extrema ratio. Qualcosa che era un bene che ci fosse (per via delle prospettive di lavoro che rappresentava), ma da evitare in ogni modo possibile per la durezza delle condizioni. Mio padre non ci lavorò mai, anche se, proprio per evitarla, affrontò condizioni di lavoro secondo me ancora peggiori. In ogni caso era una presenza incombente. Forse per questo è rimasta ben viva nel mio immaginario.

Vivere a Chiusaforte prima del terremoto del 1976 significava essere immersi in una civiltà pre-industriale. Per lungo tempo il Friuli è stato una delle aree depresse del nostro Paese, moltissimi friulani hanno ingrossato le file dell’emigrazione, l’ultimo esodo avvenne durante i primi anni Cinquanta; le mete erano, quando andava bene, il Belgio, la Svizzera, la Francia, la Germania; altrimenti l’Australia e l’Argentina, e in questi ultimi casi l’addio era per sempre. Chi rimaneva, rimaneva in gesti congelati da secoli: raccogliere e cernere la legna, cercare di cavare qualcosa da orti aggrappati ai pendii, litigare per pochi centimetri di terra buona strappati ai vicini, perché in montagna la terra buona è scarsa e ci vuole una pazienza infinita per far crescere i frutti della terra in quei posti, pazienza e cura: gli uomini di quelle comunità erano uomini aspri che sapevano di vino e sudore, continuamente sospesi tra meschinità e slanci sublimi; la morte, il dolore, la debolezza, non erano rimossi, ma compresi nella vita stessa e la presa sulla natura era salda, si nasceva e si moriva in modo diverso, fra le quattro pareti domestiche. Io stesso ho partecipato da piccolo a interminabili veglie funebri, costretto da mia nonna; i morti li si vedeva – e li si toccava – già da bambini e vivi e morti insieme erano stretti in un anello che faceva la comunità. Poi, con il terremoto, quell’anello si è spezzato, siamo stati scaraventati sulle prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo e se il sisma ha significato la distruzione e il lutto è anche stato la porta per la quale hanno fatto irruzione il benessere, la comodità dei bagni in casa, la possibilità di scolarizzazione, e, con le nuove opportunità di lavoro, un nuovo esodo, questa volta dalle montagne alla pianura. Per quanto dura, misera, la vita che innervava la cultura contadina e artigianale era pur sempre un modo di stare nel mondo che, dopo millenni, è franato in poche decine di anni e questo fatto ha avuto

Ci leggeva la Chanson de Roland, Omero, Ariosto… con il fascino di una formula magica. Prova ad entrare e immaginare di stare dentro la testa di un bambino che viveva in un piccolo paese di montagna e che voleva volare. È stata una epifania. Da allora l’Epica mi ha sempre attratto. Epos è la risoluzione, la condensazione in un singolo gesto di una intera sorte umana. Ettore e Achille raddensano in sé una intera civiltà e risolvono il loro stare con il mondo in un solo gesto. Ettore che secondo me è tre volte uomo, perché per tre volte fugge davanti ad Achille…ma è la sua debolezza che gli fa vincere la paura e affrontare un avversario palesemente più forte di lui. La sua debolezza è la sua umanità. E l’altro episodio, quello di Andromaca, dove si sfila l’elmo simbolicamente per allontanare la pressione della guerra che preme sulle porte di Troia… Lo sfilarsi l’elmo è un gesto di pace. Ettore fa dono della propria debolezza. Ho sempre privilegiato la figura di Ettore.

Di Chiusaforte hai un ricordo particolare, se non mi sbaglio: un evento che fu per te come una rivelazione, quella giovane professoressa delle medie, Mariarosa Famiglietti, che arrivava da Roma...

Radici insomma, anche se oggi sembra che le ali siano più di moda: viaggi acceleratissimi ci portano lontano, e ci disperdono nella mondializzazione. Ma il suono anche di una sola parola tende a ricondurci nel paese del riconoscimento, nell’Heimat, la piccola Patria. E forse non è un caso che dagli anni Settanta in poi abbiano ripreso fiato i dialetti in letteratura: soprattutto in poesia hanno ripreso una funzione rilevante. E tu come Pasolini scrivi anche in friulano. Ecco che qui si innesta quello che una parte dei politici italiani specialmente nel nord chiamano “la tradizione”; il più delle volte con riferimenti di continuità con un passato storico – i Celti per esempio – a volte opportunamente selezionato. E la lingua, il dialetto, diventa madre di questa tradizione. 66


DE MARCO

Luciano Berio, Teatro Comunale di Bologna, 1992

Eric J. Hobsbawm afferma che le “tradizioni” che decidiamo essere nostre e antiche hanno spesso un’origine recente o addirittura talvolta sono inventate di sana pianta.

le hanno un’intelligenza propria, le parole ci “parlano” e tante volte non ne siamo che gli agenti. Conoscere più lingue, averle radicate in noi, è una straordinaria opportunità di pronunciare in maniera il più possibile completa il proprio io, è per questo che uso entrambe le mie lingue nel fare poesia. Inoltre, le parole affondano le proprie radici nel tempo. Quando sono scritte costituiscono una tradizione, ed è perfino una banalità dire che la tradizione, per essere tale, presuppone un amoroso tradimento. La tradizione è qualcosa di dinamico che si muove con il tempo e lo contiene, e si arricchisce via via con ciò che ne sta fuori, non è un’imperturbabile linea retta sbucata dalla notte della storia e diretta intatta come una lancia dentro il futuro. La tradizione non si chiude, non esclude, ma apre, e quando sento proporre alla lunga certe idee di “tradizione” da cartolina turistica, non posso essere d’accordo. Non è che i friulani siano più friulani se parlano solo il friulano. E poi, le parole asservite all’ideologia o, peggio, a tattiche di breve respiro, mi fanno paura. Se questo Paese ha una possibilità, tale possibilità risiede in come riuscirà a integrare, comprendere, le etnie e i popoli di cui è composto, non certo irrigidendosi nella paura dell’altro.

Chi scrive sa bene quanto conti trovare parole pertinenti a ciò che si vuole dire, parole che aderiscano al pensiero espresso in maniera del tutto naturale, come fa la corteccia con il tronco. Io sono nato in Friuli e ci vivo, e parlo ogni giorno in friulano e in italiano, in una condizione di bilinguismo perfetto. Ci sono interi mondi che si possono esprimere soltanto in friulano e mondi altrettanto vasti che richiedono l’uso dell’italiano. Il friulano, ma ciò vale per qualsiasi lingua, non ha a portata di mano per l’uso immediato tutti i vocaboli per dire la modernità: è, invece, efficace nel descrivere i fenomeni naturali. Salustri, per esempio, significa quell’istante di lucentezza, quel respiro di azzurro che si apre tra due temporali ma anche quello sprazzo di lucidità che ha un uomo prima di morire. Tradurre la parola salustri in italiano sarebbe come ripulirla dal tempo accumulato, come estirpare una radice e non voler accettare tutte le forme residuali che porta con sé, spogliarla dal suo giacimento. Salustri è l’esempio di questa linea senza soluzione di continuità tra la biologia e la meteorologia. Lavoro da sempre sulla parola e ho capito che le paro-

Certo a ben osservare questo fenomeno ideologico di “tattiche di breve respiro” da cartolina leghista – senza 67


nuova rivista letteraria dimenticare quanto ha attinto dai delusi della sinistra saccheggiando nel suo patrimonio, e spingendo sul sogno dell’arricchimento individuale – di contraddizioni da quattro soldi ne possiamo trovare quante ne vogliamo. Prendiamone una simbolicamente importante come esempio: il crocefisso e le “radici cristiane”. La Lega impugna la spada delle Crociate, ma poi si dà a riti che sembrano più pagani che cristiani, come quelli che esaltano il dio Po o i matrimoni celtici con inni a Odino. Oppure, a caso, Mister B. e il berlusconismo di conseguenza: il piduista pontifica sulle “radici cattoliche” facendo del suo comportamento scempio e della parola bordello: costruendo un linguaggio furfantesco che serve a programmare neurolinguisticamente l’audience. Un istinto padronale il suo, che non misura la partita in termini politici ma di comando, dove anche le informazioni veritiere vengono distribuite per sovrana concessione. Negli anni ’80 in “Lessico famigliare” Natalia Ginzburg, atea ed ebrea, scrisse: “Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. È l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza – uguaglianza! – fra gli uomini fino ad allora assente… Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli scolari ebrei? – o musulmani – Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato morto nel martirio come milioni di ebrei nei lager? Nessuno prima di lui aveva mai detto che gli uomini sono tutti uguali e fratelli”. È un’immagine vivente di libertà e umanità, di sofferenza e speranza, di resistenza inerme all’ingiustizia…

Dopo un po’ che eravamo lì, ci avvicina un africano, appesantito da una grossa borsa da viaggio e, come succede di norma, ci propone le sue chincaglierie; facciamo un po’ di resistenza, alla fine concordiamo per l’acquisto di una manciata di accendini, cinque, per essere precisi, pagati cinque euro. Si vede che sono le prime cose che vende in giornata (e sono già le undici) perché gli allungo una banconota da dieci e lui è costretto a entrare in bar per farsela cambiare e darmi il resto. Lo ritrovo con lo sguardo qualche minuto dopo, a pochi passi da me: è davanti a due anziane signore, i tre sono specchiati dalla vetrina di un elegante negozio di scarpe e da dove sono io si percepisce uno scambio di battute; poi le due donne si scompongono in un’esplosione di insulti, rapida, violenta, quel che si dice una piazzata. L’africano se ne va, un’ombra, meno di un’ombra inseguita da un “torna da dove sei venuto” carico di odio. La scena è avvenuta in pieno giorno, in una piazza animata di un piccolo centro di provincia e chi ha aggredito sono state due signore avanti negli anni, perfettamente normali secondo i canoni della nostra società. Di tutti i presenti, me compreso, nessuno è intervenuto, nessuno ha richiamato le due donne, la violenza verbale appena esplosa è stata digerita dalla piazza come un evento ordinario. Tornato a casa, mi sono interrogato in primo luogo sul perché non sono intervenuto e le ragioni che mi sono dato non sono confortanti. Semplicemente, non volevo turbare con un alterco l’appuntamento con il mio amico, laboriosamente concordato da una settimana. Tutto qui. È la banalità di questa ragione e di milioni di ragioni simili a queste che dovrebbero metterci dentro una certa inquietudine. L’odio ha gioco facile nel farsi strada quando la resistenza delle nostre coscienze cede davanti a motivi così ordinarî. Il male si nutre di banalità e al tempo stesso le produce, come sappiamo. Un’altra questione che mi è affiorata quel giorno è questa: l’aggressività così esposta delle due anziane signore si può ricondurre a un aspetto ancestrale dell’essere umano e cioè la difesa istintiva, darwiniana del proprio territorio? Insomma, in altro contesto sociale, le due signore si sarebbero comportate nella stessa maniera? Sì e no, mi sono detto. In una società diversa, dove (imma-

Chi scrive sa bene quanto conti trovare parole pertinenti a ciò che si vuole dire, parole che aderiscano al pensiero espresso in maniera del tutto naturale, come fa la corteccia con il tronco.

Alcuni giorni fa, in compagnia di un amico, ho fatto una passeggiata a Tricesimo; faceva molto caldo, così, una volta raggiunta la piazza, abbiamo deciso, il mio amico e io, di fermarci in un bar per gustare un gelato. Il centro di Tricesimo non è brutto, è un borgo che tradisce le sue origini contadine, e conserva in qualche modo una specie di austera nobiltà che non disturba. È piacevole, d’estate, fermarsi a un tavolino, magari leggere le notizie del giorno e poi divagare, facendosi accarezzare dai minuti che passano, una volta tanto senza una direzione ben precisa. 68


DE MARCO giniamolo per assurdo) i modelli culturali dominanti tenessero conto delle diversità, proponessero il concetto di diversità come un valore, probabilmente la reazione violenta delle due sarebbe stata più sorda, più contenuta, perché è nota la funzione inibitoria che può avere un’idea largamente condivisa. Ecco, in tutti questi anni la Lega mi pare abbia, quando non alimentato, almeno liberato una rabbia istintiva di rancorosa autodifesa dall’altro. La sua messa in scena giorno per giorno (i fucili di Bossi, ricordi?) magari in forma di boutade, l’ha resa possibile e si è insinuata, insediata e giustificata nelle pieghe della società. La nota polemica intorno al crocifisso si colloca in questo quadro di lacerazione sociale. È facile rilevare una contraddizione palese tra matrimoni celtici, invocazioni a un improbabile dio Po e, nel contempo, difesa integrale, o meglio integralista, del simbolo più alto del cristianesimo. Tale contraddizione, sul piano dei concetti è ricomposta, a livello meramente strumentale, dall’esigenza della Lega, ma non solo, di utilizzare i simboli quali marcatori di separatezza, che sia il dio Po o la figura di Cristo in questa ottica importa poco. L’importante è la conquista, mi auguro momentanea, di spazi di consenso e, quindi, e comunque, di potere. Ma se tu metti sullo stesso piano il dio Po e il simbolo universale della gratuità e li accomuni in una funzione di contrasto a ogni diversità, avviene un fenomeno inquietante: la reificazione del simbolo: il crocifisso da simbolo universale (che è di tutti) si riduce a insegna (che è soltanto di una parte). E ciò diventa possibile quando si pensi che viviamo in una società che è preda di una smemoratezza apparentemente immedicabile, innescata dal sistema mediatico. Paul Ricoeur in occasione della guerra in Jugoslavia scrisse queste parole: “L’Europa è sospesa tra un eccesso di memoria e un eccesso di oblio”: dove l’eccesso di memoria era da imputarsi ai responsabili del conflitto nei Balcani, che avevano rispolverato contese territoriali vecchie di secoli per fomentare l’odio, mentre l’eccesso di oblio era da ascriversi alla parte opulenta dell’Europa, che in quella circostanza dimenticò ciò che era accaduto soltanto mezzo secolo prima. Penso che un ritratto più lucido del vecchio continente non si potesse dare. E che mostri tutta la sua sconcertante attualità anche oggi. Ha ragione Predrag Matvejevic´, quando dice che bisogna “difendere” la memoria ma anche “difendersi” dalla memoria.

le, contiene in sé gratuità: parola questa scandalosa in tempi dominati dagli interessi di mercato, dove tutto è in vendita compresa un’umanità messa all’asta e dove persone dotate di lealtà e di azione ‘politica’ sembrano scomparire per lasciare spazio ad aggressività e cinismo aziendale che trasformano gli esseri umani in un getto di psicopatici. Una condizione che Luigi Zoja – psicanalista – chiama “psicopatia di successo” o “perversione morale permanente”, aggiungendo anche che è una condizione “difficile da redimere”. La poesia, la lirica, l’epos percorrono altri sentieri e portano con sé, come tu dici, la gratuità che secondo te contiene anche una sua “forma di sensualità”. Da non confondere, immagino, con la nudità di freschi pezzi anatomici accatastati e messi in bella mostra un po’ dovunque in questa nostra vetrina MediaSetItalia, con vuote forme spettacolari che allontanano sempre di più la possibilità del formarsi di una coscienza critica e riflessiva. “Un dono anche piccolo è caro, diceva Nausicaa, antenata di Maria Maddalena per sensibilità e dolcezza”. Il dono, la gratuità avvicinano: diventano scambio. Vuol dire dare ma anche ricevere. Segnano un equilibrio nel rapporto di prossimità. La gratuità redistribuisce. Comprendere questo, nel senso di portare con sé, mi pare diventi oggi un fatto rivoluzionario che cerca di accomunare tutta l’umanità. “Si è la coda dell’esercito in fuga / o la fronte dell’altro che incalza / qui resistere significa esistere / la speranza è il colore dei morti / nelle tuniche stracciate dal vento”. Una volta che il testo esce, quel testo non è più mio. Un uomo che scrive versi è nel contempo schiacciato da una direzione diacronica, passato-futuro e da quella sincronica che è il presente. Il luogo del poeta è quello di starne al centro, subendo pressioni enormi. In qualche modo devi essere tu e non esserlo… e questo ti dà la forza di non porti il problema del per chi scrivere, considerata anche la sconfortante assenza di lettori. È in virtù di questo stato di compressione che si scrive, per questo cerco di scrivere sempre in gratuità. La poesia si può imparare a memoria. È così che diventa di tutti. È una forma di resistenza perché ti insegna a sentire le cose senza appropriartene: illumina le cose da dentro e le libera. La vera poesia, in qualsiasi modo si esprima è sempre fuori mercato. Ed è pericolosa, e disturba il potere.

“La poésie ne se vend pas, donc la poésie n’a plus d’importance. La poésie n’a plus d’importance, donc ne se vend pas” ha scritto recentemente, tra le altre cose, Jacques Roubaud su “Le Monde Diplomatique”. La poesia, mi è sempre parso di capire dalle tue paro-

“Magicien de l’insécurité” diceva René Char, il poeta della luce solare, come lo chiamò Camus. Come 69


nuova rivista letteraria Scrivere poesia è una caccia al buio. Devi, prima di tutto, dotarti degli strumenti della caccia, conoscere il più estesamente possibile tutte le malizie retoriche, sapere quale è la sostanza fonica dei versi (sì, parlo proprio di “sostanza”) cogliere la linea di conflitto che si sviluppa tra “istituzione” (il metro) e “individuo” (il ritmo) e anche quando hai imparato tutto questo sei solo, nella tua caccia, sprofondato nel buio. Perché la poesia è un fenomeno, né più né meno che una grandinata, una tempesta, una brezza sottile. È l’unicorno che decide solo lui quando e dove apparire. Allora a chi scrive poesia resta la postura all’ascolto, un modo di essere nella parola, nei segni, che favorisca l’incontro. E quando dico che scrivere è coltivare con ostinazione e con cura il proprio fallimento, alludo a uno dei mandati propri della poesia: che è quello di raccogliere in sé almeno una scintilla di assoluto. Ecco il principio della speranza. Purtroppo siamo umani e, quindi, immersi in un mondo di relativi: cadiamo sempre a un passo dall’assoluto. Ma il fallimento conseguito è impegnativo e vitale. Pensa all’Ulisse di Dante.

dire che nonostante l’incertezza e il limite bisogna avanzare comunque, senza cercare spiegazioni o definizioni ultime. A partire dal denudamento, dalla debolezza, dal dubbio. Dal mistero perturbante della realtà che alle volte si frantuma durante il cammino. Dal balbettio dello stare al mondo che però tra le mani del poeta si trasforma in coniglio tirato fuori dal cilindro. Ma anche: “Scrivere versi è preparare con ostinazione e con cura il proprio fallimento, portarne tutto il peso...”. E in ‘Canto d’aprile’, invece, quasi un’ode al “principio speranza”: “Noi cantiamo perché teniamo duro / il nostro morire è per il nascere dei figli / quando cantiamo alziamo lontano / dal buio del bosco al cielo d’aprile / il fuoco del nostro sangue, per il domani”. Momenti di sconforto e momenti di speranza: “Andare più avanti degli altri senza escludere nulla” diceva ancora Camus di René Char.

John Lee Hoocker, Imola, 1987 70


DE MARCO Nota biobibliografica Pierluigi Cappello è nato a Gemona del Friuli nel 1967. Originario di Chiusaforte / Scluse, nel Canale del Ferro, vi ha trascorso l’infanzia e la fanciullezza. Da questi luoghi hanno preso ali molte sue poesie. Attualmente vive a Tricesimo. Ha compiuto gli studi superiori a Udine. Un incidente ha interrotto una promettente attività sportiva nell’atletica leggera, un mondo nel quale ha avuto la fortuna di incontrare Ovidio Bernes, saltatore in alto grande atleta e soprattutto maestro di vita per molti ragazzi friulani dei quali è stato allenatore. Pierluigi Cappello ha frequentato la Facoltà di Lettere presso l’Università di Trieste. Nel 1999, con altri poeti ed amici ha fondato e diretto per alcuni anni “La barca di Babele”, una collana di poesia edita dal Circolo culturale di Meduno (Pn) ora in collaborazione con il Circolo culturale Menocchio di Montereale Valcellina. Giunta al sedicesimo volume, accoglie autori dell’area friulana, veneta e giuliana. Ha pubblicato: Le nebbie, Campanotto, Udine 1994; La misura dell’erba, I.M. Gallino, Milano 1998; Il me donzel, Boetti, Mondovì 1999; Amôrs, Campanotto, Udine 1999; Dentro Gerico, Circolo culturale di Meduno (Pn) 2002; Dittico, Liboà, Dogliani 2004. Nel 2006 ha curato, per l’Associazione Colonos di Villacaccia di Lestizza (Ud), l’iniziativa e l’antologia/documento che ne è derivata I colôrs da lis vôs, cioè i colori delle voci della poesia contemporanea in Friuli. Gran parte dei versi di Pierluigi Cappello sono stati raccolti in Assetto di volo, Crocetti, Milano 2006. Nel 2008 sono usciti il quadernetto Con il rumore di sempre, nella Collana “Poesia in viaggio” del Circolo culturale Menocchio e Il dio del mare: prose e interventi 1998-2006, Lineadaria editore, Biella. Pierluigi Cappello ha anche il merito di saper divulgare, con avvincente chiarezza, la poesia in incontri nelle scuole, in corsi tematici di approfondimento all’Università e in numerose manifestazioni pubbliche. È stato uno dei promotori della iniziativa avviata dal Comune di Pordenone, e prontamente fatta propria dalla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e da numerosi studiosi ed Enti pubblici, a sostegno del conferimento, da parte della Presidenza della Repubblica, dei benefici della Legge Bacchelli al poeta di Andreis Federico Tavan. Ha vinto, tra gli altri, i premi Montale (2004), Pisa (2006), Bagutta-Opera Prima (2007) e San Pellegrino (2007). Nel 2010, infine, è uscita da Crocetti la raccolta Man-

Daniele Luttazzi, Bologna, 1992

date a dire all’Imperatore, Premio Viareggio Poesia 2010. Pierluigi Cappello è voce alta della poesia del dopo Pasolini. Una voce che ha varcato, con pieno merito, i confini regionali. A Barcis (Pn), l’11 luglio 2010, la Provincia di Pordenone e il Premio letterario nazionale G. Malattia della Vallata hanno reso omaggio a “Pierluigi Cappello, poeta in lingua friulana e italiana,che ha saputo dare alta e apprezzata voce con la parola scritta e detta a persone e luoghi, facendoli diventare anche nostri, in una stagione della poesia nella Regione Friuli Venezia Giulia e nella provincia di Pordenone, particolarmente feconda e innovativa.” Per tale occasione è stato anche ristampato e diffuso il quaderno Voci nella mia voce, una conversazione sulla poesia e sul far poesia (3 dicembre 2007) tra Pierluigi Cappello e gli alunni delle classi Quinta A e Quinta B della Scuola primaria di Tarcento (Ud). 71


Fats Domino al Blues Festival, Pistoia, 1980


e artisti cosiddetti migranti si sono interrogati sulla loro “recente” identità europea proprio a partire da un confronto con lo spazio che hanno scelto o si sono trovati a occupare. ❞

letteRatuRa, aRte, miGRazioni

Antonio Albanese, Bologna, 1992

❚ Una nuova geografia per l’Europa

L

di Francesco Cattani

e mappe non si limitano a descrivere un luogo geografico, ma veicolano le narrazioni e i discorsi di chi le disegna o le commissiona. Nel corso della Storia il linguaggio della cartografia ha creato, dove necessario - dove prima non c’era - proprietà. Ancora oggi esso tende a una sicura e rassicurante omogeneizzazione in cui tutto e tutti possono essere immediatamente riconosciuti e riconoscibili in una posizione propria: esso determina quello che è dentro e quello che è fuori, quello che è “uguale” e quello che è “differente”. In questo senso la cartografia ufficiale europea può essere considerata come una forma di conoscenza, in grado di codificare, normalizzare e quindi neutralizzare il diverso secondo standard europei. La nuova configurazione sviluppatasi a seguito del trattato di Schengen (1985) e la graduale abolizione dei confini nazionali per stimolare il libero scambio delle merci e dei consumi ha però determinato il bisogno di creare nuovi parametri per fissare i limiti di un’area cambiata: ai sistematici controlli “esterni” si sono dovuti sostituire altre forme di controllo “interne”. Contemporaneamente, la presenza sempre più consistente di “nuovi europei” ha portato a una necessaria ri73

RIFLESSIONI

❝ Molti scrittori


nuova rivista letteraria

Riccardo Muti, Teatro Comunale di Bologna, 1989

definizione del continente e, di conseguenza, a una revisione dei suoi territori: ecco allora che quando il cartografo non è più Robinson Crusoe ma il migrante, le mappe si trasformano da strumento di gerarchizzazione a strumento di de-gerarchizzazione e di nuove ricollocazioni. Molti scrittori e artisti cosiddetti migranti si sono interrogati sulla loro “recente” identità europea proprio a partire da un confronto con lo spazio che hanno scelto o si sono trovati a occupare. Basti considerare la Londra dello scrittore/commediografo/sceneggiatore Hanif Kureishi, uno spazio in continuo movimento in cui gli elementi che lo hanno caratterizzato sino a quel momento sono costantemente contestati da una serie di figure più o meno

“strane”, giunte da tutti gli angoli del mondo proprio per ri-occuparne il centro. La consapevolezza di essere “diversi” - o di provenire da un ambiente diverso - ha spinto e stimolato questi artisti a esaminare il loro spazio in termini di dislocazioni e ricollocamenti. Nelle loro opere la linearità e la fissità delle frontiere sono sconvolte e la geografia diventa l’espressione artistica di una nuova identità europea. Ri-scrivendo e ri-disegnando lo spazio geografico, e quindi culturale e politico, europeo, essi affermano il loro diritto a essere differentemente europei e, soprattutto, a non essere “posizionati” all’interno di coordinate decise per loro aprioristicamente da qualcun altro. Per utilizzare le parole di Amitav Ghosh in The Shadow Lines (Le linee d’ombra), romanzo in cui 74


la fantasia e l’invenzione offrono la possibilità di liberarsi da quelle griglie all’interno delle quali lo sguardo ufficiale tende a rinchiudere il diverso che proviene dall’altrove: “Dovevamo provare non perché l’alternativa fosse il vuoto, ma perché non saremmo mai stati liberi dalle invenzioni degli altri…”1. Essi lavorano allo stesso tempo sui (e attraverso i) segni e i codici ufficiali per creare delle contro-geografie, partendo proprio dal loro essere “fuori luogo”: come le riscritture postcoloniali, le loro azioni sono delle riletture creative che cercano di supplire a quello che la mappa ufficiale ha trascurato o taciuto. Questi continui atti di produzione e riproduzione, di trasformazione di nazioni storiche in comunità transnazionali, questo continuo fare e disfare portano a una disarticolazione e riarticolazione dei confini e dei loro significati simbolici. Routes, ad esempio. Una serie di opere in cui Mona Hatoum (artista libanese di origini palestinesi, trapiantata a Londra) riempie con inchiostro e penna le aree create dalle linee aeree tra diversi Paesi e continenti. Il risultato trasforma la terraferma in una nave le cui vele incarnano un senso di instabilità, ma anche l’idea di uno spazio non come qualcosa di fisso e ancorato, ma come un’entità culturale in costante e progressivo cambiamento. Emergono strane configurazioni: se la mappa, per tradizione, tende a ridurre tutto alla sua superficie esterna e alla sua visibilità, spetta a una nuova forma di cartografia riempire questo spazio con profondità. La loro azione combina elementi contrastanti e inaspettati ed è capace di scoprire e svelare strade e percorsi diversi. Le opere dell’artista rom Damian Le Bas si situano proprio in questo interstizio tra inclusione ed esclusione, tra visibilità e invisibilità. Le sue nazioni, regioni, città dipingono una sotto-storia che attraversa diversi luoghi e diversi momenti storici. Esse aprono uno squarcio nella superficie europea partendo proprio dalla posizione di Le Bas come rom - membro quindi di una minoranza tra le minoranze, la cui presenza è sempre stata cancellata, negata o espulsa.

Si tratta a un’operazione simile a quella di Caryl Phillips nel suo resoconto di viaggi The European Tribe (“irrispettoso” sin dal titolo, che tende a ridimensionare la grandezza con cui l’Europa guarda se stessa) e Bernardine Evaristo nel suo romanzo in versi Soul Tourists, i quali, seppur in maniera diversa, ripercorrono alcuni itinerari europei ricercando e riportando alla luce i segni di una presenza “nera” spesso cancellata. Lo spettatore si ritrova a confrontarsi con realtà che allo stesso tempo riconosce e non conosce: questo spazio transnazionale, in cui le “vecchie” mappe sembrano avere perso la loro funzione ed efficacia rendendo indispensabile la ricerca di nuove forme di orientamento, corrisponde perfettamente all’immagine di uno spazio contemporaneo che si muove costantemente, ridisegnandosi e ridisegnato da forze collettive e nuove figure - in bilico tra nazioni e il loro superamento. Un’Europa alternativa è quella che troviamo in quasi tutti i cosiddetti romanzi di migrazione. Per fare un semplice esempio, il romanzo Minaret (Minareto) di Leila Aboulela si apre con una tradizionale descrizione di Londra a inizio autunno, ma il primo elemento architettonico che appare non è il Big Ben, bensì il minareto della moschea di Regent’s Park, che diventa nel corso della narrazione una sorta di faro che i personaggi seguono per orientarsi nel paesaggio urbano. Oppure l’installazione A fictional Tourist in Europe di Keith Piper (uno dei primi artisti black British), il quale crea un potente effetto di straniamento rappresentando una guida dell’Europa in cui le tappe principali del viaggio di migrazione clandestina verso le economie sommerse sono riportate come una sorta di viaggio turistico. Le nuove mappe, pur nella loro fissità, diventano testi capaci di registrare i movimenti di una nuova realtà; di narrare la storia e le storie di persone, di intere comunità, nonché di un intero continente: non più strumenti di organizzazione e definizione spaziale, ma appunto di revisione culturale e creativa.

“Dovevamo provare non perché l’alternativa fosse il vuoto, ma perché non saremmo mai stati liberi dalle invenzioni degli altri…”

1 Amitav Ghosh, Le linee d’ombra, Torino, Einaudi, 1998, p. 42. 75


Miles Davis, Umbria Jazz, Perugia, 1987


MEMORIE i piccoli seGReti di seRGio atzeni

❚ Quei profetici versi Jack De Johnette, Chiostro di San Martino, Bologna, 1982

di Marcello Fois

N

on è facile tracciare una sintesi dell’influenza che Sergio Atzeni ha esercitato nella generazione di autori, sardi o meno, che l‘hanno seguito. C’è il problema della sua scomparsa, prematura, da lui, in qualche modo, prevista. Scomparsa letteraria descritta punto per punto da T.S. Eliot: Phlebas the Phoenician, a fortnight dead, Forgot the cry of gulls, and the deep seas swell And the profit and loss. A current under sea Picked his bones in whispers. As he rose and fell He passed the stages of his age and youth Entering the whirlpool. Gentile or Jew O you who turn the wheel and look to windward, Consider Phlebas, who was once handsome and tall as you.1

1 Phlebas il Fenicio, morto, da quindici giorni Dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare, E il profitto e la perdita. Una corrente sottomarina Gli spolpò l’ossa in sussurri. Come affiorava e affondava Passò attraverso gli stadi della maturità e della giovinezza Procedendo nel vortice. Gentile o Giudeo O tu che giri la ruota e guardi sopravvento, Considera Phlebas, che un tempo fu bello, e alto come te.

77


nuova rivista letteraria Questo gruppo di versi da “La terra desolata” erano, prato su cui si distendevano le nuove generazioni. racconta la vulgata, appesi alla sua libreria, e questo Perché diceva, e Faulkner era d’accordo, il compifoglietto, stropicciato, offeso dal tempo, lo seguiva di to primo di una Scrittore era quello di guadagnarsi trasferimento in trasferimento. Era un’anima santal’immortalità. Ogni altra gara, ogni altro tentativo mente inquieta Sergio Atzeni, assai meno pragmatico era inutile. Inutile persino l’approvazione dei propri di quanto certa critica ordinatrice, locale, aggredita tempi se non si aveva una mira più alta. Proust del dai sensi di colpa, voglia far credere. suo libro è morto, annegato anche lui nel tentativo di Il 6 settembre 1995, dunque, il destino di Phlebas e dimostrare che tentare di ricostruire l’universo è una quello di Sergio Atzeni finiscono per coincidere, per forma di hybris imperdonabile. davvero: un’onda anomala rese I doni che Sergio Atzeni ha laimpossibile qualunque salvasciato sono piccoli segreti: non taggio, trascinandolo in balìa vergognarsi, non travestirsi per I doni che Sergio Atzeni della risacca; per davvero i suoi ingannare se stessi, non concecari lo videro arrancare al larpire la scrittura come territorio ha lasciato sono piccoli go e poi paurosamente rasente di autocompiacimento, non segreti: non vergognarsi, gli scogli dell’isola di S. Pietro. dimenticarsi del lettore, non Proprio lui che dicevano essere genuflettersi al lettore. Piccoli non travestirsi per un nuotatore esperto, instansegreti che ha appreso da qualingannare se stessi, non cabile. Uno di quegli sciamani cuno prima di lui, e che, a sua concepire la scrittura che accettano con riserva quanvolta, quell’altro, aveva appreso to hanno la maledizione di sada un precedente. Come deve come territorio di pere. Ora che lui sapesse della essere per non morire. Come autocompiacimento, non sua morte è letteratura. E non deve essere quando si capisce credo ce ne voglia se proviamo che disporre un tassello cruciale dimenticarsi del lettore, ad addolcire quel tempo lunnel grande indistruttibile edinon genuflettersi al ghissimo di lotta tra la vita e ficio della letteratura è meglio la morte, con l’anestetico della che edificare una isolata capanlettore. Piccoli segreti che leggenda. na di paglia. I venti nuovi, semha appreso da qualcuno Lui, Sergio Atzeni, del resto pre più potenti, quella capanna l’aveva fatto sempre: non c’è la sbriciolano nel corso di una prima di lui, e che, a sua punto della controversa distagione, di un mese, di qualvolta, quell’altro, aveva mensione identitaria di noi che ora. appreso da un precedente. sardi, che non abbia sondato Questo abbiamo imparato ancol bisturi, dopo averci amoche da Sergio Atzeni che non Come deve essere revolmente anestetizzato con si vergognò di essere scrittore per non morire... qualche dose di epos. Abbiasardo, italiano, europeo, quanmo imparato anche da lui che do altri se ne vergognarono; in questa forma di estraneità che non finse di essere scrittore poteva derivare un’adesione prima di capire che sapeva scriassoluta; da questa piccola menzogna, una verità agvere; che non era mai soddisfatto di quanto faceva, ma ghiacciante. Chissà se, descrivendo la sua morte, egli ogni volta per lui rifare significava emendare; che non stesso avrebbe detto: “va bene, va tutto bene, era preha mai ammiccato al pubblico, né mai si è prostrato visto, era scritto”. E chissà se mentre arrancava per ad esso scrivendo quanto riteneva volesse leggere. raggiungere la riva che si allontanava ha pensato a Atzeni vive dieci anni di scrittura dal 1986 dell’Apologo quel foglietto, a quei versi, che passava da un appardel Giudice Bandito, al 1997 di Passavamo sulla Terra tamento all’altro fermato con una puntina da disegno Leggeri, un soffio nel corso dell’Era infinita della Scritnella sua libreria. Ci piace pensare che sia così, pertura, ma un soffio che conta. Conta assai più di molti ché in questo modo la morte di Sergio Atzeni smette mantici, scriventi, che, proditoriamente, lo millantadi coincidere con la morte dello Scrittore. Già perché no come padre putativo. Scrittore e Morte sono inconciliabili, dovrebbero esUn soffio delicatissimo molto più efficace di quanto serlo. A Proust piaceva pensare che dalla terra irrofiumi di pessima, provinciale, localissima critica sia rirata dal corpo dello scrittore scaturisse quello stesso uscita a mettere in evidenza. 78


RIPESCAGGI Paolo Conte, Teatro Duse, Bologna, 1986

un RicoRdo peRsonale dello scRittoRe maRsiGliese, pRecuRsoRe del noiR mediteRRaneo

❚ Elogio di Jean-Claude Izzo di Massimo Carlotto

R

icordare la figura e l’opera di Jean-Claude Izzo è sempre doloroso per chi l’ha conosciuto. Izzo era prima di tutto una bella persona. Impossibile non provare un’immediata simpatia per quell’uomo minuto dallo sguardo attento e curioso e con l’eterna sigaretta tra le labbra. L’avevo conosciuto nel 1995, a Chambéry, in occasione del Festival du Premier Roman. Izzo presentava Total Khéops, Casino totale. Lo comprai incuriosito dall’autore, un po’ distaccato e insofferente di un certo mondo culturale ma con una grande cultura letteraria, politica e musicale. Lessi il romanzo tra Chambéry e Torino dove si stava svolgendo il Salone del libro. Lo trovai bello e innovativo di un genere che finalmente cominciava ad affermarsi anche in Italia. Lo consigliai ai miei editori. E così i romanzi 79

❝ Hommes perdus d’autres ports, qui portez avec vous la conscience du monde... ❞


nuova rivista letteraria di Izzo arrivarono sugli scaffali delle nostre librerie. Lo incontrai sporadicamente, poi andai a Marsiglia per un convegno. Izzo non vi partecipò. Si trovava in ospedale. La gravità della malattia era nota a tutti. Marsiglia tifava per il suo autore preferito, tutte le librerie esponevano i suoi libri in vetrina. Poi, il 26 gennaio 2000 Jean-Claude se ne andò. Non aveva ancora 55 anni. Ci ha lasciato molti bei ricordi e romanzi straordinari che hanno dato vita al noir mediterraneo. Autodidatta, figlio di immigrati, un barman napoletano e una sarta spagnola. Dopo una lunga militanza nel giornalismo di sinistra, poeta, sceneggiatore televisivo e cinematografico, autore di numerosi saggi, Izzo aveva deciso di affrontare il noir con una trilogia marsigliese che ha come protagonista lo sbirro Fabio Montale. Casino totale, Chourmo e Solea. Montale, poliziotto figlio di immigrati e culturalmente integrato nel meticciato interetnico di Marsiglia, sceglie da che parte stare nella roccaforte del Fronte nazionale. «Ci stavo bene nel bar di Hassan» scrive in Solea. «Tra i frequentatori abituali non esistevano barriere d’età, sesso, colore di pelle, ceto sociale. Eravamo tutti amici. Chi veniva lì a bersi un pastis, sicuramente non votava Fronte nazionale, e non l’aveva mai fatto. Neppure una sola volta nella vita, come altri che conoscevo. Qui, in questo bar, tutti sapevano bene perché erano di Marsiglia e non di fuori, perché vivevano a Marsiglia e non altrove. L’amicizia che aleggiava qui, tra i vapori dell’anice, si comunicava con uno sguardo. Quello dell’esilio dei nostri padri. Ed era rassicurante. Non avevamo niente da perdere, avendo già perso tutto». Scrittura politica quella di Izzo. Nella tradizione del néo-polar francese capeggiato da Jean-Patrick Manchette. Ma, a differenza di Manchette, che non crede all’azione politica perché inefficace e condannata alla sconfitta e si limita a usare il noir come strumento di lettura del reale, Izzo va oltre. Il suo uso del noir non si limita a descrivere ma incide nel profondo delle contraddizioni, lasciando spazio alla riflessione sociologica, al ritorno alla memoria della sua generazione, soprattutto dando un senso al presente. Attraverso il viaggio interiore di Montale, dichiara la sua incrollabile fiducia nella possibilità di trasformazione, individuale e collettiva. Il punto politicamente irrinunciabile per Izzo è la cultura solidale. Tra gli sconfitti di ieri e i perdenti di oggi. Da questo punto di vista, Montale

è un personaggio straordinario. Entra in polizia per non rimanere un marginale dedito all’illegalità. Abbandona il gruppo di coetanei dalle molteplici differenze etniche ma non dimenticherà mai le sue origini che diventeranno la fonte del senso di colpa del suo ruolo di sbirro in una società sempre più intollerante. Un travaglio interiore che lo costringerà ad abbandonare la polizia e a diventare un solitario alla ricerca di una giustizia che non si trova nelle aule di tribunale. A spingerlo a ficcarsi nei guai è l’etica solidale e il desiderio, comune all’universo del meticciato etnico e culturale, di trovare un luogo e un momento per vivere serenamente. Izzo si considera un uomo mediterraneo, profondamente inserito nella storia di quel mare che ama osservare dal faro di Sainte-Marie ma è soprattutto marsigliese. Dice spesso che Marsiglia è il suo destino e cita i versi di Louis Brauquier: Hommes perdus d’autres ports, qui portez avec vous la conscience du monde... Non si tratta solo di amore sviscerato per la sua città ma di una concezione politica di appartenenza all’area del Mediterraneo che lo porta a battersi contro la trasformazione di Marsiglia in luogo di confine tra l’Europa del nord e i paesi del sud. Il nemico vero è la cultura dominante del nord che a partire dall’economia cerca e pretende l’omologazione. Nella rivendicazione del meticciato come unico tessuto sociale possibile, Izzo ripropone un’Europa nata ai bordi del Mediterraneo che, citando Glissant, ha un avvenire solo nello sviluppo della “creolità mediterranea”. Solea è la spina dorsale del flamenco ma anche un brano di Miles Davis. La musica, infatti, è una passione dell’autore. In particolare il jazz e quel miscuglio di ritmi mediterranei che caratterizzano l’attuale musica sudeuropea e nordafricana. In Izzo la musica non è solo ritmo o nostalgia ma anche una chiave per capire le differenze generazionali. Montale si confronta con il rap. Non lo ama ma riflette: «Rimanevo sempre sbalordito da ciò che raccontava. La giustezza delle intenzioni. La qualità dei testi. Non cantavano altro che la vita dei loro amici, a casa o nei riformatori...». 80


CARLOTTO

Mall Waldron, Osteria delle Dame, Bologna, 1983

Con Solea, Jean-Claude Izzo dà corpo all’intuizione politica che fonda il noir mediterraneo. Comprende che il nodo che il filone deve affrontare è la rivoluzione epocale che la globalizzazione dell’economia ha scatenato nell’universo della criminalità. L’inchiesta di Babette Bellini non è affatto la solita affermazione di superiorità della mafia e della collusione con i grandi poteri. Izzo definisce i confini del noir mediterraneo quando introduce nel romanzo la contraddizione principale tra crimine e società: “Il reddito annuale delle organizzazioni criminali transnazionali è di 10.000 miliardi di dollari, pari al prodotto interno lordo dei paesi in via di sviluppo”. La necessità di ripulire questa montagna di denaro sporco è alla radice dell’aumento vertiginoso della corruzione nelle istituzioni, nelle stesse forze dell’ordine e nell’alleanza strategica tra imprenditoria, finanza, politica e crimine organizzato. La società in cui viviamo è criminale nel senso che produce crimine e anticrimine in una spirale senza fine dove economia legale e illegale si fondono in un modello unico. Chiamate magari lo-

comotive come nel caso del nordest italiano. Il noir mediterraneo in questo senso esce dalla tradizione della critica all’esistente del noir francese e del romanzo poliziesco moderno. Il romanzo non racconta più solo una storia nera in un determinato luogo e in un determinato momento ma lo fa a partire da un’analisi ben precisa della criminalità organizzata. Altra intuizione di Izzo è l’individuazione dell’area mediterranea come centro geografico della rivoluzione dell’universo criminale. Un intreccio di alleanze di nuove culture illegali provenienti dall’Est e dall’Africa che assorbono o fagocitano le organizzazioni europee più deboli e intavolano trattative dirette col potere. Questo è il noir mediterraneo. Raccontare storie di ampio respiro. Raccontare le grandi trasformazioni. Denunciare e allo stesso tempo proporre l’alternativa della cultura della solidarietà.

Dalla prefazione a “Aglio, menta, basilico”, edizioni e/o, 2006. Per gentile concessione della casa editrice e/o. 81


RIPESCAGGI luci ed ombRe nella letteRatuRa dello scRittoRe cileno, scompaRso nel 2003

Max Roach, Palasport, Bologna, 1991

❚ I sentieri laterali di Roberto Bolaño di Bruno Arpaia

S

ono passati più o meno quindici anni da quando Jorge Herralde, il proprietario e direttore editoriale della spagnola Anagrama, decise di scommettere forte su uno scrittore cileno poco più che quarantenne, residente da anni in Catalogna, di nome Roberto Bolaño. Da allora, dalla pubblicazione di Estrella distante, amici scrittori e lettori di cui mi fidavo, spagnoli e latinoamericani, presero a magnificarmi i suoi libri, e io cominciai a leggere e perfino a recensire La letteratura nazista in America, Amuleto o Chiamate telefoniche. Interessanti, niente da dire; ma c’era qualcosa che non mi quadrava, che non mi convinceva fino in fondo. «Allora prova a leggere I detective selvaggi. Quello è il non plus ultra», insistevano gli amici e i lettori di cui sopra, specie dopo che il romanzo aveva vinto nel

1999 il premio Rómulo Gallegos, fra i più prestigiosi nel mondo ispanico, assegnato ai suoi esordi addirittura a Vargas Llosa e García Márquez. Allora mi feci coraggio e mi addentrai nelle ottocentoquaranta pagine del libro, al traino delle avventure di Ulíses Lima e di Arturo Belano, due poeti o sedicenti tali nel Messico della metà degli anni Settanta, fondatori (o rifondatori) di un improbabile movimento «realvisceralista» che aveva come nemico principale Octavio Paz. Come un «detective selvaggio», seguii le loro tracce nello stato di Sonora alla ricerca di Cesárea Tinarejo, la mitica iniziatrice del gruppo negli anni Venti, autrice di una sola poesia e poi scomparsa nel nulla. Lessi il diario di Juan García Madero, un diciassettenne aspirante poeta partito insieme a loro e a una ex prostituta di nome Lupe. «Ascoltai» le decine e decine di testimonianze sui due protagonisti che Bolaño sgranava da82


ARPAIA vanti al lettore per centinaia di pagine, facendo spesso assumere ai testimoni la statura di personaggi principali, perché le loro storie si mescolavano, si incrociavano, s’incamminavano per sentieri laterali, si perdevano in qualche gora, e poi improvvisamente ritornavano al fuoco della narrazione. Respirai quell’«estetica dell’imprecisione», quella continua atmosfera di vaghezza, di mancanza di certezze che avvolgeva tutto il libro, come se la struttura romanzesca fosse un modo per elaborare narrativamente un tema caro alla postmodernità, quello della dissoluzione del soggetto. Risultato: non tutti i miei dubbi erano stati messi in fuga. Bolaño era di sicuro uno scrittore abile e intelligente, dalla prosa scintillante e dai registri variegati, le cui sapienti malizie mi avevano fatto comunque leggere fino in fondo quel falso poliziesco, quell’iconoclasta on the road, quell’andirivieni nel tempo e nello spazio di racconti apocrifi e personaggi reali, di poeti che non scrivevano un verso e avventurieri la cui vita assomigliava a una poesia. Però se, da un lato, mi interessavano, e molto, l’ombra di lieve disastro esistenziale che avvolgeva i personaggi, il loro essere strumenti narrativi per raccontare una generazione nomade e utopista, sconfitta quasi subito dalla realtà, mi interessavano molto meno, e anzi, mi davano quasi fastidio, le fluviali discussioni di Ulíses Lima e di Arturo Belano sui tetrastici e sugli hapax legomenon, sulle miserie dell’ambiente letterario o sulle loro riviste immaginarie che non sarebbero mai nate, quel girare e rigirare attorno al piccolo mondo della letteratura come se fosse il Mondo, l’esaltazione (finta, perché nella vita reale Bolaño era in fondo ossessionato dal successo) della marginalità e dell’insuccesso come dovere anche nell’ambiente delle lettere. Insomma, il marchio di fabbrica dello scrittore cileno stava forse proprio in quel suo continuo camminare in bilico fra la letteratura e la vita senza decidersi mai, nella sua funambolica abilità a reggersi su un filo. A volte, quando c’era un’esperienza vera da comunicare, Bolaño volava su quel filo e tutto improvvisamente quadrava: la scrittura affilata, il gioco, l’ironia, la disperazione e il disincanto. Altre, però, metteva più di un piede in fallo: ed erano dolori. A quel punto, Roberto Bolaño era ormai diventato un autore di culto, mentre la nuova generazione di scrittori latinoamericani (Volpi, Gamboa, Fresán…) l’aveva eletto a proprio imprescindibile punto di riferimento. Poi, con la sua morte beffarda, a soli cinquant’anni, iniziò, come scrisse Enrique Vila-Matas, «la sua leggenda», tanto che Susan Sontag ne parlò addirittura come di uno scrittore «destinato a occupare un posto permanente nella letteratura mondiale». Alla creazione di quella leggenda, che qualche volta si è purtroppo trasformata in una «leggenda nera», contribuì senz’al-

Robert Fripp alla festa dell'Unità in concerto con i King Crimson, Reggio Emilia,1982

tro la pubblicazione postuma del libro-monumento a cui Bolaño aveva lavorato freneticamente perfino nell’ospedale di Barcellona dove aspettava inutilmente un trapianto di fegato. Le 1119 pagine di 2666 rappresentano perciò il suo testamento, il suo ultimo ponderoso lascito, nel tentativo esplicito di esaurire il mondo, tutto, in quel quasi infinito intrecciarsi di minuziosi dettagli, vite parallele, scenari plurimi, descrizioni e narrazioni mescolate a sottili riflessioni sulle sue ossessioni. Una sfida ambiziosissima, dunque, ed estremamente cosciente, come qui e là fanno trasparire i suoi personaggi: «Che triste paradosso», pensa, per esempio, Amalfitano, il protagonista della seconda parte del romanzo. «Neppure i farmacisti colti osano più cimentarsi con le grandi opere, imperfette, torrenziali, in grado di aprire vie nell’ignoto. Scelgono gli esercizi perfetti dei grandi maestri. In altre parole, vogliono vedere i grandi maestri tirare di scherma in allenamento, ma non vogliono saperne dei combattimenti veri e propri, quando i grandi maestri lottano contro quello che ci spaventa tutti, quello che atterrisce e sgomenta, e ci sono sangue e ferite mortali e fetore». Quello che ci spaventa tutti, quello che atterrisce e sgomenta, il sangue e il fetore, in questo libro sono incarnati letterariamente nella strage di centinaia di donne uccise negli ultimi anni a Ciudad Juárez, alla frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti. Ma non mancano i suoi scrittori e i suoi critici letterari alla ricerca di scrittori scomparsi, le sue divagazioni metaletterarie. Insomma, ancora una volta, un lettore come me poteva lasciarsi trasportare dalla velocità narrativa di Bolaño, dalla sua inventiva, dal suo coraggio, dalla meraviglia dei dettagli, poteva perdersi nel torrente 83


nuova rivista letteraria di pagine e poi cercare di ritrovarsi. Ma non sempre accadeva. Non sempre, ancora una volta, se ne usciva pienamente convinti. E di certo non molto cambiati. Bolaño era sicuramente un grande autore, ma non mi pareva e non mi pare che sia addirittura, come hanno detto e scritto in tantissimi, una sorta di spartiacque della letteratura mondiale, uno scrittore in grado di segnare il «prima» e il «dopo» di lui. Probabilmente, infatti, molte delle cose che si dicono o si scrivono sull’autore cileno sono luoghi comuni, o sono addirittura sbagliate. Faccio solo un esempio: viene spesso ripetuto che le sue opere nascono da una reazione agli scrittori del cosiddetto boom latinoamericano, dei quali costituirebbe un antidoto o una via di fuga. Certe intemperanze verbali di Bolaño quando era in vita sembrerebbero avallare quest’idea, però in realtà, come ha fatto notare Javier Cercas, «Bolaño non fu in alcun modo un detrattore del boom, ma proprio il suo continuatore più disciplinato: la sua opera non soltanto è inimmaginabile senza una lettura a pugni sguainati di Borges, ma anche senza la trasparenza colloquiale della prosa di Cortázar o senza le astuzie narrative e le architetture romanzesche di Vargas llosa, senza alcun dubbio il romanziere vivente in spagnolo che Bolaño più ammirò, e uno di quelli che assimilò con più attenzione». E il suo presunto avanguardismo radicale, il suo tanto sbandierato (dagli ammiratori) essere un outsider in lotta contro le forme prostituite dalle convenzioni narrative e dalla voracità del mercato? È sempre Cercas a far notare che i due tratti distintivi della sua scrittura sono esattamente quelli dominanti nella letteratura in spagnolo di oggi: la leggibilità e la narratività. Il che, sia chiaro, per me costituisce un merito e non un difetto, perché non si può scrivere ignorando i giganti che ci hanno preceduto, né facendo di tutto perché nessuno ci legga. Tutt’altra storia, invece, il suo mito postumo, la sua «leggenda nera». Alla quale, forse, si deve parte dello strepitoso successo che lo scrittore cileno sta riscuotendo negli Stati Uniti, comparabile soltanto a quello di Gabriel García Márquez ai suoi tempi. Un evento straordinario, considerando che gli States sono un Paese quasi blindato rispetto alla letteratura straniera. Lo scrittore e commediografo Ariel Dorfman ha detto di avere l’impressione «che Roberto Bolaño sia il poeta maledetto di cui gli Stati Uniti avevano bisogno». E infatti, in tutte le entusiastiche recensioni nordamericane l’enfasi è posta sugli episodi biografici della sua gioventù tumultuosa: la decisione di lasciare la scuola e diventare poeta, l’odissea dal Messico al Cile, dove fu incarcerato per una settimana dopo il golpe, la costitu-

zione del movimento infrarealista con il poeta Mario Santiago, la vita errabonda in Europa, i disparati mestieri fatti in Spagna prima di raggiungere la notorietà, perfino una presunta (e falsa) dipendenza dall’eroina e la sua precoce morte. Insomma, negli Usa Bolaño passa per un bohémien, un irregolare, un ribelle, un erede della Beat generation con in più il giusto tasso di impegno politico. Qualcuno ha perfino titolato una di quelle recensioni: «Scoprite il Kurt Cobain della letteratura latinoamericana!». In un saggio pubblicato sulla rivista trimestrale «Comparative Literature», Sarah Pollack, professoressa della City University di New York, ha esaminato proprio la creazione del «mito Bolaño» negli Stati Uniti. E le sue conclusioni non sono certo accomodanti. I romanzi e i racconti dell’autore cileno erano già pubblicati negli States, con un’accoglienza calorosa ma di nicchia, quando è arrivato Andrew Wilye, il più potente agente letterario del mondo, soprannominato lo Sciacallo, il quale ha intravisto nello scrittore da poco scomparso le caratteristiche ideali per sostituire Gabo nel cuore degli statunitensi. Per Sarah Pollack, la costruzione del mito ha così addirittura preceduto il lancio dell’opera, in un’operazione di marketing che ha ridefinito anche l’immagine della cultura e della letteratura latinoamericana che l’establishment Usa vende al proprio pubblico, confermando al tempo stesso i pregiudizi paternalistici nei confronti degli abitanti dei territori a sud del Río Bravo. Ecco perché «perfino prima di aprire la prima pagina di un suo romanzo, Bolaño appare al lettore come una mescola tra i beat e Arthur Rimbaud, con la sua vita già diventata materiale da leggenda». Nessun critico, però, attacca ancora la Pollack, ha messo in risalto il fatto che gran parte dell’opera di Bolaño sia stata scritta quando era un tranquillo e sobrio padre di famiglia, o che nella vita reale Bolaño fu un uomo morigerato e prudente, che politicamente non era un rivoluzionario, ma un socialdemocratico o un liberale di sinistra. Tutt’altra cosa, insomma, dal Che Guevara o dal James Dean della letteratura a cui sembrano essersi affezionati i lettori di Sacramento o di Boston. Intendiamoci: non è certo colpa del povero Bolaño, trasformato (suo malgrado?) in un personaggio dei suoi stessi romanzi. Certo è che, come ha sottolineato Cercas, per quanto la leggenda possa manipolare la realtà, per quanto un morto precoce e prestigioso possa cadere in pasto a gente priva di scrupoli, per quanto i cadaveri non possano difendersi, «questo mormorio permanente che avvolge la vita postuma di Bolaño possiede l’indubitabile vantaggio di attrarre ogni giorno nuovi lettori verso le sue opere». E in fondo non è affatto un male. 84


RIPESCAGGI Richie Havens, Antistadio, Bologna, 1980

il RitoRno d’inteResse veRso il GRande RomanzieRe vittoRiano

❚ Il nostro amore per Dickens di Silvia Albertazzi

N

el film Fahrenheit 451, girato da François Truffaut nel 1966, il pompiere Montag, il cui lavoro consiste, come quello di tutti i vigili del fuoco nel futuro prossimo in cui si svolge la vicenda, non nello spegnere gli incendi, bensì nell’appiccarli bruciando tutti i libri in circolazione, scopre il piacere proibito della lettura lasciandosi trasportare dalle vicende narrate in un volume che ha salvato dal rogo: David Copperfield di Charles Dickens. Mentre nel romanzo di Ray Bradbury da cui è tratto il film, Montag trafuga più libri da una biblioteca che deve incendiare, e li sfoglia di nascosto, a caso, sino a soffermarsi, senza troppa originalità, sulla Bibbia, nella pellicola di Truffaut il pompiere legge l’unico volume che ha rubato senza saltarne una parola, a partire dal frontespizio, come i bambini quando si accostano ai libri per la prima volta. E quando, dopo aver compitato nome dell’autore, titolo e editore, entra finalmente a contatto col testo, ne è folgorato. Il romanzo dickensiano si apre facendo riferimento a una nascita, a una ‘venuta al mondo’ che, al pari della creazione divina, 85

❝ Fu notato che l’orologio cominciò a battere le ore e io cominciai a vagire, simultaneamente ... ❞


nuova rivista letteraria mette in moto la catena degli eventi. Lo spettatore si rende conto che Montag, seguendo lo scritto con gli occhi e con il dito indice, rinasce, parola dopo parola, si trasforma in un altro uomo, sprezzante del pericolo, capace addirittura di un gesto folle: spegnere il televisore onnipresente per leggere la scena della morte di Dora alle amiche della moglie, fino a provocarne le lacrime, fino a che una di loro, avvezza ormai soltanto alla falsa realtà ammannita ininterrottamente dalla televisione, confessa, tra i singhiozzi, di piangere perché “È tutto vero”. E se Montag paga con la denuncia della moglie e, di conseguenza, con la perdita della libertà, il suo amore per Dickens, Truffaut, di fronte alle obiezioni della critica al suo lavoro, era costretto a giustificare il proprio leggere il cinema attraverso lenti dickensiane, alla maniera di Eisenstein, con queste parole: “Mi piacciono le storie normali, ma c’è una traccia di melodramma nei miei film. Oggi nessuno osa più amare Dickens […]” Se a quattro decenni da questa affermazione possiamo smentire Truffaut e dichiarare il nostro amore per Dickens senza suscitare risolini di compianto da parte dei più raffinati intellettuali, lo si deve anche a quel Salman Rushdie che, nel 1981, cambiò il volto della letteratura non solo anglofona narrando le avventure di una serie di ragazzi nati a mezzanotte, proprio come David Copperfield. È uno di loro, Saleem Sinai, il protagonista e narratore de I figli della mezzanotte, che per inquadrare la propria storia si rifà all’inizio del Copperfield dickensiano, di cui riprende ora e giorno di nascita, nonché superstizioni legate a questo accadimento. Come David, infatti, Saleem è nato a mezzanotte, il giorno dell’indipendenza dell’India, 15 agosto 1947: non è difficile, usando un calendario perpetuo, scoprire che il 15 agosto quell’anno cadeva di venerdì, lo stesso giorno della settimana in cui afferma di essere nato David, il quale precisa inoltre che i nati in questo giorno sono sfortunati e portati a vedere gli spiriti (caratteristiche queste, tra l’altro, forse più assimilabili a Saleem che non a Copperfield). Entrambi i narratori, per indicare la loro ora di nascita, fanno riferimento ai rintocchi – e alle lancette – dell’orologio: “Fu notato che l’orologio cominciò a battere le ore e io cominciai a vagire, simultaneamente”, scrive David, e Saleem gli fa eco: “Io sono nato […] Allo scoccare della mezzanotte, in effetti. Quando io arrivai le lancette dell’orologio congiunsero i palmi in un saluto rispettoso”. Ma non basta. David e Saleem si segnalano, alla nascita, per una peculiarità che ne fa degli individui unici: il primo, infatti, nasce, come si suol dire, con la “camicia”, mentre il secondo è dotato di particolari poteri

telepatici concentrati nel suo enorme naso. Sin dalle prime interviste rilasciate alla pubblicazione del romanzo, Rushdie non ha mai negato il proprio debito verso Dickens, da lui definito “un grande scrittore surrealista [che] impone una colossale superfetazione surrealista sui dati della realtà […] non un modo di evadere dalla realtà ma di intensificarla, di rivelarne le metafore.” Il suo interesse per il romanziere vittoriano non si esaurisce con I figli della mezzanotte: si può affermare, anzi, che Dickens ritorni in ognuno dei suoi lavori, non solo narrativi. Così, egli fa riferimento all’influsso della narrativa dickensiana sulla propria opera nella Lectio Magistralis pronunciata al conferimento della laurea ad honorem da parte dell’Università di Torino nel 1999, e nel 2006, all’uscita di Shalimar il Clown, rispondendo a una mia domanda sul suo rapporto con il fantastico, dopo aver confermato il suo disinteresse per le “favole pure, senza appigli con il mondo reale”, citava ancora come modello Dickens, un autore nel cui universo da “un background […] che è estremamente naturalistico, ipernaturalistico […] emergono personaggi esagerati, situazioni surreali, […] immagini che si potrebbero definire magicorealiste, ma che affondano le loro radici su un terreno ben riconoscibile.” Non sembra essere comunque David Copperfield il romanzo dickensiano più amato dai nostri contemporanei, ma Grandi speranze: già un anno prima dei Figli della mezzanotte, un autore neozelandese trapiantato in Australia, Michael Noonan, in Magwitch immaginava un viaggio di Pip, il protagonista di Grandi speranze, nel Nuovo Galles del Sud, alla ricerca di indizi sulle fortune australiane del suo benefattore galeotto. Pochi anni dopo (1986), una popolare autrice di romanzi polizieschi, la scozzese Alanna Knight, nel mélo “d’amore, perdita e redenzione” Estella si cimenta con la triste esistenza adulta della ragazza che spezza il cuore del Pip dickensiano, ormai sola e consumata dalla passione negata per tutta la giovinezza. Infine, in Italia, negli stessi anni, Grandi speranze è il testo classico di riferimento per la delicata vicenda degli adolescenti protagonisti del primo film di Francesca Archibugi, Mignon è partita (1988). La più importante riscrittura del romanzo dickensiano, tuttavia, appare nel 1997, con Jack Maggs dell’australiano Peter Carey che, spinto dall’interpretazione postcoloniale che ne offre Said in Cultura e imperialismo, ricostruisce la figura di Magwitch come prototipo e progenitore dell’australiano odierno e del suo conflittuale rapporto con la ‘madrepatria’ britannica e con le proprie origini. “C’è voluto un palestinese per 86


ALBERTAZZI

Sarah Vaughan, Palazzo dei Congressi, Bologna, 1983

farmi comprendere che Magwitch era di fatto un mio antenato e che era lui [e non Pip] il personaggio in cui avrei dovuto identificarmi”, ha dichiarato Carey a proposito della genesi di Jack Maggs e dell’influsso di Said sul suo romanzo. “Colonizzato dall’immaginazione di Dickens”, come egli stesso ha affermato, Carey scolpisce a tutto tondo il personaggio di Jack, il convitto la cui più grande aspirazione resta “poter sedere accanto al fuoco in Inghilterra sorseggiando una birra o gustando una fetta di torta con i rappresentanti di quella stessa classe sociale che lo ha condannato a sofferenze di ogni genere”, e gli pone accanto, tra gli altri, un diabolico scrittore che pratica il mesmerismo, Tobias Oates, in cui chiaramente si riconosce il giovane Dickens. È interessante notare come, una decina d’anni dopo Jack Maggs, Dickens riappaia in qualità di protagonista (e stavolta col suo nome e cognome e non più dietro la maschera di un personaggio fittizio) in un altro romanzo australiano, Solo per desiderio di Richard Flanagan. Anche per Flanagan, confrontarsi con Dickens significa fare i conti col passato coloniale, con i suoi

segreti e le sue miserie. Nel tentativo di far luce sulla storia vera di Mathinna, una bambina aborigena sopravvissuta al genocidio di Van Diemen’s Land, adottata dall’allora governatore della Tasmania e dalla moglie, Lady Jane, per divenire la cavia di un esperimento pedagogico destinato a fallire miseramente, Flanagan ne intreccia le tragiche disavventure con quelle di un Charles Dickens ormai maturo, tormentato dalla passione per l’attrice diciottenne Ellen Ternan. A unire le due vicende, è la richiesta di riabilitare la reputazione del marito, scomparso durante un’esplorazione polare, dai sospetti di cannibalismo, ventilati dalla stampa inglese, che Lady Jane, rientrata a Londra e perdute le tracce del consorte, fa a Dickens, Siamo nel 1854: lo scrittore, insoddisfatto nella vita privata, frustrato da un matrimonio infelice, alla ricerca di nuovi stimoli, prende a cuore la vicenda, dapprima scrivendo un’apologia dai toni quasi razzisti per la sua rivista, Household Words, poi facendo della fatale spedizione lo spunto per un dramma, The Frozen Deep, in cui si ritaglia la parte del protagonista. Una stessa convinzione, destinata per entrambi a infrangersi contro 87


nuova rivista letteraria gli assalti del reale, accomuna Dickens e Lady Jane: la civilizzazione consiste nella conquista, negazione e sconfitta del desiderio. Ma mentre Lady Jane, al momento dell’incontro con lo scrittore, ha già soffocato i suoi istinti materni in nome del raziocinio, abbandonando Mathinna agli antipodi in un orfanotrofio che nulla a che invidiare con quelli descritti dallo stesso Dickens, quest’ultimo si troverà lacerato dalla passione al punto da dichiararsi sul palcoscenico, modificando a soggetto la scena finale del suo dramma. Se Carey nel galeotto di Grandi speranze scopriva un proprio antenato, Flanagan nel desiderio che fa trasgredire il suo Dickens agli obblighi di padre e sposo vittoriano riconosce l’essenza stessa della vita, l’irresolubile contrasto tra gli aborigeni dai piedi scalzi e gli occidentali costretti a indossare scarpe. Un Dickens altrettanto “umano, troppo umano”, colto negli ultimi della sua vita, al tempo degli snervanti tour di letture e conferenze in America, appare ne L’ultimo Dickens (2009) di Matthew Pearl, giovane autore statunitense specializzato nella confezione di intriganti thriller a base letteraria. Qui l’autore di David Copperfield è dipinto come una sorta di rock star ante litteram, popolare al punto da attirare folle in delirio a ogni apparizione in pubblico. Non è certo un caso se, tra i varî incidenti occorsi durante il suo secondo soggiorno americano, Pearl condensa in un’unica lettrice le varie figure di stalker che perseguitarono lo scrittore inglese durante i suoi giri di conferenze. In un crescendo di follia e violenza, la persecutrice, come Anne Wilkes, la micidiale “lettrice numero Uno” che sequestra e tortura il malcapitato scrittore Paul Sheldon in Misery di Stephen King, arriva a cancellare il confine tra lettore e scrittore. Come il titolo lascia intuire, L’ultimo Dickens appartiene a quella larga schiera di prodotti narrativi che vanno scherzosamente sotto l’etichetta di “droodismo”, ovverosia romanzi i cui autori tentano in vario modo di risolvere l’enigma de Il mistero di Edwin Drood, il lavoro che Dickens lasciò incompiuto alla sua morte. Elencare qui i “droodisti”, tra le cui file si annoverano anche Fruttero e Lucentini, con La verità sul caso D. (1989), sarebbe troppo lungo e fuorviante, poiché i loro lavori, più che rendere omaggio alla grandezza del narratore Dickens o dimostrarne una volta di più l’imprescindibilità, nella maggioranza dei casi prendono solo a pretesto l’incompiuto dickensiano per ipotizzarne più o meno probabili finali. Vale però la pena sottolineare come l’ultimo prodotto in ordine di pubblicazione di questa serie, Drood di Dan Simmons, uscito nel 2010, ripercorra le stesse tappe della vita dickensiana attorno cui

David Byrne con i Talking Heads in concerto al Palasport, Bologna, 1980 88


ALBERTAZZI

Albert Mangelsdorff, Rocca Brancaleone, Ravenna, 1984

ruota la vicenda immaginata da Pearl, enfatizzando allo stesso modo l’enorme popolarità raggiunta dallo scrittore inglese. Tuttavia, dopo circa settecento pagine di narrazione complessa, a volte convulsa, ricca di colpi di scena, Simmons arriva a una conclusione inquietante: Dickens, egli afferma, “era un vampiro e le occasioni pubbliche gli occorrevano per risucchiare dagli spettatori le energie necessarie per tirare avanti un altro giorno”. Al Dickens vampiro di Simmons vale la pena opporre il “Signor Dickens” di Mr Pip del neozelandese Lloyd Jones, un piccolo capolavoro narrativo del 2006, in cui l’autore inglese ottocentesco, introdotto alla sua classe da un insegnante improvvisato come una persona reale, seduce, con le vicende narrate in Grandi speranze, un gruppo di bambini che vive ai confini della civiltà, nel mezzo del Pacifico. A Bougainville, un’isoletta sconvolta dalla guerra civile, il maestro, Mr Watts, avendo a disposizione come unico libro di testo il romanzo dickensiano, ribalta la pedagogia repressiva stigmatizzata in un’altra opera di Dickens, Tempi difficili, sostituendo all’esaltazione dei Fatti e al rigetto della Fantasia predicati nel plumbeo villaggio industriale di Coketown, la gioia della narrazione pura, e il piacere dell’identificazione con i personaggi di carta. Al termine della vicenda, ormai adulta e acculturata, la protagonista si rende conto che il “Signor Dickens” – e non altri – le ha

insegnato che ogni individuo ha una propria voce, “che la nostra voce è speciale, e che dovremmo ricordarcelo ogni volta che la usiamo, e tenere sempre a mente che qualunque cosa ci accada nella vita, quella voce non ci potrà mai essere strappata”. E termina affermando: “La storia di Pip era la mia, anche se ero una ragazza. Anche se avevo la faccia nera come la notte splendente. Pip è la mia storia […]” Pip, viene spontaneo aggiungere, è la storia di tutti, al punto che nemmeno gli autori del trasgressivo cartoon americano South Park hanno potuto ignorarlo: e, rilevando una componente politicamente scorretta in questo lavoro di un autore convenzionalmente etichettato come buonista, non solo hanno disegnato un personaggio di nome Pip da inserire quale prototipo dell’inglese “per bene” in un mondo di rozzi americani, ma hanno anche riletto, in una puntata monografica, la vicenda di Grandi speranze dimostrando come personaggi quali Mrs Havisham e Estella, con la loro perversione, si inseriscano perfettamente nel mondo amorale – quando non decisamente immorale - di South Park. Non deve stupire, allora, se uno tra i giovani scrittori inglesi più ammirati, David Nicholls, durante il suo tour promozionale italiano del 2010, a chi gli chiedeva che cosa stesse leggendo, rispondeva: “Sto rileggendo Grandi speranze per la decima volta”. 89


Bruce Springstein, Stadio di Torino, 1989


RIPESCAGGI

❝ È per te che noi

venimmo fuori, noi vecchi nel buio – scrive W.C.Williams in Gloria!. È per te che i rifiuti sono stati smossi e un topo è strisciato fuori dalle immondizie, vivo! In quella sozzura. (...) E ora vieni tu con il ventre incollato alla schiena e ci fai vedere quello che siamo, dei topi. ❞ emanuel caRnevali: vita (aGRa) e opeRe di un GRande scRittoRe misconosciuto

Elaborazione digitale su foto che ritrae Emanuel Carnevali

❚ Uno sberleffo al dolore di Emidio Clementi

A

sessantotto anni dalla sua morte, l’opera di Emanuel Carnevali pare ormai destinata all’oblio. A poco è valso l’ostinato e meticoloso lavoro di recupero a cui si sono dedicati per tutto l’arco della loro esistenza David Stivender, celebre Maestro del Coro del Metropolitan di New York e Gabriel Cacho Millet, curatore di una raccolta di racconti e autore di diverse pubblicazioni incentrate sulla figura dello sfortunato poeta fiorentino. Come successo in vita il destino ha continuato ad accanirsi su Carnevali anche dopo la sua scomparsa, serbando di lui e dei suoi scritti giusto uno sbiadito ricordo. Eppure chiunque abbia letto Il primo dio, la miscellanea postuma pubblicata dall’Adelphi nel 1978, si è potuto rendere conto della potenza del suo sguardo, così come della capacità di Carnevali di penetrare tra le pieghe della realtà americana, anticipando temi e atmosfere care a scrittori come Yeats e Carver, da cui Il primo dio si distanzia però per una maggiore carica di pathos. Come spiegare allora una tale negligenza da parte della critica? Sicuramente Carnevali ha pagato lo scotto di una bibliografia disordinata, composta da opere per lo più incompiute e postume. Inoltre la qualifica di scrittore italiano in lingua inglese hanno in qualche modo reso difficile la sua collocazione sia qui che in America. A

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nuova rivista letteraria questo si deve aggiungere l’ostracismo da parte della famiglia, scandalizzata dall’irrequieta vicenda biografica di Emanuel e risentita per le continue invettive lanciate dallo scrittore nei confronti del padre (ricordo di una lettera speditami dal cognato di Carnevali, in cui il signor Svampa mi spiegava come in famiglia il nome di Emanuel non venisse mai pronunciato, tanto che lui era venuto a conoscenza delle sue opere quasi per caso), anche se poi, dopo molte resistenze, sarà proprio la sorella più piccola, Maria Pia, ad occuparsi della traduzione de Il primo dio. Resta il fatto che una delle voci più originali e profonde dell’inizio del secolo scorso non è mai riuscita a superare una cerchia ristretta di appassionati. Emigrato ancora adolescente in America, la parabola artistica di Carnevali dura in definitiva meno di un decennio, troncata dagli stenti e da una malattia ritenuta all’epoca incurabile: l’encefalite letargica. Nella manciata di anni che va dal 1914 al 1921, data del suo rientro in Italia, Carnevali può essere però considerato una figura di spicco della scena culturale d’oltre-oceano. La crudezza dei temi trattati e l’irridente freschezza con cui maneggia la lingua inglese, donano ai suoi componimenti una forza dirompente che lo elevano a capo-scuola della nuova scena poetica americana, attorno alla quale si raccolgono figure del calibro di Carl Sandburg, William Carols Williams, Sherwood Anderson e Waldo Frank. È per te che noi venimmo fuori, noi vecchi nel buio – scrive W.C.Williams in Gloria!. È per te che i rifiuti sono stati smossi e un topo è strisciato fuori dalle immondizie, vivo! In quella sozzura. (...) E ora vieni tu con il ventre incollato alla schiena e ci fai vedere quello che siamo, dei topi. Qualche anno dopo è Sherwood Anderson a dedicargli una poesia dai toni commossi: A dying poet. Dovunque andassi ti bagnavi./ Bagnarti era divenuta la tua passione./ Ti bagnavi in un ruscello./ Ti bagnavi di preghiere in una chiesa./ Ti bagnavi d’amore davanti agli uomini./ Andasti in un luogo solitario per bagnarti/ dei tuoi pensieri./ Il fatto più strano di tutti è / che tu sia divenuto per me un’irrealtà. Per / lungo tempo credetti che tu avessi / cessato di esistere, / che ti fossi spento come una candela./ Pensai che tu fossi morto e che qualcuno ti avesse eretto / una statua, che tu fossi divenuto una cosa / di pietra e di ferro. Mentre Carl Sandburg ne disegna un profilo lucido e accorato nella prefazione di A Hurried man, l’unico romanzo pubblicato in vita da Carnevali, anche se mai distribuito a causa di un sospetto di oscenità. Era uno scrittore che scriveva sempre perché doveva

Roscoe Mitchell, Teatro Romano, Verona, 1989

scrivere, che scriveva del suo dolore, per vedere se vi poteva far su uno sberleffo, che scriveva dei suoi confusi desideri, maledicendoli nella speranza che se ne fuggissero lontano, poi dando loro il benvenuto con una poesia, quando ritornavano; era alla ricerca di qualcosa di paradossale, sempre pronto a cantare la canzone del topo in trappola, ingannato e morto di fame. I suoi scritti sono la testimonianza di una personalità che bruciò con le fiamme del ventesimo secolo e che era meravigliosamente sensibile alle luci e alle ombre della vita americana. Ma di tutta la cerchia di letterati, risulterà Ezra Pound l’amico più fedele di Emanuel. Tornato in Italia, prostrato nel fisico e nello spirito, è proprio l’autore dei Cantos infatti ad accollarsi le spese per le cure e il mantenimento di Carnevali a Bazzano (Bo) ed è sempre lui che lo sprona alla scrittura, commissionandogli una traduzione in italiano delle sue poesie; un lavoro che Emanuel porterà avanti battendo a macchina con una mano sola, tenuta ferma dall’altra per bloccare i tremori. 92


CLEMENTI di aver sottratto alcuni libri preziosi dalla biblioteca. Nel frattempo scrive, spedisce poesie alle riviste che non di rado gliele pubblicano, avvia una serrata corrispondenza con Papini e Croce, diventa vice-direttore di Poetry, conduce una vita dissoluta. Carnevali mi attirava più dei suoi eroi americani - scrive Robert McAlmon, editore e amico di Carnevali. Era puramente italiano, e come tale privo di qualsiasi scrupolo ipocrita per la ‘morale’, ‘l’anima’ e la ‘coscienza’. Se era senza un soldo e rubava a un amico libri di valore per venderli e comprarsi da mangiare e da bere, lo faceva senza rimorsi. Non che avesse l’atteggiamento di uno che, senza alcuno sforzo da parte sua, pretenda dal mondo nutrimento e gloria, ma se una donna o un uomo dal cuore tenero gli davano del denaro e parlavano di sovvenzionarlo, lui accettava le loro offerte di buon grado, per far loro un favore. Ciò non implicava affatto che ti amasse o ti rispettasse. Anzi, era forse più propenso ad amare e a rispettare qualcuno che si rifiutasse di prestargli del denaro, qualcuno che non si facesse impressionare dalle sue diatribe e dai suoi attacchi, o dal suo spirito, e sapesse ‘metterlo a posto’. L’encefalite letargica lo colpisce nel febbraio del 1920. In preda a continui attacchi di follia fugge alle Dune dell’Indiana, dove vive come un selvaggio e scrive lettere accorate al suo amico Carl Sandburg. Il tuo poeta fanciullo sembra essere disperatamente ammalato./ Prega per lui./ Prega per lui./ Egli crede che le tue preghiere gli faranno meglio di tutte le sue lotte, i suoi combattimenti e le sue lamentele contro se stesso. Carl, se tu sapessi che desiderio ho di star bene. Non sono tornato a Chicago perché sapevo che avrei annoiato i miei amici tutti. Se tu sapessi quante meravigliose storie porto con me... forse all’inferno./ Per amore delle mie belle parole, Carl, creatura cara, augurami buona fortuna. Per amore di questo mio corpo che ha ancora una pelle chiara e che ancora apprezza così penosamente la vita. Sono in preda al demonio. Solo questa parola può descrivere ciò. Non ho più la sifilide./ Saluta per me la mia cara Chicago. Dì al lago: “A Duluth un poeta sogna di te”. Caro Carl. Scrivi. Torna in Italia nel settembre del ’22, ma è ormai, come afferma W.C. Williams, un’anima perduta. La vita è una cosa bella e delicata, deperibile come una bella stoffa ricamata che la povertà e l’incuria possono distruggere nello spazio di una notte, scrive in una delle pagine più toccanti di Il primo dio. Muore strozzato da un tozzo di pane all’Ospedale psichiatrico di Bologna l’11 gennaio del 1942. Il corpo viene sepolto in una fossa comune al cimitero della Certosa.

Povertà e sofferenza del resto appaiono, sin dall’inizio, come due stimmate indelebili nella vicenda umana di Carnevali. Allevato da una zia in seguito alla morte della madre, rinnegato dal padre, il suo desiderio di fuga si concretizza dopo l’espulsione dal Collegio Foscarini di Venezia e una serie infinita di assenze all’Istituto Pier Crescenzi di Bologna. Ha appena quindici anni quando s’imbarca dal porto di Genova. Nei sette anni passati tra New York e Chicago non smette mai di illudersi di poter un giorno mantenersi con ciò che scrive, ma vive in squallide camere ammobiliate e si adatta a ogni tipo di mestiere, rientrando a pieno diritto in quella massa umana di diseredati descritta da Neil Anderson nel suo Hoboemia. Lavora come cameriere, fa lo sguattero, il lavapiatti, il facchino al porto di New York, spala la neve lungo le strade di Brooklin, è giardiniere al Lincoln park, trasporta sacchi di sughero da una parte all’altra di Chicago, fino a quando non viene assunto da Joel E. Spingarn, futuro direttore del Times, come segretario. Ma non dura. Cinque mesi dopo verrà licenziato con l’accusa 93


Keith Jarrett, Palazzo dei Congressi, Bologna, 1982


DAL MONDO Taj Mahal, Palasport, Bologna, 1989

uno sGuaRdo alla letteRatuRa contempoRanea del seneGal

❚ Tra classicismo e meticciato n di Maria Rosa Cutrufelli

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sue poesie e il movimento della Negritudine a portare sulla scena internazionale la cultura africana. Tuttavia i ‘revisionisti’ locali hanno buon gioco nelle loro critiche, perché anche per il Senegal i cinquant’anni d’indipendenza sono, come scrive il critico letterario Makhily Gassama, “un’avventura ambigua”. Parole che riprendono il titolo del famoso romanzo di Cheikh Hamidou Kane, ormai un classico della letteratura senegalese (anzi, africana). E la citazione non avviene a caso, perché il romanzo di Kane, pur essendo del 1961, riassume bene i problemi dell’Africa contemporanea, divisa fra modernità e tradizionalismo, tentata dall’occidente e saldamente ancorata alla sua forte spiritualità. In realtà, la letteratura senegalese (e africana in generale) è piuttosto giovane. L’Africa è - o meglio era, fino a poco tempo fa - il regno dei griot. Dei cantastorie, che detenevano il monopolio dei racconti. La scrittura creativa è storia recente, della prima metà del Nove-

empo di bilanci, per il Senegal e molti altri Paesi africani che nel 2010 hanno festeggiato i loro cinquant’anni d’indipendenza. Numerosi i dibattiti e le inchieste. In un libro appena uscito (“50 ans après”, ed.Rey), una trentina d’intellettuali africani si chiedono: “perché ancora ci rifiutiamo di tagliare il cordone coloniale?” Questo rifiuto viene visto come la radice da cui nascono i mali odierni del continente. In primo luogo la corruzione politica, favorita dalla complicità di una certa èlite intellettuale. Il tema è molto sentito in Senegal, che ha una storia particolare, sia dal punto di vista culturale che politico. Questo è il Paese che ha vissuto quarant’anni di governo socialista. Ed è il Paese del grande presidentepoeta Léopold Sedar Senghor. Oggi Senghor viene contestato per la sua ‘anima francese’, ma furono le 95


nuova rivista letteraria cento. Eppure è già una storia molto ricca, tanto da far dire all’editore francese Bernard Magnier (Actes Sud) che “le letterature africane sono entrate nella biblioteca del mondo”. Io qui mi limiterò a parlare di alcuni ‘classici’ senegalesi, cioè di quegli scrittori che con le loro opere hanno costruito la tradizione letteraria di questo Paese, che oggi conta molte giovani firme riconosciute a livello mondiale (per esempio Marie NDiaye, parigina-senegalese che ha vinto il Goncourt nel 2009). E comincerò, per l’appunto, da Cheikh Hamidou Kane. Intanto Kane (nato nel 1928) è un aristocratico, viene da una grande famiglia dell’aristocrazia peul (popolazione di antichissime origini) e questo lo facilita non poco. In Senegal le divisioni castali sono molto rigide, alimentate dal divieto di matrimoni incrociati (non per niente le storie alla ‘Giulietta e Romeo’ vanno alla grande, sia in teatro che in libreria). La sua prima formazione, in ogni modo, è doppia. Da una parte la cultura peul, con la sua lingua ricca e i suoi racconti orali maliziosi e, a volte, sottilmente crudeli. Dall’altra, la scrittura araba. Figlio di un musulmano convinto, Kane è a sua volta un credente. Nel romanzo fa dire al suo protagonista: “Mio padre non vive, prega.” E poi: “Il nostro mondo è quello che crede alla fine del mondo.” Come Senghor, Kane sa di essere ‘un meticcio culturale’ e rivendica senza esitare questo suo meticciato. L’orgoglio delle proprie origini, però, si scontra da subito con la scelta di un percorso di studi che prevede l’immersione in un’altra cultura ancora, cioè quella francese. È a Parigi che il giovane Kane si laurea, alla Sorbona. Subito dopo pubblica “L’avventura ambigua”, che ha forti (anche se non dichiarate) sfumature autobiografiche. All’uscita del libro, Le Monde scrisse: ciò che colpisce è il classicismo dello stile e la portata universale della riflessione filosofica. E il critico J.Chevrier: “sfuggendo alle limitazione del tema, l’angoscia dell’essere nero, Kane ci consegna una riflessione che ci riguarda tutti, l’angoscia dell’essere uomo”. La storia è semplice e racconta di un ragazzino, di famiglia aristocratica, che viene iniziato alla vita da un maestro coranico. C’è tutto, dentro questa storia: le contraddizioni dell’Islam, la tentazione del razionalismo occidentale, la grandezza del misticismo, alla cui presa è difficile sottrarsi. Il romanzo ebbe un enorme successo. Ciò nonostante, Kane rinunciò alla scrittura per diventare un quadro politico dell’amministrazione senegalese. Aspetterà fino al 1995 per pubblicare il suo secondo e ultimo romanzo, “Les gardiens du temple” (Paris, ed. Stock).

Isaac Stern, Teatro Comunale di Bologna per Musica Insieme, 1993

Come il primo, anche questo si potrebbe definire (per tono narrativo e per contenuto) un romanzo filosofico. Però meno visionario, più calato nella ‘prosa’ dell’attualità. E infatti racconta i problemi degli uomini che, dopo l’indipendenza, si ritrovano a dover costruire dal nulla un Paese moderno. Ousmane Sembène è l’esatto contrario di Kane. Suo contemporaneo, nasce nel 1923 nel sud del paese (a Ziguinchor), ed è figlio di poveri pescatori, dunque non ha un’educazione regolare. E l’Europa, a differenza di Kane, la conosce a causa della seconda guerra mondiale, che lo porta a combattere in Francia. Nel corso della sua vita (è morto nel 2007), farà i più svariati lavori: muratore, meccanico, scaricatore di porto a Marsiglia, dove s’iscriverà al partito comunista francese. Il suo primo romanzo, “Le docker noir” (ed. Présence africaine), racconta per l’appunto la sua esperienza di portuale. E alla sua morte i quotidiani parigini scriveranno: se n’è andato lo scaricatore nero. Comunque, malgrado lo svantaggio iniziale, Sembène comincia presto a scrivere e pubblicare: “Le docker 96


CUTRUFELLI autobus per trasportare il cadavere del figlio neonato, all’insaputa degli altri passeggeri. Una scrittura chiara, incisiva, anti-retorica per eccellenza. C’è una lotta feroce, scrive Sembène, che si sta combattendo tra l’Africa dei villaggi e l’Africa delle grandi città. E questa lotta deve trovare la sua rappresentazione nei romanzi e nel cinema. Oltre a questi grandi padri, la letteratura senegalese conta anche diverse grandi madri. La prima, la più amata e la più riconosciuta a livello internazionale, è senz’altro Mariama Bâ (tradotta in venti lingue e studiata in tutto il mondo, tranne che in Italia). Nata nel 1929, quindi di un solo anno più giovane di Kane, la Bâ pubblica tuttavia molto più tardi: il suo primo e più famoso romanzo, “Une si longue lettre” (Nouvelles Editions Africaines), esce nel 1980. Una data memorabile perché in Africa, prima d’allora, le scrittrici erano una ‘razza’ sconosciuta (a parte le africane bianche, per lo più anglofone). Qualche poetessa, qualche giornalista, ma nessuna che si fosse affermata come narratrice. Un’assenza che la stessa Mariama Bâ, in un suo citatissimo intervento alla 32° fiera del libro di Francoforte (dove riceve il premio Noma), spiega con queste parole: “In tutte le culture, la donna che rivendica o protesta è marginalizzata. E se la parola, che è volatile, penalizza la donna, come verrà giudicata colei che osa addirittura fissare in uno scritto il suo pensiero? Ecco la reticenza delle donne a diventare scrittrici! La loro rappresentazione nella letteratura africana è praticamente nulla. Eppure, quante cose avrebbero da dire!” Sempre in occasione della fiera di Francoforte, enunciò così, in un’intervista, il suo credo letterario: “Come hanno fatto gli uomini, dobbiamo usare la letteratura alla stregua di un’arma, non violenta ma reale... E non dobbiamo più accettare la nostalgica lode della madre africana che l’uomo, nella sua ansietà, confonde con Madre Africa.” La carriera della Bâ purtroppo dura appena un soffio: la scrittrice muore nel 1981, a soli cinquantadue anni. Poco dopo uscirà il suo secondo romanzo, “Un chant écarlate” (Nouvelles Editions Africaines). Entrambi i romanzi hanno come tema centrale la poligamia. Il primo, come già dice il titolo, è scritto sotto forma di lettera. La protagonista, dopo la morte del marito, scrive a un’amica per rievocare una comune, passata esperienza. I loro mariti infatti, dopo molti anni di vita matrimoniale, hanno preso una seconda moglie, come vuole l’usanza musulmana. L’amica aveva reagito chiedendo il divorzio e costruendosi una

noir” è del 1956. E in breve tempo all’attività letteraria affianca quella di regista cinematografico (in Italia è più noto per i suoi film, presentati fuori concorso anche a Venezia, che per i romanzi). I riconoscimenti non gli mancano (sarà anche membro della giuria del festival di Cannes), ma dopo dodici anni d’Europa, quando il Senegal acquista l’indipendenza, anche Sembène torna in patria e si stabilisce a Dakar, nel quartiere popolare di Yoff. I suoi libri non sono in ‘bianco e nero’ come quelli di Kane, bensì affreschi vivi, coloratissimi, della società senegalese, soprattutto delle periferie metropolitane di Dakar. È qui infatti, nelle banlieue urbane, che secondo Sembène sta nascendo l’Africa nuova. Un’Africa che vive ancora nelle campagne, ma che si sta spostando in massa verso le città. I suoi eroi sono contadini inurbati, migranti interni senza lavoro, piccoli truffatori delle bidonvilles. Uno dei racconti contenuti in “Niiwam” (ed. Présence africaine) narra il viaggio surreale e le peripezie di un uomo di campagna che, a Dakar, prende un 97


nuova rivista letteraria vita professionale, mentre la protagonista, l’io narrante, non aveva avuto il coraggio di troncare. Aveva sofferto senza ribellarsi. Anche nel secondo romanzo troviamo un uomo che, a un certo punto, prende una seconda moglie. Ma questa volta la prima moglie è una donna bianca. Un argomento questo - il rapporto fra donna bianca e uomo nero - più volte affrontato dagli scrittori africani, quasi sempre in chiave drammatica. In questi libri di solito la donna bianca rappresenta il ‘trofeo’ dell’uomo nero, oltre ad essere la pericolosa rivale della donna nera. L’impostazione della Bâ rovescia completamente questi vecchi stereotipi. Stavolta è la donna nera la rivale pericolosa e la vincitrice. È lei a conquistare il cuore dell’uomo nero usando tutte le arti e le seduzioni tradizionali: profumi, cibi, sottomissione. Attente, però!, avverte la Bâ. Questa è una vittoria di Pirro. Frutto non dell’amore e di una reale intesa, ma della pigrizia e del tradizionalismo conservatore dell’uomo africano. Di tutt’altro genere sono i romanzi di quella che viene definita ‘la gran dama’ della letteratura senegalese, cioè di Aminata Sow Fall, nata nel 1941 e ben presente e attiva nel panorama culturale senegalese. Anche lei, come Kane, appartiene a una famiglia colta e ricca (di Saint-Louis, l’antica capitale dell’Africa francofona). Ha pubblicato molti romanzi di critica sociale, ma le sue eroine non sono ‘creature della ribellione’, come quelle di Mariama Bâ. Anzi. In un romanzo del 1982, “L’appel des arénes” (Nouvelles Editions Africaines), racconta come il rifiuto del ruolo tradizionale, da parte di una madre, porti alla disgregazione della famiglia e all’emarginazione sociale. La donna pagherà la sua immodestia con l’abbandono prima del figlio e poi del marito e con una messa al bando totale. Ma il tono di Aminata Sow Fall non è quasi mai drammatico. La chiave della sua scrittura è ironica. Leggera, anche quando affronta argomenti pesanti. Uno dei suoi libri più noti, “La grève des bàttu” (Nouvelles Editions Africaines), presenta il mondo dei mendicanti di Dakar e la ricorrente preoccupazione del governo senegalese di ‘nascondere’ questa vergogna. Un racconto sulfureo che mette in scena, per l’appunto, un paradossale sciopero dei mendicanti. E di recente, proprio durante un’operazione governativa di ‘pulizia’ delle strade, un giornalista senegalese, ricordando questo libro, ha scritto: la gran dama della nostra letteratura ci ha voluto dimostrare che tutti possiamo aver bisogno di chi è più debole di noi... e ora senz’altro penserà che è la nostra indignazione a non dover mai fare sciopero.

Dave Holland, Ravenna, 1988 98


DAL MONDO Peter Gabriel, Forum di Milano, 1992

Novela Negra e società nella naRRativa messicana deGli ultimi quaRant’anni. dal Complot moNgol al realismo suCio (seconda paRte)

❚ Una scrittura più esigente di Giovanni Marchetti

N

❝ ... la novela negra accentua, in parte, la presenza del caso nelle vicende umane e sembra prediligere personaggi marginali, appartenenti alle fasce più povere della società, nonché storie di ordinaria degradazione. ❞

egli anni Novanta si segnalano alcune significative svolte nella narrativa messicana. Il poliziesco, o, per meglio dire, il noir, ossia il poliziesco con un forte ancoraggio nella realtà sociale, estende ulteriormente la propria influenza, conquistando altri noti scrittori, in precedenza estranei a questo tipo di narrativa. Allo stesso tempo, si trasforma ed evolve grazie a una diffusa contaminazione di generi. Inoltre – e si tratta di una novità di grande rilievo –, si fa principale veicolo di un inedito decentramento della produzione letteraria: da Città del Messico, centro di tutte le storie, alle diverse regioni del Paese, in particolar modo a quelle di frontiera. 99


nuova rivista letteraria

Ramones al Palasport, Reggio Emilia, 1981

nomi di Alejandro Estivill e Vicente Herrasti. Sostengono, nel manifesto, il ritorno a una scrittura esigente, che sappia affrontare “il rischio estetico, il rischio formale, il rischio che sempre implica il desiderio di rinnovare un genere (in questo caso il romanzo) e il rischio che suppone continuare con ciò che di più profondo e arduo possediamo, eliminando senza preamboli ciò che è superficiale, ciò che è disonesto” [Urroz]. Ancora: “I romanzi del crack condividono essenzialmente il rischio, l’esigenza, la rigorosità e quella volontà totalizzante che tanti equivoci ha prodotto” [Chávez Castañeda]. Si richiamano al “rischio di sperimentare”, alla necessità di esplorare tutte le potenzialità del romanzo, affrontando “tematiche sostanziali e complesse”, con il corrispondente bagaglio di soluzioni sintattiche, lessicali e linguistiche, dando vita a testi polifonici e ricercatamente barocchi. Il crack, afferma Padilla, non può definirsi un movimento letterario, bensì, molto più semplicemente, un atteggiamento: “Non c’è altra proposta che la mancanza di proposta”. La “rottura”, che invoca l’auto-denominazione crack, è contro il cosiddetto post-boom, contro i luoghi comuni della letteratura messicana, la retorica e spesso strumentale esaltazione dell’epopea rivoluzionaria, già

Si consolidano nuove generazioni di autori, nati a Tijuana, a Mexicali e in altre località al confine con gli Stati Uniti che, paradossalmente, rivendicano la loro “centralità”; ma anche in altri stati del Paese, come Puebla, fiorisce una letteratura di rilievo che s’impone all’attenzione nazionale. Gli anni Novanta sono anche gli anni di una nuova ribellione che potremmo chiamare neo-classicista o neo-esteticistica, che ricorda da vicino quella degli anni Trenta, ispirata dagli intellettuali raccolti attorno alla rivista Contemporàneos. Questa ribellione prende corpo allorché, nell’agosto del 1996, vengono presentati cinque romanzi, tre dei quali pubblicati quello stesso anno (Si volviesen sus majestades di Ignacio Padilla, Las Rémoras di Eloy Urroz e El temperamento melancólico di Jorge Volpi), uno (Memoria de los días, di Pedro Ángel Palou) già uscito l’anno precedente, e un altro (La conspiración idiota di Ricardo Chávez Castañeda) destinato a restare inedito fino al 2003. Ai romanzi si accompagna il Manifiesto Crack, firmato dagli stessi autori, oggi tra i più riconosciuti e prolifici della letteratura messicana (hanno pubblicato oltre sessanta romanzi da allora), cui occorre aggiungere, per completare il gruppo degli animatori di questa ribellione, i 100


Rickie Lee Jones sul palco della Festa dell'Unità, Correggio, 1982

come ha scritto Rafael Lemus, immagini di quartieri sporchi, personaggi violenti, libri estremi: Guillermo Juárez Fadanelli. Benché oggi ironizzi sul realismo sucio, dicendo che l’unico che conosce è quello che fa stando a letto, non v’è dubbio che, per molti anni, non ha lasciato nulla d’intentato per esservi associato. Animatore di un movimento denominato “Literatura basura” (Letteratura immondizia), per il quale ha scritto, insieme a Naief Yehya, un manifesto, pubblicato su una rivista intitolata La Pus Moderna; fondatore di una rivista e di una casa editrice denominate Moho (muffa); titolare di un blog chiamato Porquería: non sembra proprio immotivata la sua fama di principale rappresentante, in Messico, di quel dirty realism che, negli Stati Uniti ha in Raymond Carver il suo maggior cultore. Espressione di una letteratura che si autodefinisce underground, Fadanelli, sin dai suoi primi esperimenti da cineasta e dai suoi primi racconti, si propone di rappresentare l’orrore della vita di tutti i giorni, la miseria e la sordidezza che circondano l’abitante povero della grande città, la fatalità e la banalità della violenza e del male. Eloquenti alcuni titoli dei suoi libri di racconti: El día que la vea la voy a matar, 1992; Terlenka (doce

oggetto delle pungenti parodie di Variaciones sobre un tema de Faulkner, un romanzo ‘condiviso’, scritto insieme da Estivill, Padilla, Urroz e Volpi, celati dietro il divertito pseudonimo di “Compañía Antirruralista”. Con i racconti di Tres bosquejos del mal (autori: Padilla, Urroz e Volpi), pubblicati nel 1994, questo romanzo anticipa e prepara l’avvento del crack. Proprio l’insistenza sulla storia nazionale della precedente letteratura e la ricerca, per contro, di temi universali, spingerà questo gruppo d’autori a scegliere, per le proprie narrazioni, ambientazioni non messicane, preferibilmente europee, non di rado al tempo del nazismo, come nel caso del più celebre romanzo di Jorge Volpi, En busca de Klingsor (ed. italiana: In cerca di Klingsor, Milano, Mondadori, 2001). Contemporaneamente al manifestarsi del gruppo auto-denominatosi crack, la novela negra accentua, in parte, la presenza del caso nelle vicende umane e sembra prediligere personaggi marginali, appartenenti alle fasce più povere della società, nonché storie di ordinaria degradazione. Colui che più spinge in questa direzione, messicanizzando una tendenza già diffusa negli Stati Uniti – e che, a guardar bene, si potrebbe dire mondiale -, è un autore il cui solo nome evoca, 101


nuova rivista letteraria

Cecil Taylor, Palazzo dei Congressi, Bologna, 1990

danelliana: qui, gli avvenimenti che coinvolgono i protagonisti non sono narrati con il distacco, l’indifferenza, l’indolenza che accompagnano la narrazione di La otra cara de Rock Hudson. In questo caso, la passione che Fadanelli nutre per la filosofia, alimenta e sostiene il racconto. Benito Torrentera è un uomo maturo, un professore di filosofia, pagato malissimo, in apparenza insignificante, ma in realtà capace di riflessioni profonde intorno alla sua grigia esistenza; ha appena terminato di scrivere le proprie memorie, alle quali ha affidato la confessione dell’assassinio di due rancheros, colpevoli di aver sedotto Flor Eduarda, l’adolescente di cui il professore si è innamorato. Non è, però, per questi omicidi che si trova in carcere, ma per un altro che non ha commesso e che la polizia gli ha affibbiato. Come si sa, “la polizia non fa differenze: se uccidi ti puniscono per furto e traffico di minori; se rubi ti accusano di aver ammazzato qualcuno”. La storia riprende da vicino Lolita: come Humbert uccide Clare Quincy, preso da folle amore per Dolores Haze, così Torrentera uccide per gelosia, invaghito di Flor Eduarda; e come Humbert, anche Torrentera intraprende un doppio viaggio, mentale e fisico, verso

relatos para después del Apocalipsis), 1995; Barracuda, 1997; Regimiento Lolita, 1998; Más alemán que Hitler, 2001; Compraré un rifle, 2003. Il successo giunge nel 1998, con La otra cara de Rock Hudson (L’altra faccia di Rock Hudson, Milano, Tropea, 2008, l’unico libro di Fadanelli finora tradotto in italiano), che riceve il “Premio Nacional de Literatura”. Si tratta del suo secondo romanzo (segue a No te enojes Pamela, del 1995) ed è un buon esempio del primo Fadanelli, quello che, a ragione, si può indicare come il campione del dirty realism messicano. Narra dell’incontro di un ragazzo con uno spacciatore e assassino, Juan Ramírez, detto Johnny. Il ragazzo è destinato a seguire fatalmente le orme del delinquente, in una città dominata dall’oscurità e dalla violenza di strada, mentre all’assurdità di ogni gesto si accompagna la desolante consapevolezza dell’ineluttabilità di quanto accade. A La otra cara de Rock Hudson, seguono: Para ella todo suena a Franck Pourcel, e Te veré en el desayuno, del 1999; Clarisa ya tiene un muerto, del 2000; Lodo, del 2002 e, poi, Educar a los topos, del 2006, e Malacara, del 2007. Lodo (fango), finalista al premio “Rómulo Gallegos” 2003, segna un momento alto nella produzione fa102


MARCHETTI il nulla, ovvero verso l’annientamento. Tuttavia, grazie alle continue digressioni, agli spietati aforismi che sostengono gli eventi narrati, il romanzo di Fadanelli acquista una sua originalissima fisionomia. Il racconto, in prima persona, scorre veloce, incalzante, costellato di humour e di argute riflessioni. Contrariamente a quanto accade nel romanzo di Nabokov, in cui il protagonista muore in carcere, di trombosi, due mesi dopo aver compiuto il crimine, in Lodo, Torrentera conclude il suo racconto tre mesi dopo il delitto di cui è stato accusato, lasciando così presumere che sia sopravvissuto. Quanto, però, lo stesso protagonista osserva, in margine al Fedone: “Fare filosofia è far pratica d’essere morti”, rimette tutto in gioco e apre ad ogni possibile conclusione. Tra le opere, appartenenti al genere noir, che segnano gli anni Novanta, uno spazio particolare merita El miedo a los animales (1995), di Enrique Serna (La paura degli animali, Roma, Voland, 2006). Anche Enrique Serna, come già, prima di lui, Sergio Pitol, nel momento in cui adotta la forma della novela negra è uno scrittore e saggista affermato, ma ancora del tutto estraneo al genere; in seguito, pur continuando a cimentarsi con diverse forme di narrativa, dedicherà particolare cura al romanzo storico, nel quale fornirà prove eccellenti con El seductor de la patria (1999), il romanzo da lui dedicato al “dictador resplandeciente”, il generale Antonio López de Santa Anna, e con Ángeles del abismo, 2003 (tradotto, con il titolo Angeli dell’abisso, dalle edizioni E/O, Roma, 2004), storia di un amore sventurato fra una giovane spagnola, Crisanta Cruz, e un indiano, Tlacotzin, ambientata nel sec. XVII. In El miedo a los animales, la soluzione del crimine, che consente al protagonista di sopravvivere, non allontana la “paura” cui accenna il titolo, poiché le cause del delitto indagato si rivelano sociali, anziché concrete e individuali. A questo risultato tende tutta la costruzione narrativa di Enrique Serna. Protagonista del romanzo è Evaristo Reyes, ex giornalista di “nota roja” (cronaca nera). Quando compare, nelle pagine esordiali, ha già rinunciato agli ideali della gioventù, entrando a far parte della polizia. A causa di una situazione in cui il caso gioca un ruolo rilevante, decide di non tradire ciò che resta della sua dignità e salvare un giornalista delle pagine culturali, il quale, a causa dei suoi articoli contro il Presidente della Repubblica, è divenuto un bersaglio del capo di Reyes, il temibile Maytorena. Roberto Lima – così si chiama il temerario giornalista - viene assassinato prima che la polizia possa soccor-

Don Cherry, QBO, Bologna, 1987

rerlo. Per risolvere il delitto – e scoprire i colpevoli dell’omicidio – Evaristo ha, finalmente, l’occasione di frequentare i circoli intellettuali più esclusivi, quelli di cui, giovane, tanto avrebbe voluto far parte. La delusione, però, è cocente ed Evaristo torna alla “Procuraduría de Justicia”, al suo lavoro di poliziotto. Enrique Serna trova, così, nella novela negra, il mezzo ideale per denunciare l’ipocrisia, la vacuità, la bassezza morale dell’ambiente intellettuale, al cui confronto quello della polizia, a tutti noto come corrotto e infido quando non criminogeno, risulta, alla fine, persino preferibile. 103


Frank Zappa, Fiera di Bologna, 1982


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