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LA LENTE DEI CICLI ADATTIVI PER IL RILANCIO DELLE AREE INTERNE

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RIABITARE I PAESI

RIABITARE I PAESI

Adriana Galderisi

Il territorio italiano è da tempo caratterizzato da una complessa “geografia di divari territoriali”: alla frattura Nord-Sud si accompagnano, infatti, divari crescenti «tra centri e periferie, tra città e campagne deindustrializzate, tra aree urbane e aree interne» (Ministro per il Sud e la Coesione Territoriale, 2020). L’accrescersi di tali divari ha di fatto dato vita ad un’“Italia minore” (Ambrosino, 2018), costituita da un articolato e disomogeneo sistema di aree, che per lungo tempo sono state relegate ai margini delle politiche di sviluppo territoriale.

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Di questa Italia minore, le aree interne rappresentano un peculiare sottoinsieme: si tratta infatti di aree, come quelle alpine o appenniniche, caratterizzate da differenti, seppur in parte interconnesse, forme di marginalità , da quella geografica a quelle economica e sociale. La localizzazione geografica, molto spesso collinare e montana, e la ridotta accessibilità di tali territori dai grandi assi della mobilità interregionale e nazionale, hanno infatti contribuito ad acuirne la marginalità economica che, a partire dalla fine dell’Ottocento e ancor più dopo la Seconda guerra mondiale, ha interessato l’insieme delle aree rurali italiane in conseguenza del radicale cambio del tradizionale modello di sviluppo prevalentemente basato sull’agricoltura. L’affermarsi di un modello di sviluppo prevalentemente basato, di contro, su servizi e industria ha determinato un progressivo scivolamento a valle del Paese (Pazzagli, 2017) e una crescente «disgregazione del paesaggio agrario» (Sereni, 1961). Il boom economico e demografico nell’Italia del secondo dopoguerra e i fenomeni di urbanizzazione e industrializzazione che l’hanno caratterizzato hanno «agito in maniera convergente nella marginalizzazione (…) delle aree interne» (Pazzagli, 2017).

Lo sviluppo diseguale che ha caratterizzato il Paese nel corso del Novecento ha dunque sempre più acuito la contrapposizione tra aree costiere e aree interne, tra centri urbani e territori rurali, determinando un crescente spopolamento delle aree interne, accompagnato da un invecchiamento della popolazione residente, da un progressivo abbandono sia del patrimonio costruito che del capitale di risorse naturali che contraddistinguono tali aree e da una conseguente crescita della vulnerabilità di tale patrimonio ai diversi e sempre più frequenti eventi calamitosi che interessano tali aree (Galderisi e Limongi, 2019).

richiamare due termini che sono stati alla base dell’approccio al tema delle aree interne proposto nell’ambito del Progetto RI.P.R.O.VA.RE.: resilienza e potenziale.

Il concetto di resilienza in particolare ha costituito un importante riferimento anche per la SNAI che lo ha posto come una delle quattro parole chiave fondamentali per l’innesco di processi di sviluppo locale: “manutenzione” del territorio e delle sue risorse naturali; “prevenzione” dei danni indotti da fattori di pericolosità naturale; “resilienza”, funzione della ricchezza di risorse naturali, culturali ma anche di manufatti e potenzialità d’uso di cui questi territori dispongono; “adattamento”, con particolare ma non esclusivo riferimento ai mutevoli e difficilmente prevedibili scenari di cambiamento climatico. Nell’accezione del termine proposta dalla SNAI, dunque, la resilienza è esplicitamente definita come funzione del capitale territoriale di cui dispongono le aree interne: si sottolinea, infatti, come «le aree interne – ricche di risorse ambientali, di saperi, di manufatti, di potenzialità di uso – siano serbatoi di resilienza che potranno essere utilizzati in futuro nell’evoluzione dei rapporti con le aree meno resilienti» (Dipartimento Politiche di Coesione, 2014).

Tuttavia, con riferimento agli studi di Gunderson e Holling (2002) sulla natura adattiva e sulla resilienza dei sistemi socio-ecologici, di cui i sistemi territoriali sono chiaramente espressione, è possibile distinguere con chiarezza il potenziale di un sistema dalla sua resilienza. Gli Autori evidenziano infatti che i sistemi socio-ecologici sono caratterizzati da cicli adattivi, strutturati in diverse fasi − crescita (α), caratterizzata da rapidi processi di espansione; accumulo (r), quando il sistema tende a stabilizzarsi attraverso processi di lento accumulo di energia e materiali; declino (Ω), generalmente connesso al mutare delle condizioni del contesto; riorganizzazione (K) corrispondente all’innesco di un nuovo ciclo evolutivo, portando a nuove configurazioni del sistema − che si sviluppano all’interno di un campo di esistenza a tre dimensioni: la capacità di autoregolazione, propria dei sistemi complessi; il potenziale, inteso come capitale naturale e sociale a disposizione per supportare le future opzioni di sviluppo; la resilienza, intesa come capacità di un sistema di reagire a disturbi che superano la capacità di autoregolazione del sistema. È dunque evidente che potenziale e resilienza costituiscono due dimensioni determinanti nella transizione di un sistema socio-ecologico dall’una all’altra fase: in particolare, esse assumono valori bassi nelle fasi declino del sistema e si accrescono nelle fasi di riorganizzazione. Ancora, Gunderson e Holling (2001) introducono il termine “Panarchia” per indicare la complessa struttura gerarchica in cui diversi cicli adattivi si sviluppano e interagiscono nel tempo e nello spazio, influenzandosi vicendevolmente.

In riferimento a tali studi, le aree interne vengono dunque interpretate come sistemi socio-ecologici in fase di declino la cui transizione verso una fase di riorganizzazione può essere favorita da strategie volte a valorizzarne il potenziale e ad accrescerne la resilienza. Ancora, utilizzando, e certamente semplificando, la visione “panarchica”, l’attuale fase di declino dei territori interni potrebbe essere intesa quale esito di complesse relazioni transcalari tra diversi cicli adattivi che si sviluppano su scale spaziali differenti. Più specificamente, la fase di declino che tali territori attraversano potrebbe essere esito della prolungata concentrazione di risorse e investimenti sui territori urbani, che ne ha determinato la polarizzazione demografica e la concentrazione di attività e risorse, e della perdurante assenza di politiche integrate, in grado di rafforzare le relazioni e favorire meccanismi cooperativi tra aree urbane e aree interne.

In conclusione, la lente della panarchia e dei cicli adattivi, qui sommariamente descritta, è stata utilizzata in questo lavoro per “riconcettualizzare” il tema delle aree interne, delineando un approccio innovativo che fonda su tre elementi di fondamentale importanza: la transcalarità, fondamentale per orientare sia la conoscenza che la

DEFINIRE LE AREE INTERNE: UNO SGUARDO EUROPEO

Valentina Vittiglio

Il territorio nazionale italiano appare caratterizzato per il 60% della sua superficie da un vasto sistema di ambiti territoriali noti come “aree interne” che racchiudono il 52% dei comuni della penisola e solo una porzione marginale della sua popolazione, pari circa al 22%.

In Italia, la tematica delle aree interne e relativa perimetrazione è stata affrontata nel 2012, in occasione della fase di avvio della Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI) che, con tale termine, individuava «quelle aree significativamente distanti dai centri di offerta di servizi essenziali (di istruzione, salute e mobilità), ricche di importanti risorse naturali e ambientali e di un patrimonio culturale di pregio. […] fortemente diversificate per natura e a seguito di secolari processi di antropizzazione» (DPS, 2014:5).

Da un punto di vista semantico, la locuzione aree interne ha subito nel tempo un processo evolutivo tale da assumere denominazioni eterogenee per identificare luoghi dissimili tra loro, soprattutto per conformazione geomorfologica. Nel panorama europeo infatti tale dimensione territoriale ha assunto differenti designazioni: marginal area (Pileček&Jančák, 2011); peripheral area (Pezzi&Urso, 2016); rural areas (Ciommi et al., 2020); low dynamic area (EU, 2013); inner peripheries – IP (EU, 2017); internal areas – IA (Prezioso, 2017); inland area (Scrofani, 2015). Tra le possibili denominazioni, quelle di IA e di IP richiamano maggiormente il concetto italiano di aree interne. Nello specifico, per IA, si intendono aree «relativamente lontane dai centri di prestazione dei servizi (istruzione, sanità, trasporti), ma ancora ricche di beni ambientali e culturali, pur essendo molto eterogenee e diversificate dopo secolari processi di antropizzazione» (Ietri&Pagetti, 2019: 38). Sono dunque contesti che manifestano criticità in termini di sviluppo e benessere in quanto contraddistinte da scarsa accessibilità e da carenza nei servizi di interesse generale. Il termine viene dunque utilizzato con un’accezione identica a quella proposta dalla SNAI.

L’aggettivo inner è stato invece essenzialmente utilizzato in associazione al concetto di periferie ed è stato oggetto di una ricerca applicata finanziata dal progetto GEOSPECTS – Geographic Specificities and Development Potentials in Europe – all’interno del Programma di cooperazione ESPON (EU, 2013). Le IP rappresentano un concetto territoriale sicuramente di difficile definizione, sono porzioni territoriali contraddistinte da caratteristiche miste in quanto l’economia rurale non è così impattante da poterle definire in questi termini e dove la densità abitativa non è quantitativamente rilevante da poterle classificare come urbane. In tal senso, le IP si caratterizzano dunque come aree in between che pur non essendo geograficamente distanti dalle aree urbane, presentano caratteri di marginalità (peripheries) in termini economici rispetto alla regione di appartenenza.

Il termine IP apparve per la prima di volta in un documento1 di policy europeo nel 2011 ed in cui furono definite come aree «la cui perificità deriva principalmente dalla scarsa accessibilità e da una povertà di veri e propri centri urbani, ove si concentrano le funzioni centrali. […] I problemi principali di queste aree sono un’economia regionale debole e vulnerabile e la mancanza di appropriate opportunità di lavoro. In tali circostanze, processi demografici negativi, in particolare emigrazione ed invecchiamento della popolazione, si stanno rafforzando sempre più. Questi trend creano le condizioni per l’esclusione sociale, ma anche per la loro esclusione territoriale dai principali processi socio-economici» (Ministry of National Development, 2011: 57)2 .

Le IP non sono quindi individuabili in relazione a caratteri permanenti come la collocazione geografica ma, piuttosto, in relazione a fattori variabili e transitori come il dato socioeconomico. Nonostante le difformità in termini di definizione, il concetto di IP viene utilizzato in alcuni articoli scientifici e documenti europei come trasposizione del concetto di aree interne, così come attualmente definito in Italia. Come già evidenziato, la definizione di area interna (IA) fa riferimento a distanze euclidee dai poli di erogazione di servizi, unitamente a considerazioni di tipo demografico, che ne sottolineano la scarsa densità abitativa. Si tratta dunque di aree che sono anzitutto geograficamente marginali, come le aree montane, alpine o appenniniche, nel contesto italiano. Di contro, per le IP la condizione di marginalità è connessa a profili e processi economici che si incardinano sull’offerta del mercato occupazionale, mentre il contesto territoriale su cui esse insistono è, nella maggior parte dei casi, strettamente connesso ad ambiti metropolitani e in stretta dipendenza con essi in termini di fornitura di servizi e dinamiche occupazionali. Malgrado la volontà di unificare nell’espressione di IP i temi e le caratteristiche delle aree interne così come concepite nel contesto italiano, ancora oggi non sussiste un’univoca identificazione terminologica di queste aree oltre i confini nazionali.

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