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PRINCIPI GUIDA PER L’INNESCO DI PROCESSI DI SVILUPPO ORIENTATI ALLA SOSTENIBILITÀ NEI TERRITORI INTERNI
Adriana Galderisi
L’obiettivo 11 dell’Agenda 2030 sottolinea l’urgenza di rendere gli insediamenti umani maggiormente inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili. Tale obiettivo assume particolare rilevanza se riferito agli innumerevoli borghi di cui le aree interne, in Italia e non solo, sono disseminate. Proprio questi ultimi sono spesso caratterizzati, infatti, da condizioni di elevata insostenibilità : limitato accesso ai servizi essenziali, ridotta accessibilità e carenza di servizi di trasporto pubblico, carenza di opportunità di lavoro, elevata vulnerabilità ad eventi calamitosi, ad inclusione di quelli ad elevata frequenza e a crescente intensità connessi al cambiamento climatico. Di contro, essi sono custodi di un rilevante patrimonio naturale e culturale, che ne costituisce il principale punto di forza, pur se anch’esso minacciato dal progressivo spopolamento di tali contesti e dalla conseguente assenza di pratiche manutentive. L’elevato potenziale dei territori interni, che costituiscono oggi la principale riserva di biodiversità del Paese, i principali fornitori di servizi ecosistemici, i depositari di una diversità di culture e produzioni locali, rappresenta una delle principali ragioni per cui l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile assegna ad essi un ruolo cruciale nel perseguimento di obiettivi di sostenibilità a scala nazionale (ASVIS, 2022).
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Ma come promuovere uno sviluppo dei territori interni tale da contrastarne la marginalizzazione e il declino demografico e concorrere al perseguimento di obiettivi di sostenibilità ? È evidente che non è possibile fornire una risposta univoca a tale questione: le cosiddette aree interne, pur presentando alcune problematiche comuni, sono infatti caratterizzate da un’elevata eterogeneità di situazioni morfologiche, economiche e sociali, funzione anche delle aree geografiche in cui sono localizzate, che determinano condizioni specifiche e richiedono risposte mirate (Carrosio, 2019).
Nell’ambito del Progetto RI.P.RO.VA.RE. sono stati individuati, tuttavia, alcuni principi-guida per la costruzione di un percorso di lavoro mirato all’innesco di processi di sviluppo orientati al perseguimento di obiettivi di sostenibilità nei territori interni: multi-scalarità e interdisciplinarità nella costruzione dei quadri conoscitivi; coinvolgimento attivo delle comunità locali e, in particolare dei giovani; definizione di visioni di sviluppo integrate.
termine di un processo plurisecolare. In questa chiave il bene culturale ha assunto un valore marcatamente economico, causando anche evidenti squilibri tra i territori e alimentando un processo di marginalizzazione a cui stiamo assistendo quando parliamo appunto di aree interne (Castellano, 2018).
Il Matese diventa solo uno dei molti casi in tal senso.
La soft law del patrimonio culturale: il caso delle Convenzioni internazionali
A tal proposito, appaiono quanto mai indicativi gli strumenti di soft law adottati ormai da diversi anni dalla comunità internazionale, che cristallizzano con precisione questo rovesciamento della tradizionale prospettiva di identificazione di ciò che riveste interesse culturale. In dettaglio, la Convenzione europea del Paesaggio (CEP) del 2000 afferma che il termine «paesaggio» designa una parte di territorio, «così come è percepita dalle popolazioni» e che la «qualità paesaggistica» è quella che soddisfa le aspirazioni delle stesse; la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO del 2003 indica nel patrimonio culturale la complessità costituita da tutte le testimonianze immateriali e materiali riconosciute dalle comunità .
Con la Convenzione di Faro del Consiglio d’Europa del 2005 l’orizzonte è ampliato mediante l’introduzione del termine molto più coinvolgente e innovativo di «eredità culturale», un «insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà , come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione» (art. 2). Tali valenze identitarie sono, dunque, rafforzate nella Carta di Burra o Burra Charter (1999), aggiornata nel 2013, fondata sulla stretta connessione tra Patrimonio e Comunità e il Nara+20 Document del 2014 sancisce definitivamente l’impossibilità di elaborare una gerarchia di valori culturali e quindi di stilare una classifica dei Paesi a più o meno elevata densità di beni culturali.
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[1]. Diagramma a spirale che illustra il metodo FormIT (rielaborazione da Ståhlbröst e Holst, 2012) di prodotti industriali, come elemento di verifica e controllo dall’ideazione alla commercializzazione.
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A livello internazionale esistono diverse tipologie di Living Lab, tra queste: Research Living Lab, incentrati sulla redazione di ricerche scientifica riguardanti aspetti dei processi di innovazione.
Corporate Living Lab, connessi con un luogo fisico in cui si invitano le parti interessate (ad esempio i cittadini) al fine di co-creare innovazioni.
Organizational Living Lab, nel quale i membri di un’organizzazione sviluppano innovazioni in modo co-creativo.
Intermediary Living Lab, in cui diversi partner sono invitati a innovare in modo collaborativo in un’arena neutrale.
Living Lab a tempo limitato come supporto al processo di innovazione connesso con un progetto.
In generale, l’iter metodologico di un Living Lab si struttura principalmente in tre fasi (Design concepts, Design prototype(s) and Innovation Design) così come definite dal metodo FormIT (Bergvall-Kåreborn, Holst e Ståhlbröst, 2009), il cui modello a spirale, rappresentato in figura [1], sintetizza l’iteratività del processo2.
La prima delle fasi individuate, prevede la delineazione di una soluzione attraverso la raccolta di informazioni da classificare e prioritizzare successivamente per lo sviluppo di una prima idea, in forma concettuale. La seconda fase utilizza strumenti quali focus-group, azioni di co-design, interviste per la valutazione di concetti sviluppati nella prima fase e la realizzazione di modelli o più propriamente prototipi di innovazione. La terza ed ultima fase prevede la valutazione del prototipo sviluppato (Holst, Ståhlbröst e Bergvall-Kåreborn, 2010).
Oltre a queste tre fasi, se ne possono prevedere altre due, riferite rispettivamente alla pianificazione complessiva del progetto e alla commercializzazione del risultato finale ottenuto, inteso come un’attività , beneficio o oggetto e che nel caso dei progetti urbani si identifica con un’attrezzatura pubblica o uno spazio fruibile e con i modi della sua fruizione, manutenzione, modifica nel tempo.
La struttura di un Living Lab ruota attorno al modello della cosiddetta “quadrupla elica” che armonizza il processo di innovazione tra quattro principali stakeholders: aziende, utenti, organizzazioni pubbliche e ricercatori [2]. Queste parti interessate possono trarre vantaggio dall’approccio Living Lab in molti modi diversi, ad esempio le aziende possono ottenere idee nuove e innovative, gli utenti possono ottenere l’innovazione che desiderano in termini di beni e spazi pubblici, i ricercatori approfondisco ed implementano studi di caso e le organizzazioni pubbliche possono ottimizzare gli investimenti in innovazione (Ståhlbröst e Holst, 2012).
L’approccio Living Lab, secondo un processo di condivisione, facilita, in definitiva, l’identificazione di soluzioni complesse che, successivamente, verranno testate e trasformate in prototipi, nel caso di questioni urbane e territoriali in progetti e vision strategiche di tipo multiscalare. Un Living Lab inteso in questo modo, si configura come un «ecosistema di innovazione aperta all’utente» (EC, 2009) che prevede l’interazione tra imprese, cittadini e attori istituzionali nel processo di ricerca per nuovi modelli di attivismo urbano che consentano di affrontare le sfide socio-economiche
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