Amerindia Origini

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• 07/2014

ORIGINI AMERINDIA

LA PRESENZA DELL’EUROPA

LA NOSTRA AFRICA

VISIONI


SOMMARIO

ORIGINI

Consolato Generale della Repubblica Bolivariana del Venezuela a Napoli

Coordinatrice generale: Marnoglia Hernández Groeneveledt Coordinatrice di redazione: Emilia Saggiomo Hanno collaborato: Geraldina Colotti, Leila Delgado, Marnoglia Hernández Groeneveledt, Porfirio Hernández, Miguel Angel Mellino, Casimira Monasterios Vásquez, Julián Isaías Rodríguez, Carlos Soto Testi selezionati di: Henriette Arreaza Adam, Luis Britto García, Francisco Tiapa, Carlos García Carbó, Patricia Protzel Traduttori: Costanza Cotone, Fabrizio Erba, Marco Nieli, Pier Paolo Palermo, Simona Palumbo, Maria Elena Riccio, Emilia Saggiomo Fonti: 8 Estrellas (numero 1, julio 2011), 8 Estrellas (numero 2, agosto 2011), Memorias (numero 13, aprile 2010), www.luis-britto.blogspot.com. Contatti: via A. Depretis, 102 - Napoli Tel.: +39 081 5518159 e-mail: convenap.cultura@gmail.com Consulado General de la República Bolivariana de Venezuela en Nápoles ConsulVenNap www.consulvenenap.com Elaborazione Grafica: Dario Buonanno, Pino Buonanno, Roberto Orsi Agenzia di Pubblicità: Adek | adekcreative.it Foto di copertina: Lelia Delgado

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3 Editoriale

Amerindia, Nuestramérica di Marnoglia Hernández Groeneveledt

4 Amerindia 6 Il Venezuela delle origini di Lelia Delgado 8 Maria Lionza: la principessa dagli occhi acquamarina di Marnoglia Hernández Groeneveledt

11 Dal genocidio allo sfruttamento degli schiavi di Francisco Tiapa 14 Gli indigeni oggi. Lotte e diritti di Geraldina Colotti

18 La presenza dell’europa 20 22 24 26

Altro che incontro! di Julián Isaías Rodríguez Díaz L’uso dello scialle di Patricia Protzel La cucina mantuana. Storia, tradizioni e sapori di Carlos Soto Il Joropo, musica e danza del popolo venezuelano di Porfirio de J. Hernández P.

28 La nostra Africa 30 Origini africane del Venezuela di Casimira Monasterios Vásquez 32 La tratta negriera. Il lungo viaggio dei boschi di ebano di Henriette Arreaza Adam

38 I Diavoli del Corpus Christi. Con la maraca nella mano destra di Redazione 8 Estrellas

42 Il Calipso. La tradizione musicale del Callao di Carlos García Carbó

44 Visioni 46 Esuli dei Caraibi di Luis Britto García 48 Per un movimento globale di ri-decolonizzazione di Miguel Angel Mellino 50 Ai popoli indigeni. Poesie di Julián Isaías Rodríguez Díaz Mamá Shuta, Gli Añú, I Wayuu, Gli Yukpas 51 Amore America (1400) di Pablo Neruda Per amore della frutta di Eduardo Galeano La lingua del Paradiso di Eduardo Galeano


EDITORIALE

Amerindia, Nuestramérica

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di Marnoglia Hernández Groeneveledt*

Abya Yala (terra in piena maturità) è il nome dato dai Kumas a ciò che oggi conosciamo come America. Tuttavia, secondo la versione più diffusa, la denominazione America viene data da una carta del mondo realizzata nel 1507 dal cartografo tedesco Martin Waldseemüller, che chiamò così il continente in onore del navigante e cartografo fiorentino Amerigo Vespucci. Successivamente, tutti i nativi originari di queste terre sarebbero stati definiti Amerindi. L’America è una terra di grandi civiltà. Maya, Azteca, Inca. L’America dei popoli in lotta: i caribes, gli arawuak, i mapuche; America la terra dei capi e combattenti Guaicaipuro, Cuahtemoc, Túpac Amaru, Lautaro; l’America dalle terre fertili, valli, cordigliere, monti e praterie; l’America

dalla vegetazione esotica e delle leggende che alimentarono ambizioni; l’America dei sapori: guaiava, papaya, ananas, frutto della passione. L’America calpestata da quanti arrivarono nel 1492 nell’erroneo tentativo di raggiungere l’India, arrivo le cui conseguenze e i cui svantaggi si è riusciti a trasformare in forza per riunificare un intero continente. Alla fine del secolo XV queste terre furono meta anche dei primi schiavi africani, che portarono con sé un’infinità di tradizioni e credenze ad arricchire il miscuglio culturale che diede origine a un’identità. L’identità nuestramericana ha forgiato la difesa della terra amerindia: popoli nativi che hanno resistito all’invasore, ribellioni di schiavi africani per promuovere l’indipendenza, e patrioti

indipendentisti che lottarono per la libertà e per l’unificazione di nazioni intere. L’America sincretica, l’America nostra; più di 500 anni sono passati e i popoli uniti in nome di una storia, di una voce, cominciano a sollevarsi dopo secoli di oppressione. La lotta non è stata vana, c’è stato un lungo percorso in difesa della terra degli antenati: non parliamo delle Indie occidentali di Colombo, né dell’America di Vespucci, ma della difesa di Nuestramérica. Traduzione di Emilia Saggiomo *Console incaricato a.i. Consolato Generale Repubblica Bolivariana del Venezuela a Napoli

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AMERINDIA


egalitarie di agricoltori e ceramisti sedentari, che costituirono popoli caratterizzati da rapporti sociali comunitari e un modo di vivere basato sulla solidarietà, la cooperazione e la reciprocità. Con il tempo, alcuni popoli passarono sotto il dominio di caciques e si diedero forme gerarchizzate di divisione sociale del lavoro, pagamento di tributi, appropriazione di beni e terre a beneficio del signore e del suo lignaggio.

Il Venezuela delle origini

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di Lelia Delgado*

l Venezuela vive un processo di liberazione e decolonizzazione nazionale. Il trionfo del presidente Chávez e la promulgazione dell’attuale Costituzione Bolivariana hanno riconosciuto il diritto dei popoli indigeni di conservare le loro forme di organizzazione politica ed economica, le loro usanze, le loro lingue e religioni ancestrali, così come la legittima rivendicazione delle loro terre. Questo cambiamento di paradigma ha promosso l’inclusione sociale e il riconoscimento di oltre 43 popoli indigeni, la cui memoria affonda le sue radici in un periodo molto lungo

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della nostra storia culturale. Situato nell’estremo Nord del Sudamerica, il Venezuela è un territorio in parte amazzonico, in parte andino e in parte caraibico, luogo di confluenza e insediamento dei primissimi movimenti migratori di questa parte del continente. A partire dal periodo geologico conosciuto come Tardo Pleistocene, gli antichi abitanti svilupparono, nell’arco di oltre 15.000 anni, diverse forme di organizzazione sociale; da bande nomadi di cacciatori e raccoglitori, che si limitavano ad appropriarsi delle risorse naturali, fino a società

Coloro che parlano di un pacifico “incontro” in queste terre ignorano il massacro che un tempo si è perpetrato qui. Conquista e colonizzazione significarono per gli indigeni la perdita di tutti i loro diritti, la schiavitù, il lavoro forzato e l’inizio di una lunga guerra di sterminio in cui guerrieri emblematici come Guaicaipuro, Tiuna, Paramaconi, Terepaima, Quirawera, Taricura y Yaguaria, fra altre migliaia di uomini e donne anonimi, offrirono vita, onori e beni in difesa di quello che era la loro legittima eredità. Quelli che sopravvissero, dopo un lungo esodo, si ritirarono nella Venezuela profonda. Lontano dal progetto di civilizzazione della modernità, riprodussero gli antichi saperi cosmogonici, la ricchezza delle loro lingue, la seducente estetica delle loro arti e mestieri in una sorta di ribellione nascosta e silenziosa.

Tessendo con fibre dure

I

n mezzo alle fronde e al fogliame che già di per sé sono un enorme tessuto fatto di giunchi, cortecce e liane estraneo all’ordine del mondo, uomini e donne di origine india tessono ceste, attività che considerano esclusiva del loro sesso e della loro cultura. In una sorta di concentrazione meditativa vediamo uscire dalle loro abili mani wapa, mapire, manar, e sebucán, che come immensi boa si stringono intorno alla polpa della manioca amara, fino a far fluire dalla sua pelle vegetale il liquido velenoso che custodisce nelle sue viscere questo sacro alimento, rendendolo così commestibile. I cesti


di produzione indigena, dalla grande ricchezza visiva, si usano in varie fasi del trattamento della manioca amara: caricare, spremere, colare, setacciare, conservare, seccare, frantumare, mischiare, soffiare, girare e servire. Ogni popolo sviluppa una simbologia propria, i segni riprodotti si relazionano con personaggi della sua estesa mitologia. Per gli yekuana Wanadi, il creatore, assume la forma plumaria del dorso del picchio dal becco avorio. Le scimmie o Warishidi rappresentano i primi esseri che abbiano intessuto wapa. I segni di Woroto sakedi, la maschera della morte, hanno origine nella divinità negativa Odosha, maestro del tessuto. Il simbolo conosciuto come Mao fedi è il volto del giaguaro, forma che adottano gli sciamani per vendicarsi dei loro nemici. Kwekwe, la donna rospo identificata come Wanadi iñamo jidi, “colei che fu sposa di Wanadi”, rappresenta l’analogia fra il fuoco e il veleno.

Lavorando l’argilla

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a tempi molto antichi l’arte vasaia è stata legata al focolare e alle donne, che nei villaggi indigeni trasportano, modellano e ammassano l’argilla per dare uso, valore e senso a questo materiale naturale in cui si combinano gli elementi primordiali della vita: la terra, l’acqua e il fuoco. Gli elementi “parlano” alle vasaie quando materializzano la loro inventiva in oggetti, combinando l’esperienza estetica e l’esperienza del sacro. Nei deserti roventi della Guajira, dove tuttora si conserva la tradizione vasaia, le donne wayuu utilizzano le tecniche antiche del colombino, del modellato, e della cottura su fuochi all’aperto. Lo spirito dell’argilla appare loro in sogno e detta loro le forme di manipolazione e il processo stesso di manifattura, su cui incombono costanti pericoli: lavorare l’argilla rende necessario osservare una serie di divieti per evitare vasellame di cattiva qualità, difficile da modellare, che si rompe facilmen-

te o che non resiste all’uso al quale è destinato. Tali recipienti sono, fra gli altri: la chirigua, una casseruola per immagazzinare e trasportare acqua; la wushu, pentola dai diversi usi e di varie misure; la pachiishi, una brocca funeraria; la jula’a, giara impiegata per conservare acqua, chicha o qualsiasi altro liquido e il posu, piatto diviso in sezioni usato per servire alimenti.

Sotto il segno di Waleke

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i impara a tessere fra i canti notturni che intonano gli anziani, la cui filosofia è un potere che vive e cresce in ogni essere con il tempo e l’esperienza, dal momento che tessere non è un’attività profana; è tornare al tempo delle origini, legando i fili del mondo alla loro visione del cosmo, alla loro mitologia e al loro sistema di credenze. In questo modo i popoli yanomami, warao, yekuana, e’ñepa o wojtüja, fra gli altri, con gli strumenti più semplici, che potrebbero essere un coltello, un ago, un bastoncino affilato e due paletti di legno piantati nel terreno, intessono amache e perizomi, fasce e lacci di cotone, che utilizzano per adornarsi il corpo in riti di passaggio e altre cerimonie festive. Filano il cotone con fusi rudimentali, fabbricati con un bastoncino di palma che gira su un volano fatto con una sezione di frutto del taparo (una specie di zucca N.d.T.). Per le donne wayuu, le quali affermano che essere donna è saper tessere, il loro potere creatore proviene da “Wale’keru”, il ragno, tessitore primordiale, che insegnò alle donne i mestieri del telaio, con cui confezionare amache, oltre che belle fasce, borse, e il “sheii”, ricca coperta funeraria i cui segni esprimono la complessità delle loro idee e pratiche relativamente alla vita e alla morte.

ufficio gli conferisce il potere di intervenire sugli elementi che controllano tutti i processi di riproduzione della vita naturale e culturale. Egli seleziona i materiali tangibili e intangibili come se fossero attrezzi di lavoro; le piante medicinali, la maraca, il banco cerimoniale, il bastone a sonagli, le collane fatte con i denti degli animali protettori, le figure di argilla a sonagli, i bracieri in cui bruciare incenso o burro di cacao, i copricapo di piume, gli ornamenti, i talismani, i pigmenti della pittura corporea, le “pietre di fulmine” per eseguire le guarigioni, le spine che estraggono la malattia o i cristalli di quarzo invisibili, lanciati con mano sicura, che producono mali e tutta la vasta costellazione di invocazioni, incantamenti, formule magiche, scongiuri, canti, gesti e danze, in cui risiede l’essenza del potere. Nei villaggi indigeni i saggi avi ricreano l’epopea dei creatori dell’universo; Mareoka, Maleiwa, Wanadi, mentre Kuma, che ha partorito il sole, ritorna su se stessa ogni giorno sul dorso delle colline primordiali; può essere l’Autana, il Yapacana o il Kushuma-Kari, è compito degli sciamani scrutare l’occhio della vastità circolare per trovare altri mondi e avventurarsi in volo estatico attraverso lo spazio infinito per osservare dall’alto e vedere da lì la perfezione di cui abbiamo accenni nelle prime pitture e incisioni rupestri di cui si abbia memoria in Venezuela, i quali testimoniano l’impronta del grande Amalivaca, eroe culturale dei tamanaco, che dipinse sulle rocce le figure della luna e del sole, affinché né l’uragano né le piogge potessero cancellare i segni che il Creatore ci lasciava per segnalare il suo passaggio per queste terre nell’età delle acque. Traduzione di Pier Paolo Palermo

Gli oggetti del potere

L

o sciamano, intermediario fra il mondo naturale e quello degli esseri umani, convoca un orizzonte sacro. La grandezza del suo

*Antropologa e archeologa, museologa e documentarista per Catia TVe

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Maria Lionza: la principessa dagli occhi acquamarina di Marnoglia Hernández Groeneveledt

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anti anni fa tra i monti dello stato Yaracuy, in Venezuela, visse una donna originaria dell’etnia Caquetíes, dagli splendidi occhi verdazzurri, ampi fianchi, sorriso dolce, fluente melena liscia e lunga fino in vita, profumata di orchidea, il cui nome era Yara. Era una donna magica che dominava l’acqua e la natura. Secondo alcuni ricercatori, si trattò di una principessa indigena dagli occhi chiari, segno di cattivo presagio per la comunità, specialmente se le fosse capitato di vedere la propria immagine riflessa. Suo padre, il cacicco , non ebbe il coraggio di ucciderla, e la nascose perché la bambina non potesse guardarsi. Gli anni passarono, e la bambina già divenuta donna scappò dalla reclusione alla quale era obbligata; uscendo trovò una laguna, dove non poté fare a meno di avvicinarsi all’acqua e contemplare la propria immagine riflessa. Nelle acque profonde c’era un Anaconda, Signore delle acque, che vedendola se ne innamorò, decise di rapirla afferrando la giovane alla vita e affondandola negli abissi della laguna. Proprio in quel momento un’onza, testimone del rapimento, salvò la ragazza, proteggendola e battezzandola dea e padrona della montagna e della natura. Un’altra versione racconta di come il serpente ingoiò la giovane, provocando l’ira degli dèi, che punirono il rettile facendo in modo che si gonfiasse fino a scoppiare, causando una grande inondazione che trascinò via intere comunità, dando origine a numerosi laghi, pozze e fiumi. Successivamente

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la principessa indigena diventò padrona delle acque e protettrice di flora e fauna; il suo nome indigeno è andato a perdersi con il consolidamento del cristianesimo ed è risorta con il nome di Maria in riferimento alla vergine cristiana.

Leggenda indigena arricchita dalla cultura africana ed europea

I

l mito di Maria Lionza è un esempio di sincretismo religioso venezuelano in cui la fede cattolica si fonde con la tradizione indigena ed è in seguito arricchito dal misticismo africano. Dall’arrivo dei coloni in America, la religione cattolica ha censurato le credenze dei popoli originari e degli schiavi. Tuttavia, esse non si estinsero, bensì trovarono nella religione cattolica il modo di camuffarsi e perpetuarsi. A differenza di quanto accadeva in altri Paesi dell’America Latina, in Venezuela gli schiavi africani poterono trasmettere la loro religione attraverso il cattolicesimo, così come le comunità indigene poterono tramandare le loro tradizioni grazie alla sopravvivenza dei loro popoli. Se è vero che il culto marialionziano ha radici indigene, è altrettanto vero che esso ha trovato analogie con le credenze e le pratiche magiche africane: non solo nella yoruba (santimonia) ma anche nel vudù e nel kongo (i seguaci di quest’ultimo culto sono detti anche paleros).

Nella religione yoruba ci sono gli orishas, spiriti guida ai quali Dio ha consegnato l’ashé – il potere di far sì che le cose si compiano. Tra gli orishas troviamo Yemayá, la cui storia la rende simile alla già descritta Maria Lionza. Yemayá è descritta come dea delle acque, dai cui seni sono nate le due fonti di fiumi che percorsero la terra fino a formare una grande laguna. I fedeli della religione Yoruba sono soliti invocare gli orishas per pregare e chiedere grazie: per ricevere denaro, annientare nemici, guarire, far ammalare, dare felicità, unire due persone, e persino provocare la morte. Quanto più grande è la grazia, maggiori saranno il sacrificio e il costo. Invece il vudù è un miscuglio creolo di magia e religione, arrivato ad Haiti da Dahomey (l’attuale Benin), nel quale si venerano gli dèi (loa) e si praticano trance spiritistiche. Religione poco accettata in Venezuela, e in particolare nell’ambito del culto marialionziano, essa presenta invece numerose analogie con la religione yoruba, ad esempio per il modo in cui sono concepiti i loa e gli orishas. Diversa è la religione kongo (meglio conosciuta come paleros): in questo credo è sancita l’esistenza di un solo dio i cui poteri vengono trasmessi agli spiriti; si invocano i poteri dei morti, si usano erbe, radici, ossa di animali e di esseri umani, viscere, fango, e si praticano la divinazione e la preparazione di sacchetti (amuleti contro sortilegi realizzati con gli ingredienti menzionati). Normalmente i rituali kongo vengono rifiutati


dai fedeli di Maria Lionza; tuttavia essi sono sempre più frequenti sul monte Sorte, così come i relativi disegni, figure geometriche fatte col gesso, e lo stato di trance o possessione che li caratterizzano.

potrebbe trattarsi di un alter ego del patriota indipendentista venezuelano Pedro Camejo; il Cacicco Guaicaipuro invece fu un leader della lotta alla colonizzazione spagnola di cui vi sono prove effettive.

L’altare

Esistono approssimativamente 21 corti o legioni degli spiriti sotto la guida di Maria Lionza: la corte indigena, composta da cacicchi venezuelani; la corte africana, capeggiata da Felipe il Nero; la corte liberatrice, coi patrioti indipendentisti venezuelani; e ancora,

L’

altare marialionziano è un altare sincretico. Sulla stessa tavola sacra convivono candele colorate, immagini del Sacro Cuo-

re di Gesù, la Vergine di Coromoto, la Vergine della Mercede, il venerabile José Gregorio Hernández, numerose immaginette di Maria Francia, Sant’Onofrio, San Michele Arcangelo, Francisca Duarte, Sant’Antonio, la Santa Morte, Simón Bolívar e nella parte più alta il trio potente (le tre potenze): Maria Lionza, il Cacicco Guaicaipuro e Felipe il Nero, questi ultimi “segretari della Regina”. Su Felipe il Nero i riferimenti storici sono ambigui, ma

la corte dei Giovanni, la corte di anime, la corte medica, tra le altre. Allo stesso tempo, i marialionziani fanno uso di preghiere e riti cristiani, e devono essere battezzati; venerano Gesù Cristo, lo Spirito Santo, Dio Padre, la Vergine, gli arcangeli, benché questi non vengano mai invocati, essendo forze altissime. Il culto non segue una dottrina speci-

fica: in generale i suoi seguaci credono in un Dio Onnipotente; in Gesù Cristo come figlio del Padre; nei santi e negli spiriti come intermediari tra Dio e gli uomini; santi e spiriti ricevono da Dio anche il potere per aiutare gli uomini; in Maria Lionza, che è considerata uno spirito delle alte sfere. I fedeli del culto si conoscono tra loro come fratelli, mentre gli addetti a contattare gli spiriti per chiedere grazie sono i cosiddetti media.

Sorte: il pellegrinaggio

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ome accade per ogni credo religioso, anche i marialionziani, siano essi santeros o paleros, hanno un luogo sacro di pellegrinaggio chiamato Sorte, tra i monti dello stato Yaracuy, proprio dove visse l’amerindia Yara. Il monte Sorte abbraccia 12.000 ettari, è una riserva naturale di fauna e flora, con

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numerosissimi pozzi d’acqua e altari di pietra utilizzati per i rituali di bagno e spoliazione, e dichiarato parco nazionale nel 1960. Per partecipare è importante portare con sé i materiali e tutto il necessario per trascorrere la notte in loco: amache, lenzuola, fiori, candele, incensi, tabacco, essenze, frutta, sapone, asciugamani, tamburi, bevande alcoliche (come il cocuy ) e teli colorati in rappresentanza di una corte. Chiaramente, bisogna anche dire che un pellegrinaggio di tale portata e tipologia provoca un notevole deterioramento ambientale nella zona interessata. La principale mobilitazione cui si può assistere sul monte viene organizzata il 12 ottobre di ogni anno, lo stesso giorno della Resistenza Indigena.

Maria Lionza oggi

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partire dalla decade degli anni ’30, quando la già significativa diffusione del culto di Maria Lionza si è incrementa-

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ta, cominciano a fare la loro comparsa le prime tele dedicate alla Regina. Si dice che l’immagine oggi più conosciuta appartenne in realtà a un ritratto ritoccato di Eugenia Maria de Montijo, moglie di Napoleone: il quadro si trovava nell’ufficio di un funzionario di governo yaracuyano, cultore di Maria Lionza; trafugato perché si pensava rappresentasse l’immagine della principessa indigena, successivamente il ritratto fu modificato e adattato alla credenza popolare, con l’aggiunta di una collana, una corona e più colore. Tuttavia la produzione artistica di maggiore rilievo dedicata a Maria Lionza si ebbe agli inizi degli anni ’50, con l’installazione negli spazi della Universidad Central de Venezuela di un’imponente scultura realizzata dall’artista plastico Alejandro Colina: la statua, in pietra artificiale, misura 7 metri e rappresenta una donna a cavallo di un tapiro nell’atto di elevare al cielo un osso pelvico femminile, come simbolo di fertilità. Attualmente la statua originale è stata rimossa per restauri e sostituita con una copia in

attesa di definire poi una nuova e migliore ubicazione per l’originale. La devozione a Maria Lionza è aumentata negli ultimi anni: pare che per il 30%, approssimativamente, la popolazione venezuelana sia seguace di questo culto: una prova di come il Paese abbia saputo coniugare il meglio di ogni popolo per farne la propria storia. Il culto marialionziano è garantito dalla stessa Costituzione venezuelana all’articolo 59 che sancisce la libertà di culto. Attualmente è anche in preparazione il progetto di un gruppo di ricercatori da presentare all’Unesco per richiedere la dichiarazione della leggenda di Maria Lionza patrimonio culturale e immateriale dell’Umanità. Intanto al monte Sorte continuano ad arrivare migliaia di credenti e curiosi in cerca della Regina madre che doni la pace e la tranquillità riflesse nei suoi stupendi occhi d’acqua.

Traduzione di Emilia Saggiomo


Dal genocidio allo sfruttamento degli schiavi

Dominio politico e resistenza indigena nel Venezuela del colonialismo di Francisco Tiapa* La barbarie del colonialismo

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uando gli europei giunsero sulle coste dell’attuale Venezuela, questo territorio era popolato da una grande varietà etnica e culturale impensabile al giorno d’oggi. Sulla costa occidentale c’erano le popolazioni di lingua Arawak; fino alle Ande, la grande varietà di gruppi etnici di lingua Chibcha; nell’Orinoco e Guyana, era noto il predominio dei Caraibi e di altri gruppi etnici più antichi, come i Warao e i Pumé; in Amazzonia, le popolazioni caraibiche e gli Arawak condividevano i territori con i Sáliva e gli Yanomami. Ogni nome rappresentava una famiglia linguistica, questa a sua volta includeva molteplicità etniche. Così, per esempio, al gruppo Caraibico appartenevano i Cumanagoto, i Chaima, gli Yekwana o i Kari’ña e la stessa cosa accadeva nella famiglia dei Chibcha o degli Arawak. La conquista da parte del nostro territorio del continente chiamato America fu una delle più estemporanee. Nell’ultimo decennio del XV secolo, difatti, sulla costa orientale del continente erano già presenti europei in cerca di oro, perle e schiavi. Già dal 1505, nell’isola di Cubagua si stabilirono i primi gruppi europei, collocati sull’isola alla ricerca di perle, perle che potevano ottenersi unicamente attraverso le abilità degli indigeni Guaiquerí che riuscivano ad

immergersi sotto l’acqua per tempi prolungati. Questi indios (indigeni) sono stati i primi a testimoniare la barbarie del colonialismo. Pertanto, sulla base del panorama violento configurato nelle prime decadi del secolo XVI, nel decorso delle seguenti cominciarono le spedizioni di conquista e di esplorazione, alla ricerca del mitico El Dorado. A ovest del paese, le prime conquiste sulle popolazioni arawaks furono riportate dai Welser, banchieri tedeschi la cui presenza nella regione di Coro fu notevolmente devastante. Per la conquista delle Ande, la spinta partì dalla regione di Nuova Granada. A est e a Guyana, l’ossessione dei “conquistadores” fu quella di esplorare il fiume Orinoco, con l’intento di trovare quelle terre ricoperte d’oro tanto elogiate nei racconti.

La cosiddetta “guerra giusta”

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ltre alla conquista territoriale e all’estrazione di minerali, l’interesse dei conquistatori era diretto allo sfruttamento della manodopera degli “indios” attraverso la schiavitù. Lo sfruttamento degli schiavi era giustificato dalla cosiddetta “guerra giusta” secondo la quale tutti coloro che non si fossero sottomessi ai conquistatori avrebbero dovuto subire le conseguenze di una guerra punitiva ossia tutti i sopravvissuti sarebbero stati condannati ai la-

vori forzati nelle miniere e nelle piantagioni fino alla loro morte. La cattura di schiavi era realizzata anche attraverso la promozione, da parte degli spagnoli, di guerre etniche, in cui i prigionieri finivano per essere scambiati con armi o artefatti di ferro che gli indigeni non possedevano. In molti casi, gli europei finivano per violare gli accordi di alleanze e attaccare indiscriminatamente i propri collaboratori. Le reazioni e conseguenze delle popolazioni indigene furono molteplici, in quanto gli invasori decisero di promuovere le rivalità tra popoli diversi, in modo da separare la “resistenza” e quindi abolire la politica. Le alleanze tra i popoli indigeni fecero in modo che la resistenza diventasse più attiva nei confronti delle aggressioni del colonialismo. Ad est e nella zona dell’ Orinoco, le reti di alleanze per il commercio interetnico guidate dalle popolazioni dei Caraibi, si trasformarono in grandi regimi di guerra e misero in evidenza le grandi capacità degli spagnoli che riuscirono a spostarsi in regioni tanto distanti come l’Amazzonia e le Antille Minori. Nell’ organizzazione interna, l’autorità dei leader è venuto a bordo della comunità, ma in tempi di grandi guerre, grandi gruppi di comunità sono stati unificati in reti di resistenza. Nelle organizzazioni interne, l’autorità dei leader aveva un limite, difatti, in periodi di guerre di grande importanza , i gruppi delle comunità si riunivano andando a formare la resistenza.

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Gli “encomenderos”

elle regioni costiere e sulle Ande l’impatto della conquista fu molto più forte e dopo quasi un secolo di successo da parte della “resistenza” , gli europei riuscirono a stabilirsi in centri abitati come Caracas, Maracaibo, Coro e Merida. Tra la fine del XVI e inizio XVII secolo si istituì il regime della Encomienda come forma di sfruttamento della manodopera indigena, affiancata dai primi progetti di imposizione dell’ordine coloniale. La Encomienda fu una forma di schiavitù giuridicamente motivata, ma non riuscì ad ottenere l’ omogeneizzazione

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culturale. Gli “encomenderos”, leader e partecipanti delle spedizioni di conquista, accoglievano una serie di comunità indigene con le loro terre, per farle lavorare nelle piantagioni e nelle miniere. In cambio, gli “encomenderos” erano obbligati ad imporre agli indigeni la cultura cristiana , in accordo con gli interessi della Corona. Tuttavia, la priorità di questi primi proprietari terrieri era concentrata sullo sfruttamento della manodopera illimitata e non nell’imposizione della cultura, ciò che permise agli indigeni la raffigurazione storica delle proprie abitudini, credenze e, pertanto, la conquista dell’ identità della “resistenza”.

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Il potere della cultura

onostante gli spagnoli avessero conquistato con la forza le poche regioni in cui riuscirono a collocarsi durante il XVI secolo, fu sempre più evidente che per arrivare a colonizzare altri popoli , era necessario che i leader delle popolazioni indigene si affidassero al potere esercitato dagli sciamani, studiosi e leader spirituali, che agivano anche come maestri di uguaglianza e, pertanto, di stimolo per le alleanze belliche. Pertanto, per il dominio politico delle popolazioni indigene, divenne fondamentale anche la cultura. Verso la


metà del XVII secolo iniziano così le prime incursioni dei missionari, accompagnati da grandi contingenti armati di milizie spagnole e creole diretti verso i territori parzialmente conquistati – come le Ande - e verso le grandi regioni che non erano state ancora sottomesse, come Llanos, la zona orientale e la Guyana. In queste comunità i missionari utilizzavano come metodo di repressione alcune trattative combinate a minacce e questi gruppi erano così costretti a trasferirsi nei luoghi scelti per organizzare delle missioni. Questi luoghi finivano per trasformarsi in campi di concentramento dove la cultura era abolita e dominava lo sfruttamento della manodopera.

Inizialmente la forza lavoro indigena fu impiegata dai missionari per coltivare le loro piantagioni, proteggere gli allevamenti, costruire edifici e, dopo una o due generazioni, gli abitanti di queste piantagioni divenivano truppe da utilizzare per le nuove conquiste. Come stabilito dalla legislazione coloniale,venti anni dopo, i missionari avrebbero dovuto realizzare i cosiddetti “Popoli di cultura”, governati dai “magistrati”, che avrebbero dovuto continuare l’opera di imposizione culturale iniziata dai missionari ma con maggiore repressione, costringendo gli indigeni a lavorare nelle fattorie e negli allevamenti che progressivamente si andavano a conquistare in seguito alle missioni. La terra che storicamente apparteneva agli indios fu così occupata dagli spagnoli che crearono i cosiddetti latifondi dove tra l’altro gli indigeni furono costretti a lavorarci.

I contributi degli Indios

Questo paese è incentrato sui contributi degli indios: i celibi ed i vedovi ,dai 18 anni compiuti fino ai 60, pagano annualmente tre pesos per ogni indio, e gli sposati ne pagano cinque. Con questi cinque pesos il Governatore percepisce quattro accampamenti, il Protettore degli indios un accampamento, ed un altro accampamento va alla Caja de Comunidad il cui Governatore, Don Ildefonso Scagliona, ha detto che lo consegnerà al Curato per acquistare le cose necessarie alla Chiesa, ed i restanti quattro pesos e i due accampamenti andranno al Re. Questi indios, per contribuire alle spese della Chiesa, faranno per molti anni un “conuco” o una semina in gruppo”.

le distese dell’Orinoco e del Guayana. Tuttavia, questo non garantiva il dominio definitivo delle popolazioni che abitavano queste regioni. I Kari’ña ad est mantenevano stretti rapporti con le popolazioni dei Caraibi a sud dell’Orinoco, come i Yekwana che ostacolavano i tentativi per colonizzare l’Amazzonia. Quella che all’inizio sembrava una guerra civile, in pochi decenni divenne un importante traguardo per la resistenza, e tutto ciò impedì la conquista di tutto il bacino del fiume Orinoco. Inizialmente, le piccole comunità collaborarono tra loro per pianificare le perdite, il commercio e attaccare le minoranze spagnole. Anche se le comunità erano piccole, in tempi di grandi battaglie, gruppi di venti o trenta persone, si servivano di 100 indigeni muniti di manacas, archi, frecce, lance, asce e fucili, e navigavano con le “curiaras” che potevano contenere fino a quaranta persone e coprire distanze come quella che va dall’ Alto Orinoco fino a Puerto Rico e il fiume Esequibo. Ugualmente accadde con gli Achagua nelle distese occidentali. Questi mantennero contatti con gli altri popoli arawaks dell’Alto Orinoco. Allo stesso modo, le regioni confinanti furono il centro di una sovrapposizione tra l’ordine politico imposto dagli invasori e quello delle grandi aree geopolitiche che non furono conquistate . In queste aree alcuni incaricati riuscirono a chiarire la continuità e l’identità di queste minoranze, ciò che permise di scrivere la storia delle popolazioni indigene che vivevano in questi mondi contraddittori. Traduzione di Simona Palumbo

Un grande traguardo per la resistenza

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lla fine del XVIII secolo, questa nuova forma di espansione territoriale e culturale aveva permesso agli spagnoli di stabilire minoranze in regioni come

*Antropologo, docente (Dipartimento di Antropologia e Sociologia, Universidad de los Andes, Venezuela)

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AMERINDIA

Gli indigeni oggi

In Venezuela nuovi diritti e nuove lotte di Geraldina Colotti*

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al piccolo accampamento sale un odore di stufato. Un gruppo di indigeni Wayuu, proveniente dallo stato Zulia, ha deciso di mettere le tende davanti al Ministerio del Poder Popular para los Pueblos Indigenas. Si avvicinano due anziani, una ragazza traduce: “Siamo qui per far rispettare la volontà di Chavez – dicono – abbiamo diritto alla terra che stiamo coltivando, ma l’assegnazione tarda oppure i terreni non vengono liberati. Riceviamo minacce, non vogliamo finire ammazzati come il cacique Sabino”. Arriva la deputata zuliana Noheli Pocaterra, coordinatrice generale del Consejo Nacional Indio de Venezuela (Conive). “Verificherò dove sono le disfunzioni – dice -. Il governo si è impegnato molto per saldare il debito secolare con le popolazioni indigene e tanti appezzamenti sono stati distribuiti alle comunità. Ma resta ancora molto da fare”. Anche Noheli, figura storica della resistenza indigena, è una Wayuu, la popolazione indigena più numerosa fra quelle censite in Venezuela (oltre 40). Circa il 67% dei venezuelani (quasi 29 milioni di persone) è mulatto o meticcio, si calcola che un 10% sia africano e il 2,7% indigeno. Indigeni e afrodiscendenti hanno fatto sentire la loro voce nell’Assemblea costituente, che ha portato

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alla Costituzione bolivariana del 1999. La Conive, che raccoglie le istanze del movimento indigeno – in lotta dagli anni ‘60 – viene fondata nel 1989. La precedente Costituzione, varata nel 1961, all’articolo 77 stabiliva che lo Stato aveva l’obbligo di “proteggere le comunità indigene” e di favorirne “l’inserimento progressivo nella vita della Nazione”. Un implicito processo di assimilazione delle culture tradizionali dei nativi rispetto ai modelli capitalistici occidentali. Nella nuova Carta Magna, approvata con referendum, lo spirito invece cambia. Per la prima volta, vengono riconosciuti i diritti delle popolazioni indigene, declinati in un intero capitolo. L’allora presidente Hugo Chávez lo aveva promesso alle comunità che lo avevano appoggiato fin dalla ribellione civico-militare del 4 febbraio 1992. Accanto allo spagnolo, viene garantita la co-ufficialità delle lingue indigene parlate nei territori di diffusione (oltre 30 idiomi autoctoni). La Ley de tierra, che intacca il latifondo, viene supportata da altre normative specifiche come quella di Demarcazione e Garanzia dell’Habitat delle Popolazioni e della Comunità Indigene. Nel 2004 prende avvio la Missione Guaicaipuro, rivolta a milioni di nativi, distribuiti in 295 comunità: prevalentemente negli stati di Amazonas (10,5%), Anzoátegui (4,7%), Apure (1,6%), Bolívar (7,5%), Delta Amacuro


(5,7%), Monagas (2,5%), Sucre (3,1%) e Zulia (61,2%). Obiettivo della Misión è quello di sviluppare una nuova organizzazione sociale, politica ed economica in sintonia con le lingue e i costumi dei nativi, e di metter mano al problema della demarcazione delle terre indigene. Le rappresentanze indigene, presenti in tutti gli organismi dello stato, accompagnano l’attività dei consigli comunali e la costruzione delle Comunas. La Legge organica dei popoli e delle comunità indigene, approvata sei anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione bolivariana, cerca di saldare, in concreto, il secolare debito storico con i nativi. Nel 2007, viene fondato un apposito ministero, da allora diretto dalla leader Wayuu Aloha Nunez, riconfermata dal presidente Nicolas Maduro nell’aprile del 2013. I problemi, però, non mancano, soprattutto quando si tratta di calcolare il recupero di territori ancestrali, sottoposti a un’occupazione plurisecolare. Territori di frontiera, teatro delle diverse migrazioni indigene che non sempre intendono l’appartenenza e la gestione delle terre nello stesso modo. Conflitti antichi che precipitano nel presente e mettono alla prova l’esperimento bolivariano. Nella notte del 3 marzo 2013 viene assassinato il leader Yupka Sabino Romero e la moglie Lucia rimane ferita. Tornavano da una riunione nella comunità Chaktapa, che si trova nella Sierra di Perija (appartenente al comune di Machiques di Perija, nello stato Zulia). Gli Yupka sono un popolo amerindio che vive in entrambi i lati della frontiera tra Colombia (circa 6.000 persone) e Venezuela (10.424 persone). Nel 2009, il governo bolivariano ha distribuito diversi titoli di proprietà agli Yupka. I nativi denunciano però che molti appezzamenti, consegnati come proprietà collettiva, continuano a essere occupati dai grandi allevatori. La comunità di Chaktapa, fondata negli anni ‘70 è molto combattiva, ha una lunga storia di resistenza e repressione. Il padre di Sabino, il cacique Ro-

mero Izarra, è stato ucciso dalla Guardia Nacional insieme ad altri indigeni nel 1995. Per gli Yupka si è trattato del massacro di Kasmera, organizzato dagli allevatori della famiglia Vargas. Gli stessi che cercheranno di sloggiare a più riprese gli indigeni. Sabino subirà minacce e attentati. Nel 2009 verrà accusato di omicidio e infine riconosciuto innocente dopo 19 mesi di carcere. “Quella di Sabino Romero è stata una morte annunciata – afferma José Pollo, deputato indigeno di etnia Kariña – dovuta anche a carenze nel sistema di protezione che il Ministerio Publico gli aveva accordato. La situazione della Sierra de Perija presenta un groviglio di problemi: sugli antichi territori Yupka dove si trovano le grandi aziende, nel corso del tempo sono arrivati lavoratori senza documenti dalla Colombia, narcotrafficanti, paramilitari, anche lavoratori di etnia wayuu. Vi sono alcune Ong che qualche volta suppliscono alle carenze dei funzionari, qualche altra finiscono per alimentare i conflitti tra caciques e fra le diverse etnie”. Nell’ottobre del 2013, cinque uomini verranno arrestati e

accusati dell’omicidio di Sabino e del ferimento della moglie. Da allora, “il governo di strada” di Nicolas Maduro ha intensificato gli sforzi nei confronti dei nativi. A Maracaibo, insieme al governatore del Zulia, Francisco Arias Cardenas, l’8 maggio la ministra Nunez ha dato le chiavi di casa a 25 famiglie Wayuu e Añú. E ha annunciato la costruzione di 30 case popolari destinate alle comunità originarie nell’ambito della Gran Misión Vivienda Venezuela. Cardenas ha sostenuto diversi incontri con gli Yupka della regione, ricevendo rimostranze ma anche appoggio all’operato del governo e ai numerosi progetti – sanitari, educativi o di viabilità - rivolti alle popolazioni native. A febbraio, nel pieno delle proteste violente organizzate dall’opposizione, Maduro ha invitato “il popolo contadino, indigeno e lavoratore a unirsi a tutti i movimenti sociali del paese per creare insieme una cultura di pace”. E i popoli indigeni hanno risposto. Il 24 marzo hanno partecipato a una sezione delle Conferenze nazionali per la pace e la vita, che si svolgono in tutto

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il paese con l’intento di raccogliere suggerimenti, critiche e proposte. Un’iniziativa che si è aggiunta a quelle realizzate con le donne, con gli studenti, con le comuni, coi movimenti dei “motorizados”, con le persone di terza età e con i giovani. Anche le comunità afrodiscendenti hanno organizzato la loro Conferenza. Principale obiettivo, quello di contrastare la strategia destabilizzante portata avanti dall’estrema destra che, a tre mesi dal suo inizio, ha provocato 42 morti. Durante la Conferencia por la paz y la vida, le organizzazioni indigene e quelle afrodiscendenti hanno commemorato i 160 anni dalla dichiarazione di abolizione della schiavitù in Venezuela. Maduro ha consegnato ai nativi altri 21 titoli di proprietà. In totale, il socialismo bolivariano ha restituito agli indigeni oltre tre milioni di ettari. “Il nostro tempo è circolare, il nostro spazio è la natura, ma stiamo imparando a vivere in questo mondo così diverso”, dice Dalia Herminia Yanez, deputata al Parlatino, appartenente al popolo Warao. E canta, riempiendo con la sua voce melodiosa le stanze del Ministero de Planificacion. “Il mio popolo vive sull’acqua nel Delta Amacuro, siamo in tutto 56.000, suddivisi in cinque stati. Le canzoni racchiudono la nostra identità”, dice ancora. I Warao abitano il delta del fiume Orinoco da tempo immemorabile. Nel 1993, una superficie del delta pari a 11.250 km quadrati è stata dichiarata ufficialmente Riserva della Biosfera, con l’obbiettivo di proteggere e preservare la biodiversità e le zone umide di questa regione. Solo in quella zona, vi sono circa 13.917 Warao, in tutto il Delta Amacuro i Warao sono 36.000. Negli anni

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‘70, Dalia Herminia è stata fra le fondatrici del Consiglio nazionale del Venezuela, una delle prime organizzazioni del Delta, che poi ha appoggiato il proceso bolivariano. “In quegli anni – racconta - c’erano molti abusi sugli indigeni, anche i soldati ci davano la caccia, potevamo essere uccisi come bestie. Quand’era comandante, Hugo Chávez ci ha aiutato, è stato nostro alleato e da allora è diventato un fratello. Nel ‘92 abbiamo appoggiato la ribellione civico-militare. Quando è andato in carcere io ho raccolto 2.000 firme perché fosse liberato. Con noi ha mantenuto le promesse e oggi siamo ancora qui, a sostenere Nicolas Maduro e il socialismo bolivariano”. Herminia ha anche fondato la Rete ambientale di donne: “Nell’88 – spiega – c’è stata un’apertura petrolifera nella zona e gli uomini che arrivavano abusavano delle ragazze, le ubriacavano col rum, c’erano molti abusi e razzismo. Così ci siamo organizzate e nell’89 abbiamo fondato la Rete, che è stata legalizzata nel 2004. Oggi abbiamo diversi uffici e più mezzi per farci valere”. Per le sue battaglie ambientaliste e in difesa dei diritti dei popoli indigeni, la deputata ha ricevuto premi e riconoscimenti. Ma quello più importante – dice – è di aver imparato a leggere e scrivere grazie alla rivoluzione bolivariana: “Un uomo senza coscienza – afferma – è un morto che cammina. Un popolo senza coscienza, è un cimitero ambulante”. *Scrittrice e giornalista “Le Monde Diplomatique” / “Il Manifesto”


VENEZUELA: DONNE INDIGENE E POTERE POLITICO NOELÍ POCATERRA Nata nel 1936 nella Guajira venezuelana, è un’indigena Wayuu Uliana, e ha imparato il castigliano all’età di 9 anni. Attivista per i diritti dei popoli indigeni dal 1952, ex deputata all’Assemblea Nazionale in Venezuela, ha ricevuto un Dottorato Honoris Causa dall’Universidad Rafael María Baralt e una menzione al Premio Nobel per la Pace nel 2005. Oratrice ordinaria all’ONU in rappresentanza dei Popoli Indigeni del Mondo nel 1993, ha sostenuto e fatto riconoscere i diritti dei Popoli e Comunità Indigene nel capitolo VIII della Costituzione Bolivariana e in altri articoli, obiettivo raggiunto per la prima volta nella storia del Venezuela dal 1811. Inoltre Noelí Pocaterra è stata Presidente della Comisión Permanente de Pueblos Indígenas all’Assemblea Nazionale, e Seconda Vice Presidente nel Direttivo dell’Assemblea Nazionale per 3 anni di seguito.

ALOHA NÚÑEZ Leader indigena del gruppo Wouliyü, discendente del popolo Wayúu, uno dei più numerosi di Venezuela e Colombia, è nata il 25 giugno 1983 a Maracaibo, nello stato Zulia. Proveniente da una famiglia umile, legata al lavoro della terra e alla pastorizia come tramandata dai nonni, è attualmente ministro del Poder Popular para los Pueblos Indígenas de Venezuela, ruolo conferitole nel 2012 dal presidente Hugo Chávez.

DALIA HERMINIA YÁNEZ Classe

1960,

indigena

del

gruppo

Warao

(“gente delle canoe”), è deputata al Parlatino (il Parlamento Latinoamericano), coordinatrice per il Venezuela della Comisión de Pueblos Indígenas y Etnias dell’istituzione parlamentare, molto attenta alle problematiche legate alle donne, alla salute e alle lingue degli indigeni.

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La presenza dell’europa


LA PRESENZA DELL’EUROPA

Altro che incontro! di Julián Isaías Rodríguez Díaz*

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oglio iniziare questa nota facendo riferimento ai nomi di quell’America scoperta da Cristoforo Colombo. La passione e/o il fanatismo incolto spesso ci portano a credere che quell’errato approdo di Colombo debba essere il nome o il cognome del nostro continente. Consentitemi di citare alcuni di quei nomi con cui ci vogliono identificare. Ibero America: Non pensate che questa definizione abbia un che di espropriazione coloniale? Un tale patronimico denota un razzismo diabolicamente feroce! “Ispano America” è un altro di quei nomi. Questo è più aggressivo di quello precedente. Ci sottomette a un passato assolutamente ispanico. Una terza e più sofisticata alternativa: “America Latina”. Non vi sembra che questa locuzione abbia il proposito assurdo di volerci dare un lontano cognome eurocentrico? Non pensate che uno qualsiasi di questi nomi, con o senza cognome, omettono una parte significativa del

nostro popolo aborigeno, soprattutto quelli che contribuirono veramente a quell’incrocio di razze molto diverso da quello esistente nell’Europa attuale o in quella di un tempo? Non escludono quei nomi dal nostro profilo le cerimonie, le credenze, la musica e i riti africani con cui i nostri antenati neri invasero il cristianesimo spagnolo e portoghese del nostro continente? Non ci strappano questi nomi a noi estranei la nostra identità? Molto o poco di Chiluba, Nkrumah, Kenyatta, Nyerere e persino Mandela? Non ci siamo schiodati e allontanati un poco da tale significativa identità con l’Africa e con noi , con il nostro sangue, con i nostri capelli e il nostro corpo? L’indipendenza degli aborigeni d’America è ancora incompleta. Non è stata ancora sigillata. Su tale indipendenza è stato scritto molto. Sotto vari approcci e interpretazioni sono stati attribuiti nomi e cognomi che non le appartengono. La vera storia di quella indipendenza è stata distorta da chi ci

ha colonizzato e, oggi, vorrebbe continuare a colonizzarci. Va detto che la visione dei nostri popoli indigeni non si identifica affatto con le letture della storia ufficiale dei due imperi iberici che ci hanno occupato per 200 anni e gli altri imperi che si sono attribuiti con la forza la proprietà privata dei nostri boschi, la nostra acqua, la nostra terra, i nostri minerali e idrocarburi. Va notato che a questa vecchia storia, raccontata e scritta da colonizzatori, mancano i nuovi capitoli che ora stanno scrivendo i processi sociali di liberazione nel nostro continente. Manca a questa storia la lezione democratica che attualmente stanno dando Cuba, Venezuela, Ecuador, Bolivia e Brasile, con un civismo e patriottismo unici nella storia. Manca l’insegnamento che l’America, da La Alba, Celac e Unasur stanno portando avanti con coraggio e solidarietà per difendere una società referente e alternativa al capitalismo. La prima manifestazione di indipendenza in America non è stata quella di Madariaga in Venezuela o il Grito de Dolores in Messico poco più di 200 anni fa. La prima manifestazione di indipendenza della nostra America è stata la conseguente, immutabile e tenace resistenza indigena. Fu questa resistenza all’idea di “progresso” che la Spagna e il Portogallo si sono decisi a imporre dall’Europa durante e dopo la conquista. La “idea di progresso” invocata dagli europei distrusse non solo milioni di esseri umani all’epoca, ma la terra e l’acqua; il clima e le foreste; le montagne, i fiumi e i venti, la civiltà dei nonni dei nostri nonni, compreso i loro dèi e peggio ancora la loro parola. Le barbarie contro i nostri aborigeni e la loro cultura portò a uno dei più grandi

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che il più atroce e spietato saccheggio di tutti i tempi dell’umanità. Quella civiltà sfatta, demolita, devastata, ha scoperto che “l’uomo è il tempo”, e dato che il tempo è sacro non dovrebbe essere oggetto di scambi e, di conseguenza, neppure in vendita, o compravendita.

olocausti dell’era moderna. Non capisco perché alcuni definiscono il primo contatto che l’Europa ebbe con quell’universo a lei sconosciuto con l’espressione irresponsabile di “un incontro tra due culture”. Altro che incontro! Può chiamarsi “incontro” quell’atroce invasione coloniale? La perversione di portarsi via il nostro oro e le nostre ricchezze per costruire a scapito del nostro continente una forza per poter sottomettere il mondo? Per gran parte degli storici veri questo cosiddetto “incontro” non è altro che il più grande genocidio della storia d’Europa. Eppure ne ha commessi di genocidi!

Nella storia ufficiale degli imperi, tuttavia, quella nobile resistenza indigena è stata rimossa, distrutta e rimossa quasi completamente. La conquista e la colonizzazione sono stati per gli storici europei “atti pacifici” dove “venivano rispettati i diritti umani” e dove ancora si insiste per farceli “accettare volontariamente” . Ancora pretendono di inculcare che la mancanza di rispetto è stata accettata senza domande e senza discussione, fino ad approvare serenamente e con devozione i suoi crimini. È essenziale avere una conoscenza accurata di ciò che è stato definito “resistenza indigena” in quanto è lei che ci consente oggi di spiegare il comportamento dei nostri popoli. E’ indiscutibile la sua utilità per poter comprendere con coscienza e saggezza i progressi sociali che si sviluppano a Cuba ,in Ve-

nezuela, Bolivia, Ecuador , Nicaragua, Uruguay , Brasile e Argentina, per fare riferimento solo a pochi paesi. I nostri processi di rilascio non sono altro che la continuazione della “ resistenza indigena “ con altri mezzi e in altri momenti . Un profeta Maya che parlava per gli dèi così lei le disse : “si scioglieranno le mani, i piedi e la faccia del mondo ma quando si scatenerà la bocca tutti dovranno ascoltarla” Le rivoluzioni nostra - americane di oggi hanno lo scopo di riscattare questa parte della storia. In questo senso, l’idea è di andare oltre la “indipendenza politica “ è stato realizzato contro la Spagna e il Portogallo durante il XVII e XIX . Simon Bolivar con una frase che mi ha colpito durante gli ultimi anni della sua vita, disse all’epoca: “L’indipendenza è l’unico bene che abbiamo guadagnato a scapito di tutti gli altri”. Traduzione di Maria Elena Riccio

*Ambasciatore della Repubblica Bolivariana del Venezuela in Italia

La distruzione di antiche civiltà che avevano scoperto lo “zero” miglia di anni prima dei matematici europei. Che avevano conosciuto l’età delle stelle 1.500 anni prima degli astronomi del vecchio continente! Che avevano contato i giorni e costruito un calendario più preciso di quello gregoriano! Che conoscevano “il buon senso” e lo utilizzavano come un “senso di comunità”, senza fini di lucro, o smancerie di possesso! Tutto ciò, amici miei, non è stato altro

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LA PRESENZA DELL’EUROPA

L’uso dello scialle di Patricia Protzel*

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Nel novembre 1810 quando il Consiglio Supremo permise alla moglie di un mulatto della città di Calabozo di indossare lo scialle in chiesa, sostenendo di “preservare l’igiene e la pulizia dei propri vestiti”, per gli aristocratici bianchi fu un grande scalpore, in quanto si sentirono costretti a rinunciare alle tradizioni incardinate da 300 anni di vita coloniale, a favore dei mulatti rispettabili e a soddisfare anche solo simbolicamente i sogni e le speranze di uguaglianza delle masse escluse. Indossare lo scialle in chiesa era stato un privilegio tradizionalmente riservato alle donne dell’aristocrazia bianca e tutto ciò aveva provocato reazioni di rabbia nelle “mulatte rispettabili’’ (che si credevano in diritto di utilizzarle) e nei loro mariti, i quali in ultima istanza pure consideravano le loro mogli come parte simbolica del loro prestigio e potere. L’identità sociale esposta e riprodotta da queste donne ricche aveva provocato innumerevoli ritorsioni nel comportamento cerimoniale e sociale: nelle cappelle maggiori delle cattedrali, i sedili riservati alle donne degli alti funzionari del governo erano stati assegnati in base alle loro qualità, e questi posti non potevano essere occupati dalle “indiane”, “nere” o “mulatte”. Le donne nere libere o schiave non potevano indossare oro, perle o seta, a meno che non fossero sposate con uno spagnolo, e inoltre non potevano portare scialli. E così la schiava diventò anche un bene di lusso, in quanto il gruppo di schiave che accompagnava le signore aristocratiche in chiesa indicava prestigio sociale e potenza economica dei loro Signori e Signore. Questo gioco di rapporti alienanti per detenere il potere a livello micro o macro, nel terreno pubblico e privato, dentro o fuori la propria area, addirittura faceva in modo che la schiava domestica si ritenesse superiore a colei che lavorava nei campi.

Il peso della tradizione

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d eccezione di casi particolari, come fu quello di Francisco de Miranda, precursore dell’Indipendenza in relazione al diritto di voto per le donne, e quello di Simón Rodríguez, che sostenne la coeducazione, i rivoluzionari dell’Indipendenza chiesero un’uguaglianza che non includeva esplicitamente le donne. La Costituzione del 1811, in cui si affermò che la sovranità sarebbe stata rappresentata da una società di soli uomini, e tra questi, proprietari uomini, bianchi e cattolici, legittimò l’esclusione della donna in quanto cittadina, relegandola

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alla sfera privata: questa situazione continuerà fino al ventesimo secolo inoltrato. Finanche il settore più prospero e sano dei mulatti venezuelani non approfittò delle congiunture rivoluzionarie per propiziare una dichiarazione universale favorevole agli schiavi africani o ai loro discendenti liberi o meticci, né tanto meno alle donne, ma servì giuridicamente e politicamente solo per uniformare i “bianchi creoli’’ alla nuova cittadinanza basata sul censimento. Sappiamo che l’ordine sociale è stato determinato principalmente da gerarchie elette con criterio di “razza”, stabilito in base alle qualità, imposto dagli europei come sistema di dominazione. Per i mulatti rispettabili non si trattava di cambiare le credenze razziste, sessiste, classiste, sostenute dagli ingiusti, ma piuttosto si cercava di sopprimere i divieti che impedivano la loro ascesa sociale (sposare i bianchi, studiare all’università, ricoprire cariche pubbliche, esercitare il sacerdozio) o regole che incidevano sulla loro vita quotidiana (portare le armi, camminare con i bianchi che avrebbero potuto accoglierli nelle loro case, le cui mogli, tra l’altro, avrebbero indossato lo scialle).

MIRANDA SOSTIENE IL SUFFRAGIO FEMMINILE Alla fine del XVIII secolo Francisco de Miranda già prospettava il diritto di voto per le donne. In un colloquio con il sindaco di Parigi, M. Petion, disse: “Perché in un governo democratico la metà degli individui non è direttamente o indirettamente rappresentata, dal momento che essa - costituita dalle donne - è ugualmente soggetta alla severità delle leggi che gli uomini hanno fatto secondo la propria volontà? Perché, almeno, non interpellare le donne in merito alle leggi che le riguardano più direttamente, come il matrimonio, il divorzio, l’educazione dei figli? “. (Miranda y la revolución francesa, Ediciones Culturales del Banco del Caribe, Caracas 1966, vol. ll, p. 167).


La donna anticonformista

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a cosa succedeva alle donne nel 1810? Anche se nella società schiavista era molto diverso il ruolo delle donne indiane e nere rispetto a quello delle donne bianche - le donne bianche e le mulatte benestanti stabilirono la loro superiorità e distinzione a discapito delle donne nere e indiane - in quanto donne esse hanno avuto in ogni caso un trattamento simile in termini di stereotipi esistenti come “l’essere donna” e i ruoli “femminili” imposti dalla società patriarcale. Le donne, bianche, indiane, nere o di razza mista hanno condiviso una comune condizione di subordinazione e inferiorità rispetto agli uomini, condizione supportata da un essenzialismo biologico sostenuto dalla filosofia, scienza, diritto e religione, che supponeva l’incapacità delle donne nella logica ma più vicine all’istinto in contrasto con la razionalità degli uomini. (Occorre notare qui che allo schiavo nero viene associato al primitivo, allo spazio del naturale). La donna bianca

fu identificata con il suo corpo, destinata alla riproduzione e tutrice dell’onore di famiglia, confinata nel suo spazio domestico, lontana da qualsiasi tipo di formazione giuridica, che “susciterebbe in lei solo incomprensione o tentazione”. Legalmente fu considerata come un minorenne per tutta la sua esistenza: prima soggetta alla potestà del padre, poi a quella del marito, e in sua assenza, all’autorità religiosa competente. Le donne indiane e nere furono private della libertà dei propri corpi, ma con delle aggravanti. Nel caso delle schiave nere esse erano considerate un “pezzo indiano”, una merce. Entrambe avevano un denominatore comune: lo sfruttamento della forza lavoro, in forma di schiavitù, e la schiavitù era considerata non solo come sfruttamento del lavoro ma includeva anche prestazioni sessuali ed era finalizzata alla procreazione (nel caso delle schiave nere la condizione del ventre è un esempio di questo tipo di sfruttamento). La maggior parte della donne trasgressive o mulatte libertine si dedicò principalmente alla vendita di prodot-

ti realizzati da loro e scambiati con altri, che a loro volta compravano da produttori agricoli; si occuparono di mestieri associati alla cura e all’alimentazione, come stabilito dalla società patriarcale: tra gli altri mestieri facevano le panettiere, le sarte, cuoche di panetti di mais, le lavandaie, le ricamatrici. Operavano anche nei campi riguardanti la salute: ostetriche, infermiere e badanti. Anche se il sistema giuridico ha sempre stabilito attraverso le proprie istituzioni dei comportamenti condizionati, le donne non hanno mai accettato passivamente il loro destino. Hanno cercato l’accesso e l’uso della parola e quindi il loro status di “individuo’’ in modi diversi, come evidenziato dalle innumerevoli rivendicazioni fatte alle autorità, reclamando diritti, così come le numerose e ardue attività svolte e l’impegno politico assunto coraggiosamente per tutto il periodo di autonomia. Traduzione di Simona Palumbo *Storica, docente universitaria, dottoressa in lettere

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LA PRESENZA DELL’EUROPA

Cucina mantuana, storia, tradizione e sapori di Carlos Soto*

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a cucina venezuelana vanta attualmente un meritato prestigio internazionale. Nonostante ciò essa cerca di assumere uno stile e adattarsi ai tempi che cambiano. Ogni paese al mondo ha la propria cucina e il Venezuela non fa eccezione a questa regola, infatti ci distinguiamo per il nostro gusto, odore, sapore e colore. La nostra cucina è il risultato di una fusione di razze, come quella aborigena, quella spagnola, quella africana e un po’ anche quella delle colonie francesi, italiane e soprattutto dei pirati e bucanieri che visitavano le nostre coste lasciando lì il loro carico di idee di cui usufruirono le nostre matrone per fare del Venezuela un paradiso dell’arte culinaria, tutto ciò contribuì allo sviluppo della mescolanza biologica e culturale che si riflette anche sulla tavola tradizionale. In Venezuela, dalla fine del XV secolo e l’inizio del Cinquecento si è avuto prima uno sterminio quasi massivo della popolazione indigena e successivamente un cambiamento radicale dell’economia, con un incremento del consumo della yucca, i fagioli, il taro, l’igname, le patate dolci e il platano provenienti dall’Africa, mentre il peperoncino fa la sua apparizione formale e da alla nostra cucina una propria personalità, gli spagnoli introducono il bestiame grosso e minuto, la canna da zucchero, le patate,il riso ed altri prodotti sconosciuti alla popolazione come ad esempio la farina di frumento, il vino, l’olio, predominano frutti come l’ananas, la noce di cocco, il biribà tra i tanti esistenti all’epoca e che ancora oggi vengono coltivati. Con l’introduzione di questi prodotti si da inizio ad una vera e propria trasformazione della cucina venezuelana, inizia ad apparire nella casa del signore feudale il lavoratore nero che insaporisce i piatti, mescolando il proprio gusto e coltivandone un altro. Successivamente, con l’arrivo dei conquistatori che intraprendono una caccia brutale al fine di impossessarsi delle nostre ricchezze, il cibo si trasforma di soppiatto in un’arte dato che la comparsa di altri personaggi della scena politica ed economica del paese danno alla cucina un carattere più definito e creativo, questo avviene fino a quando il nostro liberatore Simon Bolivar fece il suo famoso Decreto de Guerra a Muerte. Ciò fece si che il commercio con la Spagna fosse chiuso e venissimo invasi dai pirati e bucanieri, i quali ci lasciarono un’eredità di spezie da cui abbiamo saputo trarre profitto, questo famoso decreto ci obbligava a commerciare con le altre potenze

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ed è così che si fecero avanti i francesi, i tedeschi e gli italiani i quali cercavano altre opportunità di vita a causa delle guerre che si combattevano altrove. Così in questo contesto il Venezuela inizia la sua trasformazione culinaria, utilizza i prodotti di contrabbando per creare una cucina più cosmopolita conosciuta nel continente e così siamo andati avanti fino ad oggi, creando ed inventando una cucina oggi come oggi in qualità di chef di vecchia data penso ci sia bisogno di adattarsi allo stile attuale . Parlare della cucina venezuelana mi trasporta in un infinità di sapori che si stanno perdendo e che se non fosse per noi che ci crediamo fermamente si sarebbero perduti. Il Venezuela dal XVII secolo è stato influenzato da attori che sono apparsi per dare alla nostra cucina tocchi che insieme ai propri sono riusciti a diventar parte integrante del comune denominatore dei venezuelani e quegli stessi


attori hanno lasciato un patrimonio di sapori e gusti per l’ eccellenza che dobbiamo continuare a coltivare, se è vero che abbiamo avuto influenze straniere è anche vero che il nostro gusto non è ereditario, è creolo ed è delle nostre matrone, quelle nonne che pur non essendo nonne si comportavano come se lo fossero dato che avevano cura dei figli dei mantuanos sia nell’allevarli che nell’allattarli, è a loro che dobbiamo il nostro gusto ereditato e non al tipico straniero venuto qui per rimanerci dato che ha dovuto ambientarsi e cambiare le proprie abitudini. Traduzione di Maria Elena Riccio

* Maestro Chef venezuelano, Presidente ASOPROCUVE, Direttore Centro educativo Istituto d’Arte Culinaria “Carlos Soto”

“MANTUANO” Secondo Angelo Rosenblat […] questo [termine] è apparso durante la prima metà del XVIII secolo come espressione delle profonde differenze sociali dell’epoca, e continua così fino al XIX secolo. “Mantuana”, voce originaria di Caracas, derivata da ‘mantello’, accessorio ampiamente utilizzato dalle donne dei grandi proprietari terrieri e nobili della Colonia, servì per designare un’intera classe sociale. [...] Ed è proprio da questo singolare gruppo sociale, da cui emerge questa fase culinaria nazionale, in quanto avevano accesso ai prodotti portati dall’Europa [...] col passar del tempo e per ragioni ovvie di convivenza [...] si mischiarono con l’onoto, con la carne, con il panetto, lo zucchero di canna, dando vita così a piatti che oggi compongono una cucina tradizionale speciale [...]

**Estratto da La Cocina Mantuana

CUCINA CREOLA La cucina caraibica viene anche definita “creola” (sebbene la cucina “creola” non si trovi solo ai Caraibi): essa è il risultato della fusione delle tradizioni gastronomiche indigene con quelle europee e africane, avvenuta nel corso dei secoli dopo la colonizzazione del continente americano da parte degli europei e la successiva tratta degli schiavi africani. Una cucina che racchiude ingredienti tipicamente “poveri” quali riso, mais, fagioli, pollame e carne di maiale, frutta e verdura autoctone, accompagnati da alimenti di importazione europea (generalmente più costosi, quali farine di grano, carne di manzo, crostacei e condimenti) e da tecniche di preparazione e alimenti di provenienza africana (come la yucca o manioca). Alcuni dei piatti più conosciuti sono le arepas (panini fatti con farina di mais), le empanadas criollas (ripieni al formaggio, fagioli, carne o pesce), le hallacas (tipico piatto natalizio venezuelano) e il pabellón criollo, piatto nazionale del Venezuela, composto da riso bianco, fagioli neri, carne sfilacciata e fette di banana fritta.

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LA PRESENZA DELL’EUROPA

Il joropo venezuelano di Porfirio de J. Hernández P.*

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l Joropo, musica e danza che identifica pienamente il popolo venezuelano, è stato dichiarato il 15 marzo di quest’anno, dal Presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela Nicolás Maduro, patrimonio culturale venezuelano per omaggiare il Comandante eterno della Rivoluzione Hugo Chávez. Questa dichiarazione è stata approvata dall’Assemblea Nazionale il 1° aprile, ricevendo così supporto legale a sostegno della richiesta di inserire el Joropo nel Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità dell’UNESCO.

Origine e contesto

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l Joropo discende dal Fandango spagnolo e dalla musica melismatica araba (un gruppo di note cantate su una sillaba). L’origine della parola Joropo è controversa, abbiamo diverse ipotesi. Una di queste ipotesi è che derivi dalla parola araba xarob o xarab, che significa “sciroppo” o “idromele”, o una sorta di Fandango o Danzón, diffusi in Spagna e poi in America Latina, soprattutto in Messico, Colombia e Venezuela. Un’altra ipotesi è che si tratti di una semplice parola inventata dai contadini, che lanciano il grido di gioia: “Joropo! Joropo!” ogni volta che viene annunciata una festa. Il Joropo è un fattore determinante della nostra identità nazionale, che ha le caratteristiche e le condizioni così determinate, perché nelle nostre città e nelle comunità po-

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polari ci sono contadini, artisti, poeti, cantanti, suonatori di strumenti, cantastorie, artigiani costruttori di strumenti musicali che ne hanno reso possibile il mantenimento senza rompere i legami del passato, con le nostre tradizioni e oggettivazioni popolari in cui radici indigene, radici europee, africane e orientali si mescolano. Probabilmente il battere i piedi del Flamenco e delle danze andaluse hanno influenzato la conformazione iniziale della danza del Joropo, poi adattato alle caratteristiche specifiche dei popoli, diventando in questo modo la danza propria per la ricreazione del villaggio con il quale si celebrano festival culturali, familiari, religiosi e popolari. Il Joropo è meticcio come noi stessi; così troviamo nella melodia ritmica, l’accompagnamento di arpa e cuatro e nella metrica letteraria osserviamo la presenza europea. Nella melodia indipendente identifichiamo la presenza del nero e nel suono delle maracas ravvisiamo la traccia indigena. Il Joropo non è solo uno stile musicale, è anche ballo e danza. Rappresenta inoltre una festa popolare, una danza gioiosa che intrattiene e riunisce i partecipanti. In ogni area geografica prende la propria essenza, sviluppando diversi passi e figure della danza (valsiao, escobillao e zapatiao). Il Joropo possiede varianti musicali e di ballo a seconda delle condizioni culturali di ogni regione del paese. Tali va-


rianti sono di seguito descritte:

Joropo Llanero

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l lavoro nei campi che include l’allevamento di mucche e l’addestramento di cavalli, ha donato un tocco robusto al Joropo Llanero assieme al suo ballo. Canto solista e canto di contesa dove uno o più copleros (cantanti) si alternano in un’improvvisata sfida di versi. Esso ha origine negli Stati di Apure, Guárico, Cojedes, Barinas e Portuguesa, e si caratterizza perché suonato con arpa con corde di nylon, cuatro (entrambi di origine europea) e maracas (contributo indigeno). In alcuni casi, l’arpa è sostituita dalla bandola llanera. Attualmente, a questa strumentazione si aggiunge l’uso del basso elettronico. È la danza che identifica el llanero, attraverso il quale manifesta orgoglio, gagliardia, machismo e alcune attività del suo ambiente naturale. Si caratterizza per essere composta da una coppia, in cui l’uomo afferra la donna con entrambe le mani. Nel suo tema, il ballo pone il dominio dell’uomo sulla donna e sulla natura in generale, è lui che prende l’iniziativa, che determina le figure da realizzare. Il Joropo llanero si compone di due modalità conosciute come passaggio e colpo. Il passaggio, noto anche come passaggio apureño, è un canto narrativo che solitamente descrive il paesaggio llano, racconta aneddoti o fatti storici, così come anche viene utilizzato per il corteggiamento. La coreografia del passaggio è la stessa come per el Joropo, ma in forma rallentata, come richiede la musica.

Joropo Centrale o Tuyero

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iene interpretato a Caracas e negli stati: Vargas, Miranda, Aragua e nord Guárico, e si effettua con un’arpa di corde di metallo intervallate con corde di nylon, maracas e la voce del cantante

(el buche). Il cantante suona le maracas. In alcune occasioni si sostituisce l’arpa con la bandola a otto corde - può essere usata anche la chitarra - possiede figure di ballo più eleganti e raffinate in accordo con un’arpa melodica dai suoni metallici e intensi.

Joropo Orientale

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hiamato anche golpe oriental, si trova negli Stati di Monagas, Sucre, Bolívar Anzoategui e Nueva Esparta, gli strumenti utilizzati sono: il violino, la bandola a otto corde, il mandolino, la cuereta o fisarmonica d’accompagnamento, il cuatro, le maracas, la chitarra e il tamburo. Tra i passi di danza vi sono il valsiao, il contorreao, il frenaíto e lo zapatiao e le figure: giri semplici, terciao e passaggio di mano. Negli stati Sucre, Monagas e Delta Amacuro predomina la variante del Joropo denominata la guacharaca che è basata su due periodi armonici, il primo che inizia con la classica cadenza andalusa e termina con la rivolta di un golpe chiamato San Rafael llanero e nello stato Nueva Esparta e la Costa Oriental esiste una modalità conosciuta come golpe e ritornello. La dinamica del ballo prevede che le coppie si prendano per mano segnando con i piedi un escobillao che acquisisce forza combinando mezzi giri e giri completi.

Joropo de Guayana

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te chiamata el yunquiao, che utilizza come strumenti la bandola guayanesa, simile alla bandola orientale dalle corde metalliche, che rende questa versione del Joropo rassomigliante al Joropo tuyero interpretato con quattro maracas e bandola. Per il ballo la coppia si prende per mano e comincia a planare di qua e di là (jorconeao) ed il cuatrista tiene il tempo suonando lo strumento.

Joropo Andino o Caracoleado

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riginario dello stato di Mérida, sostituisce l’arpa e la bandola con il violino. El Jaropo andino è conosciuto anche come Caracoleado per la sua forma di danza che assomiglia a una lumaca, dato che i ballerini danzano per l’intero salone formando una spirale. Il Joropo Caracoleado inzia con la sfida che il ballerino più disinvolto della località lancia agli altri esponenti, i quali si uniscono alle proprie compagne uno dopo l’altro formando una schiera che al ritmo di musica e dello zapateo si spingono verso il centro del salone avvitandosi e contorcendosi. Traduzione di Fabrizio Verde *Docente di Agronomia (UNELLEZ, Universidad Nacional Experimental de los Llanos Occidentales “Ezequiel Zamora”), articolista ed ex deputato dell’Assemblea Nazionale in Venezuela

riginario degli stati di Bolívar e Amazonas, si caratterizza per avere diverse varianti di questa forma musicale, come il ritornello conversato, la jota, il golpe patricio, il manzanares, il San Rafael e i sei guayanesi che presenta maggiori complessità dal momento che è imparentato con il golpe tuyero e il sei llanero. El Joropo guayanés ha una varian-

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LA NOSTRA AFRICA


Origini africane del Venezuela di Casimira Monasterios Vásquez*

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operte con il mantello del meticciato l’etnostoria e la cultura venezuelana sono state ridotte a stereotipi coloniali creati dalle elite europee e creole, poi riprodotti nel periodo repubblicano dal sistema educativo e dei mass media. Il processo di mexización in Venezuela è stato precoce e accelerato, generando un popolo per lo più mulatto, non meticcio. L’amareggiamento etnico culturale (indigeno, spagnolo e africano) non ha generato una società equa e giusta, ma al contrario il sistema schiavistico coloniale si è retto su un complicato sistema di caste, razzista,

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classista e patriarcale. Una struttura piramidale al cui vertice si trovavano i bianchi della penisola e i creoli, alla base gli schiavi. Al centro, la stragrande maggioranza, i mulatti, che diventarono in poco tempo la manodopera qualificata. Uomini e donne “libere”, posizionati nella piramide sociale in base alla loro genealogia, quanta più ascendenza bianca tanti più privilegi, quanta più ascendenza nera tanti più divieti, meno diritti, ma anche più resistenza, più “cimarronaje” , più desideri liberatori. L’indipendenza dall’impero spagnolo (1821), l’abolizione della schiavitù

(1854) e la Guerra Federale (18591863), smantellarono il sistema schiavistico coloniale con la sua organizzazione in caste, con una non esclusione. L’elite creola aveva organizzato la repubblica secondo i propri interessi utilizzando il meticciato come un jolly, riducendo e rendendo invisibile ciò che era indigeno o afro. Chiarire la nostra origine africana, oltre all’opposizione delle elite di cui sopra attraverso il monopolio della conoscenza, non è stato semplice, tra l’altro, a causa della diversità etnica tra gli schiavizzati e le schiavizzate. Miguel Acosta Saignes antropologo


LA NOSTRA AFRICA vento, valles del Tuy, el valle Guarena-Guatire ), Vargas, Sucre, Aragua, Carabobo, Yaracuy, Zulia, Falcón, Guárico, Bolívar, di forte presenza africana, dato che l’eredità africana e afro-americana si esprime in tutte sfere della nostra vita, dalle varietà fenotipiche fino ai contributi sulla diversità culturale materiale, intellettuale e spirituale che ci plasma come popolo. Senza dimenticare che la mano d’opera degli schiavi veniva classificata secondo la loro vocazione produttiva di origine (pesca, agricoltura, miniere, artigianato, ecc.) fornendo, oltre alla loro forza fisica, anche il loro ampio bagaglio culturale, lo stesso che le elite hanno cercato di ridurre alla musica e la danza dei tamburi.

venezuelano, nel suo libro La Vida de los Esclavos Negros en Venezuela, tra le altre cose, ci rivela quella diversità etnica presente nei figli e nelle figlie d’Africa portati, nell’arco di oltre 300 anni, dalla migrazione forzata in Venezuela: luango, lemba, congo, loango , bambara, tari, carabali, mina, mandingo, wolof, e altri. Visto questo ampio spettro etnico strappato dall’Africa e dove, a differenza dei casi come Cuba, Brasile e Haiti, dove che sono stati portati grandi numeri dello stesso gruppo etnico, la maggior parte degli studiosi e studiose del tema africano come Juan Pablo Sojo, Marcial Ramos Guedez, Angelina Pollack - Eltz, Jesus Garcia Acosta e lo stesso Saignes, solo per citarne alcuni, hanno concordato sulla convenienza di studiare le nostre origini africane partendo da elementi culturali africani presenti nella società venezuelana, andando anche al di là di quelle aree come Miranda ( Barlo-

Quindi, sulla base di ciò che esiste in Venezuela, i lavori di Juan Liscano e soprattutto quello di Jesus Garcia ci mostrano come in mezzo ad una tale diversità i gruppi di discendenza congo-angolana, portati dall’antico Regno del Congo, appartenenti al vastissimo gruppo etno-linguistico bantù è stato il gruppo che ha lascito in maniera più evidente la sua impronta nel nostro paese, il che non vuol dire che non ci siano altre influenze, ma più circoscritte. Per ragioni di spazio ne ricordiamo solo alcuni degli esempi della componente africana nei diversi ambiti della nostra vita quotidiana. Nelle colture applicarono tecniche agricole differenziate e introdussero strumenti di lavoro, come il raffio compagno del machete nel lavoro di fondazione e mantenimento delle tenute, in particolare di cacao (Theobroma cacao), e conucos , il pilon (mortaio di legno per tritare alimenti) e con esso la creazione del canto di pilon; svilupparono una profonda conoscenza dell’ambiente in particolare l’uso della flora (coltivazione) e della fauna nazionale (pesca, la caccia e l’allevamento), le sue proprietà nutrizionali, le sue proprietà curative (etnomedicina); la lingua venezuelana sia sulla fonetica che sul lessico (bemba, bongo, mon-

dongo, guaricongo, cumbe); nella toponomastica, Ganga, Taria, Birongo, Cumbo, Cumboto, Cariaco; nelle arti culinarie in una varietà di ricette, il soffritto (spezie) e l’ uso di salse tanto care alla cucina venezuelana in tutte le regioni, l’uso della noce di cocco sia nella preparazione di piatti salati che di dolci creoli così come il consumo di prodotti africani, radici come l’igname (dioscorea), frutta come l’anguria (Citrullus lanatus), verdure come l’okra (Abelmoschus esculentus); in estetica con acconciature tipo trecce chiamate luanguitos e la ricchezza del nostro abbigliamento nelle celebrazioni tradizionali; nella musica e nella danza con una varietà di generi e ritmi eseguiti con strumenti afro-venezuelani di grande varietà organologica e ritmica, essendo le più apprezzate le oltre otto batterie di tamburi. La musica e la danza afro-venezuelana, oltre a far parte della ricchezza delle danze e musiche venezuelane, hanno lasciato dei forti segni sugli stili e atteggiamenti che sono espressi nei ritmi urbani caraibici come la salsa, il merengue, il calypso Allo stesso modo la ricreazione e lo sviluppo di una spiritualità e di un sistema di valori e credenze dove sono amalgamati elementi diversi come la fede in un solo Dio e nei santi, il culto dei defunti, che hanno portato ad una religiosità afrocatólica venezuelana; la solidarietà, il lavoro cooperativo e complementare, il “cimarronaje” come forma di lotta e profondo amore per la libertà, mostrato nelle guerre di indipendenza, della federazione e in tutte le lotte del XX secolo per la democrazia è senza dubbio la sua partecipazione al processo bolivariano nella costruzione della democrazia partecipativa, nella costruzione di una società inclusiva, equa, giustizia e pace. Traduzione di Maria Elena Riccio

*Ricercatrice del Museo Nacional de las Culturas Populares e membro della Escuela Nacional de las Culturas Populares

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LA NOSTRA AFRICA

La tratta negriera Il lungo viaggio dei boschi di ebano di Henriette Arreaza Adam* Una prima impresa transnazionale.

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partire dal XV secolo va prendendo forma nell’ampio bacino dell’Oceano Atlantico la prima espressione di quello che gli economisti del XX secolo definiranno “impresa transnazionale”. Quell’appetitoso giro d’affari che si consolidò fra i mercanti di Europa, Africa e America ricevette il nome di commercio triangolare. Questo sinistro commercio di uomini e donne sarebbe durato quattro secoli, durante i quali si trafficò con la vita di almeno quindici milioni di esseri umani, strappati alle loro radici e privati della loro libertà per trasformarli nelle fondamenta di un sistema economico di produzione che senza di loro sarebbe stato impossibile: il regime schiavista. La scoperta di nuove rotte ultramarine e, di conseguenza, di nuovi prodotti che avrebbero ingrossato i forzieri del mercantilismo europeo, diede origine a due nuovi bisogni: quello di nuovi articoli di consumo e quello di una manodopera adatta a coltivare o estrarre in forma intensiva questi prodotti, che nascevano e crescevano nell’inclemente clima tropicale delle terre americane. A soddisfare questi bisogni fu l’Africa. Da lì sarebbero provenuti gli uomini e le donne che sarebbero stati a volte comprati, altre scambiati con merci superflue, sostanzialmente chincaglieria, tessuti, polvere da sparo, armi e superalcolici. Una volta “acquistati” venivano trasportati dall’altra parte dell’Atlantico nelle stive delle navi “negriere”, come vennero chiamate tanto le imbarcazioni che trasportavano gli schiavi quanto coloro che trafficavano questa merce umana, battezzata con l’eufemismo “pezzi di ebano”. L’esotica mercanzia era poi venduta sulle coste dell’America, al più alto prezzo possibile, quasi sempre per mezzo di cambiali, o scambiata con prodotti tropicali che arrivavano in Europa per essere venduti nelle grandi capitali come ricercati articoli di lusso. Mentre nei salotti europei del XVIII secolo erano diventati di moda l’indigo per i vestiti e le giubbe, il caffè con latte addolcito dallo zucchero di canna, i cioccolatini e l’aromatico piacere di fumare tabacco, sulle coste dell’Africa si cacciavano gli schiavi che avrebbero costituito una parte fondamentale della macchina produttiva nelle piantagioni americane. Il commercio marittimo di africani diventa così la forma più sicura di arricchimento e ascesa sociale per questi nuovi signori che giustificano le loro azioni davanti a

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qualsiasi critica di natura etica con argomenti come quello di James Boswell, un commerciante inglese del XVIII secolo: “La schiavitù salva i negri dal massacro e dall’intollerabile servitù che questi hanno sofferto nel loro paese, e permette loro di godere di un’esistenza migliore”. Come tutti i grandi affari, questo non fu esente dai giochi di una feroce competizione. Per evitare conflitti fra quei negrieri, concessionari delle grandi compagnie, o gerenti delle loro stesse imprese, divisero la costa occidentale dell’Africa in settori che, a seconda delle alterne vicende del potere, corrispondevano a uno o a un altro dei paesi coinvolti. La Francia dominò la fascia territoriale che andava dalla Mauritania alla Sierra Leone. La Costa d’Oro, la regione più importante durante i primi due secoli e mezzo, fu contesa dagli inglesi, gli olandesi e i danesi. La cosiddetta Costa degli Schiavi, importante area formata da Ghana, Togo e Dahomey, andò ai portoghesi. La terza grande regione, che occupava la parte più popolata dell’Africa, fra la costa della Nigeria e il Camerun, fu sfruttata da inglesi e francesi. L’ultima grande area territoriale della seconda metà del XVIII secolo, dominata successivamente da inglesi, portoghesi e olandesi, fu la costa compresa fra Loango e Angola. Da lì proveniva la maggior parte degli schiavi che arrivavano in Venezuela. L’arrivo delle navi negriere sulle rive dell’Africa era annunciato con una salva di cannone in omaggio al capo locale. Successivamente una commissione di ufficiali veniva ricevuta dall’“incaricato del commercio con i Bianchi”. Poi lo stesso capitano scendeva, carico di regali per il re africano. Una rustica baracca costruita sulla spiaggia serviva da ufficio per il baratto di merci “minori” fra europei e africani. Era l’anticamera del commercio più importante: la tratta degli schiavi.

Dalla costa dell’Africa

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n bosco d’ebano attraversa l’Atlantico. Incatenati per il collo a un lungo palo di legno gli schiavi seguono il mercante africano o arabo, che li ha ottenuti o per mezzo di razzie organizzate al fine della cattura, o perché sono prigionieri di guerra. In periodi di carestia possono essere intere famiglie a offrirsi in cambio di cibo e vestiti.


Nudi, esposti come oggetti in vendita, passeranno la prima revisione da parte dei compratori europei, che esamineranno le loro bocche, i loro occhi; misureranno la loro statura e la lunghezza delle loro estremità; li faranno saltare, correre… Il “bosco d’ebano” deve sottomettersi a un rigoroso “controllo di qualità”. Qualsiasi difetto, un dente mancante, una lesione, un difetto agli occhi o qualcosa che indichi probabilità di un minor rendimento, si prenderà in considerazione per ottenere uno sconto dal rivenditore locale. In caso di malattie gravi o contagiose i pezzi saranno scartati. Una volta fatta la selezione salgono sulla nave. Gli uomini più forti sono incatenati a due a due per le caviglie nella parte anteriore, i bambini e le donne sono ammucchiati dietro. Il percorso lungo le coste dell’Africa dura da tre ai sei mesi, il negriero va di rada in rada reclutando schiavi. Forse questa è la tappa più pericolosa: vedendo sempre più vicino il giorno in cui lasceranno la loro terra, i prigionieri esplodono in rivolte, tentativi di suicidio o lotte fra tribù. Inoltre sulla terra ferma possono verificarsi sollevazioni di conterranei che attaccano la nave per liberare i prigionieri. Infine le imbarcazioni partivano, quasi sempre con molti più schiavi, a volte il doppio, di quello che la loro capienza permetteva. Nudi e incatenati, uomini, donne e bambini erano collocati nel fondo dell’imbarcazione, schiacciati come sardine. Due volte alla settimana li facevano salire sul ponte per una doccia collettiva e ogni quindici giorni venivano rasati per evitare la proliferazione dei pidocchi. La loro dieta consisteva in riso, mais, yam, manioca, e di tanto in tanto una porzione di frutti europei ricchi di acido ascorbico, per evitare lo scorbuto. La prevenzione degli ammutinamenti, in cui l’equipaggio poteva essere assassinato, e i prigionieri restare alla deriva nell’oceano, esigeva che ogni tanto si alleviassero le tensioni distribuendo

agli schiavi superalcolici in abbondanza e un pezzo di carne secca o di insaccato. Con il passare del tempo, le navi negriere furono adattate per renderle più “efficienti”, in modo che potessero contenere più schiavi. Le imbarcazioni più avvantaggiate in tal senso furono quelle olandesi: lunghe, alte e arieggiate, grazie ai loro lucernari e boccaporti; perfette per trasportare in sicurezza i “boschi d’ebano” sull’altra sponda dell’Atlantico.

Una volta in America

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uando si gettava l’ancora sulle coste americane era necessario osservare la quarantena, misura sanitaria obbligatoria di cui il negriero approfittava per “rinfrescare” la sua mercanzia. Durante questi giorni si curava maggiormente l’alimentazione dei pezzi d’ebano. Il “chirurgo”, personaggio chiave dell’equipaggio, curava le ferite e in alcuni casi le truccava in modo tale che il “bosco di ebano” splendesse fresco, forte, quasi traboccante di salute. Questo procedimento veniva denominato “sbiancare” i neri. I soci del negriero sulla terra ferma approfittavano del momento per annunciare l’arrivo dei nuovi schiavi. Concluso il periodo di attesa, una salva di cannone indicava la fine della quarantena e rendeva nota la prossima esposizione al pubblico della merce. Quindi cominciava la “fiera”. Di nuovo gli africani sarebbero stati sottomessi a una revisione minuziosa dei loro corpi, su una pedana che veniva collocata nel porto. Era un rituale imprescindibile per la vendita dei “pezzi d’India”. Questo nome designava la misura ideale di sette palmi di altezza. Se l’altezza di un individuo non arrivava alla misura esatta, si completava la quantità di merce con i “mulequines”, che erano i bambini di età minore di 7 anni, o i “muleques”, dai 7 ai 12, o i “mulecones”, fra i 12 e i 16 anni.

L’età, la salute, l’aspetto, la forza fisica, le fluttuazioni del mercato e l’abilità nel mercanteggiare fissavano il prezzo e il destino dei nuovi arrivati. Un breve lasso di tempo, una settimana, era stato stabilito dai padroni per nutrire e far rimettere in salute i loro nuovi schiavi dalle fatiche causate dal viaggio: durante i primi sette giorni questi non facevano altro che riposare e mangiare. Nel porto di La Guaira c’erano baracche di “ingrasso”, dove si pagava per la “ristorazione” degli schiavi arrivati da poco. La manodopera africana sostituì la manodopera indigena, ormai decimata da guerre, catastrofi e maltrattamenti. I sopravvissuti, ridotti alla condizione di servi nelle encomiendas, alla servitù domestica nelle case, o alla marginalità come ambulanti nelle nascenti aree urbane, non erano più utili al duro lavoro della piantagione. Una volta comprati, gli africani sarebbero venuti a servire, secondo le loro qualità e secondo le necessità di ciascun periodo, nello sfruttamento delle miniere o nelle fattorie in cui si coltivavano il caffè, il tabacco, l’indaco o il cacao. Non tutti e non sempre furono utilizzati nell’agricoltura. Le donne e i bam-

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LA NOSTRA AFRICA bini africani erano destinati preferibilmente al servizio domestico. I primi africani che arrivarono in Venezuela nel XVI secolo furono occupati principalmente nell’estrazione mineraria e nella pesca di perle, mentre nel XVII secolo molti fecero parte di “gruppi di difesa” dei coloni. Servirono come manodopera anche nell’apertura di vie di penetrazione; a loro furono sempre riservati i mestieri più duri, compreso quello del boia. Nel XVIII secolo, “secolo del cacao”, proliferarono le piantagioni nelle zone pianeggianti e costiere del paese grazie alla loro manodopera schiava. A metà del XVIII secolo, quando comincia a esaurirsi l’epoca d’oro del cacao, sorge la modalità d’impiego come operai o artigiani qualificati nella lavorazione del ferro e dell’argento, nella costruzione di tegole e altri mestieri. Molte volte questa formazione è un’iniziativa del padrone, che paga un artigiano riconosciuto perché insegni la sua arte allo schiavo, che poi “noleggerà”, ottenendo un beneficio aggiuntivo. Questo, nel migliore dei casi, può essere diviso con lo schiavo, che probabilmente lo accumulerà fino a mettere insieme la somma che il padrone ha stabilito come prezzo della sua libertà.

L’inferno in terra

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ià il viaggio transatlantico era stato un supplizio che aveva ridotto la popolazione degli schiavi, alcuni erano deceduti per le epidemie o per le condizioni disumane della traversata, altri si erano ribellati a bordo, pagando con la vita. Da lì in avanti era essenziale conservare lo schiavo. Conservarlo, come il mezzo di produzione che era, giustificava qualsiasi azione che impedisse la sua perdita. A fronte d qualsiasi richiesta di pietà nel trattamento di questi esseri umani, l’utilitarismo economico si imponeva come discolpa sufficiente della crudeltà del regime schiavista.

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La pratica più abituale e ineludibile fu il carimbeo, che faceva parte di quel commercio in modo così inscindibile da non essere considerato tortura. Il carimbo o carimba era la marcatura a fuoco che si imprimeva sul gluteo sinistro o sulla parte superiore della vita dello schiavo, e nell’avambraccio delle schiave. Era una forma di legalizzazione di quella “mercanzia”, e non farlo favoriva il reato di evasione fiscale. I primi carimbos si collocavano sulla fronte degli schiavi neri, ma successivamente questo contraddistinse i cimarrones (schiavi fuggitivi), i ribelli e i ladri di bestiame. Il disegno del carimbo portava di solito le iniziali della tenuta o del padrone della piantagione. Frà Bartolomé de las Casas ha lasciato testimonianza dei maltrattamenti sofferti dagli schiavi indigeni e africani introdotti a Cubagua nel XVI secolo per la pesca delle perle: “Molte volte si tuffano in mare per la pesca o la raccolta delle perle e non risalgono più, perché gli squali, bestie marine crudelissime capaci di ingoiare un uomo intero, li mangiano e li uccidono”. Presto gli indigeni furono rimpiazzati dagli africani, e già nel 1591 si dettarono disposizioni per evitare la fuga dei neri ribelli, quando il re ordinò che per ogni dodici schiavi doveva esserci uno spagnolo armato. Dobbiamo all’etnologo Miguel Acosta Saignes gran parte dell’informazione contenuta in documenti inediti dell’Archivio Nazionale e dell’Accademia Nazionale di Storia che ci ha permesso di conoscere alcuni dettagli della schiavitù nella storia venezuelana. Nel suo libro Vita degli schiavi neri in Venezuela, ci narra come in un’ordinanza del 1528 si proibisce la tratta delle donne africane per il commercio sessuale e l’esposizione pubblica dei loro corpi in “condizioni vergognose”. Si stabilisce anche che chiunque possegga più di quattro schiavi è obbligato ad avere ceppi e catene per punire le loro mancanze. Nel 1540 interviene nuovamente il re per proibire la castrazione dei fuggitivi, anche se il 4 agosto

del 1574, in considerazione delle azioni dei cimarrones insorti, si autorizza la forca per coloro che permangano in uno stato di ribellione per più di sei mesi. Le ordinanze del 1784 proibiranno il carimbeo, ma quello che motiverà i padroni, più che l’umanitarismo, sarà il timore di provocare ribellioni più grandi, nel mezzo del fallimento della politica fiscale e la debacle economica. Tuttavia le stesse ordinanze inaspriscono i castighi, stabilendo misure come la mutilazione delle orecchie per i fuggiaschi, lo “sgarrettamento” per i recidivi, e la forca per quelli che tentano la fuga per la terza volta. Le ferite inflitte dalla frusta, dai ceppi o dalle mutilazioni erano curate con salamoia e succo di coquiza. (Pianta simile all’agave comune in Sudamerica (Ndt). Il vestiario dello schiavo non era meno umiliante: consisteva in pantaloni che arrivavano al ginocchio per gli uomini e per le donne una semplice vestaglia, in entrambi i casi fatti di tela grezza o iuta che presto si disfaceva, trasformando il vestito in uno straccio. L’alimentazione dello schiavo proveniva dalle “haciendillas” o “arboledillas”, che erano piccoli poderi destinati all’autosostentamento dei loro coltivatori, per l’appunto gli schiavi. L’imposizione di queste condizioni di vita infernali non ottenne altro che la proliferazione delle cumbes o cimarroneras, comunità organizzate di fuggitivi in territori distanti dalle piantagioni, che presto si erano trasformate in minaccia latente per i signori delle haciendas.

Evoluzione della compravendita in Venezuela

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Regi Decreti della Corona vennero sempre prontamente in soccorso ai coloni: nel 1526 si dispone la schiavitù per i figli dei neri, anche qualora abbiano contratto regolare matrimonio. Altri


decreti del 1527 e del 1541 ordinano che i neri si possono sposare solo con nere. Nel 1551 si proibisce il matrimonio fra indios e nere. Nel 1570 il re ordina che gli schiavi devono arrivare sposati e con le loro legittime mogli. Un altro punto importante per il padrone era la distinzione fra neri “addomesticati” e neri “smaliziati”. Questi ultimi non venivano direttamente dall’Africa, parlavano già un’altra lingua e conoscevano certi meccanismi del sistema, la qual cosa li rendeva molto pericolosi. Molti di loro avevano già partecipato a insurrezioni, per cui bisognava isolarli dagli altri schiavi e mantenerli sotto costante vigilanza. Sebbene nel XVIII secolo in Venezuela si mantenga quasi intatto l’ordinamento giuridico, gli schiavi sono passati progressivamente dalla condizione di schiavitù a quella di servitù. I ritmi dell’offerta e della domanda segnano questo passaggio, la qual cosa non significa che sia cambiato il loro status mercantile di oggetti d’uso e di scambio. Non sono più i coloni spagnoli ma la borghesia creola a dirigere il giro d’affari e propiziare la riproduzione dei neri per soddisfare il bisogno di manodopera del mercato interno. Nell’ambito di questo mercato si hanno le più curiose forme di compravendita: si vendono bambini e donne incinte, si mettono all’asta intere famiglie, si operano cessioni e perfino baratti o pagamenti in natura. Si mette particolare attenzione nell’esporre “i difetti palesi ed occulti” degli schiavi in vendita. La mancanza di un braccio, l’abitudine di mangiare fango, essere stato cimarrón, soffrire di qualche malattia, possono costituire un difetto che deve essere reso noto al momento della vendita, e molte volte costituisce un motivo per abbassare il prezzo della mercanzia. Qualsiasi frode al riguardo servirà al compratore come ragione per denunciare il venditore. Il valore di uno schiavo dipende da variabili come l’età. La fascia di maggior

valore era compresa tra i 20 e i 34 anni; a 40 anni si soleva considerarli vecchi. Anche l’abbondanza o scarsezza di manodopera schiava influiva sul prezzo di vendita. Gli schiavi erano consustanziali all’unità di produzione alla quale erano assegnati, di modo che non si concepiva la vendita o alienazione di una tenuta senza la rispettiva manodopera schiava. La scarsezza di liquidità circolante fece sì che si derogasse alle proibizioni relative all’uso del cacao nella permuta di schiavi, ma sebbene negli ultimi decenni del XVIII secolo l’importazione di schiavi si basasse sui pagamenti in natura, nel mercato interno le operazioni si effettuarono in contante, la qual cosa evitò la fuga di capitali dal territorio.

Aria di libertà

H

umboldt fa notare che alla fine del XVIII secolo c’erano in Venezuela più liberti e figli di liberti che schiavi propriamente detti. Su una popolazione totale di 728.000 schiavi, il numero di liberti o schiavi liberati arrivava a 291.000. Un Regio Decreto del 1768 stabiliva come obbligo concedere la libertà a quegli schiavi che pagassero il prezzo del loro valore d’acquisto. Lo schiavo poteva quindi comprare la propria libertà o quella della sua famiglia. Per fare questi acquisti, che non sempre erano in contanti, coltivavano nelle loro “arboledillas” prodotti come il cacao, con il raccolto dei quali pagavano la loro libertà. Abbondarono i casi dei figli di schiave volontariamente liberati dal padrone, senza motivi né apparente filiazione, sebbene si sospettino legami di consanguineità. Molti di questi bambini furono liberati nella fonte battesimale al momento di ricevere l’unzione sacramentale, in una cerimonia che era frequentemente l’occasione per “donare” al bambino liberato il cognome del padrone.

Un’altra modalità comune di liberazione fu quella di lasciar andare schiavi vecchi o malati che costituivano più un peso che non un vantaggio per i padroni. Non mancarono i motivi di ordine “affettivo” o “di coscienza”, generalmente fra le padrone, in via eccezionale fra i padroni, che essendosi affezionate alla servitù, e vedendo vicina l’ora del loro declino, concedevano il beneficio della libertà ai loro schiavi senza chiedere niente in cambio. Il barone Alexander von Humboldt, nel suo Viaggio alle regioni equinoziali del Nuovo Continente, osserva che quei padroni che liberavano i loro schiavi erano più comuni nella provincia del Venezuela che in qualsiasi altro luogo. Acosta Saignes riferisce che questi atti di liberazione erano motivo di allegria e festeggiamenti nell’ambiente sociale dei proprietari. Tuttavia, mentre questa pietosa allegria regna nelle capitali, nell’afosa ombra delle oscure foreste risuona il tam-tam delle comunità dei fuggitivi, che ruba serenità al sonno dei signori. I negrieri, che avevano avuto tanto successo nel portar via queste persone alla madre Africa, non erano riusciti a strappare dalle loro viscere i loro dei, i loro riti, le loro danze, la loro magia e le loro usanze. In questi territori liberati nascevano altre Afriche, ora americane. Nuove culture che, vale la pena ricordarlo, erano spesso formate non solo da neri, ma anche da indios, zambos (Figli di genitori neri e indios, Ndt), mulatti, meticci, bianchi poveri, e tutti condividevano il sogno libertario di un regime sociale di fratellanza, di uguaglianza sociale e di giustizia che si era ormai propagato nell’aria dell’America. Traduzione di Pier Paolo Palermo

*Ricercatrice di Letteratura orale indigena e direttrice di Siemprevive Editorial

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LA NOSTRA AFRICA

LA TRATTA IN CIFRE Schiavi portati in America: Secoli XV e XVI: 470.000 Secolo XVII: 3.000.000 Secolo XVIII: 7.000.000 Secolo XIX: 4.207.000

Fonte: Unesco - Progetto La ruta del esclavo, 2000

IN VENEZUELA (ENTRATE LEGALI)

Secolo XVI: 6.595

Secolo XVII: 10.147

Secolo XVIII: 34.099

Cifre calcolate da Brito Figueroa

ABOLIZIONE IN EUROPA: La tratta negriera è stata una delle imprese più lucrative e atroci della storia. Il commercio di esseri umani si giustificava con la crudele idea che l’africano non fosse altro che un oggetto, un pezzo d’ebano.

Danimarca: 1792 Inghilterra: 1807 Olanda: 1815 Francia: 1815 Portogallo: 1830

CASTIGHI INFLITTI AI NERI.

“Erano castigati con il libambo, un anello di ferro intorno al collo del nero con un’asticella alla cui estremità c’era una campanella, con la gargalheira o la golilha, sistema di catene di ferro che impediva loro i movimenti. I ceppi consistevano in due lunghe assi di legno con orifizi che comprimevano le caviglie, i polsi o il collo del castigato. Era di uso molto comune nelle tenute.” Fonte: Fernando Ortiz, Los negros brujos, 1917.

Traduzione di Pier Paolo Palermo

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ABOLIZIONE IN AMERICA:

Stati Uniti: 1865 Messico: 1813 Antille Francesi: 1848 Colombia: 1851 Venezuela: 1854 Antille Olandesi: 1863 Cuba: 1886 Uruguay: 1869 Brasile: 1888 Progetto La ruta del esclavo, 2000


LICENZA PER L’IMPORTAZIONE DI NERI IN VENEZUELA, ANNO 1576 A PROPOSITO DI CERTI NERI RICHIESTI DAL VENEZUELA*

MADRE SCHIAVA CHIEDE LA LIBERTÀ PER SUA FIGLIA ANNO 1715*

Dite che vi pare che, essendoci in quella provincia una quantità di miniere d’oro, e non essendoci chi le lavori e ne tragga benefici, si perde molto dei nostri tributi e diritti reali e che sarebbe di grande utilità per quella terra che le si concedessero cinquecento o mille licenze di schiavi neri. Affinché possiamo organizzare il lavoro nelle miniere, compilerete dunque una lista di coloro che vorranno schiavi assegnati alle suddette miniere, indicando i prezzi che pagheranno e in quali tempi, e questi si impegneranno all’acquisto.

Signor Vicario,

Per prima cosa, se così piace a Sua Maestà, invii a tutti i villaggi e a tutti gli occupanti di questo governatorato 1.300 pezzi di neri, i due terzi maschi e l’altro terzo femmine, ripartiti in questo modo: • Alla città di Coro, cento pezzi dei suddetti schiavi 100 • Alla città di Tocuyo, duecento pezzi di neri 200 • Alla città di Nuova Segovia, duecento neri 200 • Alla città di Valencia, cento neri 100 • Alla città di Trujillo, cento neri 100 • Alla città di Santiago León, cinquecento neri 500 • Alla città di Nuestra Señora de Caraballeda, cento neri 100 TOTALE

1.300

I suddetti neri devono essere di età compresa fra i quindici e i trenta anni. Sua Maestà abbia la compiacenza di ordinare che si attribuisca a ciascuno dei suddetti neri un prezzo fra i cento ducati castigliani e i trecentosettantacinque maravedì. Alonso Ruiz de Vallejo, Scrivano Pubblico

Io, Petronila de las Bastidas, schiava meticcia del Tenente di Campo Sancho Briceño de las Bastidas, compaio davanti alla Signoria Vostra come mi si conviene e dico: Che mi sono presentata al cospetto dell’Illustrissimo e Reverendissimo Signor Vescovo con un certificato di libertà di una mia figlia che si trova nel Monastero come schiava delle monache, pur essendo libera, e l’illustrissimo signor Vescovo ordina che la Signoria Vostra emani la sentenza, il cui decreto è insieme al certificato di libertà nelle mani del Notaio Apostolico, per la quale ragione mi appello al giusto e santo operato della Signoria Vostra affinché si metta in libertà la mia suddetta figlia, essendo la quale libera le suddette religiose non hanno alcun diritto a tenere in schiavitù, senza fornire documento né prova alcuna, eppure sottopongono mia figlia a un regime più severo di quello delle altre monache, che sono lì legittimamente. Dunque la Signoria Vostra abbia la compiacenza, dopo aver preso visione del certificato, di ordinare che mi si consegni senza indugi, e se le signore religiose chiedessero ulteriori giustificazioni sono pronta a fornirle, facendo notare che sono schiava invalida e senza risorse, tanto che deve provvedere Dio al mantenimento della mia suddetta figlia, e che chiedo mi sia consegnata la mia suddetta figlia secondo richiesta. Per quanto detto chiedo e supplico alla Signoria Vostra che ordini di consegnarmi la mulattina e che mi si restituisca l’originale del suddetto certificato che entrerebbe in Suo possesso… Petronila de las Bastidas (Trad. P.P.P.) *Ermila Troconis de Veracoechea, Documentos para el estudio de los esclavos negros en Venezuela, Caracas, Academia Nacional de Historia, 1969.

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I Diavoli Danzanti del Corpus Christi Con la maraca nella mano destra di Redazione 8 Estrellas

È

dalla metà del XVII secolo che in diverse comunità del Venezuela si compie il culto del Santissimo Sacramento attraverso la celebrazione del rito tradizionale della religiosità popolare chiamato “I Diavoli Danzanti del Corpus Christi”. Questo processo si svolge ogni anno, il nono giovedì dopo il Giovedì Santo in connessione con la festa cattolica, al fine di evidenziare la presenza di Cristo nel Sacramento dell’Eucarestia. I ballerini sono raggruppati in confra-

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ternite o corporazioni che si identificano in base al nome della località in cui operano, ubicate principalmente nella zona centro-nord del Paese. Ad esempio, nello stato di Aragua, o ancora in località come Cata, Cuyagua, Chuao Ocumare della Costa e Turiamo (situato in una zona di Maracay). Nello stato di Carabobo, li troviamo nei comuni di San Millan e Patanemo. Nello stato di Cojedes, operano nella popolazione di Tinaquillo. Nello stato di Guarico, si ubicano a San Rafael de Orituco. Nello Stato di Miranda si

trovano nella città di San Francisco di Yare e, infine, nello stato di Vargas, nel popolo di Naiguatá. Dal punto di vista storico-geografico le origini di queste comunità sono state correlate alle aziende agricole il cui intento era quello di valorizzare il cacao e altre colture come la canna da zucchero, caffè e indaco, in modo da far emergere in questi spazi, nel corso degli anni, diverse manifestazioni popolari, prodotto dell’interazione tra tre culture: indoamericana, europea e africana. Molte confraternite


organizzare manifestazioni creative e consente abilità manuali, rispettando tra l’altro i particolari che indicano gerarchie o garanzia di prosperità. Il rituale include diverse espressioni cerimoniali di carattere sacro e profano: cerimonie religiose, visite guidate in luoghi con un significato simbolico, danze, sequenza di passi a forma di croce, ed in alcuni casi improvvisazioni, oltre ad espressioni musicali che comprendono l’esecuzione di strumenti a corda o a percussione laddove è sempre presente l’uso di una maraca nella mano destra, come un modo per allontanare gli spiriti maligni.

dei Diavoli Danzanti, formatesi tra il secolo XVII e il XIX, oggi sono state legalmente registrate come associazioni civili per propositi amministrativi e organizzativi dinanzi alle autorità pubbliche. Per contribuire allo sviluppo della manifestazione, i “portatori”, per un totale di circa 5.000 persone, mantengono la struttura gerarchica originale delle confraternite. “DA CHI SARAI SOSTENUTO? DAL SANTISSIMO SACRAMENTO! PER NOI QUESTA È RELIGIONE”

Lacci, sonagli, palline, incroci di palma benedetta, campane, fazzoletti bianchi, orazioni, reliquie, acqua santa, crocifisso. Il vestiario consiste in pantaloni, camicia, mantella e veli di differenti disegni e colori, in alcuni casi l’utilizzo di una coda allusiva al demonio. Vengono aggiunti sempre simboli cristiani (la Croce, gli scapolari, la palma benedetta, il Santissimo Sacramento), visibili o meno, come campanacci, fazzoletti e nastri protettivi dei ballerini come prevenzione contro il dominio del demonio. I Diavoli, composti da adulti, giovani e bambini, in atteggiamento penitente e ascoltando il suono degli strumenti dei musicisti, danzano all’indietro e in avanti prima della processione del Santissimo Sacramento, trasportato in

onore delle autorità della chiesa cattolica. Le confraternite dei Diavoli si organizzano gerarchicamente, la massima autorità e guida è il Caposquadra, Capitano, o Diavolo maggiore, in base alla confraternita. Questo invoca, mediante discorsi, la protezione dei danzanti e accompagnatori durante la processione. È un carica vitalizia, alla quale si accede ereditariamente o per elezione. In strada i Diavoli sono guidati dal Perrero, Arriero Perrero, Mulattiere o Diavolo Sciolto, che supervisiona l’ordine, corrisponde alla massima autorità, esegue l’enumerazione e la costante sorveglianza dei ballerini, ostacolando l’interruzione della danza da parte di altre persone. Un personaggio tradizionale in questo processo di “semantizzazione” è rappresentato dalla Sayona, le cui responsabilità variano in base alla confraternita di appartenenza: essa svolge il ruolo di Donna del Diavolo e dei bambini “promeseros”, diavoletti o sayoncitos. “MIO NONNO ERA DIAVOLO, DIAVOLO ERA ANCHE MIO PADRE E IL FRATELLO DI MIO NONNO ERA CAPOSQUADRA: CON CIÒ VOGLIO DIRE CHE È UNA TRADIZIONE DI FAMIGLIA!” Nella processione dei Diavoli Danzanti del Corpus Christi la tradizione orale e l’imitazione delle persone più influenti

L’evento principale di questa comunicazione religiosa è la performance dei Diavoli dinanzi al Santissimo Sacramento: esso cerca di ricreare il trionfo ancestrale del bene sul male. È una pratica rituale, tradizionale, moderata, che include membri di confraternite uniti per la ricompensa di promesse mantenute, in alcuni casi vitalizio. I cosiddetti “promeseros” indossano maschere allegoriche da diavolo, animali e altre rappresentazioni. Anche se la confraternita di ogni località ha queste norme e caratteristiche, esiste un spazio che permette ai delegati di

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LA NOSTRA AFRICA sono i principali mezzi di trasmissione di conoscenze intergenerazionale. L’incorporazione alle confraternite esige un costante processo di apprendistato che include preghiere e rituali segreti, nei quali le donne svolgono un ruolo principale come l’iniziazione delle nuove generazioni alla fede cattolica mediante la catechesi, requisito principale per essere Diavolo. La ripetizione sistematica, anno dopo anno, dei percorsi che i Diavoli realizzano durante la celebrazione del Corpus

alzando gli altari, preparando il cibo che offriranno ai ballerini e prestando aiuto prima e durante la danza. Tradizionalmente, la realizzazione degli abiti e maschere spetta ai Diavoli, benché recentemente alcuni abbiano delegato questo lavoro agli artigiani. In alcune comunità, i Diavoli Danzanti hanno provveduto al consolidamento di processi di apprendistato sistematici, processi che cercano di insegnare e anche di tutelare la manifestazione dei loro abitanti, attraverso seminari e

particolare per i membri della propria associazione, che divengono esempio di cooperazione comunitaria. Un chiaro riferimento è la cura dei malati, il sostegno alle famiglie dei fratelli defunti e le opere di interesse collettivo. La struttura, le regole e pratiche delle confraternite promuovono il rispetto per gli anziani, le gerarchie, la reciprocità solidale nel salvaguardare il proprio ambiente, e così i membri divengono degni di riconoscimento nelle proprie comunità.

Christi nei luoghi di rievocazione e di significato storico in ogni comunità, favorisce il rafforzamento della tradizione tra le nuove generazioni. Benché la Confraternita sia costituita fondamentalmente da uomini, in alcune comunità c’è anche la partecipazione delle donne come “promeseras danzanti” o addette alla preparazione, alla direzione e sorveglianza nello sviluppo delle varie fasi del rituale. Diversi membri della comunità partecipano

conferenze, realizzazione di maschere, esecuzione di danza e musica, costumi e strumenti musicali. I Diavoli Danzanti del Corpus Christi sono un elemento culturale di coesione delle comunità in cui operano, un mezzo di trasmissione della memoria storica e delle tradizioni, nonché uno spazio per lo sviluppo della creatività, estetica e innovazione convenzionale. Le confraternite del Corpus Christi organizzano attività di solidarietà, in

“SIAMO UMANI E CI ARRENDIAMO, COME SE FOSSIMO ESSERI MALVAGI, DAVVERO!”

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La manifestazione dei Diavoli Danzanti del Corpus Christi è stata conservata come espressione di religiosità popolare dal XVII secolo, costituendo un chiaro esempio di integrazione storica delle diverse componenti etniche e culturali che hanno contribuito alla configurazione dell’identità venezue-


lana, specchio di tradizione e diversità culturale che trasmette valori, solidarietà e fede delle comunità apprendiste, rendendo visibile dal punto di vista locale, nazionale e internazionale, un sistema di cooperazione e di sostegno che serve come esempio di buona condotta in termini di convivenza sociale e dinamismo culturale. Va sottolineato che lo sviluppo di questa manifestazione e delle sue espressioni simboliche, rituali o materiali, è in sintonia con gli standard internazionali per la tutela dei diritti umani, e apporta rispetto tra comunità, gruppi e individui. L’essenza e l’interpretazione del patrimonio culturale venezuelano sono stati storicamente ribaditi senza aver compromesso le risorse ambientali di ogni località o lo sviluppo sostenibile delle loro comunità. La collocazione dei Diavoli Danzanti del Corpus Christi nella lista delle manifestazioni più popolari del patrimonio culturale immateriale dell’Umanità, arricchisce quelle espressioni che costituiscono valori fondamentali dell’identità dei popoli, che guidano l’essere umano alla ricerca del suo totale sviluppo. Il riconoscimento di questa manifestazione a livello internazionale, dà risalto alla molteplicità di manifestazioni artistiche, rituali e festive che mostrano l’innovazione, la creatività, l’originalità e la pluralità delle identità locali dei portatori di questa manifestazione di cultura e diversità venezuelana. Inoltre, la considerazione dei Diavo-

li Danzanti del Corpus Christi come Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità, fornisce alle comunità interessate e al proprio Stato venezuelano, circa la propria salvaguardia, un meraviglioso strumento capace di resistere all’impatto che genera interessi commerciali e tendenze espansionistiche. La garanzia della continuità dei Diavoli Danzanti del Corpus Christi trova riscontro nella Costituzione della Repubblica Bolivariana del Venezuela, nella Legge di Protezione e Difesa del Patrimonio Culturale e nel programma istituzionale dello Stato venezuelano. La casa dei Diavoli fu costruita nel 1959, e in essa opera la confraternita dei Diavoli Danzanti, che si riunisce per praticare balli e organizzare feste. Poi, anno dopo anno, continua la tradizione. Oggi la gente di San Francisco di Yare crede ancora che la presenza o assenza di pioggia durante la Festa del Corpus Christi sia un presagio di prosperità o sofferenza del popolo dell’anno a venire. Quindi non possono iniziare a ballare pubblicamente senza l’approvazione del vescovo. Nell’atto seguente si odono rulli di tamburi e maracas, esecuzioni fatte per chiedere al cielo almeno un po’ di pioggerellina. C’è la speranza degli uomini dietro le maschere, quegli eredi di costumi africani, gente di fede che sogna un giorno migliore. Traduzione di Simona Palumbo

LA PROCESSIONE • La festa popolare comincia il Mercoledì, con una veglia funebre in cui si cantano “fulias”, si recita il rosario e la decima e si prega fino all’alba. • Il giorno dopo, il giovedì del Corpus Christi i “promeseros” vestiti da diavoli eseguono danze intorno alla piazza e si collocano di fronte al tempio. • Una volta terminata la Messa, l’eucarestia è posizionata di fianco alle porte della chiesa, è il momento in cui si stabilisce una sorta di lotta tra inferno e protezione. • Infine i Diavoli si arrendono davanti al Santissimo Sacramento e si inginocchiano in segno di sottomissione, rappresentando così la vittoria del bene sul male. • I Diavoli corrono per le strade, vestiti di rosso e con le maschere, ballando a ritmo sfrenato ma quando si ritrovano davanti all’altare si arrendono in segno di rispetto, cominciano a ballare al ritmo di bamba per dare un tocco più riverente.

Trad. S. P. I Diavoli Danzanti del Corpus Cristi il 6 Dicembre del 2012 entrano a far parte della lista del patrimonio culturale immateriale dell’Umanità, approvata dall’UNESCO a Parigi. Successivamente, nel 2013 entrerà nella lista La Parata di San Pietro, una tradizione popolare religiosa delle popolazioni di Guarena e Guatire nello Stato di Miranda.

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LA NOSTRA AFRICA

Il Calipso, la tradizione musicale del callao Di Carlos García Carbó*

I El Callao è la mia terra, terreno ricco di oro, con le sue rocce e miniere, che sono un tesoro, c’ha il fiume Yuruari ricco di alluvione, e se c’hai dubbi, vieni a vederlo e prestagli attenzione... Da “La Guyana è...”, calypso di Lourdes Basanta

I

l mitico El Dorado capitalizzò i sogni e gli sforzi di personaggi storici e di legioni di avventurieri durante tutto il periodo della conquista e colonizzazione delle terre sudamericane. Uno dei principali scenari della utopistica ricerca fu la vasta regione della Guyana venezuelana. Ha voluto la storia che, per alcuni strani giri del destino, l’Eldorado che non hanno potuto trovare i deliranti esploratori spagnoli fosse trovato secoli dopo dai minatori immigranti che da Trinidad e altre isole delle Antille Minori si trasferirono in Guyana per lavorare nei ricchi giacimenti auriferi. Verso la metà del secolo XIX, è in auge a livello continentale – Nord e Sudamerica – la cosiddetta “febbre dell’oro” e i campioni provenienti dalle vene della conca del fiume Yuruari sono certificati internazionalmente per la loro straordinaria qualità. Sarà questione di poco tempo perché locali e immigranti si concentrino intorno al fiume, mantenendo come centro operativo El Caratal, un caseggiato che, in seguito a una riallocazione in prossimità delle rive del fiume, darà origine al centro abitato di El Callao. Dice il testo di “Bandito”, un popolare calipso callaoense di Izaac Rojas, che il nome dell’abitato sorge in relazione al lavoro della miniera:

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Un solitario minatore Che si sentiva stordito Secondo la leggenda Diede il suo nome a El Callao Si trovava in tanto silenzio Con il suo prezioso tesoro Offertogli dallo Yuruari Nelle sue sabbie d’oro

ha raccolto a livello nazionale, permettono di valorizzarlo come un’emblematica tradizione del paese.

In pratica, l’oro, radice e fondamento dell’ancestrale El Dorado, riprende il suo protagonismo nel promuovere in territorio guyanense la nascita di una nuova collettività, che necessariamente armonizzerà il pesante lavoro delle miniere con la filigrana dell’oreficeria, gli orizzonti dell’insularità caraibica con quelli immensi della terraferma,

Se un qualche genere musicale evoca nel suo ritmo e sonorità i Caraibi, questo è, senza ombra di dubbio, il calipso. La sua allegria, il suo ballo sensuale, i suoi versi acuti e i caratteristici schemi ritmici, i giri melodici e lo spirito interpretativo, circolano come un effluvio per i Caraibi insulari e continentali. Maturato nella seconda metà del

la convergenza del lessico inglese, spagnolo e patois e di tradizioni con sapori e saperi di varia origine, per formare un abitato caratterizzato dalla molteplicità culturale. Bisogna riconoscere che il Carnevale e il suo genere musicale associato, il calipso, si stagliano come la più importante e rappresentativa manifestazione culturale del popolo di El Callao. La sua resistenza e sviluppo nel tempo, il suo profondo radicamento comunitario e la proiezione e accettazione che

secolo XIX con la sovrapposizione di apporti etnici di origine varia, ma con particolare presenza di elementi ancestrali di derivazione africana, il calipso non solo ha coagulato in se stesso un genere musicale di gran dinamismo e vitalità, ma a sua volta è stato il crocevia di altre espressioni che i Caraibi musicali offrono al mondo. È un fatto riconosciuto che l’isola di Trinidad è stata la culla e l’epicentro evolutivo del calipso, ma non si può dimenticare che l’attiva relazione tra le

II “il calipso è la creatività e lo spirito di resistenza fatto musica...”


isole delle Antille Minori ha contribuito allo sviluppo e appropriazione dello stesso. D’altro canto, la particolare condizione di Trinidad come colonia spagnola fino al 1797, insieme all’importante presenza di coloni francesi, non solo imprimerà al nascente calipso caratteristiche distintive, ma anche lo assocerà indissolubilmente alle festività del Carnevale. Il sospetto che le comparse carnevalesche generarono nelle autorità coloniali di Trinidad, dovuto al legame delle stesse con le masse e al loro carattere a tratti caricato di risentimento sociale, portò a divieti e a restrizioni che colpirono l’interpretazione musicale del calipso. All’inizio, si proibì l’uso dei tamburi, per essere questi associati agli afro-discendenti (1884); ma dall’ingegno popolare nacquero i tamboo bamboo, gruppi di percussioni elaborati con canne di bambù di differenti misure. Questi saranno allo stesso modo vittime del divieto officiale già nel secolo XX, fatto che, unito alla ricerca di una nuova e più potente sonorità, sfociò nella nascita della steel-band, gruppo strumentale elaborato a partire dai barili metallici (steel pan) che servono da contenitori del petrolio, i quali abbondavano nelle basi militari istallate a Trinidad durante la Seconda Guerra Mondiale. È più che evidente che il calipso è la creatività e lo spirito di resistenza fatto musica, una profonda sintesi culturale, proiettata verso il futuro da radici ancestrali.

III. Il calipso: dalle Antille al Callao Nel momento storico in cui giungono alle terre guyanensi i minatori immigranti con le loro famiglie dalle Antille Minori, i festeggiamenti del carnevale da strada nelle loro isole d’origine prevedevano mascherate, personaggi come le madame e i diavoli, comparse come i canboulay, legate ai vecchi rituali agricoli e la kalinda, danza basata su di un’arte marziale con pali, entrambe ereditate dagli schiavi africani.

Gli specialisti danno per accertato che queste espressioni erano accompagnate dal prototipo musicale di quello che è l’attuale calipso. Erano canti sviluppati secondo lo stile responsoriale solista-coro, con un accompagnamento ritmico costituito fondamentalmente da tamburi, gli stessi che in seguito saranno proibiti. Lo sviluppo dei carnevali di El Callao fu storicamente legato agli alti e bassi dello sfruttamento e dei prezzi internazionali dell’oro. Negli anni ’80 del secolo XIX, si ordinavano a Caracas e anche all’estero, costosi costumi e maschere per vestire le comparse. Eppure anche così, la precaria situazione economica, con cui si conclude il secolo XIX, colpisce duramente la tradizione del Carnevale.

IV. Contemporaneità della tradizione Oggi giorno, il calipso e il Carnevale di El Callao si proiettano localmente e nazionalmente come un’espressione popolare di grande validità e creatività. Nonostante le limitazioni di spazio che offre l’abitato ai suoi numerosi visitatori durante le feste carnevalesche, la comunità callaoense cerca di conservare i modelli originali nel portare avanti i festeggiamenti. Sebbene le nuove generazioni abbiano perso la condizione di bilinguismo che ha caratterizzato molti dei loro antenati, si conserva l’intenzione di usare l’inglese o il patois come lingua delle composizioni. Ormai già da diverse decine di anni, la condizione di esecuzione musicale acustica ha ceduto la sua magia al suono amplificato, assunto come necessità, per proiettare i vocalisti di fronte a un pubblico numeroso, dare risonanza a strumenti amplificati come il basso, la chitarra e la tastiera e all’eventuale partecipazione di strumenti a fiato (strumentazione che si rapporta alle nuove varianti stilistiche del calipso) e per stabilire uno “spazio sonoro” che dia coesione e direzionalità alla comparsa nel suo percorso.

È utile, a titolo di epilogo, citare la riflessione fatta da The Same People, gruppo che nei suoi 25 anni di esistenza collega il calipso tradizionale di El Callao con nuove tendenze estetiche del genere: «Il calipso de El Callao non è solo un’esperienza musicale, teatro o danza per i callaoensi, ma un atteggiamento mentale, una filosofia dalle radici profonde che permette di comprendere i complicati costumi risultanti da quella mescolanza, nella quale differenti nazionalità contribuirono con i loro usi e costumi senza egoismi culturali: è la condivisione delle conoscenze, una delle caratteristiche che identifica pienamente un callaoense». Traduzione di Marco Nieli * Musicologo

LUCÍA ISIDORA AGNES (El Callao, 1923 - 1986) Meglio conosciuta come la negra Isidora. Simbolo del famoso carnevale el calipso de El Callao. Fu una grande lottatrice sociale e sindacalista che lavorò per ottenere miglioramenti nei bisogni della sua comunità. Promosse, tra le altre iniziative, la fondazione di un Ambulatorio Medico nel suo abitato, come anche portò avanti la richiesta delle rete fognaria. Divenne la regina del Carnevale, dal momento che giocò un ruolo importante nella popolarizzazione di questa celebrazione. Questa grande donna guidò la diffusione e promozione del Carnevale e del calipso di El Callao con la sua comparsata “amici di El Callao”, che non solo organizzò e diede visibilità ai carnevali nella loro terra natale ma ricorse anche gran parte del paese, inserendo il Carnevale di El Callao nel quadro musicale e danzante venezuelano. (Margherita Morales, ricercatrice) Trad. M. N.

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VISIONI


VISIONI

Esuli dei Caraibi di Luís Britto García

I

l Mar dei caraibi è il mare degli esuli. I suoi venti, le sue onde e le sue correnti portano in un senso e nell’altro naviganti che si sostituiscono gli uni agli altri. Dal 1492 inizia nei Caraibi la Prima Guerra Mondiale, che si combatterà nell’arco di tre secoli in tutti gli oceani per decidere l’egemonia in Europa, e quella dell’Europa sul mondo fino al 1939. Le truppe di questa guerra sono gli esuli.

Indigeni

O

ndate di colonizzatori che saranno poi chiamati originari arrivano dall’Africa, dall’Asia, dall’Oceania, esulati dalle guerre tribali o dalla fame. Durante il primo millennio dell’era cristiana si espandono nei Caraibi gli agricoltori arawak, che all’arrivo degli

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europei presentano un principio di stratificazione sociale (Roberto Cassà: Los indios de las Antillas, Editorial Abya Yala, Quito, 1995, p. 263). Alla fine del millennio cominciano a sostituirli i guerrieri e i naviganti caraibici insulari, galibi o kalinagoum, comunità egalitarie senza differenze di classe, che stabiliscono una confederazione culturale estesa dal Tropico del Cancro a quello del Capricorno (Britto García, Luís: Señores del Caribe: indígenas, conquistadores y piratas en el mar colonial, Fondo de Tradiciones Caraqueñas, Caracas, 2001, pp. 12-34).

Conquistatori

A

partire dal 1492 gli europei invadono i Caraibi e impongono un’imitazione della stessa società di caste che li aveva esiliati. Le loro truppe si reclu-

tano in gran parte fra servi della gleba sradicati, indigenti, profughi delle leggi contro la povertà e addirittura criminali. Il lavoro è una maledizione biblica, che i conquistatori rifuggono. Prima sottomettono a schiavitù gli indigeni, fin quando la Corona spagnola non lo proibisce, permettendo però dal 1504 quella dei Caribe. I conquistatori allora schiavizzano tutti gli indigeni chiamandoli “caribes”. I maltrattamenti e le epidemie degli europei sterminano quasi totalmente, in appena un secolo, gli aborigeni delle Antille. All’arrivo di Colombo si stima che a La Española (l’attuale Repubblica Domenicana) vivono 300.000 indigeni.: nel 1508 ne sopravvivono 60.000; nel 1510 ne restano 46.000, e nel 1512 sono 20.000; Hernández de Oviedo dubita che nel 1540 ne rimangano 5.000 (Eric Williams: From Columbus to Castro: the History of the Caribbean 1492-1969, Andre Deutsch, Lodres 1978, p. 33).

Schiavi

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li africani sono rapiti da altri africani e poi venduti agli europei che hanno bisogno di manodopera in America. Jack Hawkins, d’accordo con Elisabetta I d’Inghilterra, dal 1565 geometrizza l’infamia con l’operazione chiamata “Il Triangolo”: porta paccottiglia in Africa, la scambia con carne umana e la baratta in America per merci che trasporta nelle Isole Britanniche. Circa sessanta milioni di vite si perderanno in questa infernale trinità. Per quasi quattro secoli l’economia dei Caraibi dipende dalla manodopera schiava che raccoglie perle e semina canna da zucchero, tabacco, cacao e caffè.


Cimarrones e caraibici neri

A

gli schiavi fuggiti si dà la caccia come fossero bestie. Quelli che riescono a scappare si uniscono in società tribali o cumbes, o si rifugiano con i Caribe, da cui apprendono la pittura corporea con l’annatto, la navigazione, la pesca, le arti guerriere e la lingua, dando così luogo a una nuova nazione, quella garifuna, che fu utilizzata da francesi e inglesi nelle loro lotte coloniali e poi quasi sterminata da questi, che li confinano in un campo di sterminio sull’isola di Roatán. Da lì cominciano a scappare verso le coste del Centro America, le Guyane e la Florida.

Corsari e pirati

D

opo la divisione dell’America fatta da papa Alessandro VI fra Spagna e Portogallo, i monarchi di Francia e Inghilterra e i signori d’Olanda si lanciano in una corsa per contendere loro l’egemonia nel Nuovo Mondo. Al fine di tagliare le vie di comunicazione agli iberici, si associano ad assaltatori di navi che in tempi di guerra dichiarata con altri re sono chiamati corsari, e in tempo di pace pirati, per una battaglia ininterrotta di tre secoli che culmina nell’egemonia mondiale dell’Inghilterra.

Bucanieri

I

coloni francesi, inglesi e olandesi noleggiano i servizi di compatrioti come indentured servants, in contratti dai tre ai cinque anni di durata che equivalgono alla più dura schiavitù. Alla scadenza, o dopo essere fuggiti per evitare la durezza dei loro padroni, gli ex contrattati penetrano dall’inizio del XVII secolo come coloni illegali a La Española e in altre isole, dove vivono di caccia, della coltivazione del tabacco e della vendita ai naviganti di carne

che affumicano sulla brace o “boucan”. I bucanieri occupano l’arco delle piccole Antille e la fascia nord-orientale di La Española, sfidando ripetute campagne di sterminio (Britto García, Luís: Demonios del mar: piratas y corsarios en Venezuela, 1528-1727, Caracas, Comisión V Centenario de venezuela, 1998, pp. 435-510).

Filibustieri

A

lcuni bucanieri esiliati si imbarcano a partire dal 1629 su piccole navi o fly boats e assaltano i convogli iberici. Creano così una pirateria locale, autonoma, egalitaria, solidale, retta da contratti o costituzioni votate democraticamente, che compromette le comunicazioni degli iberici, continua la violenza dopo che le potenze europee celebrano la pace e arriva ad assaltare le navi di olandesi, francesi e inglesi. I filibustieri francesi, appoggiati dalla Corona, finiscono per impadronirsi di La Española nel 1690. Quando le potenze si coalizzano per sterminarli, gli ultimi filibustieri colpiscono la Nuova Inghilterra e l’Oceano Indiano, e uno di essi, il capitano Misson, fonda una colonia utopica ed egalitaria in Madagascar.

Patrioti

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on il XIX secolo cominciano i movimenti indipendentisti dell’America Latina e dei Caraibi. Nel 1804 l’insurrezione degli schiavi di Haiti stermina i loro padroni e respinge in mare una spedizione di veterani napoleonici. Le nascenti repubbliche non hanno marine militari degne di tale nome, ma i loro leader trovano rifugio e appoggio nei Caraibi quando sono sconfitti, e a volte ricorrono alla pirateria. Bolívar torna in Venezuela con l’appoggio del presidente haitiano Alexander Petión, e completa la sua indipendenza con l’aiuto dei nativi di Curaçao Manuel Piar e Brión.

Rivoluzionari

C

ome gli indipendentisti, i rivoluzionari esiliati dai loro paesi si muovono per i Caraibi inseguendo la Rivoluzione Sociale o Socialista. José Martí cade come martire cercando di liberare Cuba; Juan Bosch cerca di sbarcare nella Repubblica Domenicana per farla finita con il tiranno José Leonidas Trujillo. Per due secoli interventi imperialisti occupano e vessano le repubbliche caraibiche e si impadroniscono del grande snodo delle comunicazioni che è l’Istmo di Panama. Dal 1959 Cuba resiste al più potente impero della Terra. Anche il Nicaragua e il Venezuela insorgono.

L’impero degli esuli

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he cosa ci insegnano questi millenni insanguinati? Attraverso l’esilio un sistema allevia la pressione sociale scacciando i suoi sfruttati ed emarginati dal loro ambiente originario. Gli espulsi irrompono in nuovi territori, di solito esiliando o distruggendo a loro volta i coloni precedenti a loro. Gli esuli, espulsi dagli imperi, servono così paradossalmente come strumenti di espansione imperiale; una volta che l’hanno resa possibile, sono distrutti da essa. La Guerra Mondiale che per mezzo millennio si sviluppa nel Mare degli Esuli in buona parte decide l’egemonia in Europa, e poi quella dell’Europa sul mondo, e fa sì che un impero fondato da esuli si trasformi nella prima potenza militare del pianeta. La fine della possibilità di espansione geografica rende difficile l’esilio verso l’esterno e apre la possibilità che gli esuli si ribellino direttamente contro il sistema che li esclude. Esuli di tutti i Caraibi, unitevi! Traduzione di Pier Paolo Palermo *Scrittore, drammaturgo, storico, giornalista, blogger, disegnatore, esploratore subacqueo

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VISIONI

Per un movimento globale di ri-decolonizzazione di Miguel Angel Mellino*

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l colonialismo è stato un fenomeno chiave nella formazione della modernità. Questo presupposto epistemico, da tempo in circolazione nel campo culturale e politico delle società e dei gruppi che hanno maggiormente subito la sua violenza (fisica, materiale e simbolica) costitutiva, solo di recente ha assunto rilevanza nell’ambito della teoria sociale europea. E’ stato lo sviluppo degli Studi Postcoloniali, come effetto della dirompente comparsa di Orientalismo (1978) di Edward Said, a portare il colonialismo al centro della cultura europea, ovvero a promuovere l’enunciato secondo cui la cultura europea moderna appare impensabile senza l’esperienza della conquista e dell’assoggettamento dei territori e delle popolazioni coloniali. Come avrebbe affermato qualche anno più

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tardi lo stesso Said in uno dei suoi testi più noti – Cultura e imperialismo (1993) – cultura moderna europea e imperialismo appaiono come due elementi difficilmente dissociabili. Le rappresentazioni di sé (dell’Europa) e degli altri (i non europei) disseminate dal sistema teorico-politico-letterario europeo sono tutt’altro che obiettive: l’ombra dell’imperialismo – di una “evidente” supremazia bianca e occidentale – aleggia sull’intero edificio culturale moderno. E’ così che gli Studi Postcoloniali si sono fatti promotori della necessità di una decolonizzazione dei saperi, delle culture e delle singole identità nazionali europee. Nell’ottica postcoloniale, dunque, le colonie – le tecniche del dominio politico, economico e culturale coloniale, la lotta e la resistenza delle popolazioni indigene a quel dominio, il proces-

so di costruzione degli stati nazionali post-coloniali - vengono ad assumere un ruolo centrale nella configurazione del mondo moderno. Più che fenomeni marginali rispetto a una Storia (con la S maiuscola) che si è svolta altrove – lungo le coordinate spazio-temporali del Centro, del mondo occidentale – gli ex territori coloniali si ripresentano allo sguardo postcoloniale contemporaneo come laboratori di modernità: come anticipazione dell’egemonia del nostro presente, certo, ma soprattutto come mondi subalterni attraversati da soggettività politiche e culturali alternative. Proprio per questo, la realtà dell’America Latina di oggi, caratterizzata dall’arrivo al potere di governi agiti anche dalla memoria e dalla parola indigena, si è posta al centro dell’attenzione anche presso una parte im-


portante del pensiero radicale europeo; non solo perché il nuovo corso politico continentale ha rappresentato l’unica battuta d’arresto alla governance neoliberista, ma anche perché, essendo il prodotto di grandi insurrezioni popolari, la dialettica politica latinoamericana è venuta a configurarsi come un laboratorio privilegiato nella costituzione di quello che vorrei chiamare “movimenti globali di ri-decolonizzazione”. In questo contesto, le lotte passate e presenti delle comunità indigene e dei movimenti sociali latinoamericani contro il “colonialismo interno” degli stati-nazione bianchi e creoli post-coloniali, così come le loro incessanti mobilitazioni in favore della riforma agraria, di una gestione comune (o comunitaria) e autonoma delle proprie terre, risorse e culture e di un diritto alla diversità epistemica rispetto alla logica proprietaria e mercantile dei saperi occidentali dominanti, stanno rivelando tutta la loro centralità di fronte a un divenire sempre più “estrattivo”, “razziale” e “impe-

compradoras e movimenti sociali indigeni può essere importante ricordare qui le note parole “postcoloniali” dell’antropologo haitiano Michel-Rolph Trouillot nel suo formidabile Silencing the Past (1995): “la verità storica non risiede tanto in una presunta fedeltà verso il passato, bensì nella nostra onestà verso il presente, nella misura in cui il presente ci ripresenta il passato. Vi è qualcosa del presente che ci riporta a un passato silenziato che ci arriva come resto. E questo resto, in quanto memoria che abita fuori da noi, ci interpella incessantemente, ci richiede di dare un senso al mondo” (1995). E’ così dunque che gli Studi Postcoloniali, il ritorno del colonialismo e delle lotte anticoloniali al centro del dibattito politico e culturale globale, possono essere interpretati come il “sintomo” di un conflitto piuttosto materiale del nostro presente, e non semplicemente come il prodotto di una volontà meramente intellettualistica o accademica. Il protagonismo di comunità indigene

riale” del potere capitalistico globale. Per riassumere l’importanza di quanto sta accadendo in America Latina, le ambivalenze e tensioni che attraversano i rapporti tra capitale globale, governi nazional-popolari, oligarchie

e movimenti sociali latinoamericani nell’attuale scenario politico, attivato e attraversato dalla memoria della violenza coloniale, dell’espropriazione materiale e culturale, ci ricorda che siamo ancora alle prese con quello che

il teorico peruviano decoloniale – una sorta di variante latinoamericana della critica postcoloniale - ha denominato la “colonialità del potere capitalistico globale”. Colonialismo e imperialismo non sono dunque fenomeni del passato; come in passato però essi si manifestano su una pluralità di livelli - esterni (globali) e interni (regionali, nazionali), economici, culturali, epistemici, spaziali – e in funzione di un fine ben preciso: una scomposizione (o recinzione) gerarchica dell’umanità. Da una parte gli inclusi, la società civile, il mondo della vita borghese, la comunità internazionale; dall’altra le masse, la sfera del mero arbitrio, il mondo dei barbari, dei gendarmi e dei soldati, gli “stati canaglia”. Colonialismo e imperialismo non sono tuttavia fenomeni disincarnati o impersonali: in un mondo globale sono il prodotto di discorsi e di politiche materiali promosse dalle principali agenzie internazionali, da una “caterva transnazionale di disorientatori” (come li avrebbe chiamati Frantz Fanon) al servizio dell’élite del paese che ha raccolto nel Secondo Dopoguerra l’eredità imperiale delle vecchie potenze coloniali: gli Stati Uniti. Riprendendo una nota definizione dell’antropologo Marcel Mauss, si può dire che l’imperialismo sia divenuto sempre di più un “fatto sociale totale”. Proprio per questo, le lotte di ri-decolonizzazione delle comunità indigene e dei movimenti sociali latinoamericani non possono che avere una portata globale. Non possono quindi non riguardarci. Chiedono anche a noi di “decolonizzarci”. Forse possono tornarci ancora utili le parole di Fanon: “La decolonizzazione si propone di mutare l’ordine universale, è quindi un programma di disordine assoluto”.

* Docente, ricercatore di Studi postcoloniali e relazioni interetniche e membro del collegio dottorale in Scienze Antropologiche (Università di Napoli l’Orientale)

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VISIONI

Ai popoli indigeni di Julián Isaías Rodríguez Díaz

Mamá Shuta

Gli Añú

I Wayuu Gli Yukpas

Mamá Shuta È fatta di terra frammentata Artigiana del sole Ha radici di cotone

La parola añu Significa Gente di agua O gente Di mare

Tessono arcobaleni Son fatti di spine Di cardo E fiori gialli Dell’alba.

Hanno lo sguardo Dei bambini smarriti O di donne CHE ABBRACCIANO Un fiume

Vivono dietro al vento.

I loro antenati Costruirono un mare Che non so a chi Venne in mente Di denominarlo MAR DEI CARAIBI

Dal suo viso Di fango secco La luna Copiò il volto Quando Seminò il mais E la iucca Gli uomini bianchi La chiamarono NONNA. Porta addosso tutti gli anni Delle nostre Etnie… Traduzione di Costanza Cotone

Di onde bianche son fatte le loro case E di spume stanche Forse erano pesci Prima che Vespucci li conoscesse Con le proprie ossa Costruirono Nelle paludi Villaggi A qualcuno Venne in mente Che quelle case Dovessero chiamarsi palafitte Perché La parola palazzo Inizia Nello stresso modo. Trad. C. C.

Mungono nubi impaurite Che la maledizione Delle spiagge Chiama Capre. Pescano gli azzurri E i verdi del mare Nelle loro amache Dormono una solitudine Che prende acqua Dal pozzo TAULALA Governa i loro Spazi geografici. URIANA E JUSAYÚ Quelli dell’anima E della carne. Trad. C. C.

Quando ci decorano E ci chiamano COMANDANTE I loro nomi Di isole Ci promuovono Le loro donne DI MAIS E miele di platano Si cuociono Nello stesso forno Per cucinare bignè. Hanno una yucca dolce Nei baci E fumo di caffè Nel dolore Che danno Quando dicono ADDIO Traduzione di Emilia Saggiomo

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Amore America*

Per amore della frutta*

di Pablo Neruda

di Eduardo Galeano

Prima della parrucca e della giubba furono i fiumi, i fiumi arteriali: furono le cordigliere, sulle cui onde consunte il condor o la neve immobili sembravano: fu la densità e l’umidore, il tuono ancora senza nome, le pampas planetarie.

Gonzalo Fernández de Oviedo, arrivato da poco, assaggia la frutta del Nuovo Mondo. La guayaba gli sembra molto superiore alla mela. La guanábana è bella da vedere ed offre una polpa bianca, acquosa, di morigerato sapore; per quanto se ne mangi, non dà difficoltà di digestione. Il mamey ha un sapore da leccarsi i baffi e un buonissimo profumo. Non esiste niente di meglio, afferma. Ma morde una nespola e gli inonda la testa un aroma che nemmeno quello del muschio riesce a uguagliare. La nespola è il frutto migliore, corregge, e non esiste cosa che le si possa comparare. Sbuccia, allora, un ananas. Il dorato ananas profuma come vorrebbero le pesche e riesce a stuzzicare l’appetito anche a chi della voglia di mangiare non ha più neppure il ricordo. Oviedo non conosce parole che siano degne di descrivere le sue virtù. Gli si rallegrano gli occhi, il naso, le dita, la lingua. Questo supera tutti, sentenzia, come le piume del pavone risplendono più di quelle di qualsiasi uccello.

L’uomo fu terra, vaso, palpebra del tremulo fango, calco dell’argilla, fu anfora caribica, pietra chibcha, coppa imperiale o silice araucana. Fu tenero e cruento, ma sull’impugnatura della sua arma d’umido cristallo, le iniziali della terra erano scritte. Nessuno da allora poté più ricordarle: il vento le dimenticò, l’idioma dell’acqua fu sepolto, i significati si smarrirono o si allagarono di silenzio o sangue. Non si perdette la vita, fratelli dei campi. Ma come una rosa selvatica cadde nel folto una goccia scarlatta, e si spense una lampada di terra. Io sono qui per narrare la storia. Dalla pace del bufalo alle percosse arene della terra finale, nelle spume accumulate della luce antartica, e per le tane scoscese dell’ombrosa pace venezuelana, ti cercai padre mio, giovane guerriero di tenebra e rame, o pianta nuziale, chioma indomabile, madre caimano, metallica colomba. Io, della stirpe inca dell’argilla, toccai la pietra e dissi: Chi mi attende? E strinsi la mano su una manciata di vuoto cristallo. Tra i fiori di zapotechi m’inoltrai e dolce era la luce come un daino, e l’ombra come una palpebra verde.

La lingua del Paradiso* I guaraos, che abitano ai margini del Paradiso Terrestre, chiamano l’arcobaleno serpente di collane e mare di sopra il firmamento. Il lampo è lo splendore della pioggia. L’amico, l’altro mio cuore. L’anima, il sole del petto. La civetta, il padrone della notte buia. Per dire «bastone» dicono nipote continuo; e per dire «perdono» dicono oblio. *da “Memoria del Fuoco”

Terra mia senza nome, senza America, ordito equinoziale, lancia di porpora, si inerpicò il tuo aroma in me dalle radici fin nella coppa a cui bevevo, nella più esile parola non ancora dalla mia bocca spuntata. *da “Canto Generale”

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Questa pubblicazione, di distribuzione gratuita, è stata realizzata dal Consolato Generale della Repubblica Bolivariana del Venezuela a Napoli nel mese di giugno 2014.


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