Letteraria n° 6 Ottobre 2012

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ISBN 9788889772836

9 788889 772836

€ 10,00

SILVIA ALBERTAZZI, BRUNO ARPAIA, MARCO BALIANI, ALBERTO BERTONI, UGO BOGHETTA, PINO CACUCCI, CASA DEL VENTO, RAFFAELLA CAVALIERI, GIUSEPPE CIARALLO, MARIA ROSA CUTRUFELLI, ANGELO FERRACUTI, MARCELLO FOIS, FRANCO FOSCHI, AGOSTINO GIORDANO, CARLO LUCARELLI, MILENA MAGNANI, ROBERTO MANUZZI, ALFREDO PASQUALI, GIANNI PAOLETTI, NAZARENO PISAURI, GIAMPIERO RIGOSI, ANDREA SATTA, ALBERTO SEBASTIANI, STEFANO TASSINARI, TETES DE BOIS, PAOLO VACHINO, FILIPPO VENDEMMIATI, WU MING 1

Alegre

Spedizione in Abbonamento Postale 70% DCB Roma

n.6 · ottobre 2012 nuova rivista letteraria semestrale di letteratura sociale anno 3 n.6 ottobre 2012

semestrale di letteratura sociale



di Alberto Bertoni

U

n amico orchestrale della Scala mi ha raccontato una volta che – a distinguere Carlos Kleiber da tutti gli altri direttori – era la sua capacità di riconoscere la stoffa, la forza, la precisione di ogni suono prodotto da ogni singolo strumento. Ma questa formidabile capacità analitica veniva poi messa da Kleiber al servizio di un’intelligenza generale della partitura e della competenza emotiva e ricettiva del pubblico. Questo ricordo mi è tornato spontaneo alla mente nel momento preciso in cui ho cercato di ragionare sul rapporto intrattenuto da Stefano Tassinari con la letteratura, nel segno mirabile (e oggi molto raro) di una partita assolutamente equilibrata e perfettamente dialettica tra la fase del leggere e quella del comporre in prima persona. Non c’era libro narrativo (non solo italiano, ma appartenente alla cultura occidentale in senso lato) che Stefano non avesse letto e non c’erano stile, lingua, apparato tematico di qualsivoglia scrittore o scrittrice che Stefano non sapesse riconoscere d’acchito, come una sorta di griffe individuale deposta sulla pagina. Tuttavia, una simile esattezza analitica non rimaneva mai fine a se stessa, limitata al rango di una percezione estetizzante che si limitasse a riconoscere il bello, l’etico o il riuscito. No, tale timbro di vero conoscitore veniva poi dinamizzato in un esercizio di ricezione plurale e politico, collettivo e conoscitivo: in una parola, doveva trasformarsi in un atto a pieno titolo sociale. Tassinari, d’altra parte, è appartenuto alla prima generazione novecentesca che ha saputo liberarsi, seppure con molta fatica, dell’idealismo crociano e della dicotomia di poesia (l’epifania lirica) e non poesia (la struttura, la valenza di pensiero). Solo negli anni Settanta, infatti, la letteratura si è aperta a nuove scienze sociali quali la psicologia e la sociologia, l’antropologia e la linguistica, la psicoanalisi e l’epistemologia. Essere una rivista di “letteratura sociale” è il presupposto vivo e necessario di Letteraria, l’ultima scommessa vinta dal Tassinari scrittore e agitatore di idee: e chissà perché quasi nessuno ha ricordato – commemorandolo – che Stefano è stato anche un giocatore esperto e appassionato di roulette. Questa scommessa è coincisa con un contributo critico non meno essenziale di quello creativo. “Sociale”, nella sua visione, non è sinonimo di “politico”, di “ideologico”, di “allegorico”, di “realistico”, di “epico” né tantomeno di “trasgressivo”, di “sovversivo” o di “rivoluzionario”, ma è sigla che può di volta in volta contenere ciascuna di queste accezioni, mettendole però costantemente in relazione, comprendendo nel proprio orizzonte produttivo anche la necessità di rivolgersi alla società aperta, liquida e pluristratificata della contemporaneità, rimarcando la natura orale e performativa non solo della poesia ma anche della prosa e non facendo mai della natura militante di un testo una dominante obbligata o un a priori. È sufficiente, da questo punto di vista, rileggere le opere dei compagni d’ambiente bolognese di Tassinari (non mi viene di scrivere “Scuola” solo per quel senso di pudore e di understatement che ho sempre condiviso con Stefano), per rilevarne la varietà linguistica e inventiva, la molteplicità sperimentale, la volontà per così dire spontanea di mettere la letteratura in dialogo con altri media e altre tecniche artistiche (dal cinema alla TV, dalla performance teatrale alla musica contemporanea, dalla fotografia alla canzone), la capacità di intrecciare nelle proprie opere forme raffinate e destinazioni popolari: un’ideale galleria che comprenda le storie compositive di scrittori come Lucarelli e Fois, la Magnani e Lolli, Baldini e Rigosi, i Wu Ming (considerati anche singolarmente) e Cacucci, la Vinci e Macchiavelli può dar conto di un’idea di letteratura di cui Tassinari è stato promotore e garante, sobillatore e giudice critico, oltre che coprotagonista di gran classe. Ed è stato Stefano stesso a definire nel modo più esatto cosa intendesse con la sigla di “letteratura sociale”, nell’editoriale del primo numero di Letteraria, datato maggio 2009: un crogiuolo di “elementi quali Storia e memoria, conflitto e lavoro, attualità e cambiamento di costume”, portato al giusto grado d’incandescenza da uno “specifico letterario” di stoffa non molto distante da quello in altro tempo storico preconizzato e descritto da Gramsci. E io conosco per sua confessione diretta quanto sia stato fiero di aver prima provocato e poi pubblicato – su Letteraria del novembre 2010 – il pezzo magistrale dedicato da Stefano Colangelo proprio al Gramsci dei Quaderni del carcere e a quel suo “metodo di analisi critica della cultura” in cui Tassinari si riconosceva: “seguire il farsi della mutazione, dare conto della complessità”. Volendo infine dedicare qualche riga al Tassinari autore, occorre porre bene in rilievo – soprattutto per quanto concerne il suo tempo ultimo – l’importanza primaria del vincolo di Storia e memoria, perché il vero problema degli anni Duemila non coinvolge tanto gli scrittori, quanto un pubblico sempre più distratto e soggiogato dalle dinamiche mercantili e pubblicitarie, sempre più antropologicamente alzheimeriano. E il suo modo “molecolare” di presentare i propri libri, davanti a platee spesso ristrette ma sempre partecipi e coinvolte direttamente nel dialogo letterario, può diventare un modello etico e conoscitivo irrinunciabile per ogni scrittore degno di questo nome. 1

EDITORIALE

❚ Esercizi di ricezione


Ritagli di Tempo 1969, Teatro ITC di San Lazzaro (Bo), 2009 - foto Luca Gavagna


di Marcello Fois

N

on è facile scrivere di Stefano. Non è facile descrivere quale fosse il nostro rapporto. La morte rende ogni vita letteraria. La sua in particolare che è stata terribile, irraccontabile. Che è stata una terra di nessuno. Una sospensione del reale. Nessuna notte è passata così lentamente come quelle nell’Hospice, ad aspettare. Senza dirsi che si stava aspettando. Senza dirsi che occorreva abbandonare ogni pudore davanti all’oscenità di quanto stava succedendo. Eppure c’è voluto del tempo perché capissi che Stefano aveva trattato la sua malattia come la sua scrittura. L’aveva cioè rubricata nella categoria delle cose per le quali vale la pena di sacrificare se stessi. Troppo a lungo ha coltivato la sensazione di essere inadatto ai tempi che era costretto a vivere, la malattia, improvvisamente, saturò quel vuoto. Io lo conoscevo prima e lo leggevo prima. Dopo la malattia, che lui sapeva descrivere con terribile pignoleria, la sua scrittura è cambiata. È diventata paradossalmente meno urgente, di gran lunga più piana. Una scrittura distesa e lineare, senza contrazioni, come se stesse sperimentando uno spazio infinito. La malattia donò a Stefano la narrativa, prima era scrittore, certo poeta, ma non narratore. Il suo capolavoro è l’ultimo racconto Il ricordo amaro di un’assenza, per Lavoro Vivo. Scritto in un momento terribile, quando si era manifestata la metastasi al cervello, quando sfinito si addormentava sulla tastiera. Eppure non si capisce in quale punto preciso di questo resoconto puntuale siano accadute quelle rotture. Il ritmo è interno e febbrile, perché c’è tutto da dire e poco tempo per farlo. Se avesse finito quel racconto non sarebbe mai morto: è questo che pensava. Perché la scrittura di Stefano non è mai stata tanto risonante, tanto pura, tanto impudica, come in questo racconto. Era stato un autore complesso, compromesso con la versificazione, perennemente in bilico tra lo snobismo e il movimentismo; perennemente intento a dire e non dire, come se l’intento fosse di mantenere intatto il suo segreto. Non dava l’idea di essere qualcuno in vena di confidenze Stefano, lo conoscevo da venticinque anni e non avevo mai incontrato sua madre, non ero mai stato nella sua casa di Ferrara. Erano rarissime, se non dopo la malattia, le volte in cui ci capitava di cenare o pranzare insieme. Credo che mi ritenesse un autore dotato, ma sprecone, incapace di afferrare il centro della sua scrittura, fra quello che scrivevo, amava moltissimo delle cose e ne detestava altrettanto delle altre, senza soluzione di continuità, come se io non fossi io, ma due o tre persone differenti. Mi rimproverava spesso e spesso mi invitava ad afferrare con chiarezza una sostanza. Non riusciva a capire come, dentro alla stessa scrittura potessero convivere un’anima così pop e un’anima così letteraria, nel senso estremo del termine. Ho sempre pensato che quando la sua vita sarebbe diventata un materiale sensibile anche la sua scrittura – controllatissima, spesso algida, cucinata come una pietanza di alta cucina molecolare­– sarebbe cambiata. Assalti al cielo, I segni sulla pelle, D’altri tempi, a rileggerli in quest’ordine appare in tutta la sua chiarezza quanto sia stato incredibile questo percorso dalla scrittura alla narrazione. Quanto cioè la scabra puntigliosità stilistica di Stefano si sia stemperata in un flusso costante, come un tessuto cedevole sotto al calore della stiratura. Quello sperimentare era Hibris, era presunzione di immortalità, come tutte le volte che si ha la sensazione di avere davanti a noi un tempo immenso. La malattia mise Stefano davanti alla sua finitudine, come ogni scrittura dovrebbe fare. Nei suoi ultimi giorni spesso chiese di non essere esposto agli sguardi altrui senza dignità, col pannolone, con le gambe scoperte. E me lo chiese scuotendo la testa perché tra noi non c’era mai stata quell’intimità. Leggere il suo ultimo racconto mi fece esattamente quell’effetto di tenero imbarazzo che vivevo tutte le volte che dovevo accompagnarlo in bagno, o aiutarlo a rivestirsi dopo una visita. O sfinirlo di domande su tutto quanto gli occorresse, non tanto per lui quanto per me. Ed è per questo che l’impudicizia dello scrittore ci pare così risonante: perché parla di noi stessi. Non mi manchi Stefano, ci sei. Arrivederci.

3

EDITORIALE

❚ L’impudicizia dello scrivere


Link - Bologna, 1998 foto Raffaella Cavalieri

sommario

nuova rivista letteraria Edizioni Alegre semestrale di letteratura sociale, anno 3 (4) numero 6 (8), ottobre 2012, prezzo di copertina euro 10, abbonamento annuale a due numeri euro 15, da versare sul Conto Corrente Postale 65382368 intestato a "Edizioni Alegre soc. coop. giornalistica, C.ne Casilina, 72/74 - 00176 Roma". Causale: "abbonamento Letteraria" Autorizzazione del Tribunale di Bologna n.8078, rilasciata in data 24 aprile 2010 Rivista fondata da Stefano Tassinari Collettivo redazionale Silvia Albertazzi, Bruno Arpaia, Dunja Badnievic, Marco Baliani, Guido Barbujani, Michael Becker, Alberto Bertoni, Pino Cacucci, Guido Caldiron, Salvatore Cannavò, Massimo Carlotto, Beppe Ciarallo, Emidio Clementi, Mauro Covacich, Maria Rosa Cutrufelli, Mario Dondero, Angelo Ferracuti, Marcello Fois, Luca Gavagna, Niva Lorenzini, Carlo Lucarelli, Milena Magnani, Giovanni Marchetti, Pier Damiano Ori, Giampiero Rigosi, Alberto Sebastiani, Paolo Vachino, Massimo Vaggi, Grazia Verasani, Simona Vinci, Wu Ming Hanno collaborato Ugo Boghetta, Casa del Vento, Franco Foschi, Agostino Giordano, Roberto Manuzzi, Gianni Paoletti, Alfredo Pasquali, Nazareno Pisauri, Têtes de Bois, Filippo Vendemmiati Direttore responsabile Salvatore Cannavò Progetto grafico Le Immagini - Ferrara Impaginazione ed elaborazioni grafiche Carlo Manzo Stampa Spedalgraf Stampa Via Cupra 23, 00176 Roma

copertina

colophon

n.6 · ottobre 2012

Una vita... Wu Ming 1

5

Intervento a un comizio della Fiom 47

Que linda es Cuba Carlo Lucarelli

9

Nicaragua, violentemente dolce Pino Cacucci

Anni Settanta, una matassa di storie ingarbugliate 49 Bruno Arpaia

12

La voce, la memoria del corpo Marco Baliani, Wu Ming 1

16

Il dizionario perduto. La responsabilità della parola “comunismo” 53 Alberto Sebastiani

La volontà e la calma di chi vuole sovvertire il mondo Angelo Ferracuti

21

Il mago della parola 23 Andrea Satta (Têtes de Bois) Lettera a Stefano Roberto Manuzzi

25

Fottiti America Massimiliano Gregorio (Casa del Vento)

27

La cultura come elemento fondante dell’iniziativa politica Agostino Giordano

31

Hai presente Christoph Hein? 35 Milena Magnani Un aneddoto, un ricordo e un’intervista Giuseppe Ciarallo

40

La freccia del racconto Maria Rosa Cutrufelli

59

Stefano for President Filippo Vendemmiati

62

Cucina letteraria Giampiero Rigosi

65

La manipolazione della memoria Intervista di Franco Foschi

68

Ricordo (dolce?) di un’assenza Silvia Albertazzi

73

Quattro testimonianze 77 Ugo Boghetta, Alfredo Pasquali, Gianni Paoletti, Nazareno Pisauri Mettere le gambe ai libri Paolo Vachino

83

Stefano: i primi anni

86

Le foto pubblicate in questo numero sono di Angelo Ferracuti, Stefano Calanchi, Mario Carlini, Sergio Caselli, Raffaella Cavalieri, Stefania De Salvador, Andrea Del Zozzo, Mario Dondero, Luca Gavagna, Sandra Pareschi, Roberto Serra, Archivio Stefano Tassinari.


Al posto di un elenco di date, libri e quant’altro Ritagli di Tempo 1969, Teatro ITC di San Lazzaro (Bo), 2009 - foto Luca Gavagna

❚ Una vita... di Wu Ming 1

Q

uello che al momento non è possibile offrire: un lavoro biografico esteso, una bibliografia completa, una cartografia degli eventi e momenti creati da Stefano nel corso della sua esistenza.

❝Stefano inventa «cornici» - oggi

si direbbe format - per incontri e incroci, collegamenti e innesti reciproci tra musica dal vivo, letteratura ad alta voce, fotografia, messaggio politico e arti culinarie... ❞ 5


nuova rivista letteraria Nei mesi scorsi abbiamo udito e letto tanti aggettivi, come mani che cercano di afferrare un mulinello d’acqua. Forse potranno raccogliere gli oggetti che il mulinello aveva attratto e faceva vorticare (un barattolo, l’ochetta di plastica di un bimbo, il berretto di un pescatore), ma il mulinello stesso no, non si può stringere tra le dita. Stefano era «poliedrico», ovvero simile a un solido che presenta più facce piane poligonali. Stefano era «eclettico», colui che sceglie, che fa una cernita e mette insieme oggetti diversi. Stefano era «versatile», quindi in grado di cambiare direzione. Mah. È vero che un vocabolo non è la sua etimologia - altrimenti dovremmo chiamare «denaro» (che sta per dieci) solo i biglietti da dieci euro e le monete da dieci centesimi - ma quando un vocabolo è abusato e diventa cliché, allora perde forza immaginifica, e quando viene pronunciato suona debole e spossato, come stesse per cadere all’indietro, per riaccasciarsi sulla propria origine. E così, «poliedrico» evoca la geometria: punti e linee, lati diritti, angoli appuntiti. «Eclettico» fa pensare a uno che pesca di qua e di là. «Versatile» richiama una banderuola agitata dai venti. Nessuno di questi attributi può rendere l’idea dell’attività molteplice di Stefano come scrittore giornalista drammaturgo autore e conduttore radiofonico e televisivo organizzatore di festival rassegne e presentazioni di libri promotore di iniziative viaggiatore militante politico intellettuale marxista commentatore sportivo. Ho tolto le virgole perché non c’era separazione tra questi aspetti del suo fare, né spaziale né temporale. Noi stiamo cercando di ricostruire e mappare questo concatenamento esteso un’intera vita, senza la pretesa di afferrare il vortice, ma ponendo attenzione agli oggetti che il vortice aveva raccolto - eklektos, appunto: se diciamo che a essere eclettico non è l’individuo ma il concatenamento stesso, allora il termine suona meno stereotipato - e fatto ruotare insieme. Questo numero speciale di Letteraria è un primissimo sguardo d’insieme, al quale seguirà un lungo (e prevedibilmente accidentato) lavoro di composizione di un archivio. Qui di seguito, alcuni dati e momenti essenziali. Risultano un po’... sviliti dalla linearità, dall’esposizione approssimata e lacunosa, ma i testi raccolti in questo numero li riscatteranno, rendendo giustizia quasi a ognuno di essi. Stefano nasce la sera del 24 dicembre 1955, in una famiglia della piccola borghesia ferrarese. Per tutta la vita, il regalo di compleanno coinciderà con quello di Natale.

Entra nell’adolescenza nei tardi anni Sessanta, mentre un’ondata di cambiamento investe il Paese, accendendo lotte civili e sociali, innescando reinvenzioni della tradizione di sinistra e miscelandole con musiche rock, pop, jazz e influenze delle controculture d’Oltremanica e d’Oltreatlantico. Persino la sonnacchiosa Ferrara è investita da quei flussi. Stefano si immerge nella temperie, suonando basso, chitarra, armonica a bocca in diverse formazioni (all’epoca li chiamano «complessi»). La sua passione più grande: i Rolling Stones. Nel 1970, quindicenne, organizza il suo primo sciopero: impegnato in un lavoro agricolo stagionale insieme ad alcuni coetanei, apprende dalla radio che è morto Jimi Hendrix e propone una «fermata» lungo i filari del frutteto. I ragazzi si siedono a terra per commemorare il loro idolo, il padrone non ha mai visto niente del genere, non sa chi sia ‘sto Endrics, non sa cosa pensare. Nel decennio che comincia, oltre a suonare, Stefano milita nella galassia della cosiddetta «nuova sinistra», come membro di Avanguardia Operaia. Per alcuni anni si stabilisce a Roma, dove si sposa e si separa. Come molti giovani dell’epoca sperimenta la vie en commune, con coabitazioni di vario genere. Scrive sul «Quotidiano dei lavoratori», organo di Avanguardia Operaia. Poi torna a Ferrara. Frequenta la facoltà di psicologia a Padova e intanto continua a fare politica, trasmette su radio libere, organizza concerti e per quel viatico diventa amico di diversi musicisti e cantautori. Non a caso, nel 1979 si laurea con una tesi sul ruolo della musica nel movimento di contestazione giovanile. In questi anni, su impulso e con grande sbattimento di Stefano (non solo suo, ma è un elemento-chiave), nasce a Ferrara la cooperativa culturale «Charlie Chaplin»: musica, teatro, rassegne cinematografiche, editoria, organizzazione e gestione di corsi e sale prove, produzione di documentari e pubblicazione di una rivista mensile, Luci della città. È proprio la «Charlie Chaplin» a pubblicare, nel 1980, il primo romanzo di Stefano, Riflesso di ruggine, ed è sempre la «Charlie Chaplin» a produrre, nel 1984, il documentario Nicaragua libre… Centro America, firmato da Stefano e Luca Gavagna, prezioso documento di un viaggio-inchiesta nella rivoluzione sandinista. Nel frattempo, Stefano è diventato segretario della federazione ferrarese di Democrazia Proletaria. Dopo la laurea in psicologia, si iscrive al DAMS di Bologna, ma lascerà perdere. Inizia comunque a «gravitare» intorno al capoluogo regionale, dove nel giro 6


WU MING 1

Berlino, 1981 - foto Sandra Pareschi

di pochi anni diventa inviato della TV locale Rete 7 e addirittura direttore del telegiornale. L’esperienza dura per il tempo necessario a lasciare un segno nelle memorie di molti bolognesi: negli anni Novanta - in uno dei tipici «rimpasti» del mondo dell’informazione - lo estrometteranno e dovrà reinventarsi vita e mestiere. Non gli risulterà difficile, perché nel frattempo si è dato da fare in più campi: è già un apprezzato operatore culturale e promotore di eventi e, come scrittore, ha già pubblicato diversi libri: All’idea che sopraggiunge (1987), Ai soli distanti (1994) e Assalti al cielo (1998), oltre a un «cd letterario», Lettere dal fronte interno (1997), con la collaborazione di musicisti come Mauro Pagani e Roberto Manuzzi. Quest’ultimo lavoro è un’opera «seminale», che annuncia nuove ibridazioni. Forse proprio con Lettere dal fronte interno ha il suo vero inizio il «concatenamento-Tassinari»: negli anni a seguire, Stefano produrrà - in un modo davvero peculiare, riconoscibilissimo - diverse sintesi delle sue passioni: l’impegno civile, la letteratura, la musica, il reportage... e anche la buona cucina. Stefano inventa «cornici» - oggi si direbbe format - per incontri e incroci, collegamenti e innesti reciproci tra musica dal vivo, letteratura ad alta voce, fotografia, messaggio politico e arti culinarie. I format che riscuo-

tono più successo - tanto che li ripropone in mezza Italia per tutti gli anni zero - sono forse «La parola immaginata» e la «Cena con l’autore». Stefano ne è l’ideatore, l’organizzatore e il maestro di cerimonie. «La parola immaginata» vede la presenza sul palco di Stefano, dell’autore di un libro, di uno o più attori, di musicisti che suonano dal vivo e delle immagini di un fotografo, proiettate sullo sfondo in sequenze mai casuali, per «contrappuntare» visivamente l’inseguirsi di parole e musica. È sempre Stefano a intuire la combinazione giusta: il tale romanzo richiama alla mente i tali musicisti, e quest’insieme richiama alla mente le immagini scattate dal tale fotografo. La «Cena con l’autore» è un momento di commensalità tra uno scrittore/scrittrice e i suoi lettori. Stefano l’organizza in ristoranti, osterie e addirittura mense universitarie di diverse città tra Emilia-Romagna e Marche. Si partecipa su prenotazione, e nel prezzo della cena è inclusa una copia del libro che verrà presentato. In questi anni Stefano fonda l’Associazione Scrittori di Bologna, un tentativo di «fare comunità» tra colleghi nella città italiana con più romanzieri in rapporto alla popolazione. Nel 2000, l’ASB vola all’Avana, parte integrante della delegazione italiana alla Feria Intercontinental del Libro. 7


nuova rivista letteraria

all’Hospice Seràgnoli di Bentivoglio, pochi chilometri a nord di Bologna. Le ultime due settimane sono affollate di amici e compagni, come sempre è stato ogni momento della sua vita. Si festeggia addirittura il 25 Aprile, con le chitarre, seduti sull’erba del cortile. E anche nell’ineluttabilità di un decorso, nella marcia cadenzata di un tempo eterodiretto, Stefano riesce a ricavare un ultimo interstizio di autonomia: muore perché lo vuole la logica del male che lo consuma, ma muore nel momento che decide lui, perché la mente funziona così, non c’è davvero separazione tra pensieri consci e inconsci, prendiamo decisioni anche mentre dormiamo, persino nel coma, anche quando tutti pensano che non sentiamo più nulla. Per la prima volta dopo giorni, Stefano rimane solo. - Va bene, è il momento. - dice la sua mente. - Si va! - dice al corpo, e il cuore smette di battere. È la mattina dell’8 maggio. L’ultima volta che lo abbiamo salutato era il 10 maggio e c’erano tante bandiere: quelle delle sue squadre del cuore (l’Inter e la Spal), quelle di Democrazia Proletaria e del PRC, e quella del Frente Sandinista de Liberación Nacional. Tutta la sua vita è stata concatenamento, e il concatenamento prosegue.

Nel frattempo, Stefano ha conosciuto Stefania, che ha le sue stesse passioni e diventa prima la sua compagna (nonché complice e collaboratrice) e, più tardi, sua moglie. Insieme militano nel Partito della Rifondazione Comunista. Nel primo decennio del XXI secolo, Stefano scrive ben quattro romanzi: L’ora del ritorno (2000), I segni sulla pelle (2003), L’amore degli insorti (2005) e Il vento contro (2008). I temi affrontati sono la Resistenza (nei suoi aspetti meno conosciuti), le spaccature nel movimento comunista internazionale, i traumi dello stalinismo, le violenze poliziesche al G8 di Genova 2001, le rimozioni e falsificazioni delle lotte degli anni Settanta. Nel 2004, una biopsia troppo a lungo rinviata, un foglietto pieno di numeri, una diagnosi che costringe a una lunga battaglia. Stefano strapperà coi denti otto anni di vita, otto anni pieni di progetti realizzati, libri curati e scritti, eventi organizzati, viaggi (a Berlino sulla tomba di Rosa Luxemburg)... e una nuova avventura: la fondazione della rivista che, proprio ora, tenete tra le mani. Nel 2011 esce per i tipi di Alegre la raccolta di racconti D’altri tempi. Nell’aprile 2012, ormai allo stremo, viene ricoverato 8


Bologna, 2003 - foto Raffaella Cavalieri

… non riuscivo a togliermi dalla testa il ciccione con la mano sul sedere della ragazzina…

❚ Que linda es Cuba di Carlo Lucarelli

C

ontinuavo a pensare alla mano del ciccione sul sedere della ragazzina. Infilata sotto il suo costume, le sue dita bianche da nordeuropeo abbrancate alla sua chiappa abbronzata da mulatta. Stavano stesi sulla battigia della spiaggia di Varadero, a Cuba, accarezzati da onde gentili, sotto un sole che redeva giustizia più a lei che a lui, proni sulla sabbia bianca. Lei parlava con un’altra ragazza in bikini e lui le teneva la mano dentro il costume. Data l’età avanzata del tizio e pure la sua conformazione fisica, messe in confronto con quelle della ragazza, si capiva immedia9

❝ Resistere,

rifondare, ricostruire: da allora dodici anni di vita letteraria e intellettuale di Stefano sono stati soprattutto questo. ❞


nuova rivista letteraria

Con Mario Dondero ad Altidona (FM), 2011 - foto Angelo Ferracuti

Con Daniel Chavarria, che aveva il personaggio di una jinetera – una prostituta occasionale – nel suo ultimo libro, il discorso finì subito lì, ma riguardava soprattutto Cuba, la sua situazione economica e sociale e tante altre cose. Poi, come succede con Chavarria, prese una piega molto ludica e parecchio alcolica e finì altrove. Io, però, non riuscivo a togliermi dalla testa il ciccione con la mano sul sedere della ragazzina. Ne parlammo con Stefano, dopo che Daniel e il poeta se ne furono andati a casa, Simona a letto e noi due sul terrazzone di quella casetta, in una calda nottata del febbraio cubano. Ne parlammo perché era una cosa che riguardava noi, in tutti i sensi, anche noi che piuttosto che infilarla lì in quel modo, la mano, ce la saremmo fatta tagliare. Qualche giorno prima, infatti, durante il viaggio di andata, era successa una cosa. Avevamo preso un volo della compagnia di bandiera cubana, che costava meno, ed eravamo finiti in mezzo a due gruppi organizzati – uno che veniva da Brescia e uno che veniva da Ravenna – che an-

tamente che si trattava di un rapporto mercenario, turista nordqualcosa e jinetera cubana, che sull’isola, soprattutto in quegli anni, capitava spesso di incontrare. Quello che dava più fastidio, però, era l’atteggiamento. Così arrogantemente e spudoratamente pubblico, quella mano ad artiglio su una proprietà da esibire senza pudore e senza nessun rispetto per la cultura, la dignità, l’onore, di un paese in difficoltà, anzi, ancora meglio. Insomma, letteralmente, i porci comodi. Eravamo in una casetta nel quartiere Vedado presa in affitto grazie ad una recente liberalizzazione nell’economia semiclandestina cubana, io, Simona Vinci e Stefano Tassinari. Eravamo andati a Cuba per partecipare alla Fiera del Libro e c’eravamo andati in rappresentanza dell’Associazione ScrittoriBologna, e da bravi scrittori bolognesi finiva spesso che la sera avessimo ospiti a cena. In quell’occasione c’erano Daniel Chavarra e un poeta orale – uno stornellatore, da noi – e Stefano era, ovviamente, a spadellare in cucina.

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LUCARELLI

Raccontando: Dino Buzzati, Teatro ITC di San Lazzaro (Bo), 2011 - foto Andrea Del Zozzo

Parlammo di questo, quella sera. Di colonialismo, di sfruttamento, di diseguaglianza e di ingiusitizia sociale, di politica anche internazionale, ma soprattutto di una cultura e di un atteggiamento, di una sensibilità al contrario che sembravano molto private e molto individuali – ma sapevamo che non lo erano – che ci avevano fatto paura. Non eravamo così ingenui da stupirci del fenomeno, eravamo spaventati dalle sue proporzioni e dal suo modo di manifestarsi. Era il 2000, il peggio dell’era berlusconiana, con la sua cultura, i suoi atteggiamenti e la sua sensibilità al contrario, doveva ancora venire, ma ne avevamo avuto un assaggio. Resistere, rifondare, ricostruire: da allora dodici anni di vita letteraria e intellettuale di Stefano sono stati soprattutto questo.

davano a Cuba per fare turismo sessuale. Non è che lo immaginavamo, lo sapevamo perché lo dicevano esplicitamente, alcuni vecchi bresciani c’erano già stati e raccontavano ad alcuni giovani romagnoli dove andare e cosa fare. Soprattutto c’era questo vecchino in canottiera – faceva un gran caldo nell’aereo – con un sigaretta all’angolo della bocca, che andava su e giù per l’aereo a raccontare le sue imprese agli altri, con la stessa spudorata arroganza del ciccione sulla spiaggia. Era come se ce l’avesse anche lui una mano sul sedere di una giovane mulatta. Arriva il momento dell’atterraggio e la hostess gli chiede di sedersi e di spegnere la sigaretta e lui gonfia il petto sotto la stoffa bianca cannettata, le soffia quasi il fumo in faccia e dice “sono italiano e faccio il cazzo che mi pare”. Io e Stefano eravamo seduti lì accanto e ci siamo alzati. Se il vecchino ci avesse detto qualcosa sono sicuro che lo avremmo menato. Forse lui se ne è accorto o forse si era solo stancato di stare in piedi ma si è seduto e ha spento la sigaretta.

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Non era soltanto un “uomo di lettere”, Stefano. Credo sia giusto ricordarlo

Managua (Nicaragua), 1984 - foto Luca Gavagna

❚ Nicaragua, violentemente dolce di Pino Cacucci

I

n una delle ultime nottate trascorse accanto a Stefano, a un certo punto mi ha detto: “Non hai ancora consegnato il pezzo per Letteraria, peccato, sai quanto mi è stato a cuore il Nicaragua”. E sorrideva dolcemente, perché la sua doverosa severità di direttore che richiamava ogni volta all’ordine chi si era preso l’impegno di scrivere, diventava sempre più benevola e affettuosa, avvicinandosi alla fine. Mi sono guardato bene dal dirgli che preferivo esse-

❝ La guerra in Nicaragua, se vista

dalla parte della disinformazione nostrana, fu un verminaio di menzogne elargite a man bassa da “inviati” che scrivevano comodamente da New York, e con Stefano ci sfogavamo a vicenda sulla vergognosa valanga di articoli che propinavano una realtà stravolta... ❞ 12


CACUCCI

Intervista al Ministro della Cultura Nicaraguense, Ernesto Cardenal - Managua (Nicaragua), 1984 - foto Luca Gavagna

re lì, anziché a casa a scrivere. Ma resta il rimpianto di non avergli consegnato il testo che gli avevo proposto io stesso nell’ultima riunione al caffè La Linea. Ora, diventa l’occasione per ricordare quanto gli stesse a cuore, il Nicaragua. L’amicizia con Stefano Tassinari iniziò negli anni ottanta, quando entrambi frequentavamo quel piccolo paese centroamericano, poverissimo e martoriato dalla Storia e dai disastri naturali, che allora difendeva la dignità di un intero continente. Ad attrarre lo spirito libertario di Stefano fu, come anche per me, quella singolare – e assolutamente inedita – miscela rivoluzionaria di socialismo tropicale e cristianesimo di base, dove un’insurrezione in armi contro una sanguinaria dinastia di tiranni aveva prodotto, per una volta, una democrazia che si sottopose ben presto a libere elezioni, anziché un nuovo potere autoritario. Ben tre sacerdoti erano ministri di governo, e Stefano in Nicaragua realizzò reportage televisivi rendendo con pacata sapienza la quotidianità di un paese devastato ma pieno di speranze, intervistando senza alcun preconcetto innumerevoli persone, e dando spazio soprattutto a esponenti di quella Chiesa dei poveri che, da soli, infrangevano le menzogne dell’era reaganiana, che spacciava sbrigativamente quella realtà come “dittatura comunista”, quando, semplicemente, i nicara-

guensi tentavano di vincere la miseria, non di sfidare il “nuovo ordine mondiale”. Tanti anni dopo, Stefano mi ha raccontato di una notte in cui rischiò davvero la pelle: stava attraversando le montagne del nord, credo tra Matagalpa e Estelí, dove a metà degli anni ottanta i sandinisti combattevano contro le infiltrazioni di mercenari dalle basi in Honduras, lui tornava da una serie di interviste nelle cooperative agricole, e dietro una curva della strada sterrata si ritrovò a fare da bersaglio a una pioggia di proiettili. Un gruppo di contras che sparava al primo (unico) veicolo in transito. Spenti i fari, aveva proseguito alla cieca, inseguito dai traccianti, temendo per di più di finire in un burrone, visto che doveva tenere premuto l’acceleratore. Non era la prima volta, che Stefano sfiorava la morte per il suo impegno politico. Non amava raccontarlo, non se n’è mai fatto un vanto, ma io so, per esempio, che in un’altra notte, tempo addietro, quando negli anni settanta stava a Roma, si asserragliò nella sede di una radio libera mentre, fuori, i fascisti tentavano di sfondare la porta. Stefano e i pochi redattori ammassavano mobili, impugnando quel che si poteva impugnare, pronti a qualsiasi evenienza. Non era soltanto un “uomo di lettere”, Stefano. Credo sia giusto ricordarlo. La guerra in Nicaragua, se vista dalla parte della di13


nuova rivista letteraria sinformazione nostrana, fu un verminaio di menzogne elargite a man bassa da “inviati” che scrivevano comodamente da New York, e con Stefano ci sfogavamo a vicenda sulla vergognosa valanga di articoli che propinavano una realtà stravolta, e lui ce l’aveva in particolare con una ormai celebre “giornalista” che avrebbe fatto una fulgida carriera alla Rai, una volta abbandonata la carta stampata sulla quale aveva lasciato ogni sorta di nefandezza antisandinista, inventandosi addirittura “deportazioni di popolazioni indigene” in zone dove Stefano era presente e poteva testimoniare il contrario. Nel 1987, altro esempio di ciò, il Nicaragua sfidò il clima di guerra organizzando la prima fiera del libro a Managua, e uno dei più diffusi quotidiani italiani pubblicò (firma d’eccellenza) un articolo in cui si sosteneva che “persino il grande poeta José Coronel Urtecho, che aveva abbracciato la rivoluzione, ha voltato le spalle al sandinismo in aperto contrasto, andandosene in esilio volontario in Costa Rica”, eccetera… Peccato che io fossi lì: José Coronel Urtecho aveva inaugurato la fiera fianco a fianco con tutti i comandanti sandinisti, e non si era affatto ritirato sdegnosamente in Costa Rica. Ma era difficile contrastare tante menzogne, e Stefano lo sapeva più di chiunque altro. In quegli anni avrebbe preso corpo anche una delle più immani menzogne di massa della storia: la sedicente “guerra al narcotraffico”. Avviata come slogan da Nixon, fu poi strombazzata ai quattro venti dall’attore di Hollywood eletto presidente. Ebbene, per quanto possa sembrare paradossale, Reagan ha il dubbio merito di aver inventato il crack, inondandone le periferie delle metropoli statunitensi e creando enormi problemi di degrado, disperazione, delinquenza, devastazione sociale. E tutto questo ebbe origine in Nicaragua, o meglio (peggio), nel cosiddetto affaire Iran-Contras. Il veto posto dal Congresso degli Stati Uniti all’aggressione diretta al Nicaragua (che nel 1986 avrebbe portato alla vana condanna della Corte Internazione dell’Aia, praticamente carta straccia), fu aggirato dall’amministrazione Reagan incaricando il colonnello Oliver North (già distintosi nel 1983 per l’invasione di Grenada) di gestire l’operazione della Cia per reclutare, addestrare e finanziare mercenari da inviare in Nicaragua. Delle innumerevoli testimonianze, cito quella dell’ex agente Cia David McMichael, operativo in Centro America: “Gli atti più noti di terrorismo americano in Nicaragua, furono il bombardamento del deposito petrolifero di Corinto nel 1983, poi minammo diversi porti civili nel tentativo di mettere in ginocchio il paese economicamente, e infine ci infiltrammo lungo la frontiera con l’Honduras e assassinammo diversi funzionari civili del governo nicaraguense, fra cui medici, insegnanti, sindacalisti. Per queste ultime azioni ci servimmo di agenti addestrati e pagati da noi che erano noti col nome di contras”.

Per rifornire i famigerati contras di armi sempre più sofisticate (tra cui i missili terra-aria Stinger a ricerca di calore, in grado di abbattere qualsiasi aereo di linea, gli stessi elargiti a piene mani a Bin Laden quando reclutava freedom fighter contro i sovietici in Afghanistan, pure lui sul libro paga della Cia), venne allestito un ponte aereo, ingaggiando piloti mercenari. Il patto, era che i piloti sorvolavano lo spazio aereo nicaraguense (rischiando di essere abbattuti dalla contraerea, come accadde all’ex marine Eugene Hasenfus, catturato, processato, e infine restituito agli Usa), lanciavano armi e munizioni, poi atterravano nelle basi in Honduras, dove i narcos colombiani li “rifornivano” di tonnellate di cocaina. E al ritorno, in aeroporti militari statunitensi, il “carico” veniva addirittura preso in consegna da elementi della Guardia Nazionale, che lo passavano ai cosiddetti “Managua Boys”, i rampolli della borghesia somozista nicaraguense riparati nel dorato esilio di Miami, che a loro volta – secondo gli accordi – distribuivano la cocaina ai vari “depositi” sparsi nelle metropoli statunitensi. A un certo punto la droga era diventata talmente tanta e ingestibile (occorrevano davvero enormi magazzini), che qualcuno si inventò il crack, miscela di coca e bicarbonato da fumare, in modo da smaltire le giacenze in fretta e a basso costo. Una parte del ricavato, andava a finanziare i mercenari. Ma non bastava, quella valanga di dollari (si può facilmente immaginare quali livelli di corruzione e interessi privati coinvolgesse), tanto che si arrivò all’accordo con l’Iran degli ayatollah: armi ai contras in una triangolazione che coinvolgeva Israele… E qui sta forse l’apice dell’immensa presa in giro all’opinione pubblica mondiale: Israele, che era ed è virtualmente il principale “nemico” dell’Iran, non ebbe alcun problema politico o morale a inviare armi in quel paese per fare un favore agli Usa, impegnati nel tentativo di soffocare una rivoluzione davvero diversa da qualsiasi altra, e quindi esempio dirompente nel “cortile di casa” a sud del Río Bravo. Verrebbe da domandarsi: e tutto questo per fare guerra a un piccolo paese povero e disastrato come il Nicaragua? Il problema era di salvaguardare la forma: il Congresso ufficialmente non doveva sapere, e dollari e armi e mine antiuomo e missili, sembravano non bastare mai… Tornando al “pretesto” del pezzo che avevo proposto a Stefano (che sapeva tutto questo e negli anni ottanta tentava strenuamente di divulgarlo), circa un anno fa è uscito anche in Italia un singolare “romanzo”: Il volo del silenzio, di Jorge Real, edito da Longanesi. Jorge Real è detenuto nel carcere spagnolo di Córdoba, e nel 2009, a cinquantanove anni, ha concluso la stesura di questo voluminoso romanzo; sostiene che la decisione di scriverlo l’ha presa quando una delle figlie ha detto: “Non ci hai mai raccontato niente della 14


CACUCCI tua vita”. E Jorge Real, ha iniziato a raccontare… Ma scegliendo la forma del romanzo, per lasciare al lettore – dice lui – la libertà di giudicare quanto vi sia di vero o di inventato. Leggendolo, si ha praticamente la certezza che si tratti di un lungo scritto autobiografico, e in ogni caso, risulta evidente che l’autore sa molte cose al riguardo. L’alter ego di Jorge Real è David, ragazzino di strada nella Caracas tra gli anni cinquanta e sessanta, dove tira a campare sul filo dell’illegalità. Verranno i primi amori, e anche i primi omicidi: poliziotti corrotti che torturano e uccidono prostitute. Il “romanzo” in realtà decolla quando il protagonista spicca il volo: la passione per gli aerei lo porta a diventare il più giovane pilota dei narcos colombiani – nonché il migliore in abilità aviatoria – che ha aperto nuove rotte nei coni d’ombra dei radar statunitensi trasportando centinaia di tonnellate di cocaina. Ed è a questo punto, che si perde di vista la fiction per entrare in un resoconto stupefacente della storia occulta di quella che viene ipocritamente definita “guerra al narcotraffico”. Jorge Real fa nomi e cognomi con raggelante disinvoltura (oltre a dimostrare un’approfondita conoscenza dei metodi di raffinazione della coca e dei laboratori clandestini), e se molti dei personaggi sono già noti alle cronache (un esempio per tutti, Pablo Escobar, boss di Medellín), il pregio del libro sta nel rivelare tanti risvolti inconfessabili di quelle vicende, come il fatto che la carriera di George Bush padre (vice di Reagan e poi presidente a sua volta) iniziò grazie ai proventi dell’eroina del Sudest asiatico e quando era diventato capo della Cia, avrebbe usato i suoi poteri per favorire alcuni trafficanti a discapito di altri (non risulta che la famiglia Bush abbia querelato). Torna così alla luce la storia dei voli per rifornire di armi i Contras antisandinisti in Nicaragua (il pilota Jorge Real o “David” ne fece inizialmente parte, della covert action gestita dal colonnello Oliver North), con l’accordo di poter rientrare negli Usa carichi di cocaina. Il tutto con il beneplacito del governo statunitense e della Cia, che a parole dichiarava guerra ai narcos… Finita la lettura, viene da dare per scontato che Jorge Real sia in carcere per almeno una parte di queste imprese. E invece no, se l’è sempre cavata, riparando poi in Spagna, dove avrebbe potuto vivere in disparte, dimenticato, con i suoi segreti. Ma il lupo perde il pelo… e nel 2002 è stato arrestato per complicità in un doppio sequestro di persona conclusosi con l’uccisione degli ostaggi, la coppia di cittadini inglesi O’Malley. Lui giura di essere innocente, cioè di non averli assassinati. Quien sabe, il tribunale ha deciso che comunque c’entrava, e si è preso una sessantina d’anni di galera. Anche con la buona condotta, non potrà mai godere i proventi del libro che ha riscosso un notevole successo di vendite in Spagna e altrove:

la corte ha sentenziato che andranno agli eredi degli O’Malley. Qualche anno dopo quei giorni memorabili vissuti in Nicaragua, Stefano continuò l’esperienza televisiva diventando il volto noto (senza più la barba e la chioma arruffata che ostentava in Centroamerica) del telegiornale di una nota emittente locale, e ricordo che, usciti i miei primi libri, mi invitava sempre a presentarli nello spazio finale… Be’ se c’era una cosa a cui Stefano era refrattario, è la cravatta. Ma doveva mettersela, per andare in onda. E nell’armadietto della redazione, teneva giacca, camicia pulita, e una cravatta, l’unica che credo abbia avuto nella sua vita, con il nodo mai sciolto per anni, che se qualcuno per un atroce scherzo glielo avesse disfatto poco prima della diretta, scommetto che lui avrebbe infranto un tabù dei TG. L’impegno sociale ha sempre coinvolto ogni istante del suo lavoro professionale, della vita pubblica e privata, persino dei momenti di svago, e ricordo che una sera, chiusa l’esperienza della cooperativa editrice Agalev (con cui avevamo partecipato a due fiere del libro a Managua), mettemmo un banchetto in uno spazio dell’estate bolognese per svendere tutti i libri rimanenti a mille lire. Stefano era talmente appassionato nel convincere le persone – spesso lì solo per prendere il fresco e ascoltare musica – ad acquistarli, che a un certo punto una signora lo fissò a lungo, poi, timidamente, iniziò la frase: “Scusi, ma lei non è quello del TG…”. Lui rispose: “Sì, faccio anche quel mestiere, ma non è la cosa più importante della mia vita”. Ridevamo ancora fino a poco tempo fa, ricordando l’espressione attonita della signora, che sembrava voler dire: “Ma che roba, un volto della TV, che si abbassa a vendere libri da mille lire in un banchetto all’aperto”. Evidentemente, Stefano aveva incrinato in lei un piccolo mito. Tra quei libri, c’erano anche varie copie di Trágame Tierra, romazo di Lizandro Chávez Alfaro, sorta di tragica saga familiare durante la dittatura somozista, che Stefano aveva molto apprezzato. Amava tanti testi della letteratura latinoamericana, e Cortázar rimaneva sempre al vertice delle sue passioni di lettore: Cortázar, che ci ha lasciato un piccolo denso libro su quegli anni di sogni rinnovati e poi calpestati, Nicaragua tan violentamente dulce… Ma senza mai dimenticare la sua profonda conoscenza della cultura tedesca: Stefano ne parlava la lingua e poteva leggerne la letteratura in originale, e poi, conosceva ogni strada e piazza di Berlino, quindi… calza perfettamente quella sorta di elegia di Bertolt Brecht rivolta agli uomini come lui: “Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”.

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prevale una memoria del corpo, del suo corpo, come elemento scenico Lettura in Piazza Santo Stefano, Bologna, 2010 - foto Luca Gavagna

❚ La voce, la memoria del corpo Conversazione tra Marco Baliani e Wu Ming 1

❝ ...ci sono momenti in cui

WM1. Partirei da qui: tutto quel che Stefano scriveva era finalizzato alla lettura ad alta voce, e più precisamente a una lettura scenica, con l’aggettivo inteso in senso lato, che si trattasse di un evento strutturato (uno spettacolo multimediale, un reading musicato) o più estemporaneo, ad esempio una lettura in piazza al termine di un corteo. La parola di Stefano, anche quando la leggi in solitudine e in silenzio, non è mai soltanto parola scritta, c’è una spinta all’oralità trasmessa dal fraseggio e dal ritmo, dalla “tornitura” delle parole, dalla ricerca delle assonanze. Naturalmente, i suoi testi - che siano romanzi, articoli o poesie - sono qualitativamente alti e compiuti già nella lettura silenziosa e solitaria; leggendoli sulla pagina non si percepi-

Stefano non legge ma va a memoria, anche solo per il tempo di una frase: stacca gli occhi dalla pagina e lancia uno sguardo a chi sta ascoltando ❞ 16


BALIANI - Wu Ming 1 sce una mancanza: si coglie un possibile, anzi, una promessa di voce, di ritmo, di suono che viaggi nell’aria e faccia vibrare i timpani, ovvero incontri un corpo. Ecco, c’è sempre un invito all’ascolto e all’incontro.

vedere Stefano «condursi»: se in quel momento sta reggendo un libro o un foglio, usa solo la mano libera (solitamente la destra) e mima ogni parola una frazione di secondo prima di esclamarla. Non è un mero «riempitivo corporeo», un dover-pure-far-qualcosa con la mano: è parte integrante della lettura, è un modo di incarnare la parola. C’è un video di fine 2011, girato durante una presentazione a Torino, in cui Stefano legge il racconto A passo d’ombra. È già molto provato dalla malattia, lo sforzo è evidente, ma la lettura è impeccabile e la mano danza anticipando le parole, «coadiuvando» le immagini che si formano nella testa di chi ascolta. Se ascoltiamo guardando la mano, quando le parole escono di bocca sappiamo già se quella frase è parte di un movimento verso l’alto o verso il basso, di apertura o di chiusura, di avvicinamento o allontanamento, e se esprime un concetto isolato o prosegue un complesso concatenamento di immagini: «Da qui, [mano tenuta aperta, di taglio, orizzontale] sospeso a mezza via [indice verso l’alto, le altre dita rilassate] tra il cielo del mio salto [indice verso il basso] e l’acqua che mi ha accolto, ti vedo mentre invecchi senza pace [dita aperte, vago movimento circolare verso l’esterno] e tutt’intorno, gli sguardi frettolosi di chi non vuol fermarsi ad ascoltare la tua storia calpestata dalle colpe altrui...» E poi, come giustamente mi facevi notare via email qualche tempo fa, ci sono momenti in cui Stefano non legge ma va a memoria, anche solo per il tempo di una frase: stacca gli occhi dalla pagina e lancia uno sguardo a chi sta ascoltando. È un modo di mantenere il contatto, ma è anche parte di quel «condursi» che dicevo, del coadiuvare un’immagine, del sottolineare un dato concetto. Detta così potrebbe sembrare una cosa normale, quasi banale, ma io ho visto tanti, troppi scrittori «costretti» a leggere in pubblico i propri testi anche se non si sentivano minimamente «tagliati» per quella dimensione, scrittori piegati sul foglio, la voce smorta e lontana, nessun contatto tra loro e chi ascoltava, correre a testa bassa fino alla conclusione in nome dell’anche-questaè-fatta. Direi che la maggior parte dei miei colleghi affronta la lettura pubblica obtorto collo. Forse è un problema che viene da lontano: ricordo un’intervista radiofonica ad Attilio Bertolucci in cui diceva qualcosa del genere (cito alla buona, non testualmente): «Ai miei tempi, i poeti italiani non leggevano in pubblico i loro versi. Quella consuetudine non ci apparteneva, imparammo a farlo solo più tardi, sulla scia degli anglosassoni. Tra i grandi poeti della prima metà del novecento, solo Ungaretti fa eccezione.» Se pensiamo all’ostilità che ha incontrato presso certa critica il lavo-

MB. Senza dubbio. La scrittura, per Stefano, sia quella propria che di altri scrittori, è sempre qualcosa da mettere in azione attraverso la voce, la presenza del qui ed ora di qualcuno che quelle parole le estrae dalla pagina per renderle suono. Nel farlo, Stefano è consapevole di togliere alla pagina il suo statuto di immobilità temporale rendendo le parole di colpo effimere, vocali, perdute nell’attimo stesso in cui vengono dette. Se lo si guarda nei video di alcuni reading da lui stesso agiti, si vede come l’atto della lettura non ha nulla di professorale o di didattico, ma come l’intero corpo del leggente, le mani, il volto, gli occhi cercano un invisibile da rendere manifesto. Come se la scrittura, da sola, non fosse sufficiente a interpretare il mondo. E questo nonostante Stefano credesse moltissimo nell’atto dello scrivere, nella stesura lunga nel tempo, nel lavoro di cesello sulle parole, e credesse anche alla necessaria “aura” che avvolge ogni scrittore, e forse, di più, dovrei dire, ogni scrivente, ché Stefano era consapevole di una specie di sacralità dello scrivere, di chiunque, anche non letterato, lasciasse le sue visioni su una pagina. Un atto sacro proprio perché umile, alla portata di tutti, uno scrivere sempre socialmente utile, necessario. Ma poi tutto il tempo che è racchiuso e sigillato nella pagina, lui lo voleva tirar fuori, voleva far uscire i cavalli dai recinti, a costo di farli sbandare. Tutto il lavorio solitario e concentrazionario dello scrivente doveva acquistare un peso diverso, fatto di leggerezza, doveva aprirsi alla moltitudine, qui e ora, come se per lui il lettore si trasmutasse in ascoltatore. Stefano era un “leggente”, le parole della scrittura non bastava dirle con la voce: dovevano diventare visioni, e pretendeva che anche i suoi lettori imparassero, quasi pedagogicamente, a divenire anch’essi dei buoni “leggenti”. In questo modo intuiva che alcune frasi, alcuni passaggi, alcune sequenze di immagini, sarebbero potute divenire “memorabili” in una forma di acquisizione empatica e immediata che nessuna lettura solitaria potrebbe rendere. WM1. Trovo molto giusto il riferimento all’intero corpo del leggente. Mi ha sempre colpito e coinvolto, nel vedere Stefano leggere un testo, il suo peculiare uso delle mani. Era una specie di... conduzione d’orchestra, solo che l’orchestra era un singolo. Una conduzione discreta, mai enfatica, non certo alla Von Karajan! In rete si trovano molti video in cui si può 17


nuova rivista letteraria

coi corpi degli ascoltatori. Credo che da qui derivi il suo interesse, che poi si traduceva sempre in percorsi progettuali concreti, fattivi, coinvolgenti, per una sinergia di linguaggi, per la musica in primo luogo, per la voce, per il montaggio di letture, composizioni, improvvisazioni, per quell’arte dell’intrattenimento intelligente, colto, senza essere snobistico esercizio, in cui potersi “parlare”, essere insieme tra orecchio e bocca, più che attraverso gli occhi.

ro di Lello Voce, il suo tentativo di far riscoprire alla poesia in italiano una primigenia dimensione orale e «pre-letteraria» (più o meno come si dice di un tumulto che è pre-politico), una dimensione prettamente sonora e comunitaria, ispirandosi anche al rap, alla dub poetry etc., be’, mi sembra che, pur avendo fatto passi avanti, non dovremmo illuderci di essere andati molto lontano. Ecco, in un campo letterario dove la lettura solinga e silente è ancora ritenuta la modalità di fruizione principale di un testo, mentre il momento scenico e acustico - il momento del reading - è considerato accessorio e dunque prescindibile, poco più di un orpello, sicuramente l’attitudine di Stefano segna una differenza.

WM1. Oltre a essere un musicista, musicofilo e «scrittore di musica verbale», Stefano aveva una formazione da psicologo e negli anni Settanta si era laureato con una tesi sul rapporto tra rock e movimento giovanile di protesta. Nel mettere mano al suo magmatico archivio, abbiamo trovato appunti sul funzionamento dell’apparato uditivo, scritti semielaborati sulla musica, dispense di corsi delle «150 ore» su test audiometrici e inquinamento acustico in fabbrica... Il suo interesse per il suono era a tutto campo. Riguardo a quel che dici sulla sua missione, sulla perenne ricerca di un intrattenimento colto e aperto, penso a come questo si traduce in un preciso uso della voce: la voce di Stefano è bella e corposa, ma non ha nulla di istrionico o “mattatoriale”, non è impostata, non viene troppo “avanti”, non mira a riempire tutto lo spazio. Quello di Stefano non è mai un monologo, la sua è una vocalità democratica e dialogica, che rimane sempre un po’ indietro e lascia spazio all’ascolta-

MB. In Stefano prevale una memoria del corpo, del suo corpo, come elemento scenico, un imprinting lontano nel tempo ma assai presente nella memoria immaginativa dello Stefano autore e organizzatore e intellettuale. Quando saliva, giovane e capelluto, sul palco a suonare col suo gruppo, l’adrenalina e le emozioni e quello statuto unico e affascinante che è lo stare in presenza degli altri, condividere lo stesso spaziotempo di quel momento biologicamente interattivo, queste sostanze, una volta provate, non lo hanno più abbandonato, sono rimaste come un DNA silente ma sempre vibrante. E lo hanno condotto a pensare anche la scrittura come un atto performativo, un’azione in diretta che modifica la comunicazione e interagisce 18


BALIANI - Wu Ming 1

Ritagli di Tempo 1969, Teatro ITC di San Lazzaro (Bo), 2009 - foto Luca Gavagna

quei testi, sperimentando quelle sinergie tra artisti. Penso che questo operare gli confermasse quel grado di aleatorietà, di “forme del possibile”, che appartengono all’action painting, all’happening, alle sperimentazioni furibonde degli anni settanta, quando il ............. Living Theater agiva le sue nudità in mezzo alle strade, quando quelli della Comuna Baires mostravano la violenza da cui erano fuggiti. Di queste e altre esperienze, come il Terzo Teatro di Eugenio Barba, Stefano si è nutrito e in questa molteplicità di esperimenti linguistici si è formato, aggiungendo all’anarchismo e alla dispersione creativa di quegli anni, un rigore metodologico, un pensiero che ne salvasse forme e esiti, piegandole ad un progetto politico, a una stesura riproducibile. Lo Stefano progettista di eventi, promotore culturale, saggista, inventore di rassegne, creatore di riviste era tutt’uno con lo Stefano scrittore, con l’artista impegnato della parola. Aveva bisogno di connettere le esperienze, di farsi tramite e congiunzione tra linguaggi diversi, come cercasse strenuamente di non disperdere la tradizione appena ereditata, di dare un ordine alla proliferazione dei linguaggi, creando snodi, appuntamenti, messe a confronto. Ma era sempre nutrito, e lo si vedeva dalla curiosità che si stampava sul suo sorriso, dalla certezza che non tutto si sarebbe svolto secondo partitura, che all’opera c’era sempre il colpo d’ala dell’imprevisto, dell’imprendibilità biologica dei corpi e delle emozioni.

tore. Infatti, quando legge con la musica, si sente che si “tiene”, che non vuole prevalere, per lui la musica non è solo accompagnamento o “tappeto” ma ha pari dignità rispetto al testo. Pensa alla traccia «Lettere. Frammento 5», da Lettere dal fronte interno (Moby Dick, 1997): prima di entrare con la voce, Stefano aspetta due minuti spaccati (su meno di sei complessivi), lascia che la musica si esprima pienamente, sviluppi il tema, si impadronisca dello spazio. MB. Quando Stefano mi invitava a leggere qualche autore in compagnia di musicisti amici, voleva sempre fare una prova, un assaggio, aveva predisposto con precisione i tagli al testo, le incursioni musicali, gli appuntamenti tra voce e sonorità, e si ritagliava una parte da regista, ma quasi nell’ombra, un po’ discosto, come se si fidasse di tutti noi e dubitasse invece delle sue scalette. Aspettava di vedere cosa sarebbe successo, ed era bello vederlo così partecipe, attento, pronto a tutti i suggerimenti che puntualmente modificavano in qualche punto la struttura da lui predisposta. Quando accadeva un necessario cambiamento, quando addirittura avveniva nel farsi della prova, di colpo si eccitava, sorrideva e subito scarabocchiava gli aggiustamenti, come se, proprio in quelle rotture si annidasse il senso jazzistico, performativo, della comunicazione. Si vedeva che ne era contento, in un modo quasi infantile, per nulla turbato dai tagli o dagli spostamenti. Assisteva in diretta ad una azione creativa, ad una invenzione che poteva nascere solo agendo 19


Pancasan (Nicaragua), 1984 - foto Luca Gavagna


un aspetto importante di questo intellettuale era la capacità di contagio Ritagli di Tempo 1968, Teatro ITC di San Lazzaro (Bo), 2008 - foto Luca Gavagna

❚ La volontà e la calma di chi vuole sovvertire il mondo di Angelo Ferracuti

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uccede che a un certo punto della vita, quasi senza accorgercene del tutto, percepiamo intimamente la forma della nostra esistenza. Gliel’abbiamo data, un po’ è stata dettata dal caso, per certi versi ne siamo stati catturati talmente da averne preso le fattezze. Quella di Stefano Tassinari aveva la fisionomia dello scrittore engagé, con tutto il suo armamentario che si è formato in molti di noi negli anni ‘70, quella passione e quell’ideologia infaticabili del fare nel tentativo di creare senso. Nei giorni in cui stava morendo mi sono chiesto più volte com’era questa sua forma e cosa mi

❝Non sono stato un uomo politico,

ma ho avuto reazioni politiche a molti eventi politici; così la condizione di uomo politico in senso lato, ossia nel senso di uomo toccato dalla politica, compenetrato di politica, è una mia caratteristica.❞ Jean Paul Sartre

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nuova rivista letteraria aveva insegnato. Perché un altro aspetto importante di questo intellettuale era la capacità di contagio. La prima che mi è venuta in mente è quella della consapevolezza di essere un autore, con tutto ciò che questo comporta, e cioè rischio, esposizione, coraggio, senso di responsabilità, visione; e poi pensarsi bene comune, risorsa umana, sociale e, in definitiva, custode e testimone del tempo e della memoria, cioè uno scrittore comunitario. Un modo di essere e di stare al mondo che Stefano praticava in se stesso e contribuiva a tenere in vita nella piccola comunità di cui mi aveva chiamato a far parte. Ne sono testimonianza il premio «Paolo Volponi», dedicato alla letteratura di impegno civile, al quale aveva dato vita in anni non sospetti davvero con grande lungimiranza, proprio quando sembrava irreversibile e imperversava il pensiero debole di «fine della storia»; come «Letteraria», il semestrale di letteratura sociale dove ci aveva chiamati a raccolta, per non parlare delle due antologie Sorci verdi e Lavoro vivo (Alegre) frutto di un ribaltamento di sguardo, di ideologia, cioè smettere di pensarci «io» e ritornare al «noi» come atto politico, auspicarsi questa figura intellettuale di ritorno, aspetto del suo lavoro culturale «corsaro». Altri elementi della sostanza umana di Stefano sono stati la tenacia e quella calma dei rivoluzionari diametralmente opposta all’impazienza che Trotsky definiva «la principale fonte dell’opportunismo».

Serata finale Premio Volponi, Porto San Giorgio (Fermo), 2006 foto Angelo Ferracuti

to i sogni di qualche generazione, ha trovato un suo punto di rottura nell’intreccio di creatività e ribellione sociale: gli anni Settanta del secolo scorso. Un libro fortemente congegnato, quasi come un album dei pezzi migliori di un’epoca d’un gruppo musicale di culto, dieci pezzi difficili, cruciali ed emozionali quanto un’esplosione ininterrotta durata un decennio e oltre, che continua a parlare al presente più che mai, capace come pochi di ricostruire il clima di un’epoca con il mito trasgressivo di Brian Jones, l’ex chitarrista degli amatissimi Stones, i fantasmi di Roberto Franceschi e Francesco Lorusso, barbaramente uccisi dalle forze dell’ordine, il festival del Parco Lambro e anche la tragica storia di Carolyn Lobravico, l’attrice del Living Theater morta nel manicomio giudiziario di Napoli.

La forma per uno scrittore non è solo la trama di una esistenza, ma la sua postura complessiva, il suo modo e il suo sguardo, la scrittura, il ritmo, la sua letteratura. Quella di Stefano era nata lirica, una prosa poetica, o comunque fatta di uno stile che a qualcuno fece ricordare Handke e Bernhard. Sono gli anni di Ai soli distanti e Assalti al cielo, che credo fosse il primo mattone di un edificio costruito in oltre un ventennio di uno dei percorsi autoriali più coerenti della narrativa italiana degli ultimi anni. Il cuore della sua produzione sono quattro romanzi, tutti consegnati all’editore Marco Tropea, dai titoli che già da soli raccontano un’epoca e un’epica: L’ora del ritorno, I segni sulla pelle, L’amore degli insorti, Il vento contro, storie di uomini toccati dal destino della rivolta, e di rivoluzioni vicine e lontane nella Storia, individuali e collettive. Per poi chiudersi, e far quadrare il cerchio, con il suo ultimo libro di racconti, D’altri tempi (Alegre), dove torna il mondo che questa genesi molecolare del nostro sentire, quella che ha infiamma-

La sua forma, quella che abbiamo conosciuto, così l’avrebbe definita Jean Paul Sartre : «Non sono stato un uomo politico, ma ho avuto reazioni politiche a molti eventi politici; così la condizione di uomo politico in senso lato, ossia nel senso di uomo toccato dalla politica, compenetrato di politica, è una mia caratteristica». 22


… abbiamo avuto tanto tempo e non ci è bastato

❚ Il mago della parola di Andrea Satta (Têtes de Bois)

«C

iclopista del diavolo», notte di luna calante. Stefano mi vieni sempre in mente: Antifascista, Bassani, Colto, Didattico, Estetico, Fumatore, Giusto, Hendrix, Idealista, Lettore, Movimento, Naturale, Opposizione, Partito, Resistente, Stones, Tas, Urgente, Vero, Z …(?). Pedalo, sto arrivando, in quell’angolo compreso fra l’Emilia, la Toscana e la Liguria. Da poche ore è morto Stefano Tassinari. Uno scrittore, un mio amico, molto caro, meraviglioso. Mi hanno regalato una bicicletta, è successo a Brescia, è firmata Têtes de Bois, un premio, una dedica. L’ho caricata sul treno, alla stazione di So23

Ritagli di Tempo 1969 con i Têtes de Bois, Teatro ITC di San Lazzaro (Bo), 2009 - foto Luca Gavagna

❝ ...avrei voluto conoscerti ancora meglio, abbiamo avuto tanto tempo e non ci è bastato. ❞


nuova rivista letteraria

Con la moglie Stefania il 3 Aprile 2011, alla festa del loro matrimonio - foto Luca Gavagna

H …(e l’acca …?), Internazionale, Lotta, Mamma a pranzo la domenica, Narratore, Orgoglio, Precisione, Rock, Spal, Tolfa, Uomo, Volontà, Z …(?). Non riesco a prendere sonno… e domattina all’alba dovrò partire. Dopo una vita di Assalti al cielo, sempre Col vento contro per L’amore degli insorti e per te, uomo D’altri tempi, è L’ora del ritorno. Ciao, mago della “Parola Immaginata”, non ci incontreremo più. Ci sarà senz’altro un paradiso del popolo, lo troverai. Io ho provato a volerti bene. Davvero. La notte è alta, la luna è salita tanto, cerco la stella accanto e decanto: Area, Bakunin, Cinema, Dondero, Energia, Franchezza, Guccini, Hendrix (ce lo rimetto, gli piaceva troppo…), Internazionale (intesa come Inter), Lavoratori, Manifesto, Netto, Ostinato e contrario, Partita, Rivoluzione, Stefania, Talento, Umano, Versatile, Z… (ecco, mi manca di nuovo la “Z”!) Vedi… avrei voluto conoscerti ancora meglio, abbiamo avuto tanto tempo e non ci è bastato.

lignano sono sceso e me la sono fatta a pedali. Arriverò fino a Pietrasanta, sulla Francigena, in Versilia, destinazione concerto. È durissima. Ultimi spasmi del Passo della Cisa, ho lasciato l’afa padana e respiro l’aria tersa dell’Appennino. Da un po’ di metri oltre la siepe mi controlla un fagiano, atterra, svolazza, mi attraversa il cielo. Mi sento di troppo, mi ha già guardato torvo un gufo, due tornanti sotto. Dormirò quassù stanotte. In questa casa cantoniera rossa, diventata ostello, pensare a te, Stefano, sarà più bello. A te che mi incoraggiavi a scrivere e a cantare, che mi incoraggiavi a essere. Siamo “ritagli di tempo”, lo so. Tu lo sapevi meglio. Ci hai stracciato con la fantasia e il coraggio. Sei stato grande. Incollo la tua foto nell’aria, gioco con la mente, succede come con le stelle. Bisogna puntare quella accanto per vedere quella che ami, la più brillante. Allora non ti fisso direttamente. Ti ricompongo attraverso l’alfabeto delle tue parole, di nuovo… quelle più vicine: Affabulatore, Bologna, Comunista, Dettaglio, Eleganza, Ferrara, Generoso, 24


una formidabile capacità di spingere e indirizzare le forze nascoste delle persone

❚ Lettera a Stefano

Spetaccolo “Il pesce, l’equilibrista e la morte” Biennale di Venezia, 1981 foto Sandra Pareschi

di Roberto Manuzzi*

C

iao Stefano, ho deciso di rivolgermi a te in forma epistolare, un metodo di scrittura per te abituale (per me un po’ meno, ma ci proverò). Manchi da ormai più di tre mesi e credo che la tua assenza ci accompagnerà sempre. Spero che avremo la forza di non lasciare che il tuo ricordo scompaia, come spesso si fa per le cose tristi. In realtà io non ti ricordo affatto con tristezza, forse perché non te ne sei davvero andato ma come tutte le cose e le persone che ci hanno arricchito la vita continui a vivere in un piccolo anfratto del nostro io con le parole, i gesti e con la forza delle tue idee. 25

❝Mancherai, senza che se ne rendano conto, a quelli che non ti conoscevano... ❞


nuova rivista letteraria Stefano appassionato difensore di cause civili come per Silvia Baraldini, di cui narrasti al mondo la storia e che, complice un incontro avuto per mio tramite con Francesco Guccini, divenne una celebre canzone e un caso politico internazionale. Mancherà la tua capacità di spingere le persone a dare il meglio di sé, ad osare, ad affrontare sfide culturali e politiche come quelle che a volte sembravano fuori dal tempo, ma che solo dopo esservi stati trascinati dalla tua fiducia (che estendevi generosamente a quelli che lavoravano con te di volta in volta) apparivano attualissime e concrete, proprio per il loro essere al di fuori di tutti gli schemi precostituiti nei quali troppo spesso si indugia. Tu avevi quella innata capacità di guardare sempre un po’ più in là, e quando ci arrivavamo anche noi, eri già da un’altra parte a guardare altro. Di sicuro se la cultura della nostra piccola città di provincia (Ferrara ndr) ha fatto così tanti passi in avanti negli ultimi vent’anni è anche grazie alla tua formidabile capacità di spingere e indirizzare le forze nascoste di gente come noi, troppo spesso pigri e distratti ma dotati di talento e fantasia, come alle volte sono quelli nati in fondo alla campagna (per dirla alla Paolo Conte). Nei mesi scorsi sono accadute alcune cose che ti avrebbero fatto molto piacere; nel caso nessuno avesse ancora provveduto a farlo, ti informo che i poliziotti del “depistaggio” del caso Aldrovandi sono stati ritenuti colpevoli e che il generale Videla è stato condannato a 50 anni di carcere per le atrocità commesse durante il colpo di stato in Argentina. In entrambi i casi la prima cosa che ho pensato è stata “bisogna farlo sapere a Stefano”, ma non conosco ahimè linee dirette per arrivare dove sei. Grazie Stefano per non avere mai avuto paura, nemmeno di sbagliare. Tanta gente ti sarà riconoscente (o almeno lo spero) e non solo i musicisti, gli scrittori e gli uomini di teatro dei quali in un modo o nell’altro facevi parte, con ottimi risultati. Mancherai, senza che se ne rendano conto, a quelli che non ti conoscevano, e sarebbe giusto che anche loro sapessero quanto la tua fermezza nel vivere senza compromessi abbia fatto la differenza negli anni bui che ci siamo lasciati alle spalle, anche se non sappiamo ancora a quale ora della notte siamo arrivati. Noi siamo qui, ricordando, e aspettiamo pazienti che spunti nuovamente il giorno. Ciao Stefano

Raccontando: Dino Buzzati, Teatro ITC di San Lazzaro (Bo), 2011 foto Andrea Del Zozzo

Ti ringrazio per avermi dato quello straordinario esempio di coraggio che ti ha fatto lottare in modo quasi sovrumano con una malattia che da subito era apparsa feroce e predatoria. Anch’io ho da poco combattuto la mia battaglia con una malattia dal nome altrettanto terribile (ma molto meno aggressiva della tua) e ho ripercorso in questi mesi tutti i momenti in cui ti ho visto destreggiarti con apparente sicurezza fra terapie e flaconi di medicinali, fino al nostro ultimo incontro al Teatro di San Lazzaro. Fino a un momento prima di salire insieme sul palcoscenico eri steso su un divano in preda a dolori atroci, salvo poi calcare quel palcoscenico e affrontare la serata di letture su Dino Buzzati senza mostrare alcun segno di disagio, imponendo con chiarezza le tue parole e sfoggiando tutto il tuo talento innato di uomo di spettacolo. Pensare al tuo coraggio mi ha aiutato molto. Di te è stato detto tanto, e ben poco posso aggiungere sulla tua figura di protagonista della politica vissuta in prima persona e di uomo di cultura; io voglio ricordarmi di un amico con cui ho condiviso molto, che ha creduto nella nascita di una scuola di musica accettandone altruisticamente la separazione dalla cooperativa di cui eri presidente, comprendendo che tale separazione ne avrebbe favorito la crescita. Ricordo lo

(*) Musicista ed insegnante. Fondatore e presidente dal 1988 al 2000 della “Associazione Musicisti di Ferrara” e primo direttore della “Scuola di musica Moderna”. Con Stefano Tassinari ha realizzato il CD “Lettere dal Fronte Interno” e collaborato alla realizzazione del CD “Sguardi D’Istinti”. Fa parte dal 1986 del gruppo del cantautore Francesco Guccini. 26


… se a Genova ci hanno massacrati, è perché abbiamo colto nel segno

Anni ‘70 comizio in Piazza Trento Trieste a Ferrara

❚ Fottiti America

M

di Massimiliano Gregorio (Casa del Vento)

ontanare di Cortona (AR), agosto 2001. Mi sento di arrischiare anche una data: il 16, mi pare. In fondo, non è difficile. Quell’agosto lo passammo sempre in giro a suonare. Da qualche mese era uscito il nostro primo album e le ferie estive, quell’anno, le investimmo in un tour. Ventidue date in trenta giorni e il 16 era uno dei pochi day-off del mese. Pensammo bene di impiegarlo nell’ennesimo concerto. Ci aveva contattato qualcuno del circolo di Rifondazione di Cortona per invitarci a suonare alla Festa di 27

❝Peccato America, perché non hai capito neanche adesso, e allora fottiti America... ❞


nuova rivista letteraria Liberazione, che si sarebbe tenuta a Montanare, una frazione spersa in mezzo a un vallone che si apre ai piedi dell’Appennino. Io, personalmente, di quella data incastrata all’ultimo momento avrei fatto volentieri a meno: all’epoca avevo un amore nuovo di zecca e un paio di giorni liberi per godermelo mi avrebbero fatto piacere. Ma ovviamente: “…sono compagni, ci mettiamo in tasca due lire, è a mezz’ora da casa…”. Quindi, mi adeguai a malincuore. E meno male. Perché fu lì che conoscemmo Stefano. Dopo il concerto, venne a complimentarsi e a presentarsi. Nessuno di noi aveva mai letto niente di suo. E, a dirla tutta, che cosa avesse condotto uno scrittore ferrarese di nascita e bolognese d’adozione ad arrampicarsi tra i boschi fino a un prato sperduto tra le valli che si aprono alle spalle di Cortona il giorno dopo ferragosto non ci parve, li per lì, proprio del tutto chiaro. Al che, col tatto che caratterizza noi toscani, dopo un paio di minuti di conversazione, glielo facemmo presente: “Scusa una cosa Stefano, ma te, qui, che cazzo ci fai?”. Stefano ci guardò senza fare una piega: era in vacanza da quelle parti, aveva visto i cartelli ed era passato a conoscere i compagni. Ovvio, no? A dire il vero, per quanto mi riguardava, non troppo. Lo confesso: ho sempre avuto un problema con l’idea di militanza, che mi suscita un’innata diffidenza. Sarà perché ho in odio chiese e dottrine, sarà forse per l’etimo della parola stessa; fatto sta che il cliché del militante l’ho sempre trovato poco interessante. Poi è arrivato Stefano a scombinarmi le categorie. Che fosse un militante non v’erano dubbi, ma omologato al cliché non lo era davvero. Ci piacque subito. Colto e brillante, mai scontato nei ragionamenti, Stefano dava senso al concetto di intellettuale militante, senza farlo parere un ossimoro. Ci raccontammo reciprocamente, a lungo e con piacere. Di lui ci colpì soprattutto l’attenzione che dimostrava verso i percorsi personali. Mi riconobbi in quel suo interesse per l’uomo, orizzonte metafisico dei non credenti. Parlammo di tutto e niente risultò banale. Parlammo molto di Genova, e delle ferite ancora fresche che, neppure un mese prima, aveva scavato dentro di noi. In un certo senso fu proprio grazie a Genova che risultò naturale rimanere in contatto. Usciti da quell’esperienza, avevamo tutti bisogno di raccontarla: per farla conoscere a dispetto dell’informazione drogata dai media, ma anche per elaborare un lutto collettivo e, soprattutto, per non disperderne i semi. In fondo, mi disse una volta Stefano: “se ci hanno massacrati è perché abbiamo colto nel segno”. Aveva ragione. Lui si mise a lavorare a I segni sulla pel-

le, noi a un nuovo disco (Pane e rose) che uscì nel 2002 e che conteneva Genova chiama e La canzone di Carlo. Di quegli anni ricordo nitidamente una sensazione appagante: quella di concorrere, ognuno con il proprio linguaggio, a un’opera comune; che era artistica, politica e culturale al tempo stesso. E tra tutte le persone straordinarie che abbiamo avuto occasione di conoscere lungo quel cammino, e ce ne sarebbero centinaia da ricordare, Stefano era forse l’unico che riuscisse a muoversi agevolmente su ognuno di questi piani. Non si limitava a scrivere. Organizzava, stimolava, coordinava, portava il suo contributo politico. Ricordo di averlo invidiato per questo, e di averlo al tempo stesso benedetto, perché di persone come lui, avevamo – e credo abbiamo ancora – davvero un gran bisogno. Tenere insieme tutte queste dimensioni affinché si dessero significato a vicenda era forse quello che Stefano sapeva fare meglio; magari perché meglio di tutti sapeva che, come leggevamo sui muri e sulle magliette in quegli anni, non si può essere felici da soli. Le occasioni di incontrarci si moltiplicarono e, quando, tra la fine del 2002 e i primi del 2003 la puzza della guerra imminente cominciò a diventare insopportabile, decidemmo di collaborare. Noi eravamo appena usciti con Non in mio nome, una sorta di instant-EP contro la guerra e stavamo preparando un nuovo album. I critici musicali ci hanno spesso rimproverato di essere troppo prolifici. Forse è vero, ma guardandoci alle spalle viene quasi da chiedersi come potevamo non esserlo, in quel periodo così tragico, ma anche ricco di fermento. In parte fu anche colpa di Stefano, che aveva appena pubblicato I segni sulla pelle. Prendemmo in prestito il titolo del suo libro e ci intitolammo una canzone. Nel frattempo, la “coalizione dei volenterosi” aveva attaccato l’Iraq. Anche le parole vengono distorte da chi fa la guerra, ma almeno quelle potevamo ancora provare a rivoltargliele contro. Stefano ci fece leggere un suo testo, che possedeva una straordinaria musicalità. Parlava agli Stati Uniti, ricordava loro gli errori e le occasioni perse degli ultimi trent’anni; credo che Stefano l’avesse scritto già con l’idea di trasformarlo in una canzone. La struttura era quella di certe liriche del folk-rock americano impegnato, tra gli anni Sessanta e Settanta: nel leggerlo mi vennero in mente Bob Dylan e Joan Baez, Pete Seeger e Neil Young. Gli chiedemmo se non gli avrebbe fatto piacere trasformarlo in una canzone. Gli faceva piacere. Così venne ad Arezzo e insieme scrivemmo e arrangiammo Good morning Baghdad. Di quei giorni passati insieme non riesco a ricostrui28


GREGORIO

Le irregolari, Arena del Sole, Bologna, 2007 - foto Raffaella Cavalieri

re per intero tutto il film. Mi tornano in mente solo alcuni fotogrammi slegati, piccole (e oggi commosse) perle di memoria: una cena in osteria e Cortona ancora una volta a fare da sfondo, le risate annaffiate col vino e gli occhi profondi del Tas su di me; poi il ritorno in macchina in cui Stefano mi parlò di un suo vecchio e avventuroso viaggio a Berlino. Non riesco invece a ricordare con precisione se si fermò a dormire a casa mia o se fu un altro amico ad ospitarlo. Propendo per la prima ipotesi, ma non riesco a recuperare una sola immagine che me la confermi. Lo so che è stupido, ma è dall’8 maggio che me lo chiedo. A volte l’elaborazione di un lutto procede per strade tortuose. Però ricordo che trovammo il tempo di presentare il suo libro al Circolo Aurora. Luca (voce e chitarra) e Sauro (fisarmonica) all’accompagnamento musicale, io a presentare il libro e Stefano a fare da mattatore: lesse e commentò, sollevò domande, rispose a quelle che arrivavano dal pubblico. Si fermò fino a tardi, si intrattenne con tutti quelli che volevano parlargli. Ne uscì insomma una serata bellissima, il cui ricordo non rischia di cancellarsi, perché Stefano lo vergò in una

dedica sulla mia copia de I segni sulla pelle. Nel frattempo la registrazione del nostro disco procedeva e quando venne il momento di incidere Good morning Baghdad, Stefano venne in studio con noi. Gli avevamo chiesto di inserire anche un suo recitato in coda al pezzo. Volevamo esplicitare, anche fisicamente, la nostra collaborazione. Chi ci segue non doveva leggere il nome di Stefano nei credits in fondo al libretto del cd, ma doveva poter ascoltare direttamente la sua voce per capire il senso di quella presenza per noi così importante. Stefano si presentò in studio con alcuni fogli in mano. Per la verità tutte le volte che ho incontrato Stefano, lui aveva sempre con sé dei fogli riempiti di parole. Sul momento ricordo di aver trovato la cosa curiosa, ma poi pensai che in fondo non mi sarei stupito nel vedere un idraulico girare con una chiave inglese. E per il nostro recitato Stefano, da bravo artigiano della parola, sui suoi fogli aveva scritto: “Peccato America, perché non hai capito neanche adesso, e allora fottiti America, per le tue guerre umanitarie, le tue vendette corporali, il tuo Dow Jones che gioca all’altalena, il Ku Klux Klan, gli hamburger, le pistole in ogni 29


nuova rivista letteraria

Bologna, 2003 - foto Raffaella Cavalieri

ma probabilmente per educazione e soprattutto per rispetto nei nostri confronti (il disco in fondo era nostro) si rassegnò alla mutilazione. Credo si sentisse un po’ come se fosse stato invitato a cena a casa di amici e, presentatosi con una bottiglia di vino pregiato, avesse visto il padrone di casa versarla dentro la zuppiera della sangria. Qualche mese dopo eravamo di nuovo insieme. Era il 3 giugno 2004, in Piazza Maggiore a Bologna; suonavamo a conclusione di una manifestazione per la pace. Il tempo era uggioso e Stefano si presentò in maglione azzurro e pantaloni bianchi. Prima di attaccare Good Morning Baghdad lo invitammo a salire sul palco con noi e lui, sul finale del pezzo, accompagnato dalla musica, cominciò a leggere il suo recitato. Stefano leggeva in crescendo, appoggiandosi alle note, quasi cavalcandole. Ricordo che, mentre si avviava alla fine, alzai gli occhi verso di lui e lo guardai. In quel momento lui strinse il pugno, lo sollevò bene in alto affinché tutti lo potessero vedere, per poi prorompere in un accorato, nitido e roboante: “Fottiti America”!

casa, le rappresaglie, i marines, le bombe sui civili, e l’inno cantato con la mano sul cuore, quando nemmeno sai, il cuore, da che parte sta... fottiti America!”. Leggere Stefano è bello, ma sentirlo leggere era ancora meglio; aveva una voce particolarissima e la sapeva usare. Del resto era abituato a portare la letteratura anche in teatro. Una volta terminata l’incisione, riascoltammo il pezzo per intero. Eravamo decisamente soddisfatti, ma venimmo presi da un dubbio, uno solo, relativo al finale: non ci convinceva quell’ultimo “…fottiti America”. Ci pareva troppo retorico e, soprattutto, ci sembrava che togliesse forza alla frase precedente. L’ipocrisia dell’inno cantato con la mano sul cuore: era quello il finale perfetto per il pezzo. Prendemmo in considerazione l’idea di tagliarlo e ne discutemmo con Stefano. Ne discutemmo a lungo in verità, perché lui, sul taglio, non era per niente d’accordo. Evidentemente glielo voleva ribadire ancora una volta di andare a farsi fottere! Sulla sostanza naturalmente concordavamo; era la forma a lasciarci dubbiosi. Stefano non superò le sue perplessità, 30


il mondo della cultura è una “cittadella assediata” Teatro La Rondinella, Montefano (MC), Guernica, 2007 - foto Luca Gavagna

❚ La cultura come elemento fondante dell’iniziativa politica

di Agostino Giordano

U

no degli insegnamenti che Stefano Tassinari ci ha lasciato in eredità e per il quale si è sistematicamente impegnato e battuto fino all’ultimo, è quello di considerare la cultura - intesa nel suo complesso - come uno dei pilastri e degli elementi fondanti dell’iniziativa politica. E questo suo intendimento non è mai rimasto solo sulla carta, ma si è tradotto costantemente in prassi, militanza, lotta e conflitto. L’aver dato vita a Bologna nel 2004, insieme a Stefania De Salvador, al Circolo del Partito della Rifondazione Comunista “Victor Jara” – Culture e spettacolo, è stata una delle dimostrazioni, tra l’altro molto ben riuscita, di come sia possibile tradurre la teoria in pratica, anche se ciò costa fatica, implica il metterci la faccia e rimetterci per quanto concerne il tornaconto personale. 31

❝Stefano ha agito e

si è riferito spesso a Bologna e all’EmiliaRomagna, ma le sue analisi e proposte si possono estendere senza alcun dubbio alcuno anche a livello nazionale... ❞


nuova rivista letteraria Stefano ha spesso dovuto lottare contro tutto e tutti, contro le istituzioni locali e nazionali, prendendo di petto il partito dentro al quale militava – fortemente restio nel suo complesso a considerare la cultura come terreno prioritario di battaglia politica – e anche il mondo della sinistra, antagonista e non, al quale ripetutamente si riferiva per sollecitarne nette e radicali svolte, affinché fossero messe al centro del dibattito politico le problematiche legate ai vari ambiti della cultura. Beninteso, però, che le sue sollecitazioni non si rivolgevano unilateralmente al mondo della politica, ma erano dirette anche a quello della cultura affinché non ci fossero, viceversa, remore ad affrontare e risolvere le emergenze e le criticità considerando la politica come una dimensione d’intervento indispensabile. L’iniziativa politica teorizzata e praticata da Stefano in materia culturale aveva molteplici obiettivi. Quelli principali possono essere considerati i seguenti: opposizione alla chiusura di spazi di produzione e fruizione culturale (centri sociali e luoghi autogestiti, biblioteche, enti culturali pubblici, etc…); creazione di una rappresentanza politica degli operatori dei vari ambiti, da considerare a tutti gli effetti lavoratori (attori, musicisti, tecnici, impiegati, etc… comprendendo tutti i settori: teatro, musica, cinema, arti figurative, editoria, danza, etc…); elaborazione di vere e proprie proposte politiche, sia sul piano legislativo che per quanto riguarda il rapporto (di collaborazione o di eventuale conflittualità) con gli enti preposti al governo locale e nazionale. Emblematici, a tal riguardo, sono diversi fatti. Fra questi senza dubbio la grande mobilitazione (attraverso la quale furono raccolte oltre 5.000 firme) organizzata da Stefano e dal Circolo Culture del Prc contro la riduzione degli orari di apertura della biblioteca comunale “Sala Borsa” di Bologna, che vide la partecipazione di tanti artisti e scrittori e che culminò con un grande concerto in Piazza del Nettuno il 25 febbraio 2006. Stefano ha agito e si è riferito spesso a Bologna e all’Emilia-Romagna, ma le sue analisi e proposte si possono estendere senza alcun dubbio alcuno anche a livello nazionale e alle altre realtà locali, deficitarie dal punto di vista delle politiche culturali. Intervenendo a un convegno proprio in “Sala Borsa”, a Bologna, nel maggio del 2009 (1), denunciava con la chiarezza e la lucidità che gli erano proprie, la “discrepanza tra i bisogni reali e il punto di vista di chi lavora nel campo artistico-culturale”, paragonando metaforicamente il mondo della cultura a una “cittadella assediata” in cui si parla un linguaggio

completamente diverso da quello di chi sta fuori, in particolare di coloro i quali dovrebbero essere gli interlocutori di chi produce cultura o se ne occupa in qualche modo: “stato, aziende, enti-locali”. Per tentare di colmare l’enorme “discrepanza”, con la solita nettezza sosteneva quanto fosse dirimente provenire dal mondo della cultura per essere in grado di occuparsi adeguatamente di tale tematica in politica: solo in questo modo infatti, sottolineava Stefano, si può evitare che a intervenire in ambito culturale siano politici cosiddetti “di professione”, che spesso ne ignorano peculiarità e problematiche, avendo ricevuto l’incarico esclusivamente sulla base di assurdi calcoli che incastrano equilibri di schieramenti o coalizioni. Altro passaggio fondamentale, smascherare le ipocrisie e le contraddizioni dei poteri forti: fondazioni bancarie, fiere, università, etc, le quali formalmente si pongono in un modo, ma nella pratica fanno tutt’altro. Nell’ambito di quel convegno del 2009 intervennero anche alcuni vertici del mondo accademico bolognese e fu Stefano a denunciare in quella sede la repressione operata dall’Università di Bologna nei confronti degli studenti di “Bartleby”, uno spazio universitario inutilizzato e quindi occupato, da lui definito “un luogo culturale”, fondato da studenti “bravi e colti”. A quel convegno l’Università si era presentata con belle parole e tante buone intenzioni, ma venne inchiodata alle proprie responsabilità da chi vedeva una palese discrasia tra l’ufficialità dei propositi e la realtà della repressione e della chiusura di luoghi culturali. Le grandi fondazioni rappresentavano per Stefano un altro ostacolo alla diffusione della cultura. Proprio nel 2009 una fondazione bancaria di Bologna “tolse” un milione e mezzo di euro destinati alla provincia, in cui rientravano i 16.000 euro che dovevano essere utilizzati per “La parola immaginata” (prestigiosa rassegna a carattere internazionale - da lui curata e diretta - di letteratura, musica e immagini, che ha visto la partecipazione di grandi artisti e scrittori), che senza quelle risorse diventava impossibile portare avanti. Destino comune, questo, a tante altre simili esperienze di produzione culturale di qualità, innovative, sperimentali. “Viviamo in una condizione di emergenza a Bologna come in Italia”. Nel nostro Paese, denunciava sempre durante quell’intervento del 2009 - ma lo ripeteva spesso in altre situazioni e contesti - c’è stato un taglio pesantissimo del Fondo Unico per lo Spettacolo, in quanto si è passati nel giro di un anno da 460 a 360 milioni di euro all’anno. Quando si parla di Fondo Unico bisogna intendere tutto: teatro, cinema, danza, musica, attività circense, etc... Tanti strabuzzavano 32


GIORDANO

Con Paolo Fresu per Raccontando: Italo Calvino, Teatro ITC di San Lazzaro (Bo), 2011 - foto Luca Gavagna

può essere devastante. In totale contrasto Stefano ripeteva che “la cultura deve poter lavorare sulla contemporaneità anche dei costi” e che la realizzazione di produzioni di nicchia deve poter essere preservata. Le privatizzazioni e la tendenza a creare fondazioni sono state fallimentari e soprattutto, sempre per tornare alle parole di Stefano, “l’intervento dei privati nelle fondazioni liriche non ha portato quei benefici che Veltroni prima e la Melandri poi speravano!” Erano queste le cose che secondo Stefano bisognava dire per “capire come uscire da una situazione di grandissima crisi”. Sempre secondo dati da lui forniti nel 2009, in Italia erano circa un milione le persone iscritte all’Enpals (Ente Nazionale di Previdenza e di Assistenza per i Lavoratori dello Spettacolo, le cui funzioni nel 2011 sono passate all’Inps), 300.000 i lavoratori dello spettacolo in Italia (soltanto a Roma 55.00 addetti nelle imprese audiovisive, con un indotto di 110.000), mentre le imprese culturali riscontrabili sul territorio nazionale erano circa 27.000. Dal 2009 la situazione è sicuramente peggiorata ma quelle cifre (anche se oggi non sono esattamente le stesse) ci parlano di un pezzo di società importante, fatto di gente in carne e ossa, “un patrimonio che sta per essere massacrato dalla mancanza di sensibilità del

gli occhi quando ricordava che in Francia il Fondo Unico per lo spettacolo era pari a circa 7 miliardi e 200 milioni di euro all’anno. I tagli alla cultura fatti dai governi nazionali, quello Berlusconi in particolare, erano per Stefano gravi e inaccettabili, però il vero problema era da individuare nel fatto che la cultura non è mai stata considerata un investimento e, a livello di iniziativa politica e di scelte governative, il cosiddetto “centro-sinistra” non ha fatto altro che inseguire il centro-destra sullo stesso terreno. Il che ha portato spesso gli enti locali, incapaci di gestire le politiche culturali, con troppa facilità a scaricare qualsiasi tipo di responsabilità sui tagli imposti dal governo, lavandosene bellamente le mani e assistendo impassibili alla desertificazione di intere comunità e territori o, addirittura, a tagliare anche quando non era indispensabile farlo. La logica aziendalista e produttivista delle destre e la tendenza continua alla privatizzazione della cultura rappresentavano, secondo Stefano, elementi da scardinare. Illuminante in proposito l’esempio della “Legge Carlucci” in cui è previsto il finanziamento dei teatri in base al numero degli spettatori, concezione che si trova spesso ribadita anche nei programmi delle coalizioni di centro-sinistra e che, se applicata, 33


nuova rivista letteraria mondo politico e del mondo imprenditoriale” e dalla ricerca continua del grande evento che è accettabile se allestito da un privato, ma che diventa “catastrofico” se ad organizzarlo è un ente pubblico, poiché, ad esempio, “non è possibile che per un solo grande evento si spendano tutte le risorse che potrebbero essere distribuite su un’intera stagione”. La mancanza di progettualità, un’altra problematica molte volte sollevata da Stefano e riferita in particolar modo a Bologna ma ovviamente estendibile a molte altre realtà. Si mettono in campo faraonici progetti infrastrutturali legati alla costruzione di strade, metropolitane, civis, people-mover, ponti, tav e quant’altro, ma di progetti culturali nemmeno l’ombra. Per non parlare delle idee e delle proposte, quasi mai recepite. Stefano teneva tanto, facendo riferimento alla città di Bologna, alla realizzazione della “Casa della Letteratura”, un progetto a carattere europeo nato circa quattordici anni fa e portato avanti dall’associazione di scrittori del capoluogo emiliano. Come lui temeva, ad oggi è ancora lettera morta, anche se permane la speranza che possa prima o poi realizzarsi. In un’intervista rilasciata per il periodico on line www.e-rossa.it nel febbraio 2011 (2), Stefano, analizzando gli aspetti positivi e quelli negativi del mondo artistico – culturale dell’Emilia-Romagna in relazione agli interventi legislativi regionali, esprimeva anche una serie di valutazioni, di idee e di pareri che possono essere considerati punti cardine di una proposta complessiva riferita alle politiche culturali. Riteneva strumenti molto importanti ed efficaci le cosiddette “leggi di settore”, specifiche per ogni diverso ambito della cultura e che, quando sono state attuate, hanno portato buoni risultati, mentre, nei settori dove non si sono realizzate se ne sente l’esigenza. Quando l’amministrazione regionale è stata vicino agli ambienti della produzione culturale e artistica si sono ottenuti esiti positivi. Riconoscere e promuovere le “vocazioni locali” di ogni singola provincia o di un territorio aiuta a non sovrapporre gli interventi e ad evitare casi di sovrapproduzione culturale o altri di scarsa produzione. In periodo di crisi e a causa dei tagli agli enti locali operati dal governo nazionale si può razionalizzare senza per forza mettere in ginocchio un determinato settore; senza dubbio ci sono degli ambiti dove si può “razionalizzare di più” per evitare che si taglino risorse alla cultura. Una legge di settore molto importante che, ad esempio in Emilia-Romagna ancora manca e rispetto alla quale Stefano aveva lavorato realizzando un progetto, è quella sull’editoria, a tutela delle case

Monterubbiano, 2007 - foto Stefania De Salvador

editrici e delle librerie indipendenti. La prepotente affermazione delle “libreria di catena” e delle librerie negli ipermercati diminuisce la possibilità di scelta per i lettori che si trovano innanzi soltanto “libri prefabbricati” o “commercialmente interessanti” (ovviamente per chi li produce), mentre “si taglia alla radice la cultura alternativa, la cultura di ricerca, la cultura di sperimentazione, la cultura altra rispetto a quella televisiva che ormai passa attraverso i romanzi, i saggi, i libri, la cosiddetta varia”. Ecco perché secondo Stefano era fondamentale preservare e tutelare le librerie indipendenti e le biblioteche che, specie per i piccoli centri, spesso rappresentano l’unico presidio di civiltà. Tutto ciò, però, secondo lui doveva essere fatto attraverso una legge, per aiutare i piccoli proprietari di librerie a pagare gli affitti, a volte davvero esorbitanti, o le piccole case editrici a sopravvivere (specie quelle che valorizzano gli scrittori veri e non quelli che pubblicano qualsiasi cosa purché a pagamento da parte dell’autore). Una legge “per normare la divulgazione alta”, per esportare la nostra cultura editoriale e la produzione culturale. E poi? E poi secondo Stefano si doveva fare di più per il cinema, per il teatro, per la musica, per tutelare i musei e per tanto altro. Le riflessioni, le parole e le proposte di Stefano Tassinari sono di un’attualità dirompente e la sua (la nostra) battaglia politica per la Cultura è ancora tutta davanti a noi. (1) Il video dell’intervento si trova sul sito www.wumingfoundation.com (2) Il video dell’intervista si trova sul sito dell archivio on line www.stefanotassinari.it 34


… era particolarmente graffiante con quelli che si erano ritirati dalla lotta alla chetichella

Nella “casa libreria” di Ferrara, 1994 foto Raffaella Cavalieri

❚ Hai presente Christoph Hein?

di Milena Magnani

L’amicizia con Stefano Tassinari è amicizia con lo scrittore ma anche con i libri di altri autori che ha saputo raccontare.

Ogni lettura importante reca con sé i segni di una relazione straordinaria, mai pacifica, mista di inquietudine e di ebbrezza, come quando un canto si alza all’improvviso e trova la sua armonia. (Ezio Raimondi, le voci dei libri, Il mulino, 2012 )

O

gni tanto mi accorgo di essere alla ricerca di un punto. Un punto che, come lo scorgo, mi restituisce il senso preciso di un orientamento. Quel punto non è sull’ago di una bussola e non segna il nord, non si trova sull’allineamento degli astri di una costellazione e nemmeno sul display elettronico di un navigatore di ultima generazione. Quel punto si trova su un libro, un libro collocato nella mia libreria dal giorno in cui ho conosciuto Stefano Tassinari, Canto alla durata di Peter Handke, edizioni Einaudi, che per una particolare congiuntura di scelta grafica riporta come immagine di copertina l’opera di Piero Manzoni, un barattolo da cui diparte una linea di lunghezza infinita. Quella linea è elemento fondante di una geografia, primo tassello di uno scenario di suggestioni dentro cui mi sono potuta muovere e di cui sono debitrice a Stefano per la capacità che ha avuto di suggerire strade, indicare autori e narrazioni, stanare da sotto il mercanteggiare della cultura mordi e fuggi, frammenti di mondo in grado tra loro di comporre un discorso. 35


nuova rivista letteraria Già, perché nel suo modo instancabile di svolgere il lavoro culturale c’era la consapevolezza di essere dentro a una società che, dopo avere sfiorato sogni estremi, andava progressivamente perdendosi in quisquiglie, deviava su faccende secondarie, mentre lui non intendeva proprio abbandonare il suo rigore militante, quell’orientamento verso la giustizia sociale al quale si era votato negli anni 70 e in nome del quale si sentiva chiamato a contrastare le derive di un capitalismo cialtrone e indisponente.

Un “discorso resistente” quello di Stefano attraverso il quale è riuscito ad aprirsi un varco, a battere un sentiero, una vera e propria line made by walking1, su cui ha camminato per davvero, instancabile, senza freno, cercando di strappare da un’intricata giungla senza accordo solo ciò che poteva nutrire il suo progetto politico di migliorare questo mondo. Una direzione che ha continuato a perseguire fino a quando le gambe hanno cominciato a indebolire, fino a quando non lo siamo riusciti neanche più a vedere, che in effetti là, dove quella linea si è fatta troppo ardita, se lo deve essere inghiottito l’alito denso del fiume.

He aquí el coro que entonan los vagos y los mendicos: “Guerra a muerte a los banqueros Que repletan sus bolsillos! 4

Il fiume della sua Ferrara, dei suoi amici Guido Barbujani e Luca Gavagna, di Bassani, di Celati ma forse anche quello di più giù, il Marecchia, quello della nebbia fitta di Tonino Guerra. Lo stesso fiume che si percorre sugli argini, di sera, con le zanzare che ti sibilano nelle orecchie.

Ecco il coro che intonano/i vagabondi e i mendicanti/ guerra e morte ai banchieri/che si riempiono le tasche! Una scelta di campo non facile, la sua, che ha avuto ricadute evidenti in tutti i suoi romanzi, sempre orientati a restituire una verità storica intorno ai movimenti di contestazione, alle lotte partigiane, alle battaglie per i diritti. Una scrittura che non lascia il lettore nel torpore e gli chiede invece di prender posizione:

l’aqua de fiómm alazò ch’la sguélla sòura i sas ch’la vu parlè sa mè. l’acqua del fiume laggiù/ che scivola sui sassi / che vuole parlare con me2

Il termine sconfitta io non l’ho mai usato, e in ogni caso, se anche fossimo stati sconfitti, almeno potremmo dire di averci provato, e voi invece?5

Deve aver camminato troppo determinato tanto che, pur avendo tentato di trattenerlo, mi torna solo un frusciare, un frusciare che poi deve essere un gatto che si acquatta in mezzo alle canne.

Te lo ricordi? (…) signori dello Stato, “pagherete caro, pagherete tutto!”, e invece loro non hanno pagato un bel niente (…) Dov’è finita la tante volte gridata “giustizia del proletariato”?6

E mentre stringo gli occhi e non so dove cercare, mi fa sorridere il pensiero di quante volte abbiamo scherzato sull’impossibilità di riuscire a tenere il ritmo del suo passo, quel ritmo che aveva nel divorare letture di ogni tipo, nel partecipare alle presentazioni di romanzi, gestire incontri pubblici, dibattiti, spettacoli teatrali e incontri con studenti.

Una richiesta di “schieramento” che lui rivolgeva a tutti ma aveva come interlocutore privilegiato una generazione, che poi era stata la sua, quella che aveva suonato la chitarra con i blue jeans a campana nella penombra di certe stanze e si era lasciata stregare dalla voce di Demetrio Stratos. Quella generazione che si era innamorata della poesia anarchica di De André, dei ritmi incalzanti dei King Crimson e dei Jethro Tull e insieme agli Stormy Six aveva cantato Stalingrado a squarciagola. Sì, lui si rivolgeva a tutti ma era particolarmente graffiante con quelli che si erano ritirati dalla lotta alla chetichella, e ciononostante continuavano ad avere stampata sulla faccia la possibilità di cambiare il mondo in cui un tempo avevano creduto. A questi rinfrescava con insistenza la memoria: ti ricordi?

Tanto è vero che, chi gli è stato accanto, si è sentito spesso come la Giulia del suo romanzo, All’idea che sopraggiunge, che non riusciva per sua natura a tenere il passo: Friedrich accennava passi normali, Giulia si fermava a puntualizzare una frase, fendendo l’aria con gestualità d’oltralpe. Per lui questi continui rallentamenti minavano la normalità del flusso pedonale, e gli comunicavano la stessa fastidiosa sensazione di quando, nel mentre osservava un’insegna pubblicitaria a luce intermittente, s’accorgeva del non funzionamento di una o più lettere della scritta3.

“del Che, la sua “fucina del socialismo” – ricordi le coper-

1  Richard Long, 1967 2  Tonino Guerra, Piove sul diluvio, Pietroneno Capitani Editore, 1997, Rimini 3  Stefano Tassinari, All’idea che sopraggiunge, Corpo 10, 1987, MIlano

4  Ruben Dario, poesie, Newton Compton editori, 5  Stefano Tassinari, D’altri tempi, ed. Alegre, 2011 Roma, p.96 6  (ibidem) p.117 36


MAGNANI

Teatro Barattoni di Ostellato (FE), spettacolo su Brian Jones “Like a Rolling Stone”, 2006

tine verde scuro di quei libri che allora studiavamo ben più di Dante, Manzoni e Leopardi? – il diario Boliviano (letto con la morte nel cuore), l’idea marcusiana dell’uomo a una dimensione e quella lainghiana dell’io diviso, e ancora la voglia ogni tanto di scendere da un treno sempre in corsa per fermarsi a immaginare le magie del paese di Macondo o entrare nelle atmosfere ben poco patinate del primo Ken Loach, un regista che, chi tra di noi non ha gettato tutto al vento, oggi ama intensamente”7

Forse è per questo che all’inizio della nostra amicizia, fatta di lunghe chiacchierate al tavolo di un locale, nominava continuamente Christa Wolf, Christoph Hein e Reiner Kunze e Buoumil Hrabal e tutti quegli autori dell’Est Europa che con le esperienze di socialismo realizzato si erano sporcati le mani per davvero: Quel giorno nel mezzo della lezione i ragazzi corsero alla finestra e gridarono: arrivano i carri armati, arrivano i carri armati!9.

Non aveva gettato al vento niente, Stefano, e lo ribadiva in tutta la sua scrittura :

“ogni mattina mi accendo la radio, prendo Berlino ed ascolto… Al principio niente, ma qualche minuto prima delle quattro riecheggia l’internazionale eseguita da orchestra e coro, poi la nota voce gentile: Buon giorno compagni qui Mosca10

Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti8. E se è vero che la sua scrittura si era fatta veicolo di lotta è anche vero che la stessa lotta lui la proseguiva poi nel suo modo di essere lettore. Sapeva viaggiare nei testi di altri autori non solo per il piacere della lettura ma anche e soprattutto per ritrovare un filo, una traccia, un modo per riconoscersi nella stessa battaglia.

Autori come Stefan Heym che pur non rinnegando una loro adesione all’ideale marxista, se lo domandavano: «Ma che razza di socialismo è questo, che si deve murare affinché il suo popolo non fugga via?»

9  Cristoph Hein, L’amico estraneo, e/o,1987, p.114 10  Bohumil Hrabal, Inserzioni per una casa in cui non

7  (ibidem) p.125 8  Antonio Gramsci, La città futura, numero unico, febbraio 1912

voglio più abitare, Einaudi, 1965 37


nuova rivista letteraria Scrittori che, pur nella diversità delle biografie, di fronte al crollo epocale del muro di Berlino, avevano trovato il coraggio di mettersi comunque in gioco, manifestando con trasparenza il desiderio di realizzare una ‘terza via’, alternativa al capitalismo dell’Ovest, ma più democratica e liberale del socialismo dittatoriale in disfacimento nell’est.

nostre chiacchierate, il suo viaggio aveva cambiato direzione e si era messo a sorvolare l’oceano per andare a planare sul Cile, sul Nicaragua e sulla “sua” Argentina. Partiva dalle liste dei perseguitati stilate da Rudolfo Walsh, passava attraverso le parole di Jorge Luis Borges, di Julio Cortázar, e di Osvaldo Soriano, e si muoveva tra le loro atmosfere per continuare a resistere contro le dittature. Voleva rendere giustizia, Stefano, più di tutto, a un’intera generazione di argentini scomparsi nel corso dell’infame dittatura di Vileda.

Si auspica che sia possibile costruire un’alternativa alla Germani federale, (…) cercare di sviluppare nel nostro paese una società solidale11

Hai presente il racconto di Giulio Cortazar intitolato Disegni sui muri?14

Autori che Stefano nominava con grande ammirazione e dentro i cui libri poi, passo passo, senza neanche darlo tanto a vedere, si cominciava lentamente ad avviare. Ed era così straniante il modo in cui riusciva a districarsi per le loro narrative tanto che, a volte, tornando a casa, mi succedeva di non avere a mente l’arredamento del locale in cui avevamo davvero chiacchierato, quanto piuttosto le strade della Berlino di Christa Wolf che lui mi aveva appena tratteggiato, e mi sembrava di avere addosso la stessa nostalgia che avevano quei personaggi usciti da una rivendita della Kavalierstraße12, quelli che si trovavano a camminare sotto un cielo che di colpo non era più diviso e non avrebbero mai più avuto nelle tasche la Grüne Karte, il lasciapassare che consentiva di muoversi in macchina tra i due settori della città.

E subito dopo che l’aveva domandato, di fronte a una mia lieve esitazione, assumeva un tono d’ammonimento tipico da fratello maggiore: No, è chiaro, non avrei nemmeno dovuto chiedertelo. Fa niente… comunque è la storia di due giovani che non si sono mai visti e che, in piena dittatura dei militari argentini, comunicano tra loro scrivendo messaggi sui muri del quartiere in cui vivono. Ogni notte escono di casa per tracciare quelle frasi, che puntualmente, il mattino dopo, vengono cancellate da vigili e poliziotti. È una splendida metafora della tragedia dei desaparecidos15 Sembrava che avesse interiorizzato il dolore di una generazione scomparsa, inabissatasi nel mare, i trasladados, i trasferiti, quelli che venivano narcotizzati con il pentothal, caricati su un aereo e lanciati nel Rio della Plata.

Sì certe volte mi sembrava di essere stata con Stefano a Berlino e altre volte di essere arrivata fino alla Praga di Bohumil Hrabal, dove questo autore ricorreva ai versi di Viola Fischerová per titolare un suo romanzo e non deponeva più i fiori in piazza San Venceslao. La Praga dove una rumorosa pace prevaricatrice stava portando via insieme al ricordo dell’invasione sovietica anche le magiche musiche dei The Plastic People of the Universe.

I vuelos de la muerte. I voli di quei desaparecidos che in fondo in fondo erano un suo luogo, un crocevia da cui sentiva di dover passare, cadere… in eterno, fino a che giustizia non sarà fatta. Cadere, nel vuoto, con la propria forza delle idee… e infatti lo scriveva: “la vorrei vedere ora la tua corsa in mezzo al vuoto, la testa rovesciata a controllare le distanze. E poi le braccia alzate in segno di vittoria16

Taky na mne nemyslíváš kolik dní? Taky sis našel jiný _ivot?13

E mentre ripercorro tutto questo, non so nemmeno stabilire il momento preciso in cui Stefano mi ha dato il diritto di ingresso in questo suo mondo delle letture, so solo che a un certo punto mi sono trovata a camminare con lui lungo una strada di evocazioni narrative, una strada che aveva una ben precisa direzione e dentro la quale un certo modo politico di intendere la vita prendeva rinforzo e trovava vigore.

Anche tu non pensi a me/da quanti giorni?/Anche tu hai trovato/un’altra vita? Stefano aveva ben chiaro quanto il crollo del muro avesse rappresentato la vittoria di un unico modello, quello occidentale dietro cui stavano annidate lobby di interessi dal potere incontrastabile, le stesse che avevano sostenuto e continuavano a sostenere nel mondo le più bieche dittature. Per questo c’è stato il periodo in cui, dal tavolino delle

Un camminare che partiva dalla parola letteraria, sì, ma poi costringeva a guardare la vita nella sua con14  Stefano Tassinari, Assalti al cielo, Per Conoscere, 1998, p.77 15  Stefano Tasinari, Assalti al cielo, Per Conoscere, 1998, p.77 16  Stefano Tassinari, D’altri tempi, ed. alegre, 2011, Roma p.109

11  Christa Wolf, Congedo dai fantasmi, e/o,1995, p.118 12  Christa Wolf, Un giorno all’anno, e/o, 2006 p.. 393, 13  Viola Fischerová, poesie 38


MAGNANI dizione più nascosta. Un incedere in nome del quale ogni fatto storico, ogni oppressione priva di rivendicazione, si dilatava inevitabilmente in derive e anche la voce di un autore scomparso poteva continuare ininterrotta a vibrare, a suscitare figure di liberazione e a collegarle al futuro che viene. Come scrive Ezio Raimondi quando la lettura, da esperienza individuale diventa il luogo del dialogo fra due amici (…) si ingaggia in qualche modo una battaglia contro il tempo. Di là dall’atto che si compie, che è un evento in sé e in sé si chiude, c’è un suo continuare, un suo proiettarsi in avanti: è come se il tempo fosse assorbito dalla coscienza, moltiplicato per tutte le voci, per tutte le memorie, per tutti gli incontri di cui si compone la nostra vita. (…) una dimensione che Bachtin chiama “il tempo grande della letteratura”17 Ed è proprio guardando la vita da questo “tempo grande della letteratura”, dove la parola scritta perde la sua natura di pura astrazione e ci viene ad abitare tra le diastole e le sistole del cuore, che mi succede qualcosa di strano. Perché se penso alla morte di Stefano, sì, se penso alla morte, nel suo caso, sento di non riuscire a cogliere la tragicità di un’assenza e prevale invece in me quell’altro sentimento, lo stesso che esprime John Berger quando scrive che i morti sono in mezzo ai vivi e che i vivi sono in mezzo ai morti e che tra loro c’è solo un po’ di tempo e un po’ di spazio18. Sì, se penso alla morte, nel caso di Stefano, prevale in me un un’assoluta rimozione del dolore e si anima invece quella che Peter Handke, nel suo bellissimo canto, chiama appunto “la durata” e non ha a che fare con gli anni, con i decenni, con il tempo della nostra vita, ma ha piuttosto a che fare con quella sensazione che abbiamo spartito insieme e che rimane ancora e soltanto quella di vivere. Vedi Milli, il comunismo non è solo un’idea di società che probabilmente non vedremo mai realizzata, ma è anche (e soprattutto?) uno stile di vita, difficile, che ci fa stare da una certa parte (quella brechtiana del torto...) al di là delle contingenze. Oggi la contingenza è la peggiore che io ricordi, eppure sento che può essere superata, magari grazie alle “loro” contraddizioni, anche materiali (il capitalismo finanziario sta esplodendo, e questa è una buona notizia!). Per questo è importante “fare comunità”, ragion per cui anche una nuova rivista può essere uno stimolo importante per non rinchiudersi in se stessi e per non “dismettere” certi stili di vita. (da una mail di Stefano Tassinari/ Sent: Tuesday, September 23, 2008 11:47 PM) Primi anni Ottanta, corteo politico a Ferrara

17  Ezio Raimondi, le voci dei libri, Il Mulino, 2012,p:75 18  John Berger, Abbi cara ogni cosa, Fusi orari, 2007 39


Con la moglie Stefania e le nipoti il 3 Aprile 2011, alla festa del loro matrimonio - foto Luca Gavagna


ci eravamo annusati per qualche ora, come animali che riconoscono il proprio simile

Concerto in occasione di un intervento politico, fine anni Settanta

❚ Un aneddoto, un ricordo e un’intervista

R

di Giuseppe Ciarallo

icordo una sera di qualche anno fa, nella quale stavo con molta fatica pedalando verso casa. Nonostante i miei sforzi, la bicicletta avanzava lentamente a causa di un forte vento che mi soffiava sulla faccia e mi impediva di ottenere un risultato soddisfacente, in termine di metri guadagnati, per l’energia che stavo spendendo. Ricordo anche che a un certo punto, al culmine dello sforzo, mi venne in mente Stefano, e quel pensiero per il resto del tragitto divenne un chiodo fisso: avevo la sua immagine in testa e non riuscivo a cancellarla in alcun modo. Appena giunto a destinazione decisi di chiamarlo al telefono e di raccontargli la vicenda, la bici, le pedalate forsennate, la fatica… Stefano ascoltò il mio racconto, tacque per qualche istante, poi disse: “Per forza non avanzavi di un metro e nel frattempo pensavi a me. Avevi… il vento contro!”. Altro attimo di pausa, poi scoppiammo entrambi in una, seppur contenuta, risata commentando divertiti le contorte dinamiche e i processi del pensiero nei quali si spinge spesso la mente umana. Stefano lo avevo conosciuto nell’estate del 1995. Eravamo entrambi ospiti in un campeggio nel sud della Sardegna, località Cala Sintias, tra Villasimius e Costa Rei. In quell’angolo di paradiso ci eravamo annusati per qualche ora, come animali che riconoscono il proprio simile, poi, com41

❝Stefano

ascoltò il mio racconto, tacque per qualche istante, poi disse: Per forza non avanzavi di un metro e nel frattempo pensavi a me. Avevi… il vento contro! ❞


nuova rivista letteraria plice il manifesto che tutti e due leggevamo cercando scampo alla calura sotto il pergolato del bar ristorante, avevamo cominciato a parlare di ogni cosa, ma soprattutto degli anni ’70 e del nostro passato di militanza politica, lui ex AO io ex LC, argomenti che in seguito seppi essere molto importanti nella sua vita personale e artistica. Era da poco uscito il suo libro Ai soli distanti e la mia prima raccolta di racconti. L’ultimo giorno della vacanza ce li scambiammo con tanto di dediche, con la promessa di tenerci in contatto. Così è stato. Ma qui mi fermo per non cadere nella trappola della patetica celebrazione. Preferisco riascoltare, e che venga ascoltata, la viva voce di Stefano attraverso la riproposizione integrale di un’intervista che gli feci per la rivista Pagina Uno, qualche mese dopo l’uscita del suo romanzo Il vento contro.

in un dibattito pubblico potrei tranquillamente usare il termine “macellai” per definire Massera o Pinochet, in un’opera letteraria non lo userei mai, tranne che in un contesto esplicitamente provocatorio. A mio parere, i racconti più belli e “utili alla causa” sui “desaparecidos” li hanno scritti Julio Cortàzar e Osvaldo Soriano senza mai adoperare la parola “desaparecidos”, così come i romanzi più intensi sull’oppressione stalinista e post-stalinista nei Paesi dell’Est sono stati scritti da due autori molto lirici e quasi fantastici, come Hrabal e Brandys. Detto ciò, credo che opporsi alla riscrittura della Storia e della memoria sia il minimo che si debba chiedere a uno scrittore convinto di non dover “chiudere le proprie finestre sul mondo”, ma, al contrario, di doverle tenere sempre aperte, anche quando il paesaggio è orribile.

Finestre aperte su orribili paesaggi Facendo scorrere i titoli dei tuoi ultimi lavori, da quelli della “trilogia della memoria”, L’ora del ritorno, I segni sulla pelle e L’amore degli insorti, fino al tuo ultimo romanzo Il vento contro, appare chiaro l’impegno che hai deciso di assumerti attraverso la scrittura. Stefano Tassinari, dunque, testimone del suo tempo, narratore disincantato delle vicende della sua generazione e attento custode di una memoria che tanti, oggi vorrebbero cancellata o quantomeno riscritta?

Veniamo ora alla tua ultima creatura, Il vento contro, romanzo nel quale ripercorri le vicende, fino al tragico epilogo, di Pietro Tresso, tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia, amico di Gramsci, espulso dal partito oramai guidato dai fedeli a Stalin, per le sue simpatie trotskiste. Come ti sei imbattuto nella figura di Pietro Tresso e qual è stato il motivo per cui questo personaggio ti ha indotto a raccontarne la storia? La prima volta che m’imbattei nella figura di Pietro Tresso fu negli anni Ottanta, grazie a un articolo pubblicato su una rivista della Nuova Sinistra. La sua storia mi colpì moltissimo, sia per la sua dimensione tragica in sé, che per le sue implicazioni politiche. Per molti anni me la sono portata dentro, nella speranza di poterla utilizzare per un romanzo. Solo di recente, però, grazie all’incontro con lo storico Paolo Casciola (responsabile dell’”Archivio Pietro Tresso” e coautore di una sua biografia politica) e alla lettura di alcuni libri (tra i quali Assassinii nel maquis, di Pierre Broué e Raymond Vacheron) ho ritenuto di avere a disposizione abbastanza materiale per dare a quella storia una dimensione letteraria. Alla base di questa scelta ci sono molti motivi, che potrei riassumere così: la mia passione innata per i perdenti (specie per quelli che considero vincenti nel tempo), il desiderio di ridare almeno un po’ di dignità a persone alle quali la dignità è stata calpestata, il bisogno di contribuire alla ricerca della verità in merito a un episodio vergognoso del nostro Novecento, e l’idea che, senza denunciare gli errori e gli orrori compiuti in nome e per conto del comunismo nel secolo scorso, non sia possibile ricostruire un percorso che abbia ancora una forma di comunismo come meta finale. A tutto ciò aggiungerei una valutazione di tipo politico, in base alla quale attraverso gli elementi cardine della cultura trotskista si possono comprendere molte delle crisi e delle contraddizioni della sinistra di oggi, magari usandoli per cercare di porvi rimedio.

Al di là del giudizio che si può esprimere sul mio lavoro, io ho sempre creduto nella “funzione sociale” della letteratura e ho cercato, quindi, di agire di conseguenza. Ciò non significa, da parte mia, respingere automaticamente tutti quei romanzi o libri di racconti che non rientrano in una determinata categoria, ma semplicemente aver compiuto una scelta di campo, nella convinzione che - specie in questa fase storica - sia importante utilizzare la letteratura per creare o riaprire conflitti, per “leggere” in un altro modo alcuni grandi eventi cosiddetti “epocali” (il mio romanzo sul G8 genovese tenta di andare in questa direzione), o per approfondire quelle contraddizioni della Storia in grado di avere almeno un riverbero sul presente e sul futuro. Un’operazione del genere, però, ha senso solo se non compromette l’espressione letteraria in quanto tale, perché, in caso contrario, non varrebbe la pena di provare a realizzarla. Mi spiego meglio con un riferimento concreto: temi quali - ad esempio - l’oppressione e la violenza esercitate dalle dittature possono essere affrontati in diversi modi, tra i quali anche un certo tipo di descrittivismo realistico, magari appesantito dal bisogno dell’autore di trasmettere la propria (sacrosanta) indignazione. Nella maggior parte dei casi, però, la scrittura adottata a sostegno di questo impegno “militante” tende ad essere infarcita di luoghi comuni e quindi anti-letteraria, finendo col perdere la propria funzione. Per essere ancora più precisi, mentre 42


CIARALLO

Un fiore sulla tomba di Rosa Luxemburg, Berlino cimitero di Friedrichsfelde, 2007 - foto Stefania De Salvador

le il comunismo e lo stalinismo sono la stessa cosa, di conseguenza il comunismo può esistere solo nella sua versione autoritaria, violenta e antidemocratica. Questa assurda idea - che ha lastricato la strada che dal Pci ha portato al Pd passando per il Pds e i Ds – non tiene conto, volutamente, di tutti quei comunisti che hanno sempre denunciato (spesso pagando con la vita) la degenerazione di chi sovrapponeva lo Stato al partito e al sindacato, farneticava dell’esistenza di un Paese guida, faceva fucilare tutti quei dissidenti che non credevano in una società perfetta, bensì ritenevano che fare la rivoluzione significasse mettere in discussione anche se stessi e le proprie conquiste, mantenendo una dimensione dialettica senza la quale il comunismo non è realizzabile. Ora, io non credo che la destra possa strumentalizzare più di tanto storie come quella di Tresso, proprio perché è fin troppo evidente che riesumarla come ho tentato di fare io non serve a demolire l’idea del comunismo, ma casomai a rilanciarla in un’ottica diversa, dando spazio alla sua anima migliore, repressa dalla stupidità e

Premetto che ritengo necessaria e meritoria ogni operazione tesa a sistemare nel giusto posto ogni tassello, anche il più scomodo, della storia del movimento operaio internazionale, penso a episodi poco limpidi quali Kronstadt, la sorte degli spartachisti, la stessa Guerra di Spagna… Mi chiedevo come hai valutato e risolto tu il problema – che sicuramente ti sarai posto – legato al rischio di un utilizzo da parte della destra revisionista, di quella che è un’operazione di “trasparenza “ storica da parte di uno scrittore dichiaratamente e inequivocabilmente di sinistra, come la denuncia del volto più barbaro dello stalinismo. Non so se sono riuscito a risolvere il problema, ma di sicuro l’ho affrontato nella convinzione che il rischio andasse corso, perché l’alternativa sarebbe stata quella di continuare una pratica che ritengo deleteria (e cioè “lavare i panni sporchi in famiglia”, e quindi comportarsi come i nostri avversari) e di perpetuare un luogo comune pericolosissimo, secondo il qua43


nuova rivista letteraria dalla rigidità mentale del modello staliniano. Certo, non ti nascondo di aver avuto un po’ di timore nel portare a termine quest’opera letteraria, nonché di aver trovato qualche compagno (pochi, per la verità) che durante le presentazioni mi ha rimproverato per non aver “taciuto di fronte al nemico”, ma posso dirti che la soddisfazione maggiore (e immeritata) me l’ha data un giornale di proprietà della Confindustria vicentina, il quale, nel recensire il romanzo, ha scritto che io “non ho niente a che fare con Giampaolo Pansa, ma, casomai, con Ken Loach”. Questo dimostra, senza equivoci, da che parte sta Il vento contro, e al di là del paragone impossibile con il grande regista inglese, io ho ricevuto da quel giornale il migliore dei complimenti.

raggio delle tue parole. Senza mezzi termini tu hai affermato la differenza tra terrorismo e lotta armata, il primo che colpisce nel mucchio senza porsi troppe domande di tipo etico, la seconda invece, tesa a colpire obiettivi specifici individuati dopo mesi e mesi di discussioni politiche. Anche prescindendo da qualsiasi giudizio sull’uso della violenza, la differenza è macroscopica e solo un’informazione manovrata può mettere sullo stesso piano Piazza Fontana, Italicus, Stazione di Bologna persino con il più eclatante degli omicidi delle Brigate Rosse: Aldo Moro. Credo che questa distinzione sia necessaria, specie se si vuole davvero fare chiarezza su quegli anni, puntando così a superarli e a chiudere quella stagione. Purtroppo, da parte di quasi tutti i mezzi d’informazione e di molti rappresentanti istituzionali, prevale la volontà di far passare un’intera generazione come una banda di pazzi criminali, avulsi dalla realtà e inseriti in un contesto che oggi viene sistematicamente falsificato. Io non ho mai condiviso la scelta della lotta armata, anzi, l’ho ritenuta pericolosa per i movimenti di lotta di quegli anni e priva di sbocchi concreti, ma non posso accettare che decine di migliaia di giovani, che in buona fede hanno cercato di combattere (in modo sbagliato, certo) uno Stato autoritario, antidemocratico, piduista e “gladiatore”, vengano messi sullo stesso piano di gruppetti di terroristi, spesso finanziati e coperti da quello stesso Stato, che hanno ammazzato centinaia di innocenti passeggeri di treni, clienti e impiegati di banca e militanti sindacali, al solo scopo di spaventare un intero Paese che si stava ribellando, nella speranza di costringerlo ad invocare una svolta golpista o comunque autoritaria. Sinceramente, sono infastidito da certe ricostruzioni ipocrite e manipolate, specie quando vengono realizzate (in evidente malafede) senza tener conto anche del clima e delle motivazioni di quegli anni. Nei confronti della lotta armata italiana io non sono tenero (e mi sembra che la mia presa di distanza emerga con chiarezza dalla lettura de L’amore degli insorti), ma quelle decine di migliaia di militanti che presero quella strada facevano parte, in tutto e per tutto, della nostra generazione di ribelli degli anni Settanta, di compagni che, in modi diversi, hanno tentato l’assalto al cielo, e questo non lo posso né dimenticare, né tanto meno rimuovere, magari solo per risultare “politicamente corretto”.

Quando parliamo di stalinismo, oltre al suo aspetto repressivo più evidente, tendiamo comunque a pensare a qualcosa di terribile ma fortunatamente lontano nel tempo. Poi basta concentrarsi sui meccanismi che regolano i rapporti interni alla politica ma anche personali, per rendersi conto, con sgomento, quanto certe pratiche siano ancora così presenti all’interno della sinistra e non solo. Nel romanzo penso al terribile rapporto tra Tresso e i suoi ex amici ma ancor più alla compagna di Tresso e alla di lei sorella. Sono perfettamente d’accordo con te, e se vuoi questo è un altro dei motivi che mi hanno spinto a scrivere il romanzo. Anch’io non penso che lo stalinismo sia finito, se non altro a livello mentale e comportamentale, e dunque credo sia utile continuare a combatterlo nelle forme in cui si esprime oggi, oltre che sul piano storico. Ti faccio un esempio concreto: in questi giorni (metà gennaio 2009, nda) alcuni esponenti del Pd stanno tentando un inciucio con il centrodestra per riprovare a modificare la legge che regola le elezioni europee, con l’unico scopo di introdurre uno sbarramento in grado di impedire a ciò che resta della sinistra alternativa di mandare dei rappresentanti a Strasburgo. Ecco, io trovo che questo sia un comportamento di tipo stalinista, basato sul bisogno di soffocare le minoranze. Certo, per fortuna oggi non ci sono più i gulag, né si massacrano fisicamente i compagni “fuori linea” (come accaduto a Tresso, Trotsky, Nin e Klement, ma anche a Bucharin, Zinoviev, Kamenev e Smirnov, alcuni dei quali già fedelissimi di Stalin), eppure non mi sembra che si stia rinunciando a quella violenza psicologica che, in fondo, non è molto diversa da quella esercitata da Serena Seidenfeld nei confronti di sua sorella Barbara, rea di aver seguito un “traditore” come Pietro Tresso.

A proposito di lotta armata e di conti mai chiusi col passato, vorrei sapere cosa ne pensi dell’affaire Cesare Battisti. Guarda, premesso che non ho mai condiviso le azioni del suo gruppo e che, pur non avendo mai conosciuto personalmente Cesare Battisti, non nutro, a pelle, particolare simpatia umana nei suoi confronti, ho firmato con convinzione gli appelli che, prima della sua fuga in Brasile e del suo arresto, chiedevano il blocco della sua estradizione dalla Francia. A Battisti è stato

Vorrei tornare al tuo penultimo lavoro, L’amore degli insorti. Ricordo che quando lo lessi, oltre che rimanere stordito dai profumi, dai colori, dai suoni di quel mondo che ben conoscevo e che tu sei riuscito a ricreare con grande maestria, fui colpito dal co44


CIARALLO

Serata letteraria alla Scuderia di Castelbolognese (Bo), 2010 - foto Roberto Serra/Iguana Press

ascritto almeno un omicidio che non può aver commesso perché si trovava in un’altra città, e già questo basterebbe per far indignare anche il più tiepido dei garantisti, ma si sa che anche il garantismo è soggetto a… interpretazioni personali, di solito molto aperte nei confronti di politici corrotti e altrettanto chiuse a riccio nei riguardi di ex appartenenti ai gruppi armati. Da tempo sono convinto che quella pagina vada chiusa una volta per tutte, e per farlo bisogna partire dal riconoscimento di un dato di fatto; in Italia, per circa un decennio, si è combattuta una sorta di guerra civile tra uno Stato eterodiretto e per nulla pulito e una generazione che, con metodi non omogenei e approcci diversi nei confronti dell’uso della violenza (di offesa o di semplice difesa), ha cercato di contrastarlo e di sostituirlo con un modello alternativo e, quanto meno, di tipo socialista. Quando le guerre finiscono si concedono le amnistie e si cerca di ricostruire un tessuto sociale lacerato: quella guerra è finita da venticinque anni, in migliaia hanno scontato decenni di galera), qualche centinaio di loro è tuttora in carcere e molti di più si trovano in esilio da tanto tempo. Bene,

mi sembra sia arrivato il momento di chiudere quella vicenda nell’unico modo che abbia un senso, e cioè con l’amnistia per tutti. Poi si potrà anche aprire un dialogo tra le parti, come è avvenuto in Sudafrica su iniziativa di Nelson Mandela, ma solo quando in carcere non ci sarà più neanche un prigioniero politico. Alla luce di quanto ci siamo detti, sono proprio curioso di conoscere l’oggetto del tuo prossimo lavoro. Puoi darci qualche anticipazione? In questo periodo sto scrivendo un libro di racconti incentrato su personaggi ed episodi che hanno caratterizzato il periodo che va dal 1969 al 1979 (dalla morte del chitarrista dei Rolling Stones, Brian Jones, all’assassinio – da parte della polizia - dello studente Roberto Franceschi , dai desaparecidos argentini all’apertura dei manicomi conseguenza della Legge Basaglia, e così via). In sostanza, non una “ripulitura dei cassetti”, ma – almeno nelle intenzioni – un vero e proprio progetto letterario basato su testi brevi. 45


Ritagli di Tempo 1969 con Francesco Guccini, Teatro ITC di San Lazzaro (Bo), 2009 - foto Luca Gavagna


per un modello sociale alternativo a quello disumano dei Marchionne

L’intervento dal palco in piazza Maggiore per lo sciopero nazionale del sindacato metalmeccanici Fiom CGIL foto di Mario Carlini/Iguana Press

❚ Intervento a un comizio della Fiom

(26 gennaio 2011 – Piazza Maggiore, Bologna)

C

are compagne e cari compagni, a nome di un gruppo di scrittori di Bologna (che comprende, oltre a chi vi parla, il collettivo dei Wu Ming, Marcello Fois, Carlo Lucarelli, Grazia Verasani, Pino Cacucci, Giampiero Rigosi, Simona Vinci e Massimo Vaggi, oltre al nostro collega francese Serge Quadruppani, che si trova in questa piazza assieme a molti degli autori citati) voglio esprimervi la nostra vicinanza, per nulla formale, nel momento in cui, attraverso lo strumento dello sciopero generale, state compiendo un altro passo fondamentale non solo per la difesa dei diritti, ma anche per la costruzione, dal basso, di un modello sociale alternativo a quello disumano che Marchionne e i suoi tanti sostenitori stanno cercando di imporre con ogni mezzo. Vedete, in questi mesi durante i quali in molti vi hanno lasciato soli (compresi alcuni che un tempo stavano dalla parte dei lavoratori e oggi, chissà perché, sono passati dalla parte di Marchionne), anche noi, nel nostro piccolo, ci siamo interrogati su che cosa avremmo potuto fare per non lasciarvi soli, salvo accorgerci che in realtà, rovesciando i termini della questione, 47

❝Da anni ci ri-

petiamo che senza cultura – così come senza diritti e senza autodeterminazione dei lavoratori, degli studenti, delle donne – un Paese non ha futuro. ❞


nuova rivista letteraria

Presentazione “D’altri tempi” a Le Scuderie, Bologna, 2011 - foto Stefano Calanchi

dovevamo semplicemente ringraziarvi perché con la vostra resistenza eravate riusciti voi a non lasciare soli noi. E allora siamo qui, oggi, per dirvi anche questo, e cioè che in una fase così difficile come quella che stiamo attraversando, con una parte del sindacato che ha smesso di essere tale e con una sinistra politica che, purtroppo, o si è omologata alle posizioni dell’avversario o si è più o meno disintegrata, noi vi ringraziamo perché da un lato state rappresentando l’unico punto di riferimento credibile per chi, come noi e tanti altri, si rifiuta di tornare a vivere come si viveva negli anni Cinquanta, e dall’altro lato state diventando il centro di un nuovo blocco sociale di opposizione e di alternativa, capace, in prospettiva, di aggregare attorno a sé i tanti che lottano su diversi fronti (dai no Tav ai No Dal Molin, dagli studenti anti-Gelmini a chi si oppone al ritorno al nucleare, agli inceneritori cancerogeni, al modello unico rappresentato dal capitalismo reale e, perché no, a quelli che, come noi, si battono contro i tagli alla cultura). Sì, perché – compagne e compagni – noi lavoriamo con le parole e non con le presse, e quindi siamo dei privilegiati, ma vi assicuro che la crisi la stiamo sentendo anche noi, in un Paese in cui il mondo della cultura è sotto tiro come non era mai

successo prima, stritolato da tagli che stanno limitando la produzione teatrale e quasi distruggendo quella cinematografica, solo per citare due comparti nei quali quei tagli stanno mettendo a rischio decine di migliaia di posti di lavoro, perché dietro un teatro che chiude o un film che non si farà mai ci sono dei lavoratori per niente immateriali, ma in carne ed ossa come tutti gli altri. Finisco sottolineando che dietro questo attacco c’è anche dell’altro, e cioè la volontà di colpire chi, attraverso i propri libri e i propri spettacoli, cerca ancora di esprimere un pensiero critico che questo governo – sempre più simile a un regime – non riesce proprio a sopportare. Da anni ci ripetiamo che senza cultura – così come senza diritti e senza autodeterminazione dei lavoratori, degli studenti, delle donne - un Paese non ha futuro, ed è anche per evitare tutto ciò che vorremmo stringere un’alleanza solidale tra due mondi che, troppe volte, in tanti hanno cercato di separare o, addirittura, di far configgere. Proviamoci, a partire anche da questa straordinaria giornata di lotta. E grazie ancora per averci dato l’esempio di come si possa resistere mentre da (quasi) tutte le parti vi ripetevano che non c’erano alternative al mettervi in ginocchio. 48


era quel “noi” la vera voce narrante dei nostri romanzi

Primi anni Ottanta, comizio per Democrazie Proletaria a Ferrara in Piazza Trento Trieste

❚ Anni Settanta: una matassa di storie ingarbugliate

di Bruno Arpaia

R

oba di appena qualche mese fa: una grande mostra a Milano dal titolo Addio anni Settanta. Spia, sintomo, indizio abbastanza evidente di un desiderio diffuso: quello di accomiatarsene per sempre, di metterci una pietra sopra, di non parlarne più, di quegli anni. Li si vorrebbe archiviare, confinare in soffitta tra i materassi sfondati e gli abat-jour fuori moda. Intendiamoci: sarebbe giusto, giustissimo; presto o tardi, il passato deve passare. Prima, però, bisognerebbe averci fatto bene i conti, come sarebbe doveroso nei confronti di ogni periodo storico timorato di dio. E invece, a quarant’anni di distanza, sono in tanti a cercare di dimenticarli tout court. E loro, gli anni Settanta, si vendicano: riaffiorano qua e là come un grande rimosso, si affacciano ancora dietro parecchi dei misteri italiani, proiettano la loro ombra lunga su molti avvenimenti dell’Italia putrida e affannata di questo nuovo secolo. 49

❝Aria, aria nuova. Si poteva e doveva continuare a dire “noi”, però senza bruciare l’Io sul rogo della storia... ❞


nuova rivista letteraria

Ritagli di Tempo 1969, Teatro ITC di San Lazzaro (Bo), 2009 - foto Luca Gavagna

Stefano Tassinari e io ci avevamo provato, a farci i conti, nel modo che avevamo scelto e che ci era diventato congeniale: scrivendo romanzi, raccontando storie che, almeno nelle nostre intenzioni, avrebbero dovuto portare i lettori a decidere in piena autonomia cosa dovesse essere buttato e cosa potesse essere recuperato da quella soffitta, frugando attentamente tra quei materassi sfondati e quegli abat-jour. Pensavamo che qualcosa, di quegli entusiasmi e di quelle passioni, di quegli ideali e di quelle teorie, di quegli errori e di quegli orrori, potesse essere ancora salvato e riciclato, ma non eravamo affatto ciechi su quanto c’era di irrecuperabile e perfino di dannoso e totalitario nelle idee che circolavano in quegli anni. Era una delle tante cose che ci accomunavano, anche se (per fortuna) non la pensavamo esattamente allo stesso modo. Già all’epoca, eravamo partiti più o meno dallo stesso punto, ma avevamo fatto percorsi diversi. Eravamo stati entrambi militanti di Avanguardia Operaia, sebbene lui a Ferrara e a Bologna, io nel mio paese in provincia di Napoli. Lui per scelta e convinzione, perché aveva maturato un forte interesse per il trotzkismo; io perché quello era l’unico gruppo extraparlamentare presente a Ottaviano e, se si voleva fare politica a sinistra del partito comunista, non è che ci fosse grande scelta; perciò ci entrai, nemmeno sedicenne, e il mio libertarismo mi guadagnò i continui sfottò dei compagni, che mi accusavano di essere “l’infiltrato di Lotta Continua in Avanguardia Operaia”.

Stefano, dunque,era rimasto nell’organizzazione anche dopo il 1977, entrando in Democrazia Proletaria e diventando perfino consigliere comunale, mentre io ero sbarcato a Milano come delegato al congresso nazionale del 1976, convinto che si dovesse buttare via tutta la chincaglieria teorica ammuffita, rinunciare alla centralità operaia, al leninismo e compagnia cantante. Avevo sperato fino all’ultimo in un colpo di reni della dirigenza, nella capacità di dare ascolto ai compagni di base, di tener conto delle novità che aveva messo in campo il movimento, della ventata salutare delle femministe, eccetera eccetera. E invece niente, zero. Destra e sinistra (!) dell’organizzazione, dritte per la loro strada: avevano presentato mozioni contrapposte e si erano divise. Allora avevo deciso di votare contro; non di astenermi, ma di votare contro tutte le mozioni. Furono tre, i contrari, solamente tre, e mi è rimasta in gola per anni la voglia di sapere chi fossero gli altri due. «Praticamente, ti sei messo fuori dal partito», mi disse corrucciatissimo il segretario della mia sezione. E infatti. Mi sciolsi nel movimento, come si diceva allora. Quanto ne avevamo parlato, con Stefano, prima e dopo avere scritto i nostri romanzi che, in modo diversissimo, raccontavano quei cinque o sei anni cruciali. Avevamo perfino fatto qualche presentazione insieme, e anche quelle erano state occasioni per discutere ancora, con gente della nostra età e con ragazzi più giovani. Loro, i ragazzi, sapevano poco e male che la cosa più straordinaria dei movimenti collettivi è la 50


ARPAIA maniera in cui cambiano le persone: rapida, radicale, profonda come poche altre esperienze. Per quello che mi riguarda, in due o tre mesi, forse soltanto in poche settimane, il movimento del ’77 cambiò le mie idee sul mondo, sulla politica, sulla mia stessa vita. All’im­ prov­viso, capii che quella imboccata negli anni precedenti era una strada che non portava da nessuna parte. Che non aveva senso continuare a costruire senza sosta macchine, apparati, burocrazie, strutture che ci avvolgevano come in un sudario. Che il militante era come un soldato, con un linguaggio e una morale militare, e invece io non ne potevo più di avere solo guerra all’orizzonte, di distinguere sempre gli amici dai nemici. Che il fine non giustificava i mezzi. Che era venuta l’ora di rinunciare alla teoria del soggetto collettivo – partito, classe, donne, giovani – che porta in sé, per opera e virtù di chissà quale miracolo, tutte le soluzioni possibili ai problemi. Aria, aria nuova. Si poteva e doveva continuare a dire “noi”, però senza bruciare l’Io sul rogo della storia. Per questo mi piaceva tanto quello stile alla Rimbaud del Movimento del ’77, quell’incasinatissima Torre di Babele in cui si urlavano centinaia di lingue differenti e si bruciavano una dopo l’altra le parole nuove, quell’insistenza sulla comunicazione e sul linguaggio, quel credere con forza in un conflitto che non annullasse l’avversario, in solidarietà concrete e non astratte, in quella rete di piccoli gruppi che è rispuntata magicamente fuori trent’anni dopo, dal movimento di Porto Alegre in poi. Non eravamo più la Storia, ma una matassa di storie ingarbugliate, reali o immaginarie, perfino assurde, insieme individuali e collettive, comunque parti di quel­l’essere multiplo che chiamavano “noi”. Io presi le distanze perfino dal marxismo, perché lo giudicavo una teoria ottocentesca, che racchiudeva un nocciolo duro di totalitarismo, e in questo con Stefano non c’era assolutamente accordo. Ma a quel “noi” eravamo rimasti aggrappati entrambi; era quel “noi” la vera voce narrante dei nostri romanzi, l’unica che ci interessasse davvero. E coincidevamo sull’enorme responsabilità della nostra generazione: quella di non essere riusciti a trasmettere quel senso di collettività in cui eravamo cresciuti, lasciando coloro che erano venuti dopo in balìa dell’individualismo rampante, «prigionieri di un Io deserto», come avrebbe scritto anni dopo Marco Revelli. Troppi, trent’anni, prima che lui, io e altri avvertissimo non solo il bisogno, ma anche la responsabilità e la possibilità di raccontare la nostra esperienza, di trasmetterla alle nuove generazioni, foss’anche per vedercela rifiutare in blocco. Ma meglio tardi che mai. E Stefano, diciamolo, era molto meno responsabile di me o di altri; anzi: si accollava una colpa che non aveva. Perché, in tutti i lunghi anni del silenzio o del reducismo, lui non aveva mai mollato. Non era mai stato zitto o inerte. Aveva sempre continuato, sia in maniera strettamente poli-

Le irregolari, Arena del Sole, Bologna, 2007 - foto Raffaella Cavalieri

tica, sia con l’attività culturale, a tenere vive le buone ragioni di allora e a battersi contro le cattive (perché ce n’erano, e tante, anche di pessime…). Soprattutto, in nome di quel “noi” che era l’unica condizione in cui si sentiva a proprio agio, aveva riunito decine, centinaia di persone su progetti culturali alti e lungimiranti, sconfiggendo pigrizie, solitudini, egoismi, neghittosità. Non finiremo mai di essergliene grati. Io più di tutti: perché, grazie a lui e a Letteraria, trent’anni dopo ho conosciuto uno degli altri due che avevano votato contro tutte le mozioni a quel congresso nazionale di Avanguardia Operaia del 1976. Era Massimo Vaggi. Perfino nel modo di andarsene, Stefano è stato coerente con quel “noi”: l’ha fatto così come ha vissuto, non mollando mai, cercando di non dare troppo fastidio, senza protagonismi, ma continuando a spargere intorno a lui, perfino in quella fottutissima stanza di ospedale, un senso di amicizia, di fratellanza e di comunità che ha rafforzato ancora di più i legami tra coloro che, con commovente ostinazione, aveva messo insieme nel corso di una vita. Un’altra fondamentale lezione: fino alla fine, Stefano ci ha mostrato quanto sia indispensabile lo sforzo di masticare ogni briciola di vita che ci capiti a tiro e quanto poco valgano (e a quanto poco servano) quegli egoismi e quelle solitudini in cui vorrebbero rinchiuderci quelli che non sanno e non vogliono dire “noi”. 51


Cena di presentazione rivista Letteraria, Bologna, 2010 - foto luca Gavagna


Con Fausto Bertinotti a Bologna nel 2010 - foto Raffaella Cavalieri

Comunismo: una parola che contiene il massimo del divario tra il suo significato e la sua applicazione

❚ Il dizionario perduto. La responsabilità della parola “comunismo”

«V

di Alberto Sebastiani

oterò Rifondazione Comunista perché le parole, per me, hanno ancora un senso, e quella “comunismo” – così sporcata e manipolata, in mezzo mondo, dall’ottusità di stalinisti e burocrati – può essere di nuovo sinonimo di altri termini colpevolmente caduti in disuso, come uguaglianza, giustizia sociale, diritti civili e abolizione dello sfruttamento. Voterò questo partito anche perché, da anni, ha avviato un processo di rifondazione del pensiero comunista, mettendo al centro 53

❝La parola “comunismo” ha

affrontato i mari burrascosi dei dibattiti teorici e si è schiantata contro gli scogli delle concretizzazioni del socialismo reale. Ma ha resistito a uragani di propaganda avversa, e guidato masse nella speranza di porti sicuri... ❞


nuova rivista letteraria del proprio agire non solo i rapporti di produzione, ma anche quelli umani e culturali. Lo voterò, inoltre, perché continuo ad essere affascinato dai sogni e dalle utopie, non amo il concetto di ordine che si tramuta in forza e sento che la passione – specie quella che ti spinge a stare da una certa parte – è ancora capace di muovere il mondo. Lo voterò, infine, perché – come cantano gli Skiantos – “sono un ribelle, mamma!”». Sono parole scritte nel 2006 in un manifesto-volantino pieghevole, composto di un foglio di circa 40x60 cm, stampato recto e verso, e ripiegato in modo tale da ottenere una specie di libretto di circa 20x20 cm, con una facciata principale, la “copertina”, ovviamente rossa, su cui si legge: “Noi votiamo PRC. E tu?”. Invece di sfogliarlo, il “libretto” si apre fino a farlo diventare il manifesto-volantino. Nella parte con la “copertina” si pubblicizza il comizio di Fausto Bertinotti in piazza Maggiore a Bologna (6 aprile 2006, ore 18), e il concerto di Malavida e Gang (ai Giardini Margherita, il principale parco bolognese, alle 20,30), oltre ad essere raccontate le lotte territoriali e nazionali in cui si impegna il partito. Dall’altra parte, sotto il titolo “Io voto PRC perché” ci sono le foto e gli interventi di otto persone: un lavoratore della Biblioteca Salaborsa, un lavoratore immigrato, un’insegnante, un lavoratore di call center, un tecnico metalmeccanico, una studentessa e un lavoratore metalmeccanico. Tutti sono presentati col nome e la professione. Solo uno ha anche il cognome, e a lui appartengono le parole riportate qui in apertura: è “Stefano Tassinari, scrittore”.

tato, esule, membro per anni del Comitato Centrale del Partito, caduto in disgrazia perché trotzkista. «Ridare dignità» alla parola “comunismo”. «Una parola che contiene il massimo del divario tra il suo significato e la sua applicazione», dice Tassinari nell’intervista radiofonica del programma “Le strade di Babele”, a cura di Eugenia Foddai, in onda su Radio Onda d’Urto nel novembre 2010. Riprende un discorso a lui caro, con una consapevolezza già presente nella sua intenzione di voto del 2006: Tassinari sa bene quanto, ancora una volta, quella parola sia perseguitata, e sia biasimato chi ci ha creduto o ci crede, e quindi lavora, opera, lotta per l’ideale che la parola “comunismo” esprime. È «diventata una parola “indicibile”», dice a Radio Onda d’Urto. È tacciata di appartenere a un mondo che non esiste più, a un Novecento rimosso in fretta, ma inalienabile. Una parola rovinata dalla sua concretizzazione, per Tassinari, perché lo «stalinismo ha distrutto una speranza, un’utopia, una possibilità». È quella «ottusità di stalinisti e burocrati» (nei luoghi del cosiddetto socialismo reale e nelle organizzazioni partitiche di molti altri paesi) denunciata nell’intenzione di voto del 2006, quella stessa che ha perseguitato Blasco.

È la campagna elettorale per le politiche che porterà al governo per la seconda volta Romano Prodi, e Tassinari come sempre – e come sempre criticamente – s’impegna in prima persona. «Perché le battaglie vanno combattute fino in fondo», ripeteva spesso. Ma nelle parole sul volantino c’è molto di più di un appoggio o un’intenzione di voto. C’è la sua attenzione alle persone e ai progetti, ma soprattutto alle parole da usare, che non sono fatte d’aria ma di sostanza, di storia e prospettive. Sceglierle è un atto di responsabilità. La parola “comunismo” è centrale per questo discorso. Nel romanzo Il vento contro (Marco Tropea, 2008), Tassinari racconta i pensieri di Barbara, a Barbison, che si sente una privilegiata a servire a tavola Trotsky, perché ascolta «l’uomo che, forse, riuscirà a fermare il degrado dei principali partiti operai e a ridare dignità a una parola, comunismo, che lei continua ad amare intensamente». Barbara è la compagna di Pietro Tresso, detto Blasco, tra i fondatori del PCd’I nel 1921, antifascista, persegui54


SEBASTIANI La propaganda anticomunista berlusconiana ha radici lontane, e ricalca (grottescamente) quella che nel secondo Novecento ha accompagnato la scena politica italiana. Una comunicazione che, ovviamente, non ha mai sottilizzato considerando le varie anime e posizioni che si agitavano sotto l’espressione “comunismo”. Un attacco verbale indiscriminato che ha sempre puntato il dito sui crimini del regime sovietico, tra slogan, falsità e fatti reali e drammatici, per ideologia, interesse o sincera avversione politica e civile. E i «burocrati e stalinisti» che Tassinari attacca nel volantino del 2006, non solo hanno perseguitato tanti Blasco, ma hanno anche offerto buon gioco a chi voleva denigrare la parola “comunista”. Quei personaggi l’hanno “manipolata” e “sporcata”, dice Tassinari. Il primo termine implica un intervento volontario, un’azione invasiva e/o di controllo, una modifica irrispettosa, un uso improprio, un atto disonesto. E l’onestà è per Tassinari una virtù inalienabile per l’intellettuale, ed è legata alla coerenza. Blasco, nel Vento contro dice: «Se per tornare in libertà mi devo spogliare della mia identità e indossare la loro divisa, allora preferisco restare prigioniero» (p. 73). E Tassinari ripeteva «bisogna essere onesti» prima di cominciare una critica, anche severa, a chi gli stava di fronte. O a se stesso (per lui il comunismo è anche una dialettica in cui «mettere continuamente in discussione se stessi e le cose che si fanno», «continuamente in divenire», dice a Radio Onda d’Urto). Quindi “sporcare” è una conseguenza del “manipolare”. È l’esito dell’intervento disonesto. Un sacrilegio, in un certo senso. Dall’interno.

Bretagna, 2007 - foto Stefania De Salvador

Tassinari conosce bene il lungo percorso della parola “comunismo”. Sa bene quanto sia stata più volte semantizzata nelle Internazionali e nei processi postrivoluzionari, e quanto abbia faticato per emanciparsi dall’essere considerata variante della voce “stalinismo”. Sa, in quanto “comunista”, cresciuto nella Nuova Sinistra, poi in Democrazia Proletaria e infine in Rifondazione Comunista, quale discussione sia avvenuta nella definizione di “comunismo”, tra umanismo e scienza, storia e filosofia, realtà e mitologia, pragmatismo e idealismo, ortodossia ed eterodossia, revisione e rilettura, libertari e autoritari, in rapporto a linee politiche filosovietiche, filocinesi, autonome, o a vie internazionali, europee, terzomondiste, nazionali, nonché a percorsi parlamentari ed extraparlamentari, rivoluzionari, massimalisti, miglioristi... E sa quanto alla caduta del Muro tutto questo sia stato cancellato, e sia diventato un termine scomodo, una parola usata come insulto, di cui liberarsi in fretta, sinonimo di “male”, “pericolo”, “povertà”, in contrasto a “bene”, “sicurezza”, “prosperità”, parole chiave del ventennio del “sogno” (per chi ha scelto di dormire) berlusconiano.

La parola “comunismo” ha affrontato i mari burrascosi dei dibattiti teorici e si è schiantata contro gli scogli delle concretizzazioni del socialismo reale. Ma ha resistito a uragani di propaganda avversa, e guidato masse nella speranza di porti sicuri. Ora, a inizio millennio, è «indicibile». Era temuta, ora suscita ilarità. La discussione interna, tra comunisti eretici e ortodossi, ha conservato per decenni il rispetto per il termine, che è stato difeso contro gli avversari politici. Ma con l’abbandono della discussione è stato lasciato spazio ai detrattori, e a un’interpretazione illimitata della parola, del tutto irrispettosa della parola stessa, della sua storia, della sua origine, del suo uso consapevole. Nessun confine è stato posto all’uso della parola “comunismo”, gli argini semantici che la proteggevano almeno dall’interno, da chi credeva nell’idea di “comunismo”, in varie forme, sono caduti col Muro. Nella sua pluralità di significati, la parola e l’idea di “comunismo”, nella sua graduale indicibilità, senza 55


nuova rivista letteraria argini a proteggerla, è capitolata. In Italia, oggi, a oltre vent’anni di distanza, sempre meno persone (per quanto sempre più partiti) si riconoscono in quel termine e si definiscono “comunisti”. A quella parola a partire dalla metà degli anni ’90 sono stati ricondotti i mali del nostro Paese. Tutto è avvenuto nella fretta di uscire dal ’900, che nella cronaca politica italiana ha preso il nome di “Prima Repubblica”. E tutto il negativo che connotava questa espressione, all’improvviso, aveva preso il nome di “comunismo”, sinonimo di “assistenzialismo”, “tasse”, “arretratezza”, come per altro se il Pci (e i comunisti in generale), mai stato a capo del governo del Paese, fosse diventato responsabile di tutta la mala gestione politica dal 1948 a Tangentopoli. Oggi, chi azzarda un discorso pseudostorico, lega la parola “comunismo” a “Russia” (che sarebbe “Unione Sovietica”) e al ’68, dei cui fatti però si sceglie di ricordare o si ricorda poco, e sono mescolati a immagini sbiadite del ’77, emblema di violenza e cupezza, grazie alle bombe e alle P38, che diventano una ‘cosa’ unica sotto l’etichetta tombale “anni di piombo”, estesa a un intero decennio, forse più. Siamo ben oltre lo scontro coi mulini a vento di Emilio, il protagonista del romanzo L’amore degli insorti di Tassinari (Marco Tropea, 2005), che ricorda la distinzione tra “terrorismo” e “lotta armata” (p. 98), oggi quasi sinonimi di “contestazione” (negli anni Zero non poche volte i “contestatori” sono stati detti “terroristi”).

La sconfitta. La persecuzione. Il riflusso. Il silenzio su un periodo che è rimasto una ferita. Collettiva e privata. «Quelli erano gli anni di sdegni sbriciolati, ognuno era solo nel suo, non c’era più un’ira comune», scrive Erri De Luca degli anni ’80 nel racconto La città non rispose (in Italiana. Antologia dei nuovi narratori, a cura di Ferruccio Parazzoli e Antonio Franchini, Mondadori 1991). Quel silenzio forse ha responsabilità nella risposta debole all’assalto esterno definitivo, alla caduta del Muro. Quando cioè è successo quanto temuto dall’ex militante del Manifesto, che in La cosa di Nanni Moretti (1990), il documentario che affronta la fase di passaggio dal Pci al Pds, ricorda un dibattito a cui aveva partecipato, dove uno aveva detto: «noi non siamo mica bolscevichi, siamo democratici», e aveva aggiunto: «non vorrei che al prossimo dibattito qualcuno dovesse dire: oh noi non siam mica comunisti!» E così è stato. Eppure, nel 2010, una ventina di anni dopo, in Italia, per quanto postberlusconiana (?), Tassinari alla radio dice che «l’idea del comunismo è fallita ma ancora appetibile». C’è però un problema di definizione. «Il comunismo oggi è l’eresia», dice Tassinari, e aggiunge che bisogna ragionare sul pensiero «libertario», quindi riprendere anche la «tradizione anarco-comunista». Il problema è riuscire a parlar(n)e, sconfiggere l’afasia a cui sembrano essersi abbandonati in tanti. “Silenzio” e “rimozione” hanno cancellato nomi e fatti, aprendo varchi ospitali per la propaganda avversa martellante, che ha portato a una risemantizzazione grottesca della parola “comunismo”. Aver indebolito dall’interno le parole, non averle sapute difendere, aver taciuto, ha lasciato spazio al caos. E all’ignoranza, quindi all’impossibilità di dialogo, di riflessione. E ha permesso mostruosità come quella avvenuta il 2 agosto 2010, dopo il giornale radio delle 7,30 di mattina, su Isoradio, dove in una rubrica che raccontava i fatti avvenuti quel giorno negli anni passati, una voce squillante elencava episodi storici, fino ad arrivare alla Strage alla stazione di Bologna. Ricordava veloce la sala d’attesa, diceva degli 85 morti, specificava che gli attentatori erano stati condannati ma non li nominava, e chiudeva dicendo candidamente che la responsabilità era stata attribuita alle Brigate Rosse. Dopo un abominio del genere non deve stupire se nei test distribuiti per indagine nelle scuole di Bologna, alla domanda sui responsabili della Strage del 2 agosto, gli studenti abbiano dato la stessa risposta. Non perché ascoltino Isoradio, ma perché è una versione diffusa grazie al revisionismo e al silenzio calato su tante parole, che sono sostanza, come appunto sosteneva Tassinari.

Emilio sente intorno a sé un clima irrespirabile: «stanno stringendo il cerchio», ripete all’inizio. C’è anche in questo caso un “loro”, ma stavolta non sono «stalinisti e burocrati»: sono da individuare, ma di certo “loro” lo costringono a fare i conti con la memoria della sua gioventù e della sua militanza politica, e con parole ormai inutilizzabili perché bandite. Parole che appartengono a una storia partecipata da tanti, e poi rimossa. Si chiede: «che ne sanno, i miei figli e quelli come loro, della Lunga Marcia, del Libretto Rosso, del giunco che si piega ma non si spezza, di Dien Bien Phu e di My Lai, o del Banco del Mutuo Soccorso che suona in piazza Navona, il primo maggio del ’75, per festeggiare la sconfitta americana in Vietnam? Non ne sanno niente, è ovvio, e come potrebbe essere se nemmeno io sono in grado di parlarne, bloccato da un pudore che sembra una maledizione, guai a quello che dici perché si potrebbe ritorcere contro di te? Condannato al silenzio e alla rimozione, centellino la corsa verso quel mare piatto e scuro che m’aspetta, in linea con un futuro che, una volta tanto, avrei voluto normale e invece si prospetta frastagliato». 56


SEBASTIANI

Con Erri De Luca al Premio Volponi, 2005 - foto Angelo Ferracuti

responsabile, contro la chiacchiera che indebolisce. E l’afasia non è accettabile, in questa prospettiva. Ecco perché Blasco, che assume davvero i contorni di un alter ego narrativo di Tassinari, cerca di seguire un «consiglio» di Antonio Gramsci: «Non rinunciare mai a spiegare le tue posizioni, anche quando ti sembra che dall’altra parte ci sia un muro» (p. 84). Magari usando un sorriso, e con una citazione “pop”, come una canzone degli Skiantos.

In realtà il suo Emilio non lottava coi mulini a vento. Resisteva. Era costretto a ripensare storie, fatti, immagini, momenti, scelte, parole per confrontarsi col proprio passato, e scegliere nuovamente, andare avanti. Una situazione che richiede “onestà”, ma anche lucidità, e soprattutto attenzione all’uso delle parole, coscienza e conoscenza dei fatti e della storia, capacità di ripensarli. Significa recuperare un dizionario perduto che unisce “comunismo” a una famiglia lessicale che ingloba «uguaglianza, giustizia sociale, diritti civili e abolizione dello sfruttamento», e cercare una retorica per parlarne. Tassinari parla di «rifondare il pensiero comunista», cioè definire, ridefinire, delineare, scavare i nuovi confini, ricostruire degli argini per vincere l’afasia. Con una fede incrollabile nell’azione culturale. «La cultura deve tornare al centro dell’agenda della sinistra», diceva sempre, e nell’intervista del 2010 lo ribadisce con forza, perché per riscrivere la parola “comunismo”, che rimane nelle corde e nelle passioni di «una massa di persone», che sa che «dovremmo andare verso una società di quel tipo», è necessario tornare a un uso della parola

Bibliografia Oltre ai testi citati, dietro la realizzazione di questo intervento ci sono libri come Intellettuali e Pci 19441958 (1979) e Il lungo addio. Intellettuali e Pci dal 1958 al 1991 (1997) di Nello Ajello, L’orda d’oro di Nanni Balestrini e Primo Moroni (1988) e I limiti dell’interpretazione di Umberto Eco (1990), ma soprattutto tanti dialoghi con Stefano, la cui intervista a Radio Onda d’Urto è disponibile in streaming nell’archivio audiovisivo on line a lui dedicato (stefanotassinari.it). 57


Link- Bologna, 1998 - foto Raffaella Cavalieri


la poesia, solo luogo in cui può compiersi l’emancipazione della parola dalla tirannia dell’idea

❚ La freccia del racconto

Presentazione “D’altri tempi”, Ferrara, 2011 foto Sergio Caselli

di Maria Rosa Cutrufelli

S

❝...Ma ben pochi autori si sono cimentati in modo sistematico e continuativo con la forma-racconto. Fra questi pochi, c’è senza dubbio Stefano Tassinari ❞

criveva Edith Wharton nei lontani anni ‘20 che il racconto è “una freccia piantata dritto nel cuore dell’umana esperienza”. Una freccia, d’accordo. Ma, per centrare il bersaglio, ci vuole un arciere con la mano ferma e l’occhio addestrato, capace di calcolare le distanze al millimetro. Fuor di metafora, il racconto è un genere letterario molto impegnativo che, rispetto al romanzo, richiede all’autore o all’autrice uno sforzo in più (o comunque ‘diverso’, per concisione e visionarietà). Nel racconto non sono ammesse deviazioni, riempitivi, cadute di stile. E uno dei doni essenziali che deve possedere un narratore è capire quando un ‘soggetto’ va bene 59


nuova rivista letteraria

La riunione di redazione di Letteraria al Caffè La Linea, da sinistra: Alberto Sebastiani, Marcello Fois, Massimo Vaggi, Milena Magnani, Stefano Tassinari - Bologna, 2012

per un racconto o, viceversa, per un romanzo: un racconto degno di questo nome non può apparire come un ‘romanzo striminzito’. Le proporzioni devono essere intuite e rese con precisione, perché il racconto ci deve illuminare “con un solo lampo”. E ogni frase, sempre secondo la Wharton, “dovrebbe essere un cartello indicatore, e non mandare mai fuori strada”. Caratteristiche che ne fanno, fra l’altro, un genere molto adatto alle sperimentazioni formali. Queste sono le regole, così come ce le illustra una delle più colte e raffinate scrittrici americane. Ma in arte, si sa, le regole servono solo da guida (“come una lampada in una miniera”) e la Wharton stessa ci dice che non bisogna “essere troppo in soggezione di fronte a esse”. Comunque sia, sta di fatto che, alla fine degli anni ‘80, la letteratura americana conobbe un nuovo slancio proprio grazie all’improvvisa e imprevista fioritura di racconti che segnò quel periodo. Raymond Carver, maestro di short-stories, lo afferma esplicitamente: “la rinascita di interesse per la forma-racconto ha compiuto l’impresa di rivitalizzare la nostra letteratura nazionale”.

Se questo è vero per gli Stati Uniti, non lo è purtroppo per l’Italia, che ormai da molti decenni ha messo in disparte questo genere letterario. Nel suo ultimo libro, che è per l’appunto una raccolta di racconti (D’altri tempi, ed.Alegre, Roma 2011), Stefano Tassinari si chiede il motivo di un tale perdurante ostracismo. E lo individua, in primo luogo, nella diffidenza di chi legge. Una diffidenza spesso ben motivata, per l’uso invalso tra scrittori e scrittrici di ‘riciclare’ i fondi del cassetto in forma di storie brevi, pur di non mancare all’appuntamento annuale con le librerie. Peccato, perché si tratta di un genere molto in sintonia con le esigenze della modernità, come dimostra il successo delle short-stories nei paesi anglofoni (e non solo). “La speranza”, scrive Tassinari nella prefazione al suo libro, “è che, nel giro di qualche anno, anche in Italia si raggiunga la pari dignità tra racconti e romanzo”. Un’inversione di tendenza di cui ancora non si vede segno. Certo, ogni tanto escono antologie collettanee oppure libri che mettono assieme scrittori diversi e li sollecitano a improvvisare attorno a un tema comune... Ma 60


CUTRUFELLI ben pochi autori si sono cimentati in modo sistematico e continuativo con la forma-racconto. Fra questi pochi, c’è senza dubbio Stefano Tassinari. D’altri tempi è un volumetto denso e svelto (140 pagine, più o meno) in cui sono raccolte dieci ‘prove d’autore’. Dieci racconti scritti in tempi diversi, uniti però dal filo di una scrittura aspra e poetica al tempo stesso e da un preciso ‘progetto’ letterario. Con questo libro, scrive l’autore, ho voluto “aggiungere un altro piccolo tassello al mio lavoro sulla memoria, non condivisa, degli anni Settanta, a cui ho dedicato anche tre romanzi”. Una chiave interpretativa e una precisa indicazione di lettura. I racconti in questione si susseguono secondo un ordine temporale: a partire dal 1969 fino al 1978 narrano, un anno dopo l’altro, una serie di fatti reali, scelti perché in grado di significare un’epoca, un’atmosfera politica e sociale. L’ambientazione non è solo italiana: siamo ben lontani dagli orizzonti limitati delle ‘piccole patrie’. L’Argentina dei desaparecidos è presente assieme agli Stati Uniti del Black Panther Party, all’Inghilterra del rock, alla Spagna di Francisco Franco... Personaggi veri come l’attrice Carolyn Lobravico affiancano personaggi ‘verosimili’, frutto di pura e concretissima invenzione, come il ‘matto’ dell’ospedale psichiatrico di Ferrara, liberato dalla legge Basaglia. L’autore dispiega davanti a noi un ventaglio di storie dolorose ma vitali e affida al lettore un repertorio di sconfitte che però possono da un momento all’altro capovolgersi e diventare vittorie. Così il ‘matto’ Yoghi, alla fine (e non a caso è anche la fine del libro), immagina di levarsi in volo sul manicomio, aggrappato alla “sua amica scopa” che “comincia a spazzare il tetto, a sgretolare le pareti delle stanze...” E d’un tratto, da lassù, vede la sua vita “che torna normale, come se per sei anni fosse rimasta in bilico su (quel) vecchio palazzo ormai distrutto”. Una scena che è come una freccia scagliata dritto al cuore della vita di noi tutti, per esprimersi alla maniera di Edith Wharton. C’è molto teatro, in questi racconti. E molto ritmo. Molta invenzione poetica. Si sente l’abitudine dell’autore al palcoscenico, a quello stile orientato verso l’altro, verso un pubblico presente, che palpita e partecipa. Anche la scelta della forma è significativa, in linea con una (eventuale) destinazione teatrale: su dieci racconti sette sono in realtà monologhi, due sono dialoghi e uno si avvale di una forma mista, oscillando tra la prima e la terza persona (quasi una voce ‘fuori scena’). Si avverte soprattutto, in ogni riga, la predilezione di Stefano Tassinari per la poesia, che è un’arte esatta, che conta le sillabe. Una predilezione dettata forse dalla consapevolezza che la poesia, come dicono alcuni, è il solo luogo in cui può compiersi l’emancipazione della parola dalla tirannia dell’idea. Tornando a Raymond Carver, il maestro delle shortstories sosteneva che “la migliore narrativa dovrebbe

Presentazione “D’altri tempi”, Ferrara, 2011 - foto Luca Gavagna

avere un certo peso, non c’è altra parola per dirlo. I Romani usavano la parola gravitas per indicare un’opera di sostanza”. Ecco. I racconti di Stefano Tassinari sono ‘opere di sostanza’. Anche in questo caso non c’è altra parola per dirlo... 61


In Via delle Volte a Ferrara nel 1994 - foto Raffaella Cavalieri

“Non si è mai troppo anziani per combattere il fascismo!”

❚ Stefano for President

di Filippo Vendemmiati

U

na domenica mattina, in viaggio verso l’irrinunciabile appuntamento del pomeriggio, ci scambiammo un sogno infantile: “Se vincessimo una somma milionaria al superenalotto con una piccola parte ci potremmo comprare la Spal”. Sarebbe stato anche un buon presidente di calcio, anzi della Spal, Stefano. Competente e riflessivo. Non ricordo di aver visto con lui, né in tv, né allo stadio, altre partite se non quelle della nostra surreale squadra biancoazzurra. Mi parlò poche volte anche dell’Inter, l’altra compagine che seguiva, ma più per sincera ammi62

❝Non mi sono mai chiesto che cosa legasse Stefano alla Spal perché in fondo era come chiederlo a me stesso, conoscevo la risposta...❞


VENDEMMIATI razione verso il presidente mecenate Moratti che per amore di bandiera. L’Inter era la cultura mitteleuropea, la Spal era il calore latino-americano catapultato nella fredda e indifferente Ferrara. Non perdeva mai la calma, anche nei tanti momenti difficili delle partite. Solo una volta lo vidi partire di corsa e scagliarsi contro un drappello di ultras che scandivano cori razzisti. A metà strada fu fermato da un agente, per altro in modo garbato: “Mi scusi, ma dove va? Alla sua età, lasci perdere…”. “Non si è mai troppo anziani per combattere il fascismo!” rispose Stefano, girando malvolentieri i tacchi. In un’altra occasione fu lui a difendermi quando, in preda alla rabbia per l’ennesimo goal mancato, tirai un calcio di inaudita violenza contro lo schienale della poltroncina del tifoso avversario seduto davanti a noi. Sfiorammo la rissa, ma la partita per una volta finì bene, rete all’ultimo minuto e promozione conquistata con una giornata d’anticipo. Si giocava a Lugo di Romagna, ci siamo sempre accontentati di poco anche se la Spal viene da lontano. Una storia centenaria, un nome che è un programma, quasi una denominazione di origine controllata, culturale oltre che sportiva. Gli anni della serie A e del presidente Mazza, “il mago dei poveri”, ci vedevamo bambini e oggi, adulti maturi ma non appagati, viaggiavamo in bilico tra prima e seconda divisione e già lo stadio di Reggio Emilia ci sembrava il Bernabeu. Stefano mi aspettava sotto casa la domenica verso mezzogiorno, il basco, il pacco dei giornali e l’impresentabile borsa di tela. Saliva in auto ed era il calcio d’inizio. La partita cominciava in quel preciso istante, gioco a tutto campo: palla agli ultimi progetti letterari e musicali, poi al centro verso l’attualità politica, in calcio d’angolo sulla formazione del giorno. Era il nostro “Tutto il calcio minuto per minuto”. Non mi sono mai chiesto che cosa legasse Stefano alla Spal perché in fondo era come chiederlo a me stesso, conoscevo la risposta: era una malattia comune provocata da un virus immuno-resistente inoculato dai nostri padri in giovane età. Pochi giorni fa ho riascoltato alcune puntate di Passioni, la rubrica radiofonica che curava per Radio Tre. Quattro trasmissioni le dedicò a Osvaldo Soriano, non poteva non parlare di calcio e le intitolò ovviamente come l’omonimo libro Fùtbol, aggiungendo però di suo: il sogno ribelle. Ecco, appunto, sogno e ribellione che si ripropongono intrecciati indissolubilmente anche nel calcio, come nella vita e negli amori letterari. “Noi, angeli ribelli, che veniamo dagli anni ’70” mi disse una volta dopo un reading all’Itc di San Lazzaro dedicato a Francesco Lorusso, “oggi che viaggiamo non lontani dai sessant’anni, ci sentiamo come extraterrestri, simboli

di una generazione che ha perso”. Precisava nel reading: “Siamo costretti al ricordo e non ci piace, perché il vivere di oggi non è proprio il vivere di cui ci si aspettava”. Nelle puntate radiofoniche dedicate a Soriano, Stefano non nomina mai la Spal, la propria passione e debolezza social-sportiva, la tiene in un angolo come un vizio privato che non va confuso con la letteratura. Ma quanto Stefano e quanta Spal ho ritrovato in queste parole: “Allo scrittore argentino interessa assai poco la sconfitta nel gioco, è invece attratto da quella che avviene nella vita delle persone. Gli interessa la dimensione del perdente che nella fuga cerca riparo da un mondo scosso dalla violenza dei potenti che volta per volta possono avere il volto dei militari e quello di un direttore di giornale. La necessità principale, sembra dirci Soriano, è quella di trovare una nicchia nella quale resistere al male. Può sembrare che questo suo amore verso il gioco più bello del mondo possa essere sinonimo di disimpegno ma non è così. È molto chiaro l’uso simbolico e metaforico che lo scrittore argentino fa di questo sport quando vuole raccontare i limiti e le possibilità spesso bloccate di persone qualunque, trasformate in personaggi emblematici.” Stefano passa poi a citare un racconto di Soriano, Orlando El Sucio, tratto dalla raccolta Fùtbol: “Orlando detto 63


nuova rivista letteraria

Bologna, 2003 - foto Raffaella Cavalieri

Stefano se n’è andato poco prima che la Spal fosse cancellata dal calcio professionistico per colpa di “un presunto bancarottiere di Lucca”, un presidente venuto da fuori e non si sa nemmeno perché. La vita gli ha risparmiato questo funerale annunciato, le nostre ultime apparizioni allo stadio, fino all’ultimo, sono state uno strazio per entrambi, per tutti. Io ho finito l’anno da solo e ho deciso per la prima volta di non ricominciarlo. Nessun nuovo campionato da settembre a metà maggio, nuovo e vecchio come sempre, insostituibile come un organo vitale. Ma la Spal non esiste più, c’è un’apparenza, l’hanno chiamata Real Spal, gioca sempre al Paolo Mazza in non so quale campionato dilettantistico. Mi prenderò un anno sabbatico, e se non basta, un altro ancora e forse, se necessario, per sempre, perché è tempo di smettere di “regalare terre promesse a chi non le mantiene”. Temo che la malattia sia arrivata allo stadio finale e accanirsi sui sogni non serve, specie perché, né io né Stefano, abbiamo mai avuto in tasca un biglietto del superenalotto, e casomai ci ritrovassimo con quello vincente abbiamo perso il compagno a cui confidare e condividere il “sogno ribelle”.

El Sucio, cioè lo Zozzo, venne in squadra come allenatore nel 1961. Dichiarò che ci avrebbe guidato a conquistare la Coppa, per mano o a calci. Io sono un vincitore nato, ci disse. E si stropicciò il naso schiacciato. Era piccolo, con la pancetta e i capelli unti e si trovava così tante tasche nel vestito che quando andava in viaggio non aveva bisogno di una valigia. Lei ha l’aria di uno che non segnerà goal a nessuno, disse e guardò gli occhi tristi di Pancho. Pancho era il nostro Pelé, sapeva tirar fuori la musica dal pallone e credo non segnasse per paura che poi non glielo restituissero.” Sì sono convinto, sarebbe stato un buon presidente, capace come pochi di mettere insieme e valorizzare competenze diverse. Avrebbe speso al meglio un budget limitato, avrebbe fatto della Spal una squadra modello per stile e cultura. Poche chiacchiere con i giornalisti e con i tifosi, il terreno di gioco sempre verde e lo stadio aperto. L’avrebbe chiamata “Il calcio immaginato” la prima rassegna dedicata alla letteratura sportiva organizzata dentro un campo di gioco e forse le maglie sarebbero state sponsorizzate da una nota casa editrice.

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Cena di presentazione di Letteraria. da sinistra Massimo Vaggi, Giampiero Rigosi e Stefano Tassinari - foto Luca Gavagna

… il nutrimento è fondamentale, per il corpo come per la mente

❚ Cucina letteraria

di Giampiero Rigosi

T

utti quelli che hanno conosciuto Stefano, lo ricorderanno come uno scrittore militante, che coniugava la passione politica all’amore per la letteratura, un combattente tra i più tenaci e ostinati, un instancabile lettore e un cultore di musica, un intellettuale lucido e sempre attento al presente, che però – al contrario di parecchi intellettuali – non esitava ad affondare le mani nelle cose pratiche, che si trattasse di sistemare le sedie in una sala, inchiodare le assi di un palco, cuocere pesce alla brace davanti a una griglia gigantesca o qualsiasi altro genere di lavoro occorresse fare per promuovere un’iniziativa culturale o riunire persone attorno a un dibattito di idee. 65

❝Perché assieme si è

più forti, e solo uniti si può sperare di vincere la battaglia a favore della cultura, quella che più gli stava a cuore e per cui ha speso fino all’ultima fibra del suo corpo ❞


nuova rivista letteraria Che si trattasse di editare una raccolta di racconti, organizzare una lettura con musica o cucinare una delle sue amate ricette ferraresi, Stefano impiegava per farlo la stessa attenzione e la stessa cura. Non c’era attività che eseguisse in modo approssimativo. Chi crede nell’astrologia potrebbe forse sostenere che nel suo segno zodiacale – il capricorno – aveva origine questa meticolosità a volte quasi maniacale. L’ho visto rammaricarsi per non aver trovato l’ingrediente giusto (una certa spezia, quel particolare tipo di ricotta salata, una specifica varietà di ortaggio), sinceramente dispiaciuto per non aver potuto far assaggiare agli amici un piatto come l’aveva in mente, cioè in una realizzazione perfetta. Qualcuno giudicherebbe esagerato il suo atteggiamento: io l’ho sempre apprezzato. Mi piace chi esegue con cura anche le opere apparentemente meno importanti e considero la convivialità una dei valori che danno senso alla vita: condividere il cibo, parlare, scambiarsi idee e confrontare opinioni, sono per me tra le attività umane più importanti. Perciò, quando nel corso della riunione di redazione, abbiamo deciso di dedicare questo numero della rivista a Stefano, che ne è stato - oltre che il direttore - l’anima, io ho deciso che avrei parlato del suo – o per meglio dire del nostro – rapporto con la cucina. Il mio ricordo di Stefano, infatti, è indissolubilmente legato al cibo. Quante serate memorabili davanti a un piatto che gustavamo – e spesso avevamo cucinato – assieme. Quante analisi, quante discussioni, quante decisioni prese davanti a una tavola cosparsa di briciole, di bottiglie vuote e di posacenere traboccanti di cicche. I soffitti ormai velati dal fumo, le grappe o i rum a lubrificare pensieri e parole. Ho conosciuto Stefano a metà degli anni Novanta, quando uscì il mio primo romanzo, e lui mi invitò a una festa de L’Unità a presentarlo assieme a Giulio Mozzi, che aveva pubblicato la sua prima raccolta di racconti con la mia stessa casa editrice. Dopo la presentazione cenammo assieme a uno stand della festa, dove la discussione (che riguardava, tra l’altro, i pro e i contro della narrativa di genere) proseguì, facendosi via via più animata e coinvolgendo alcuni degli spettatori che avevano seguito la presentazione. A dire la verità io a quell’epoca conoscevo già Stefano: lo avevo infatti visto decine di volte in televisione, ai tempi in cui lavorava per Rete 7 come giornalista, e avevo anche assistito a diverse presentazioni di libri. E quella sera finalmente avevo la fortuna di averlo accanto a presentare il mio, guidando me e Giulio in una riflessione che inevitabilmente ruotava attorno alla letteratura e alla politica, le sue più grandi passioni.

Dopo, continuammo a frequentarci. Ricordo i suoi numerosi inviti alle cene con l’autore, nelle quali Stefano proponeva ai lettori-degustatori serate dove si mangiava assieme e, alla fine della cena, si chiacchierava con lo scrittore invitato della sua poetica, delle opere che più aveva amato, del suo modo di porsi di fronte alla letteratura e alla vita, prendendo a pretesto un suo libro pubblicato di recente, e che veniva offerto a ogni commensale, compreso nel prezzo della cena. Stefano infatti faceva di tutto per mantenere il costo della serata – cibi di qualità, libro e incontro con l’autore - entro costi assolutamente popolari. Ho partecipato diverse volte, in qualità sia di autore sia di commensale, a quelle serate, e non una volta sono tornato a casa deluso. Anche quando abbiamo fondato assieme l’Associazione Scrittori di Bologna, le prime riunioni sono state pranzi o cene, quasi sempre a casa di Stefano, dove tra un piatto e l’altro spiegava a me e agli altri che aveva invitato come secondo lui fosse importante, anzi, vitale, che tutti gli scrittori che operavano su un territorio si conoscessero e si confrontassero, perché la scrittura non poteva prescindere da una visione del mondo né dalle necessarie battaglie in difesa della cultura, in Italia spesso considerata cosa di poca importanza. Così, se ripenso ai giorni in cui nacque l’Associazione Scrittori, oltre alle parole e alle idee che ci scambiavamo, non può non tornarmi alla mente – anzi, al palato – lo stupefacente sapore del pasticcio ferrarese, che Stefano cucinava in maniera impeccabile: un piatto nel quale il gusto dolce si fonde con il salato, nel momento in cui la crosta della pastafrolla si sfalda, lasciando scoprire il morbido ripieno di maccheroni, dai quali si sprigiona il ricco aroma dei funghi, del tartufo, del ragù e del formaggio. Di fronte all’ammirato stupore dei commensali, Stefano spiegava, con la stessa competenza e precisione che usava nella recensione di un libro, come l’opulenza di quella ricetta rispecchiasse il lusso della corte degli Este, che avevano dominato Ferrara per secoli. Poi, abbandonato il discorso sul cibo, si rituffava nella politica, nell’arte, nelle tante cose da fare per riunire gli scrittori di Bologna e metterli a confronto. Perché assieme si è più forti, e solo uniti si può sperare di vincere la battaglia a favore della cultura, quella che più gli stava a cuore e per cui ha speso fino all’ultima fibra del suo corpo. Io lo ascoltavo, riflettevo, riempivo i nostri bicchieri, e sotto sotto mi sentivo un po’ inadeguato – combattuto come sempre tra scetticismo e pigrizia – alle battaglie che lui proponeva a me e agli altri di ingaggiare. Ma era così trascinante la sua determinazione che era impossibile tirarsi indietro. 66


RIGOSI

Con Pino Cacucci in occasione della festa del cinquantesimo compleanno

o di capacità di confronto. C’era sempre qualcuno ad aiutare Stefano in queste imprese, ma era lui che si sobbarcava lo sforzo maggiore. E quando si trattava di decidere il menù e scegliere gli ingredienti, anche in quel caso Stefano lo faceva con impegno e la sua consueta serietà, così diverso da me, che sono sempre stato incline a prendere tutto così poco sul serio… Ripenso a quelle cene e mi ricordo come ci riprendeva severo, quando, come scolari un po’ monelli, io e gli altri assistenti di cucina ci scambiavamo battute e risate, rischiando di trascurare il compito principale: far da mangiare bene, con cura, per tutti coloro che avevano aderito alla serata, che ricalcava lo schema delle cene con l’autore: quindici euro per il pasto, bevande comprese, più l’ultimo numero della rivista e chiacchierata finale con gli autori presenti. So che a raccontare queste cose rischio di sembrare ridicolo, perché in fondo stiamo solo parlando di cibo, eppure io so bene che dietro alla scrupolosità di Stefano nei panni dello chef in cucina, e di animatore del dibattito dopo la cena, c’era la consapevolezza che il nutrimento, per il corpo come per la mente, è fondamentale, e la sua importanza non va sottovalutata. Un buon piatto, come un libro di qualità o un buon pezzo musicale, dev’essere realizzato con amore e con cura, perché, come Stefano sapeva bene, ogni dettaglio è importante.

Questa stessa rivista su cui scrivo, su cui scriviamo, l’ha pensata e voluta lui, impiegando le sue energie per realizzarla e farla conoscere al maggior numero di persone possibili. Con la sua ostinata e incrollabile laboriosità, senza mai cedere alla semplificazione dei concetti: perché per lui era importante che Letteraria arrivasse a tanti, ma con la peculiarità di un pensiero complesso, ricco, sfaccettato, mai scontato o banale. Così la immaginava e così abbiamo cercato di farla. Ogni sei mesi, una volta realizzato il nuovo numero della rivista, occorreva farla conoscere, promuoverla, se possibile ottenere degli abbonamenti che potessero sostenerla nel tempo. E come sempre era Stefano a trovare i modi per farlo. Incontri, presentazioni, dibattiti in giro per l’Italia, migliaia di chilometri alla guida della sua auto, con le ossa doloranti, incastrando i suoi innumerevoli impegni, senza trascurarne nessuno né mancare una scadenza, ignorando la stanchezza e, negli ultimi anni, la malattia, che rendeva ogni suo spostamento un calvario. E, tra le tante strategie per aiutare la diffusione della rivista, le cene di autofinanziamento. Così, ancora una volta, io e Stefano ci siamo trovati ai fornelli assieme: stavolta non per pochi amici ma davanti a pentole e teglie enormi, che io non ero abituato a padroneggiare ma lui sì, perché aveva cucinato per anni alle feste organizzate per sostenere la sinistra in cui credeva anche quando capitava che lo deludesse per mancanza di coraggio, di lungimiranza 67


Essere rivoluzionari, oggi, è combattere La prima riunione della rivista Letteraria a Bologna nel 2008. Da sinistra Giovanni Marchetti, Bruno Arpaia, Paolo Vachino, Salvatore Cannavò, Stefano Tassinari, Beppe Ciarallo, Milena Magnani

❚ La manipolazione della memoria Intervista di Franco Foschi

N

el settembre del 2005 Stefano venne a Modena, ad Arcoiris TV, a registrare questa intervista per la rubrica da me condotta “Leggere negli occhi”. L’occasione era l’uscita de L’amore degli insorti, terzo capitolo della ideale trilogia dedicata alla travagliata storia della sinistra italiana e soprattutto ai tentativi in atto di rimozione della memoria storica di quegli anni. Nell’intervista si parla quindi prevalentemente di politica, ma senza rinunciare a ciò che un romanzo per sua natura comporta, e cioè il grande amore per la scrittura. 68

❝ Io la lotta

armata non la chiamo terrorismo, la chiamo lotta armata… ❞


FOSCHI un nuovo proletariato di cui facciamo parte anche noi, che pure eravamo garantiti, e quando si è in guerra ci si comporta di conseguenza, sparando, noi, prima che siano loro a farlo, e non in campo aperto, se non vogliamo essere sconfitti in partenza”. C’è quindi qui descritta una base teorica del terrorismo che è molto forte, per noi che siamo abituati a sentir parlare dei terroristi pentiti, che sputano su quello che hanno vissuto spesso in maniera acritica, oppure a vedere il terrorismo come una eccellente scusa per gli Stati per far la guerra in giro per il mondo. Esistono, dunque, diversi terrorismi, o la condanna deve essere univoca? E tu, quando fai parlare il tuo protagonista, prendi distanza da quel che dice o cosa?

D: L’amore degli insorti: cosa trova chi entra nel libro, qual è la sua anima? R: La vera anima del libro sta nel rapporto tra un uomo e il suo passato, quando questo passato è molto scomodo. Sta anche nella ricerca della memoria non condivisa, nel confronto tra due opzioni che hanno caratterizzato un’epoca storica molto importante, problematica ma anche molto bella, quella che va dalla fine degli anni 60 agli anni 80. Vi è attenzione però non solo alla Storia ma anche all’aspetto psicologico: abbiamo in campo un protagonista che è un architetto di successo, sposato, che ha due figli di quattordici e diciassette anni. Quest’uomo ha un passato, un passato che dovrebbe rimanere segreto: è stato militante in un gruppo armato dell’estrema sinistra, e come è successo a tanti, anzi a più di quanti si potrebbe pensare, non è mai stato individuato dalla magistratura né denunciato dai pentiti. Ha potuto quindi abbandonare quella esperienza dopo la sua sconfitta in campo militare, e direi anche politico, e si è reinserito, anzi inserito in una vita diversa, cambiando città e recuperando questa laurea in architettura che aveva abbandonato entrando in clandestinità. Vive in mezzo a persone che non sanno nulla di tutto ciò, e quindi vive nell’angoscia che il suo passato possa tornare a galla, anche se stemperata in parte dalla lontananza nel tempo dei fatti, e in parte anche dalla autoconvinzione di essere una persona diversa, di avere una dignità diversa, di avere abbandonato quel senso di appartenenza molto forte che aveva in passato a favore della nuova realtà, magari meno stimolante ma sicuramente più rassicurante. Ma una fantomatica Sonia, che in realtà potrebbe essere chiunque, un uomo, un gruppo, i servizi segreti, comincia a recapitargli a casa mille vestigia del suo passato, e l’uomo si trova di nuovo precipitato nell’angoscia che aveva cominciato in parte a dimenticare, a venticinque anni di distanza: la paura di essere scoperto, e di dover rendere conto del suo operato.

R: Naturalmente prendo distanza, io non ho fatto quelle esperienze armate, anche se ho fatto parte fino in fondo, e lo rivendico, di un grande movimento politico che stava all’estrema sinistra in quegli anni e che ha contribuito e non poco a modernizzare questo paese, anche se ha fallito nell’obiettivo più importante di quegli anni, quello della rivoluzione. Una parola che adesso è caduta in disuso, ma che allora si usava moltissimo. D: La usano molto i gruppi rock, ho scoperto, e basta. R: Già... Dunque prendo distanza dal personaggio, che ho cercato di costruire dentro a una precisa geografia ambientale, perché riferimenti e scenari io li conosco molto bene, però nulla c’entra lui con la mia esperienza personale. Tu prima citavi Alba De Santis, che era questa ragazza con cui lui era stato per molti anni, abbandonata in fretta e furia senza mai più farsi vedere, perché questa era la regola quando si entrava in clandestinità. I due sono personaggi molto diversi, la donna viene evocata solo mentalmente, forse lui vive per la prima volta un po’ di senso di colpa per averla abbandonata, e forse ripensa a quel periodo che per lui è stato comunque positivo e fervido, ed è in questo momento che si confrontano le due opzioni che sono il nucleo del libro: certo, quegli anni sono stati turbolenti, ma per tanti motivi positivi e interessanti. Oggi la memoria di quei tempi, affidata ai grandi mass media, cancella quasi sempre tutto ciò che di positivo è uscito in quegli anni, e lo racconta solo attraverso la lente della violenza. Questa è una falsità, una manipolazione, e quindi va respinta. Ma ora cerco di rispondere più precisamente alla tua domanda: intanto io la lotta armata non la chiamo terrorismo, la chiamo lotta armata. C’è una differenza evidente: il terrorismo è mettere bombe nelle stazioni, uccidere i passanti innocenti e ignari, mettere una bomba in un mercato, far saltare per aria la stazione di una metropolitana, come è successo recentemente in Spagna. La lotta armata è un’altra cosa, si faceva contro simboli precisi, contro persone in carne e ossa certo ma che rappresentavano, agli occhi di chi la faceva e su questo potremmo discutere, rappresentavano, dicevo, dei nemici politici da colpire in quanto nemici politici. Le

D: Nessuno dunque sa niente di questo passato? R: Nessuno, naturalmente, queste sono cose che non si possono raccontare, chiunque potrebbe tradirti, e ti potresti ritrovare con un ergastolo, a cinquant’anni, e d’altronde è successo, penso a Mauro Persichetti, un professore al Parini, catturato 23 anni dopo i fatti di cui veniva accusato e per i quali ha preso l’ergastolo… D: Avrete capito, cari amici, che la base del libro è una riflessione sul terrorismo, sugli anni più difficili della storia della sinistra in Italia, attorno agli anni 70 e poco dopo. Vorrei leggere alcune brevissime righe dal libro, dove il protagonista si rivolge alla donna che amava a quei tempi con quello che avrebbe voluto dirle allora: “Non ti rendi conto che la guerra è già scoppiata da un pezzo, ma la stanno combattendo solo loro? È la guerra dei senza casa, dei disoccupati, dei licenziati, di 69


nuova rivista letteraria la democrazia ottenuta con la Resistenza potesse essere quello di armarsi, beh, tutto questo è comprensibile. Io credo che sia stato sbagliato non solo perché è finita male, ma perché era sbagliato sostituirsi alla gente che non ne voleva sapere di quel tipo di lotta e soprattutto perché passare dalla violenza di difesa della Resistenza, che tutti abbiamo condiviso, a una violenza di offesa, che è altra cosa anche dal punto di vista etico, e qui dovremmo aprire un altro ragionamento... In ogni caso, se si fosse complessivamente spostato il confronto politico in confronto militare, lo Stato avrebbe vinto, per forza di cose, e infatti è successo questo.

Brigate Rosse non hanno mai messo una bomba in una piazza in mezzo alla gente che passa, tanto per essere chiari. Magari sparavano a un magistrato, a un colonnello dei Carabinieri, o a un giornalista che in qualche modo li aveva colpiti, a figure simbolo insomma. C’è una differenza enorme. E questo vale per tutto il mondo: prendiamo l’esempio dell’Iraq. Lì i terroristi, che siano di Al Qaeda o chissà chi, non lo sapremo mai, girano e mettono delle autobombe nei mercati uccidendo donne, bambini, chiunque passi di lì, magari anche gente che tutto sommato la pensa come loro. E questo io lo trovo mostruoso. La lotta armata invece di chi spara sugli invasori americani è una resistenza a un esercito che da anni sta occupando il paese, è una cosa diversa, e credo che sia assolutamente legittima. Si può discutere di tutto, anche di questo, ognuno la pensa come vuole, ma allora sarebbe da considerare terrorismo anche la Resistenza in Italia, che invece è stata Resistenza e basta, 43.000 partigiani sono stati uccisi per liberare il nostro paese dal nazifascismo, e hanno fatto lotta armata. I tedeschi però li chiamavano terroristi, banditi... Ecco, questo è chiaramente un punto di vista diverso, ma credo che la separazione tra i due temi debba essere molto chiara.

D: C’è poi la componente psicologica, nel romanzo, ad accompagnare le tesi, ed è anche questa estremamente rilevante. R: Certo, c’è il tentativo di capire chi si nasconde dietro al nome di Sonia, mistero svelato al termine del romanzo e che ora non possiamo naturalmente anticipare, ma c’è anche il rapporto con la morte, col dolore ma anche con la bellezza di quegli anni, con la ricerca culturale, con la poesia, col teatro diverso, con la musica, i grandi concerti, con tutto quello che fu messo in piedi da una generazione che cercava comunque, magari talvolta inconsapevolmente, di modernizzare il paese. E c’è riuscita, perché proprio allora sono state fatte delle leggi, oltre alle drammatiche leggi speciali per l’emergenza politica, la legge Cossiga, la legge Reale, che contribuirono enormemente a far crescere la lotta armata in Italia, e tante altre leggi liberticide, ci furono appunto anche leggi civili importanti, la legge sul divorzio, sull’aborto, sulla possibilità di avere una casa a un affitto equo, sulla chiusura dei manicomi, la legge sul voto a diciotto anni, sull’obiezione di coscienza al servizio militare, la legge che depenalizzava l’uso personale della marijuana e dell’hashish, e via così tantissime voci, quelle per esempio legate alle conquiste effettuate dal movimento femminista. E tutto ciò in un paese che era arretratissimo, un paese quasi privo di diritti civili.

D: Certo, e lo è. Ma all’inizio della conversazione ci hai parlato di una seconda opzione, c’è dunque una seconda tesi portante nella tua storia? R: La seconda tesi del romanzo parte da un presupposto: non c’era a quei tempi una generazione di pazzi che ha scelto di starsene per le strade sparando. C’erano una situazione generale, un contesto storico e un clima tale che hanno spinto tantissime persone a una scelta che io personalmente giudicai e giudico sbagliata, ma che era nell’ordine delle cose. Intendo cioè che era una scelta comunque comprensibile. Perché comprensibile: perché quelli erano anni in cui lo Stato aveva al suo interno una struttura parallela, uno stato parallelo, c’erano servizi segreti cosiddetti deviati, pezzi dello stato assieme alla destra che mettevano bombe nelle stazioni, nelle banche, che ammazzavano gente innocente per cercare di impaurire, terrorizzare l’opinione pubblica, per poter chiedere governi autoritari, molto forti. C’era Gladio, organizzazione militare finanziata dagli Stati Uniti per impedire che la sinistra andasse legalmente al governo, per fare cioè quello che la CIA con Kissinger ha fatto con Pinochet in Cile nel ’73...

D: Abbiamo accennato di come venga manipolata la memoria storica, di come vengano cancellate, nel tentativo di rimuoverle, mille realtà ritenute scomode. Vorrei leggere a questo proposito ancora alcune righe del tuo libro: “Gli Stormy Six, Stalingrado, storie di guerre popolari e di partigiani eroici, ma anche di soldati di leva che picchiano gli ufficiali, o di una strana orchestra di fischietti che scrive in rosso sui muri e dà la sveglia alla città. Che ne sanno i miei figli dei loro violini incrociati, della voce calda di Umberto Fiori, di quella da baritono di Franco Fabbri, di quella cooperativa che stampa dischi bellissimi di gruppi dai nomi impronunciabili e grotteschi... E che ne sanno di quei giornali dai pallini rossi e blu scomparsi da una vita, o di quell’altro che in prima pagina aveva un disegno delle barricate di Parma del 1922, o di quell’altro ancora che ogni mattina ci ammoniva con le parole di Brecht sulla semplicità

D: ...cioè abbattere con la violenza un governo democratico legalmente eletto per ben due volte... R: Esatto. E c’era un’associazione segreta, la P2, che gestiva gli affari, le carriere, di cui faceva parte com’è noto anche il nostro attuale presidente del Consiglio... Insomma, di fronte a queste premesse, con tre tentativi di colpo di stato in 10 anni, ’64, ’70 e ’74, ecco, che qualcuno dunque pensasse che l’unico modo per difendere 70


FOSCHI certo senso del dovere, per certi versi, sai che devi batterti per la difesa della democrazia, per esempio, che è già diverso dal batterti per cambiare la società, che sono due elementi molto differenti, però oggi insomma ci dobbiamo accontentare, e non c’é più quel senso di appartenenza ‘a qualcosa’ che c’era in passato. E su questo magari si può essere malinconici. D’altra parte è vero che c’è un’autocritica molto forte da fare: e cioè che in genere, con qualche eccellente eccezione, quando vennero gli anni di riflusso dopo gli anni delle lotte noi non parlammo molto con le nuove generazioni, scegliemmo di rinchiuderci in un ‘linguaggio dell’appartenenza’, lo chiamerei così, che era anche di autodifesa in anni molto difficili, perché c’era stata l’offensiva dell’eroina, c’era tanta gente in carcere per la lotta armata, c’era una forte repressione dello Stato anche sui piccoli comportamenti, con migliaia di denunce e di processi e quant’altro. In una situazione del genere c’era bisogno di difendersi. Da alcuni inteso come il chiudersi a riccio in una situazione più rassicurante, da altri con un’idea un po’ snob se vogliamo, visto il contesto storico, di dire ‘non vogliamo fare i missionari, non siamo disponibili a perdere del tempo per spiegare le contraddizioni sociali a chi sta arrivando adesso. Si arrangino, anche se sbatteranno la testa contro il muro’. In realtà i giovani non hanno sbattuto la testa contro il muro, sono stati risucchiati all’interno di quel periodo che è stato il trionfo dell’individualismo...

che è difficile a farsi, e che ne sanno i miei figli e quelli come loro della Lunga Marcia, del Libretto Rosso, del giunco che si piega ma non si spezza, di My Lai, o del Banco del Mutuo Soccorso che suona in piazza Navona il primo maggio del 75, per festeggiare la sconfitta americana in Vietnam...” Ecco, questa serie di domande, questa specie di catalogo di un passato che purtroppo è scomparso dalla mente delle nuove generazioni, fa virare il tuo romanzo, o almeno così a me è parso, verso una malinconia profonda, anche perché il protagonista dice ‘avrei tanto voluto, dopo tutte queste cose, un futuro normale...’. E invece, contro questo futuro normale, viene scoperchiato di colpo il suo drammatico passato... È un rischio, per la sinistra attuale, quello di voltarsi indietro, di lasciarsi trasportare dalla malinconia? R: È un rischio, ma devi considerare che il personaggio è uno tagliato fuori dalla realtà della sinistra di oggi, è considerato un moderato, perché ovviamente si nasconde, mette una maschera. Se parlo per me, è indubbio che un po’ di malinconia traspare, perché se qualcuno mi chiedesse se preferisco l’Italia degli anni 70 all’Italia di oggi è ovvio che risponderei quella degli anni 70. Questa è un’Italia che non mi piace, corrotta, di individualismi sfrenati, un’Italia in cui la parola ‘collettivo’ non esiste più, è in disuso... D: Se mi permetti è anche un’Italia più sottile, perché il terrorismo che una volta faceva lo Stato con i suoi Gladio e compagnia bella oggi l’ha trasportato, visto che stiamo parlando davanti alle telecamere, nella manipolazione del consenso attraverso l’uso privatistico dei media. Ora c’é un altro modo di creare terrore, con spettri del tutto inammissibili tipo l’influenza aviaria, tanto per fare un esempio da medico, tanto per farci dimenticare che i nostri soldi non valgono niente, che non c’è lavoro, che non si può comprare una casa, che i giovani non possono sposarsi...

D: Lo yuppismo, dico bene? R: Esatto, e quel momento è stato drammatico, perché poi è stato il momento, non a caso, in cui si cova la corruzione in Italia, Tangentopoli arriva nel 92 dopo 1012 anni di corruzione mostruosa in cui il nostro paese era diventato simile ai peggiori paesi latinoamericani o africani, dove succede di tutto perché non c’é nessun controllo. D: Dove il bilancio dello Stato è in mano a dieci persone.

R: ...che c’è la guerra... Sono d’accordo con questa tua opinione, ma per ritornare alla domanda sulla malinconia della sinistra, ripeto ancora che questa è la malinconia del personaggio, io ancora credo che valga la pena battersi, e l’ho sempre pensato anche negli anni più bui, gli 80, gli anni di panna montata, come venivano chiamati. Oggi va già meglio, ci sono stati dei movimenti in questi anni, contro la guerra, i no global, insomma ancora esperienze vivaci con molti giovani che vi partecipano. Però c’è un altro tema fondamentale, che più che la malinconia riguarda la passione e la comunicazione tra le generazioni. Questi due risvolti sono molto presenti nel romanzo. Il tono del romanzo se vuoi è passionale-romantico, e la malinconia casomai sta nel fatto che quel tipo di passione, quella specie di romanticismo di quei tempi, in senso buono, o almeno così lo intendo io, è scomparso. Anche quando tu, oggi, ti impegni e intraprendi battaglie, non hai più questo senso di comunità attorno, né di condivisione. Hai un

R: Esatto. E tutto questo perché, perché non c’era più un grande movimento di massa, grazie al quale ci si batteva e che in qualche modo anche si controllava lo Stato, non c’era più un movimento giovanile che improvvisamente mettesse al centro di tutto il proprio bisogno di autoaffermazione e quindi di crescita. Questi elementi sono mancati e l’Italia ha pagato dei prezzi enormi per questa ragione. D: (...) I tuoi tre libri ‘politici’, uno a seguire l’altro e così strettamente legati, indicano il tuo percorso: ebbene, come proseguirà questo percorso? R: Io credo che con questo romanzo si sia conclusa una trilogia. Ho attraversato tre generazioni diverse, quella di mio padre, la mia e diciamo l’età dei ventenni. Però un elemento comune fondamentale 71


nuova rivista letteraria promozione di due dei peggiori esponenti delle forze dell’ordine, Perugini e Canterini... D: E ricordo anche che Placanica è candidato per AN... R: Già... Il problema è che Genova è ancora una ferita aperta ma la memoria non è condivisa, io ovviamente a Genova c’ero e ricordo benissimo quel che è successo, l’ho vissuto di persona, e nel romanzo ho raccontato anche la storia un po’ particolare della presunta, possibile morte di una seconda persona, oltre a Carlo Giuliani. E memoria non condivisa è anche quella degli anni 70... Questo per me è un tema davvero fondamentale. Attualmente sto pensando a un romanzo biografico e storico che ha sempre a che fare col Novecento, il novecento operaio, il novecento del comunismo, e il novecento dei perdenti, dentro a quella esperienza così importante. Spero di riuscire in questo intento, il romanzo sarà su di una figura di cui si sono perse le tracce in Italia ma che fu una delle più grandi figure rivoluzionarie italiane degli anni 20 e 30, e cioè Pietro Tresso, assassinato da alcuni membri del maquis francese durante la resistenza antinazista nella Repubblica di Vichy, assassinato dai compagni perché non era ortodosso, non era allineato alla posizione stalinista internazionale. Figura importantissima quest’uomo su cui sto scavando anche grazie all’interessamento di alcuni amici: se avrò materiale a sufficienza ne farò un romanzo. D: Che sarà dunque altro dalla trilogia appena conclusa. R. Sarà fuori dalla trilogia, ma sarà dentro a ciò che profondamente sento, cioè il bisogno di affrontare questioni sociali, storiche, politiche, sempre che contengano però elementi di questa memoria non condivisa. Questo perché sono convinto che noi si debba ‘tirare fuori’ tutto, tutto quello che è successo nel 900, se vogliamo ancora avere qualche speranza di concepire una società diversa da quella in cui stiamo vivendo, senza essere tacciati di recuperare delle mostruosità. Il 900 è anche un secolo di orrori ed errori...

Bologna, 2003 - foto Raffaella Cavalieri

ci sarà sempre in quello che scriverò anche in futuro, che è il tema della memoria non condivisa. Il protagonista di “L’ora del ritorno” è un partigiano non ortodosso, un comunista non ortodosso, non legato a Togliatti, non legato al PCI, anche se per anni starà dentro al partito. È un partigiano di minoranza in un’epoca in cui le minoranze venivano schiacciate anche fisicamente, all’interno del movimento comunista. Pensiamo per esempio alla fine di Trotsky, che secondo me è stato il più grande dirigente rivoluzionario del 900, o ai tanti altri finiti nei gulag perché erano troppo ‘di sinistra’ rispetto a Stalin, o perché erano contro la burocratizzazione e la violenza di quel potere che stava diventando dispotico, traditore dei grandi ideali rivoluzionari. Genova (parla qui del secondo romanzo della trilogia, I segni sulla pelle, nda) è un’altro esempio di memoria non condivisa, come avviene per la Resistenza, infatti non a caso adesso si parla di Altra Resistenza: oggi Genova è ancora sui giornali, dopo quattro anni, per via della

D: Dai quali abbiamo imparato molto. R. Eh, certo, bisogna imparare nella sinistra a guardare in avanti, è ovvio, ma non buttando via tutto, buttando via una speranza di cambiamento radicale, come purtroppo molti stanno facendo adeguandosi perfettamente a questo sistema economico e sociale neocapitalista e liberista, e pensare a un superamento di questa società e di questo sistema, superamento però che non può avere nulla a che fare con i tentativi falliti del 900. Stefano lesse poi un brano dal suo libro, con la consueta abilità e passione di chi è abituato anche a calcare i palcoscenici. L’intervista si concluse con un suo giudizio sul noir, una sua passione di lettore, genere amato per la sua forza di denuncia, e di cui rammentò i migliori esempi italiani contemporanei. Ci mancherà. 72


Stefano e Stefania, Bologna, 2005 - foto Mario Dondero

lo sguardo oltre la fine

❚ Ricordo (dolce?) di un’assenza di Silvia Albertazzi

S

tefano Tassinari sapeva scrivere meglio di chiunque le dediche sui libri. Possiedo tutti i suoi romanzi, tutti con dedica dell’autore, e non ce n’è uno solo sul cui frontespizio Stefano abbia scritto una banalità come “A Silvia, con amicizia” o “con affetto” o, peggio, “cordialmente”. Scrivere una dedica non è facile; il rischio è sempre quello di scivolare nello scontato (il classico “with best wishes” degli scrittori anglofoni o il non meno abusato “con simpatia” degli italiani) o, peggio, di usare a sproposito concetti – come quelli di amicizia, affetto, stima – sui quali occorrerebbe riflettere un poco prima di trasformarli in slogan vuoti di senso: quale amicizia, quale affetto possono legare lo scrittore a uno sconosciuto? Per Stefano, invece, ogni dedica era una frase calibrata sul dedicatario, personalizzata in modo da renderla unica. A volte rileggo le sue dediche, e nessuna somiglia alla precedente o alla successiva. Mai un’ovvietà, mai una ripetizione, sempre la sensazione che in quel momento, anche se i richiedenti erano parecchi, le frasi da inventare tante e il tempo poco, lui stava proprio pensando a me, alla lettrice che aveva di fronte, mentre metteva insieme le sue parole. Tra tutte, la dedica cui sono più affezionata è quella sul frontespizio de L’amore degli insorti: “A Silvia, che conosce bene il valore delle parole. Grazie”. Ogni volta che la leggo mi vengono i brividi, perché, se è vero quel che scrive Stefano, una parola di 73

❝...ci si

dirà che è troppo poco, risponderemo che poco è più di niente, fin quando il niente non avrà valore di mai più, oltre ciò che noi saremo… ❞


nuova rivista letteraria cui conosco (bene) il valore è “grazie”, e per questo mi dico che avrei dovuto essere io a ringraziare Stefano, per il suo lavoro, per il suo esempio, per i suoi libri in generale e per quello, il mio preferito, in particolare. Poi mi sorprende sempre come questa frase me l’abbia scritta di suo pugno proprio sul frontespizio del suo romanzo in cui, forse più che in ogni altro, le parole hanno un peso, sono unità per misurare il passato e pietre su cui (ri)costruire il presente. In effetti, ne L’amore degli insorti, facendo i conti con la memoria non condivisa degli anni di piombo, ovvero con l’impossibilità di recuperare un racconto comune, collettivo e universalmente accettato di quel periodo, Stefano, per costruire quello stesso racconto, si trova a dover calibrare, più che altrove, le “parole per dirlo”, al punto da abbandonare la prosa, sul finale, per ricorrere alla poesia, quasi a suggerire che la parola quotidiana, banalizzata, depauperata dall’uso, è impotente a dar voce a quelle memorie, a esprimere, appunto, “l’amore degli insorti”. Del resto, le pagine migliori di Tassinari appartengono piuttosto alla prosa poetica che non alla narrativa cosiddetta realistica; anzi, proprio in questo inatteso intreccio di una dizione lirica con un materiale di bruciante attualità risiede, a mio avviso, la sua maggiore originalità, il suo marchio di fabbrica, in certo senso. Mi piace ricordarlo come un poeta della politica, la cui non comune onestà intellettuale si esprime in un linguaggio decisamente lirico, contenuto tuttavia entro gli schemi del genere narrativo. Questo suo realismo lirico, questa capacità tutta sua di piegare le parole verso un inesprimibile che non va oltre il dato emotivo, di usarle per raccontare l’inespresso – perché scomodo, perché politicamente scorretto, perché banalmente tragico – della vita quotidiana, si ritrova elevata all’ennesima potenza nell’ultimo suo lavoro narrativo pubblicato, il racconto Ricordo amaro di un’assenza, contenuto nella raccolta miscellanea Lavoro vivo. Qui Stefano narra la morte di un giovane, vittima di un incidente sul lavoro, attraverso il monologo interiore del padre, che lo veglia nel suo coma. Ma fin dalle prime righe il lettore avverte che ciò che preme a chi scrive non è soltanto denunciare come il lavoro possa farsi tragedia, narrando una fine atroce, e lo strazio che la accompagna: ciò che differenzia quello di Tassinari dagli altri contributi – peraltro tutti pregevoli – della raccolta è il senso di una ricerca estrema, portata avanti attraverso e oltre le parole, che va al di là tanto della presa di posizione militante quanto della narrazione realistica. Stefano non sta raccontando solo la morte del suo personaggio: sta raccontando la Morte, tout court, e lo fa, purtroppo, dall’interno, volgendo lo sguardo verso se stesso. Così nel padre del suo protagonista, che riflette sull’umano rapporto con il dolore degli altri, non è difficile riconoscere lo

stesso autore, sgomento di fronte alla malattia che gli è toccata in sorte e alla reazione che suscita in chi lo circonda: quando uno del proprio giro si ammala, la maggior parte degli amici ufficiali si defila, come se il cancro si trasmettesse respirando la stessa aria. […] È la sofferenza degli altri a spaventarli, a farli retrocedere un passo ogni qual volta qualcuno, sentendone il bisogno, va a cercarli, muovendo un passo verso di loro. In fondo, è tutto molto semplice: hanno timore di soffrire per conto terzi, e allora si trincerano dietro domande persino imbarazzanti del tipo: “Tutto bene, no?”, quando è evidente a chiunque che tutto sta andando male, per non dire peggio … Leggo queste parole e mi sento chiamata in causa: incontrandolo, sono anch’io scivolata, nel corso del tempo e della sua lunga malattia, in qualche grottesco “Tutto bene?”; anch’io a volte l’ho invitato a un convegno o a qualche altra iniziativa, chiedendogli se fosse libero, “come se fosse un problema di impegni e non di gambe che non reggono più, di dolori insostenibili alla testa, di depressione sempre più forte e così via”. Così, il gioco è fatto: la voce che sento, nel racconto, non è più quella del padre. È Stefano stesso che mi parla, Stefano che, scrivendo, raccontando di quella morte, inventa “la reazione ad uno stimolo apparentemente irricevibile”, lui stesso “alla continua ricerca di una sintesi che possa aprire la strada a un condizionale qualsiasi”. Al cuore del racconto, allora, prima ancora che la denuncia sociale appare la difficoltà di accettare “l’idea che si possa morire”, soprattutto prematuramente, che la vita possa girarci le spalle da un momento all’altro, “una frazione di secondo e via, tutto cancellato, il tuo viso, il tuo sguardo, i tuoi sogni”, dove quel tu acquisisce più che una sfumatura universale: non è più solo il tu del padre che parla al figlio morente (“tuoi” non sono più solo il volto, gli occhi, i sogni del ragazzo), ma è il tu dell’autore che si rivolge al lettore, il tu di Stefano che si confronta, alla seconda persona, con noi che lo leggiamo. E si mette a nudo, perché, anche se non riesce a spiegarsene la ragione, “solo se si è colpiti in prima persona si ha la forza di rimettersi in gioco”. … non so se credo a quello che sto dicendo, eppure sento il bisogno di scandirlo, come si fa con quei concetti che danno un senso alle nostre vite, al di là del fatto che il loro valore si traduca in qualcosa di immediato o se ne resti confinato nel campo, troppo esteso, del simbolico. Comunque vada, ci si sente prigionieri di un cammino tracciato da altri, senza che ci sia possibile dare loro un nome o un volto … “Prigioniero di un cammino tracciato da altri”, l’ulti74


ALBERTAZZI

Con Carlo Lucarelli a Udine nel 2007

mo Stefano che, pur non potendo dare un nome, un volto, a questi “altri”, rifiuta di identificarli con un disegno divino – a cui non può credere, “e non solo per principio” -, riflette sul mistero dell’umana esistenza, le cui “curve naturali, ascendenti e discendenti” sono governate arbitrariamente da una fortuna che può stare o non stare dalla nostra parte, che ci può permettere di procedere sul cammino o metterci fuori gioco prima del tempo, secondo un’assurda “selezione innaturale”. Il pensiero del padre immaginario - che viene sempre più somigliando allo Stefano reale - oscilla tra la volontà caparbia di non farsi “schiacciare dalla solitudine di un dolore personale” e il confronto impietoso con la realtà - con l’immobilità del figlio in coma, cui pure prova con tutte le sue forze a far sentire la propria vicinanza, con gli sguardi degli amici riuniti al capezzale del ragazzo, con le parole dei medici. È soprattutto nella reazione del padre di fronte ai referti medici, che sgretolano definitivamente le sue illusioni, che si riconosce l’atteggiamento mai rassegnato di Stefano di fronte alla malattia, “poetico” nel senso etimologico del termine, ovvero creativo e fattivo. “Valori bloccati, reazioni nulle e prospettive vane”, espressi nei termini scientifici della medicina, sono trasformati, com’è consuetudine del poeta, in una metafora:

Roma. Una settimana dopo Stefano ci lasciava. Sono passati diversi mesi e, come Stefano immaginava nella sua storia, i percorsi esistenziali di noi che restiamo vanno avanti, “per quanto velati, di tanto in tanto, dal ricordo amaro di un’assenza”. Ma, come il padre del racconto al termine della vicenda ritrova la forza di lottare contro lo sfruttamento, insieme a “chi è costretto soltanto a difendersi, ma a mani nude”, così mi piace pensare che anche noi, continuando il lavoro iniziato da Stefano, condividiamo “l’idea che quel libro sia ancora aperto”. E che, come il padre e i suoi compagni di lotta, se “ci si dirà che è troppo poco, risponderemo che poco è più di niente, fin quando il niente non avrà valore di mai più, oltre ciò che noi saremo …” Oltre ciò che noi saremo, perché questa è la funzione della letteratura: non tanto dare un senso alla fine, e neppure procrastinarla al modo di Sherazade, ma impedirla, affermando la vita, narrando oltre la vita, tramandando senza soluzione di continuità, aldilà di ogni limite temporale, “esperienze che passano di bocca in bocca”, per dirla con Walter Benjamin. Ricordo amaro di un’assenza è l’ultimo testimone che Stefano ci ha passato. C’è tutto lui, dentro. E adesso ci siamo anche noi, e tocca a noi passarlo ad altri, perché Stefano continui a vivere, nelle sue e nelle nostre parole, “con il linguaggio andato di un tempo che non passa”.

è un libro che si sta chiudendo, fatto di poche pagine scritte e di troppe rimaste in bianco, e anche se non sappiamo con precisione quanto tempo ci vorrà per arrivare alla quarta di copertina siamo sicuri di dover interrompere questa lettura. Così, per forza di cose.

C’è un’altra dedica di Stefano che mi piace molto: “A Silvia, tra le poche (e pochi) capace di lanciare lo sguardo in tante direzioni, senza ritrarlo …” Mi è sempre sembrata un po’ eccessiva, ma qui ho cercato di dimostrare prima di tutto a me stessa che Stefano non aveva esagerato: lo sguardo ho provato a lanciarlo oltre la fine.

Il libro di Stefano si è chiuso pochi giorni dopo la pubblicazione della raccolta Lavoro vivo, dov’è contenuto il racconto, di cui il 1° maggio Carlo Lucarelli ha letto l’inizio al concerto di piazza San Giovanni a 75


Ritagli di Tempo 1969, Teatro ITC di San Lazzaro (Bo), 2009 - foto Luca Gavagna


Stefano avrebbe fatto incazzare anche Lenin Un onore non da poco

Fine anni Settanta

❚ Quattro testimonianze di compagni bolognesi

che hanno condiviso con Stefano la militanza nei partiti di sinistra e nei movimenti radicali dall’inizio degli anni ‘70 ai nostri giorni

R

di Ugo Boghetta, Alfredo Pasquali, Gianni Paoletti, Nazareno Pisauri

icordare un compagno, un comunista è ragionare su di noi, sulla politica, la cultura, la teoria. Ho conosciuto Stefano prevalentemente dal lato politico, in DP e nella vita tormentata di Rifondazione. La sua attività, tuttavia, illumina anche l’altro aspetto, quello intellettuale. E, un merito tutt’altro che trascurabile, sta nel fatto che non ha fatto parte di quel trasformismo un po’ marrano tipico di questo ceto della sinistra. In DP, aveva sempre bordeggiato sul crinale delle linee politico- culturali più movimentiste: sempre e giustamente alla ricerca del nuovo. Quelle esperienze si sono spesso trasformate in un “nuovismo” che trovava giustificazione 77

❝...Ma Stefano non si sarebbe

certo arreso. Avrebbe lavorato con forza e passione a un altro progetto significativo. Questa era infatti un’altra sua caratteristica non comune: non solo non si arrendeva, ma non era mai banale. ❞


nuova rivista letteraria nella ricerca dell’analisi e pratica risolutiva dei tanti problemi accumulati dalle sconfitte, dai cambiamenti, dal riflusso. Stefano, però, non andò mai oltre un certo limite: la scelta di campo per lui non è mai stata in discussione. L’ambiente demoproletario era certo di stimolo e lui vi contribuì con passione. DP era sì operaista, ma ha svolto un grande lavoro di ricerca e di innovazione: rilettura di Gramsci, il femminismo, la sperimentazione di pezzi di una nuova forma partito, un diverso rapporto partito movimento. La modernità di quella ricerca, dimenticata dalla cialtroneria di una sinistra senza memoria e un po’ snob, oggi ritorna alla luce in alcuni pregevoli libri. All’interno di questo percorso scelse la strada rossoverde. Strada che è finita male come tutta l’esperienza “verde” in Italia. Una fine in qualche modo paradigmatica. Nonostante questo esito, Stefano non si è perso poiché al fondo, per buona parte della generazione del ’68 e (meno) del ’77, c’è stata sempre una grande coerenza. Siamo sì rivoluzionari senza rivoluzione, ma le scelte di quei tempi non furono banali opzioni politiche ma scelte di vita. Così ci siamo ritrovati nel PRC: un’esperienza tormentata da un conflitto fra eredità diverse, incapaci di andare oltre e confrontarsi con un mondo già cambiato enormemente. Negli ultimi anni nel PRC bolognese la situazione divenne ancor più complicata, e anche il nostro rapporto fu conflittuale. Stefano, dopo che il PRC aveva praticato un ruolo forte contro Cofferati, sostenne con forza e passione, come sempre faceva, la tesi di una presentazione autonoma dal centro sinistra alle elezioni comunali. Non comprendeva, a mio modo di vedere, che anche il centro sinistra in larga parte aveva tirato un sospiro di sollievo per la dipartita di Cofferati, che la città tutta voleva ricominciare e che si trattava, dunque, di capitalizzare da parte nostra il ruolo avuto in precedenza. Il risultato di quello scontro fu la disintegrazione della sinistra d’alternativa e la sua progressiva scomparsa dal quel comune di Bologna dove eravamo entrati negli anni ‘80 come DP con lo slogan: “un rivoluzionario in comune” e dove il PCI vi aveva scritto un pezzo di storia. Cito questi fatti perché l’essere ad un tempo un militante attivo e un intellettuale con una visione movimentista, lo portava a commettere gli errori tipici della nuova sinistra: il considerare intrinsecamente e immediatamente uniti l’analisi e la sua traduzione in proposta politica, i movimenti e la politica, i conflitti e il momento elettorale. La critica al moderatismo sfociava nell’eccesso opposto. Per tutti noi, ad esempio, è sempre stato difficile tener conto del livello di coscienza delle classi popolari senza per questo essere codisti. Il nostro essere fondamentalmente (e anche positivamente) elitari ci ha impedito e ci impedisce la

comprensione di questo paese. Ciò rinvia sine die la costruzione di una sinistra alternativa strategicamente autonoma ma credibile. Nel suo doppio ruolo Stefano, ai miei occhi, rappresenta plasticamente questo guazzabuglio. L’ho incontrato, è stata l’ultima volta, a un assemblea da lui suscitata per la presentazione di una lista autonoma della sinistra d’alternativa con candidato a sindaco l’ex assessore regionale Ronchi. Dopo la vicenda Del Bono e il Commissariamento dell’attuale Ministro Cancellieri, era un progetto sensato e che poteva rimettere insieme i cocci. Il progetto finì quando Ronchi ha accettato di fare l’assessore di Merola. Non conosco le reazioni. Posso solo immaginarle. Ma Stefano non si sarebbe certo arreso. Avrebbe lavorato con forza e passione a un altro progetto significativo. Questa era infatti un’altra sua caratteristica non comune: non solo non si arrendeva, ma non era mai banale. Ugo Boghetta In tanti anni vissuti nella sinistra ho visto passare sotto i ponti della politica mille specie di militanti: belli e brutti, generosi e calcolatori, anonimi e famosi. Di tutto il bestiario della sinistra di classe forse l’esemplare meno pregiato è il compagno-camaleonte, quello contemporaneamente partitista nel partito e movimentista nei movimenti. Animale irresistibilmente attratto dal pensiero di maggioranza, uno Zelig che non sa mai dire di no. Stefano Tassinari al contrario era sempre schierato con posizioni autonome, a volte anche in contrasto aperto con l’ambiente nel quale si muoveva. Non a caso spesso nelle formazioni politiche era tacciato di occuparsi di cose “sovrastrutturali” (la cultura), mentre in ambienti intellettuali era riconosciuto come il vecchio (o forse vetero) militante (la politica). In realtà non poteva accadere diversamente perché Stefano era stato allattato all’ombra del mito sessantottesco dell’operaio massa, la classe che in sé riunifica la liberazione sociale, quella politica e quella culturale. Una concezione universalistica che portò l’allora Luigi Nono a presentare nei luoghi di lavoro La Fabbrica Illuminata, complessa composizione musicale contemporanea strappata all’ascolto dei salotti borghesi. Ahimè la storia ha preso ben altra direzione: così come dall’idea di un unico salario per tutti i lavoratori si è passati a infinite tipologie contrattuali per subordinati, para subordinati e precari, altrettanto il mondo dell’immaginario si è polverizzato in mille patrie, piccole e infinite identità tribali, uno sterminato ipermercato con enormi banconi dove si trova78


BOGHETTA - PASQUALI - PAOLETTI - PISAURO no tutte le mercanzie possibili e immaginabili, ma dove è severamente proibito mischiare l’un con l’altra queste realtà per un nuovo pensiero di liberazione. Così i partiti si sono confinati nell’asfittica autonomia della politica, i movimenti si sono barricati nei comitati ombelico-centrici e la cultura si è rinchiusa nel mondo delle anime belle, rifugio peccatorum di chi ha scelto un esilio dorato. Questi erano i mulini a vento contro cui Messer Tassinari si scontrava lancia in resta. Così dalla sconfitta dei movimenti degli anni ‘70 Stefano cercò di elaborare una nuova teoria che sostituisse alla centralità del vecchio operaismo un rinnovato baricentro fatto di nuove soggettività (femminismo, pacifismo, ambientalismo) da aggiungere all’antica classe lavoratrice. Lesse con occhi di intellettuale le rivoluzioni degli anni’80, vere e proprie eresie in tempi reaganiani, partecipò convintamente ai movimenti altermondialisti che ci portarono a Genova. Ha lavorato fino all’ultimo con la mobilitazione sociale della Fiom per il dissenso operaio organizzato. Cercava sempre di individuare lo stelo di rivolta anche quando la prateria sembrava essersi completamente seccata, forse a volte, come si diceva un tempo, scambiando un osso di dinosauro per il dinosauro intero. Stefano però, a differenza di tanti altri, percorse tutta questa lunga marcia sempre credendo nella necessità dell’organizzazione politica (il partito), anche quando le condizioni erano al minimo storico. Una convinzione radicata profondamente, forse erede di quel pensiero leniniano fatto di rapporto tra partito e movimento, dove non c’è l’uno senza l’altro. Il paradosso che ha seguito come un’ombra Tassinari è che lui, figlio della concezione gramsciana dell’intellettuale organico, ha sempre svolto un importante ruolo da intellettuale disorganico: coscienza critica nel partito quando ricordava che senza autonomia culturale e capacità di immaginazione non si può sfuggire a un potere asfissiante e tetragono e, quando nel mondo intellettuale, sosteneva che un’arte priva di nesso con le sofferenze popolari è priva di anima e cuore. Coscienza critica e non già grillo parlante, quello che giustamente viene prima o poi schiacciato sul muro: Tassinari ci metteva sempre la faccia e l’impegno militante, senza mai scadere nella vanità del generale che guarda dall’alto della collina le truppe battersi per il proprio re. Tra i suoi compagni stava infatti Stefano alle Feste di Rifondazione quando, già malato, animava il ristorante del pesce con tanto di aperitivi letterari. In mezzo ai lavoratori si muoveva quando organizzò le lotte contro il precariato alla Sala Borsa. Tra gli intellettuali lo si vedeva come animatore dell’Associazione Scrittori

Bolognesi. Nel mondo dello spettacolo diventava protagonista con i suoi reading o nella sua “Parola Immaginata”. Così struttura e sovrastruttura si sovrapponevano perché, come sottolineava sempre Tassinari, il mondo dell’arte e dello spettacolo rappresentano non solo l’evasione possibile della mente dai binari imposti, ma offrono anche più che concreti posti di lavoro in quanto, tra diretto e indotto, sono nella nostra città una delle più importanti aziende del territorio. Parlare con Stefano di Fus, diritti d’autore o tagli alla cultura significava anche capire cosa si intendesse per “sapere operaio” in un territorio così lontano dalla fabbrica tradizionale. Con Stefano in tanti abbiamo discusso, o magari anche litigato. Non era un “cliente” facile. Ma sia nei partiti in cui ha militato, nei movimenti in cui si è identificato, nei luoghi della cultura in cui ha operato, si è sempre guadagnato attenzione e rispetto generale perché, secondo una citazione dal vecchio Lenin, “le aquile possono saltuariamente volare più in basso delle galline, ma le galline (o i camaleonti...) non potranno mai salire alle altitudini delle aquile”. Alfredo Pasquali O si è militanti politici oppure attori culturali, alcuni sono entrambe le cose, ma con una prevalenza netta di uno degli aspetti. Stefano era uno dei pochi, anzi dei pochissimi che in un’epoca come questa viveva le due cose contemporaneamente e in modo inscindibile. La contraddizione fra i due modi di vivere la realtà esiste, ma Stefano la viveva dentro di sé a tal punto che è impossibile dire quale dei due aspetti era prevalente. Guardando la cosa dal mio punto di vista, quello politico, riconosco l’insolubilità della contraddizione, ma non solo nel senso negativo, perché questa contraddizione può essere fonte di idee nuove a patto di accettare il continuo squilibrio determinato dal contrasto. Nella gestione della contraddizione sta la difficoltà, problema che ovviamente riguarda chi non si è venduto per soldi o per seguire la corrente. Stefano rendeva la cosa ancora più difficile perché la politica lo riguardava direttamente e la cultura, pur avendo una sua autonomia, era per lui, a sua volta, luogo di scontro politico. La militanza di partito di Stefano è stata intensa, in certi periodi superiore alla mia che a un certo punto ho scelto una militanza sindacale e/o di movimento. In questo era un figlio degli anni ‘70, quella scuola politica e intellettuale che rifiutava di separare la politica dall’agire culturale senza aver mai risolto la contraddizione fra le due cose. Per la verità la politica non veniva separata da nulla, non solo dalla cultura, ma la cultura aveva un ruolo particolare. Anzi nel prevalere della politica su tutto anche la cultura correva sempre il rischio di risultare subordinata. Questo modo di concepire la contraddizione insieme alla sconfitta del 79


nuova rivista letteraria movimento degli anni ‘70 ha contribuito alla separazione fra politica e cultura aumentando la difficoltà a mettere in discussione una cultura che fingendosi autonoma è in realtà un pilastro del potere. Quando parlo del movimento degli anni ‘70 non parlo solo dei movimenti e delle organizzazioni politiche della sinistra rivoluzionaria, parlo anche e soprattutto dell’egemonia operaia, come si chiamava allora. Per Stefano questa contraddizione è sempre esistita e ha continuato a esistere anche quando la politica ha cominciato a diventare luogo specializzato e separato e a maggior ragione la cultura ha preso nella sua maggioranza altri percorsi. Dal mio punto di vista il confronto con questo modo di essere era difficile. Io sono sempre stato uno che ha vissuto la politica in modo militante, e l’aspetto intellettuale che la politica ha necessariamente dentro di sé, secondo il mio modo di vivere la politica, è prevalentemente legata all’analisi della realtà o all’analisi delle contraddizioni sociali e politiche. L’essere attore intellettuale e insieme politico è qualcosa di diverso e forse anche questo ha portato me e Stefano ad essere in contrasto in diverse occasioni dentro Democrazia Proletaria e poi in Rifondazione. Non parlo solo di contrasti più generali cha hanno portato a rotture politiche come nel caso della scissione dei Verdi Arcobaleno, che Stefano scelse, o i contrasti dentro il PRC. Parlo anche di vicende apparentemente minori come quella relativa a una rivista locale che nei miei ricordi è però emblematica. Ricordo in particolare la sofferenza che mi espresse Stefano perché in uno scontro interno a Democrazia Proletaria lui aveva perso e la rivista non era più nella sua gestione, ma era diventata una rivista di partito in senso stretto. Io non stavo dalla sua parte. Il fatto è che Stefano non accettava mediazioni, aveva un’idea precisa del modo di gestire certe cose e non era per lui immaginabile di farle diversamente. Qui stava un problema. La sua determinazione, le sue idee forti e il suo spessore intellettuale erano la condizione per costruire il suo progetto, ma la sua determinazione era contemporaneamente la sua forza e la sua debolezza. La sua forza perché la sua capacità di essere centro di un progetto diventava punto di aggregazione e la sua debolezza per questo stesso fatto perché la determinazione di una singola persona può entrare, ed è entrata più volte, in contrasto con la condivisione collettiva di un progetto politico complessivo e quando questo avveniva troppo spesso si risolveva in rottura se il progetto non aveva più al centro esattamente le sue idee. Di questi tempi va molto di “moda” l’antipolitica. Non mi è mai capitato di discutere con Stefano del moderno rifiuto della politica. Parlo di moderno rifiuto perché ce ne sono stati tanti anche nel passato, chiamati magari in altro modo, e sono sempre stati o fonte di carriere politiche o buco nero in cui sono finiti troppi compagni; temo che anche questa volta sarà

così, ma questo è un altro discorso. Credo di poter dire che Stefano non ha mai seguito queste correnti, a tal punto che partecipava perfino a quella sorta di calvario masochistico che sono i congressi di partito; direi anzi che ne ha fatti più di me in modo attivo. Ai tempi della costruzione di Democrazia Proletaria (1977-78) si era in un’epoca in cui il movimento del ‘77 stava finendo stretto fra lo stato e le BR (per usare una terminologia dell’epoca), e con una falla aperta verso il cosiddetto riflusso, vissuto da molti come una scelta di vita sentita come liberatoria pur di non riconoscerne il senso vero della drammatica sconfitta di un’epoca e di un movimento che voleva conquistare il cielo, come si diceva allora con una certa enfasi. Stefano, come me, subiva le irrisioni o le invettive da una parte di chi sosteneva il riflusso e dall’altra parte di chi metteva tutti gli oppositori nel mucchio insieme alle BR; Stefano, però, che io ricordi, non ha mai mollato la politica e nemmeno la politica di partito. La vicenda di Democrazia Proletaria è stata un’esperienza che ha fatto sentire noi che ci partecipavamo parte di una comunità politica e di un’impostazione mentale, che per molti, come abbiamo visto più chiaramente nei decenni successivi, è stata talmente forte da sopravvivere a rotture e percorsi anche molto divergenti: un percorso che ha permesso perfino nuovi incontri. Questo anche perché l’importanza della politica e della cultura nella assolutezza della concezione della politica come era vissuta negli anni ’70 anche sul 80


BOGHETTA - PASQUALI - PAOLETTI - PISAURO realmente fino alla autodistruzione. Sul momento non avevo capito il senso di quella scelta e cosa c’entrasse con Stefano. Non ho avuto occasione di parlarne con lui, ma penso di aver capito che si riferiva a dei modi di essere e di pensare che non seguono la corrente, quello dello sfavillante consumismo e del boom degli anni ‘60 nel caso di Bianciardi. Anche Stefano andava controcorrente, non solo rispetto al vendersi al potere che è la pratica corrente di troppi intellettuali, ma anche rispetto alle correnti più forti presenti anche nella sinistra. Non so se è questo il motivo principale della scelta di Bianciardi, lo può dire chi ha collaborato con lui. Io l’ho sentita come il narrare di un sentimento comune: seguire la propria corrente e non farsi trascinare senza combattere da ciò che sembra ovvio anche a sinistra, perché l’ovvietà, che è in realtà il pensiero dominante, è il contrario di un pensiero e di una pratica di sinistra. Gianni Paoletti Se c’è una figura ambigua nella tradizione marxistaleninista è quella del cosiddetto intellettuale organico che si “mette al servizio” della classe operaia per guidarne il destino rivoluzionario. Secondo Lenin “la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno”, grazie agli ideologi (così il rivoluzionario russo chiama gli intellettuali di partito) che “precedono il movimento spontaneo e gli indica la via”. Di sicuro l’intellettuale comunista Stefano Tassinari che ho conosciuto io non ha mai condiviso questa visione, che d’altra parte Lenin giustificava con l’arretratezza culturale del proletariato russo e suffragava con la coppia dialettica struttura-sovrastruttura postulata da Marx e Engels. In realtà Stefano tendeva a rovesciare il nesso struttura-sovrastruttura classico. Per lui non solo la cultura deve permeare e informare ogni attività politica, ma deve anche elaborare i termini di ogni possibile egemonia, studiando a fondo opere e linguaggi, ideologie e rapporti di classe, attività culturali e loro ricezione. Da questo punto di vista tutta l’azione culturale di Stefano sembra ispirata piuttosto a Gramsci, il primo che tra i grandi pensatori marxisti abbia valorizzato il lavoro culturale, individuando in esso il grimaldello per far saltare le casematte del consenso in cui il potere si arrocca, ora come allora, non solo nella società ma più ancora all’interno dei partiti politici. Di qui la necessità, per Stefano e per noi suoi compagni, di accettare le pur diverse prove di lotta all’interno delle forme partitiche che ci hanno portato da Avanguardia operaia (una sorta di creazione in vitro del partito di quadri leninista), a Democrazia proletaria (certamente il tentativo più serio di coniugare l’organizzazione politica con le istanze dei movimenti), fino a Rifondazione comunista: una sorta di scommessa estrema per salvare il salvabile dopo la liquidazione

Bretagna, 2007 - foto Stefania De Salvador

piano personale ha radicato in molti di noi non solo idee e modi di pensare, ma anche modi di essere. Su questo non c’era differenza fra me e Stefano. Grazie a Fabrizio Billi, che cura l’archivio storico di Democrazia Proletaria, ho riletto alcuni articoli scritti da Stefano negli anni ’80, articoli finalizzati soprattutto a contribuire a un clima di dibattito culturale e di valorizzazione di scrittori poco considerati; un’idea coerente, credo, con quella che l’ha portato a creare l’associazione degli scrittori. In particolare però mi ha colpito un articolo diverso dagli altri su Vargas Llosa di cui ricordava sia la sua militanza di destra, sia il suo valore come scrittore. Un modo di vedere le cose abbastanza controcorrente rispetto al nostro ambiente, un modo di vedere, però con cui concordo. Chi non legge per principio scrittori come Vargas Llosa solo perché sono di destra non fa una cosa di sinistra, ma si perde molto, soprattutto rifiuta di vedere le contraddizioni che offre il mondo che ci circonda. Meglio il punto di vista di Stefano, leggerlo senza dimenticare che era ed è un reazionario. Un particolare infine vorrei ricordare. Quando è uscita la rivista Letteraria, la comprai senza sapere cosa fosse, attirato dal fatto che era Stefano a curarla, mi riferisco al numero che parla di Bianciardi. Spinto da questa lettura ho letto La vita agra, che, confesso la mia ignoranza, non avevo mai letto. Sul momento mi sono stupito della scelta di parlare di uno scrittore che non solo scrive del rifiuto del consumismo, ma lo pratica 81


nuova rivista letteraria d’alemiana e occhettiana del PCI, della sua anima e della sua storia. Di qui il rovello, specie dopo lo scioglimento di Potere operaio e la fine ingloriosa di Lotta continua, di stare nei movimenti senza rinunciare a sperimentare nuove forme organizzative per contrastare le più disparate derive individualiste o le più dissennate adesioni alla lotta armata, secondo noi perdente e devastante. Certo è che, pur con molte e forse troppo comode giustificazioni, non siamo stati in grado di verificare di volta in volta la nostra teoria e la nostra strategia politica. Ai rapidi quanto arruffati passaggi dal ‘68’69, al ‘77-’78 e all’ 89-’90 non trovammo, nonché le risposte, le domande che avremmo dovuto porci. Cosa cambiava per noi la dismissione di un modello organizzativo come quello leninista, un partito di quadri rigidamente gerarchico con tanto di centralismo democratico a fronte del partito di massa di Togliatti? Il rapporto con i movimenti, a cominciare dal movimento sindacale, doveva continuare a fungere strumentalmente da cinghia di trasmissione per il partito, o doveva misurarsi alla pari con le istanze sociali? L’irruzione sulla scena dei diritti civili, che la sinistra delegò prima ai radicali e poi ai girotondi, poteva diventare terreno cruciale di lotta anche per noi, o doveva restare appannaggio della borghesia progressista, ai soli fini di alleanze elettorali e parlamentari di basso conio? La crescente centralità dei temi ecologico ambientali meritava il tentativo di un nuovo partito rosso-verde, cui Stefano aderì con la sua pronta generosità, o la sinistra marxista stava dando prova di sufficiente sensibilità, anche con vittorie importanti come a Seveso, a Brescia, o a Porto Marghera? Neppure ci accorgemmo che questioni di questa portata, di norma, era quasi impossibile porle seriamente all’interno dei partiti e, tanto meno, all’interno delle loro strutture dirigenti, le quali tendevano a evitarle, per non turbare gli equilibri faticosamente raggiunti di congresso in congresso. Le stesse tesi congressuali, quando vi facevano riferimento, tendevano a citarle in modo ecumenico, sorvolando sulle contraddizioni che ognuna di quelle questioni poteva sollevare e cercando comunque di sopirle, piuttosto che risolverle a costo di divisioni o separazioni correntizie: mai sia! Delle cose importanti si parlava magari la sera, dopo l’ultima riunione, in osteria. Ricordo, a questo proposito, nottate intere passate con Stefano a sviscerare i problemi più scottanti. Uno di quelli che più lo assillava era la democrazia interna al partito, che negli anni ‘90 in Rifondazione vacillava sia per i frequenti veti incrociati tra la componente ex-PCI e quella ex-DP, che più in generale per le irrisolte rigidità verticiste ereditate dai precedenti assetti. Così quando Stefano, trasferitosi da Ferrara a Bologna, si iscrisse al PRC bolognese, propose subito la creazione di una commissione cultura, cosa che dopo un lungo tergiversare gli fu negata con motivazioni

burocratiche che non ricordo. C’è però da sospettare che il vero motivo del diniego sia stato il timore di favorire una componente di Rifondazione sulle altre. A questa stessa logica fu sacrificato il foglio bolognese di Democrazia proletaria “Il Carlone”, che chiuse i battenti. Addirittura fu messa in discussione anche la gestione di Radio città, di cui Tassinari è stato Direttore responsabile fino all’ultimo suo giorno di vita. A fronte di simili ostilità o anche soprusi patiti a causa della inadeguatezza del partito, ma anzi quasi insiti nella forma partito in quanto tale, Stefano non si è mai risolto ad uscirne, convinto -come l’ho sentito ripetere più volte - che i grandi traguardi che i movimenti possono raggiungere vanno corroborati dalla politica più avveduta per evitare esiti corporativi, o peggio ancora populisti, e in ogni caso per mantenere il filo rosso tra una insorgenza e quelle successive, spesso distanziate tra di loro per il percorso carsico che le contraddistingue. A chi, dalle sponde anarchiche o dell’autonomia, gli contrapponeva che i partiti sono organizzati a priori per farsi Stato, Stefano rispondeva che per evitare questo occorre contenere e contrastare i germi della partitocrazia sul nascere, mettendone continuamente in crisi i meccanismi di potere interni. Solo in questo modo si può ottenere quel difficile percorso in bilico tra società e partiti, in cui la prima sperimenta l’autogestione e i secondi cedono porzioni via via più consistenti del loro potere istituzionale. Non è un caso che questo pensiero sia affiorato tra noi all’apice delle lotte degli anni ‘60 e ‘70 e non è un caso che sia poi scomparso nel tritacarne della successiva sconfitta. Ma Stefano, indomito e cocciuto, continuò la pratica e la grammatica dell’ obiettivo. Rifondazione non volle la commissione cultura: Stefano fondò il circolo Victor Jara che ne fece le veci. La festa annuale del quotidiano Liberazione non era interessata alle presentazioni di libri: lo stesso circolo le abbinò con ottime cene in un ristorante di pesce fondato all’impronta, con Stefano grande chef, che fruttarono al giornale del partito considerevoli incassi. La sinistra bolognese non elaborò alcuna politica culturale negli anni ‘80 e ‘90: Stefano moltiplicò il suo impegno nell’Associazione degli scrittori, una sorta di magia impensabile che non era riuscita, grazie a Togliatti, neppure a Vittorini e al suo Politecnico quasi cinquant’anni fa. “Si parva licet”, probabilmente Lenin detterebbe oggi per Stefano Tassinari lo stesso giudizio desolante che riservò al grande scrittore russo Maksim Gorki: “Gorki ha senza dubbio un talento artistico prodigioso, con cui si è già reso e si renderà ancora molto utile al movimento proletario internazionale. Ma per quale motivo deve intromettersi nella politica?” Sì. Penso proprio che Stefano avrebbe fatto incazzare anche Lenin. Un onore non da poco, visto che tra i comunisti italiani ci riuscì soltanto Umberto Terracini. Nazareno Pisauri 82


Festa di Letteraria a Caldarola (MC), 2011 - foto Angelo Ferracuti

La cultura, arte del seminare senso, del fare fruttare il nostro stare al mondo

❚ Mettere le gambe ai libri di Paolo Vachino

N

❝Libro come alimento, come viatico alla crescita. Libro come aperitivo, cioè come colui che apre la via, prima della catastrofica degenerazione dell’aperitivo...❞

el titolo di uno dei romanzi più belli scritti da Stefano Tassinari è contenuta la chiave di interpretazione del suo agire culturale: Assalti al cielo. Assalto che per Stefano era una via di mezzo tra l’assalire e l’assaltare; un affrontare con impeto, con decisione, senza risparmiarsi. Mentre il cielo non era la sede di Dio e dei beati, ma un corpo concavo e allo stesso tempo panciuto, uno spazio da ingravidare di utopie, evaporate dalle menti pensanti futuri miglio83


nuova rivista letteraria ri per la nostra acciaccata umanità. La formazione culturale e soprattutto l’impegno politico di Stefano lo avevano fatto accedere alla consapevolezza che, se il borghese è l’immilite per eccellenza, colui che non prende parte ad alcuna pubblica causa che non riguardi direttamente i suoi interessi, allora l’intellettuale, lo scrittore, l’uomo di cultura deve assumersi il compito di essere un militante, impegnato in un’attiva e costante partecipazione nell’ambito dei rapporti di matrice culturale e politica, perché la vita è pubblica essendo pubblico anche il suo privato. Militante in lotta prima di tutto contro i militari, che credono di imporre attraverso l’uso della forza quello che invece un uomo di cultura ritiene debba essere discusso attraverso un dialogo democratico con l’impiego costante delle intelligenze. Per Stefano scrivere libri era soltanto il primo dei compiti e dei doveri di uno scrittore. Non si esauriva con la consegna all’editore di un manoscritto da destinare alla stampa su carta. Ma nell’accompagnare i libri alla loro naturale destinazione: all’abbraccio con i lettori. La letteratura di Stefano era un luogo, prima di tutto; uno spazio ben definito in cui far accadere un incontro. Un’osmosi tra due silenzi: quello raccolto dello scrittore che stacca pezzi della propria immaginazione per farne dono – appassionatamente spassionato - a qualcuno, pronto a raccogliere il testimone nella fantasiosa staffetta culturale e riceverlo nel silenzio partecipato della lettura. Stefano metteva le gambe ai libri. Come il pifferaio di Hamelin li invogliava a scendere dagli scaffali per incontrare i lettori. Sempre ad altezza d’uomo. Questo era il suo assalto quotidiano al cielo dell’indifferenza e della distrazione mediatica. Nonostante la voglia di raccontare la poliedricità dell’intero agire culturale di Stefano, mi limiterò alla descrizione di uno solo dei tanti eventi creati dal medesimo per contribuire ad arginare quello che lui – preconizzandola da tempo – aveva definito come la vittoria della cultura della “destra”; per Stefano destra non era semplicemente l’opposto della “sinistra”, ma la palude umida e ambigua in cui proliferano le ostilità al cambiamento, al rinnovamento sociale, in cui il conservatore non è colui che custodisce con cura i valori conquistati dalla civiltà e dalla democrazia ma quello che si dispone alla salvaguardia – anche manganellata - dei privilegi di pochi a scapito dei tanti, guarda caso da millenni sempre gli stessi. Lungi dall’essere un chierico organico, Stefano era semmai un laico organizzato ed efficiente nello svolgere quella titanica impresa collettiva per far sì che la letteratura non rimanesse un’ancella ano-

ressica all’interno di una società dominata da bulimici finanzieri e portaborse, le cui borse – ahimé sempre rigorosamente orfane di libri. All’affacciarsi del nuovo millennio, Stefano aveva rispolverato un’usanza antica: quella di ritrovarsi intorno a una tavola per consumare nella frugalità di un pasto – quasi per contrappasso - un ghiotto scambio di parole, intorno ad argomenti che avevano direttamente o indirettamente a che fare con l’uomo e con le sue possibilità di fare comune esperienza di libertà. Così, all’interno delle grotte di tufo di una osteria di Santarcangelo di Romagna – il paese della koinè poetico-dialettale romagnola e del festival internazionale del teatro in piazza, entrambi meravigliose espressioni di un pezzo importante della recente storia culturale italiana - ha dato vita a una serie di incontri denominati “A cena con l’autore”. Non era quindi una semplice cena con gli autori, ma un vero e proprio andare “a cena” con loro. In quella “a” Stefano credeva molto, avendo investito tutta la sua vita di scrittore; la preposizione indicante una direzione, un movimento, una corrispondenza. Un soddisfare le domande degli altri, un’instaurare relazioni di uguaglianza. Non era la cena il fulcro dell’incontro, ma quell’andare lì, quella voglia di partecipare a un’assemblea informale, quasi familiare, per ascoltare una storia trasformata in narrazione. Così Stefano si caricava in macchina i libri, riposti nel suo inseparabile trolley, insieme all’autore che sarebbe stato presentato da lui nel corso della serata, e partiva da Bologna - la città eletta a dimora -, sfidando spesso le inclemenze degli inverni di pianura, per raggiungere il luogo della presentazione. Rendere presente e partecipante l’uomo che si annida dietro alla scrittura, e che spesso si muove negli occhi del lettore come pallide ombre cinesi dietro al bianco lenzuolo della pagina impressa dei caratteri alfabetici, traducenti le visioni e gli incubi dell’autore. Il costo della cena doveva essere assolutamente popolare, per espressa e irrinunciabile volontà di Stefano, cioè alla portata di tutte le tasche; e incluso nel prezzo della polca mandibolatoria c’era anche e soprattutto il libro, presentato nel corso della serata. Che bella esperienza vivere i libri come cibo, come un’antica misura di biada sufficiente al mantenimento di un uomo per un giorno. Libro come alimento, come viatico alla crescita. Libro come aperitivo, cioè come colui che apre la via, prima della catastrofica degenerazione dell’aperitivo nell’orrenda locuzione happy hour. Stefano credeva in questa sana commistione di intenti, questa mescolanza di sapori palatali e intellettuali, per 84


VACHINO un soddisfacimento totale del desiderio di coniugare letteratura e vita. La cena era il pretesto preambolare del vero e proprio incontro, in cui Stefano, con molta dolcezza ma molta determinazione, a un certo punto interrompeva i commensali per distogliere la loro attenzione dalla tovaglia alla copertina del libro, e dare vita a un dialogo tra scrittore e lettori. Stefano svolgeva con entusiasmo il ruolo di demiurgo, attingendo sempre prima alla storia personale dell’autore, e poi a quella narrata nel libro. Ne illustrava le affinità, i contatti, le distanze. Quando Stefano parlava, usava lo stesso peso specifico per le vite degli scrittori e per quelle dei personaggi narrati, quasi a voler sostenere qualcosa in più di un semplice apparentamento, ma di una forte somiglianza; l’attributo - appunto - delle sostanze semplici. L’essere simile. Assimilare. Convertire la propria esperienza di vita in un’altra sostanza: quella della scrittura. La letteratura come legame sociale. L’oralità di Stefano era alluvionale, martellante, rallentata solamente dal suo portare frequentemente la sigaretta alla bocca, nei tempi in cui era ancora tollerato lo stupro respiratorio delle arie pulite al chiuso dei locali. La sigaretta era il metronomo della sua parlata. La metrica del suo verso libero, ma mai sciolto dall’impegno profondo di presentare una persona – prima di tutto – ad altre persone interessate al suo dire. Si capiva dal vigore del suo eloquio, dalla scelta del lessico, che Stefano aveva letto e meditato a fondo il libro di cui stava parlando. Trapelava tutta la stima per l’autore, frutto non tanto di un giudizio superficiale ma di un’ammirazione profonda, sia per i temi narrati, sia per la scelta dello stile con cui affrontare il racconto. La straordinarietà di Stefano era quella di sentirsi soprattutto un lettore, e lo si comprendeva dalle scorribande che effettuava all’interno dei libri non scritti da lui, affrontati sempre con l’umiltà di chi assiste al trotto degli altri camminando a piedi al suo seguito, perché diverso e altro è il momento in cui cavalcare il destriero della propria scrittura. Una volta dato lo spazio all’autore presentato, Stefano acquietava il suo animo e si predisponeva a un ascolto candido e intensamente autentico. Profondamente interessato. In quei frangenti si concedeva il lusso e il piacere di sorseggiare una grappa, quasi necessitasse di un digestivo per le tante parole spese a illustrare una storia e le attrettante attese dall’autore da lui convocato a raccontarsi. La dolce maieutica praticata da Stefano invogliava l’autore a sentirsi a casa, tra amici, e quindi a denudarsi dei panni del letterato e a indossare quelli del testimone oculare e orale della sua espres-

sione artistica. Grazie alla capacità di Stefano di rendere semplici le idee espresse, consapevole che l’unico modo è quello di non semplificare la complessità ma provare a descriverla affrontandola, la platea di commensali-lettori si animava di un interesse onesto e sincero, abbandonandosi spesso a un profluvio di domande, nate non dal compiacimento masturbatorio di mostrare all’uditorio “quanto sono bravo” ma di “quante sono le cose che vorrei ancora conoscere oltre a quelle sentite narrare”. E Stefano era sempre l’ultimo ad abbandonare la postazione, per il suo amore viscerale per lo svisceramento delle questioni sociali che animano – come un dolce controcanto le storie scritte non solo da lui ma dagli autori da lui amati e apprezzati per le loro scelte. Stefano credeva nell’etica della scrittura. Veniva molto prima delle estetiche e delle poetiche. Lo dimostrava l’amore per queste interminabili adunanze, che lasciavano sazie - oltre alle pance - soprattutto lo spirito. E come tutti i veri incontri tra amici, la discussione spesso si protraeva a lungo sulla soglia dell’osteria, come si trattasse di un comune pianerottolo di un’abitazione, avvolti – questa volta - non solo dal fumo delle sigarette ma dalle dense nebbie autunnali, che spesso velano i cieli della riviera romagnola. Quel drappello di lettori affamati di libri ma soprattutto di vita – che Stefano aveva epitomato gli irriducibili - è ancora oggi debitore di quella straordinaria lezione culturale e di grande umanità, al punto che, lo stimolo era talmente forte e irrinunciabile, da proseguire – perdurando sino a oggi - in quella splendida esperienza dei Mercoledì Letterari, un luogo di incontro tra lettori per raccontarsi le proprie vite attraverso i libri letti e scambiarsi le letture attraverso le narrazioni delle proprie esperienze di vita. Questo è stato uno - tra i tanti assalti al cielo a cui Stefano ci aveva abituati nel corso della sua brillante militanza letteraria e umana – andato a segno. È stato un maestro di civiltà per tanti fortunati di noi. Un vero cittadino della sua patria. La cultura. L’arte del coltivare, del seminare senso, del fare fruttare il nostro – spesso veramente insensato - stare al mondo. Non passa giorno da quando Stefano ha dato – purtroppo - il suo ultimo e definitivo assalto al cielo che io non mi fermi all’ombra del suo grande albero, che contrariamente a quelli di soli rami e foglie, è possibile ancora sfogliare, e che – non a caso - dove solitamente ci dovrebbe essere ombra, grazie alla presenza di Stefano continua a esserci – ora come allora -, tanta ma veramente tanta luce.

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Stefano: i primi anni

1956

1957

1958

Le immagini che presentiamo in queste due pagine ci sono state fornite dalla signora Anna – mamma di Stefano – e lo ritraggono in alcuni momenti della sua vita – dall’infanzia all’adolescenza – in casa o durante le vacanze al mare (Termoli, Villapiana Lido, Scilla) e in montagna (Dolomiti, Fiumalbo).

1960


1962

1963

1965

1969

1967

1971


Raccontando: Dino Buzzati, Teatro ITC di San Lazzaro (Bo), 2011 - foto Andrea Del Zozzo



ISBN 9788889772836

9 788889 772836

€ 10,00

SILVIA ALBERTAZZI, BRUNO ARPAIA, MARCO BALIANI, ALBERTO BERTONI, UGO BOGHETTA, PINO CACUCCI, CASA DEL VENTO, RAFFAELLA CAVALIERI, GIUSEPPE CIARALLO, MARIA ROSA CUTRUFELLI, ANGELO FERRACUTI, MARCELLO FOIS, FRANCO FOSCHI, AGOSTINO GIORDANO, CARLO LUCARELLI, MILENA MAGNANI, ROBERTO MANUZZI, ALFREDO PASQUALI, GIANNI PAOLETTI, NAZARENO PISAURI, GIAMPIERO RIGOSI, ANDREA SATTA, ALBERTO SEBASTIANI, STEFANO TASSINARI, TETES DE BOIS, PAOLO VACHINO, FILIPPO VENDEMMIATI, WU MING 1

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n.6 · ottobre 2012 nuova rivista letteraria semestrale di letteratura sociale anno 3 n.6 ottobre 2012

semestrale di letteratura sociale


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