CENTRE POMPIDOU LA SFIDA DEL TOTAL DESIGN STORIA DELLE COMPONENTI DI UN’ARCHITETTURA TECNOMORFA BORIS HAMZEIAN
> PREMESSA
P. 8 — >.1 PREFAZIONE (LAURENT LE BON) P. 10 — >.2 INTRODUZIONE (TULLIA IORI) P. 12 — >.3 LE COMPONENTI DI UN’ARCHITETTURA TECNOMORFA (BORIS HAMZEIAN)
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P. 20 — 1.1 OVE ARUP & PARTNERS E LE PRIME DISCUSSIONI PER IL CONCORSO DEL CENTRE BEAUBOURG
P. 46 — 2.1 LE PRIME RIFLESSIONI DI RENZO PIANO, RICHARD ROGERS E GIANFRANCO FRANCHINI PER LA RIVITALIZZAZIONE DEL TESSUTO URBANO
P. 88 — 3.1 DALLA SCELTA DELL’ACCIAIO ALLA MESSA A PUNTO DEL FRICTION COLLAR
RENZO PIANO, RICHARD ROGERS, GIANFRANCO FRANCHINI E OVE ARUP & PARTNERS. DALLA SCOMMESSA SULL’ACCIAIO DI FUSIONE AL LIVE CENTRE OF INFORMATION
P. 22 — 1.2 LE RICERCHE DI RICHARD+SU ROGERS ARCHITECTS E RENZO PIANO ARCHITETTO TRA CONTENITORI INDUSTRIALI E INFRASTRUTTURE PER IL RESTAURO DELLA CITTÀ P. 26 — 1.3 PIANO+FRANCHINI+ROGERS PER UN’INFRASTRUTTURA EDUCATIVA ALL’AVANGUARDIA P. 30 — 1.4 LA COSTITUZIONE DELLA PIANO+ROGERS ARCHITECTS E L’ELABORAZIONE DI STRUTTURE FLESSIBILI E COMUNITARIE P. 34 — 1.5 IL PRIMO CONTENITORE PER L’ARTE DI PIANO+ROGERS ARCHITECTS: LA NUOVA SEDE DELLA BURRELL GALLERY A GLASGOW P. 36 — 1.6 LA RIPRESA DELLE RIFLESSIONI PER UN ISTITUTO EDUCATIVO ALL’AVANGUARDIA NEL PROGETTO PER IL CENTRE BEAUBOURG
LA PIAZZA DEL CENTRE POMPIDOU: GENESI E TRASFORMAZIONI DI UNA SUPERFICIE METROPOLITANA, DA PIATTAFORMA TRINCERATA A PLATEA PER LA VISIONE COLLETTIVA
P. 48 — 2.2 UNA PIAZZA TRINCERATA PER IL CENTRE BEAUBOURG: COLLETTORE POPOLARE E PLATEA PER UNO SPETTACOLO INFORMATIVO P. 52 — 2.3 LE INCERTEZZE DELLA GIURIA SUL DISPOSITIVO URBANO DEL “LIVE CENTRE OF INFORMATION” P. 53 — 2.4 ANTHONY DUGDALE E LA TRASFIGURAZIONE DELLA PIAZZA IN UNA PELOUSE TECHNOLOGIQUE ESTESA AL QUARTIERE
LA GENESI E L’EVOLUZIONE DEL GIUNTO IN ACCIAIO DI FUSIONE DEL CENTRE POMPIDOU: DAL FRICTION COLLAR ALLA GERBERETTE
P. 92 — 3.2 L’EVOLUZIONE DEL FRICTION COLLAR E L’APPARIZIONE DELLA TRAVE-PIANO VIEREENDEL P. 94 — 3.3 LA VERSIONE TRILITICA DEL 3-DIMENSIONAL WALL P. 100 — 3.4 IL RITORNO DI PETER RICE E IL RINNOVATO IMPULSO AL RICORSO ALLA FUSIONE P. 101 — 3.5 L’“ELEFANTE BIANCO” E L’ABBANDONO DELLA VIERENDEEL P. 102 — 3.6 DA GERBER A GERBERETTE
P. 60 — 2.5 GLI SVENTRAMENTI DEL SOTTOSUOLO E IL CONFLITTO SULLA NATURA ARBOREA O MINERALE DELLA SUPERFICIE
P. 104 — 3.7 LE ESITAZIONI DI PIANO E IL TEMPORANEO RITORNO A UNA TRAVATURA RETICOLARE LEGGERA E STANDARD
P. 64 — 2.6 LA RIAFFERMAZIONE DELLO SCHERMO TRA L’INVENZIONE DI UN INVOLUCRO ARTISTICO E LA TRASFORMAZIONE DEL PLATEAU IN ANFITEATRO
P. 110 — 3.8 L’ADOZIONE DEFINITIVA DEL SISTEMA GERBER
P. 68 — 2.7 UNA MACCHINA DI MARLY PRIVA DEL SUO SISTEMA DI POMPAGGIO P. 72 — 2.8 L’INVENZIONE DELLA PIAZZA INCLINATA A IMMAGINE DELLA PIAZZA DEL CAMPO DI SIENA P. 74 — 2.9 L’ABBANDONO DEGLI SCHERMI E LA TRASFIGURAZIONE DELLA PIAZZA IN UN LUOGO FOLKLORISTICO E PITTORESCO P. 76 — 2.10 1980: DA “PIAZZA PER LA FOLLA” A “CORTE DEI MIRACOLI” P. 78 — 2.11 LE ULTIME VISIONI PER LA PIAZZA DEL CENTRE: DALLA RIAFFERMAZIONE DELL’ARENA ALLA RICUCITURA CON IL FORUM
P. 112 — 3.9 L’EVOLUZIONE DELLA GERBERETTE DA SOLIDO PRISMATICO A OGGETTO SCULTOREO P. 120 — 3.10 LE RESISTENZE DELLE IMPRESE ALLA FABBRICAZIONE DI UNA STRUTTURA DAI PEZZI UNICI
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P. 126 — 4.1 LA STRUTTURA IN ACCIAIO DI FUSIONE DEL CENTRE POMPIDOU: LA VALUTAZIONE DI UN TRAGUARDO SOFFERTO
P. 156 — 5.1 LA GENESI DEGLI IMPIANTI DEL CENTRE POMPIDOU
P. 190 — 6.1 LE RIFLESSIONI SU UN’INVOLUCRO TRASPARENTE CON SPECIALI EFFETTI LUMINOSI NELLE RICERCHE DI RENZO PIANO E DEI CONIUGI ROGERS
P. 222 — 7.1 BURRELL GALLERY: IL PRIMO CONTENITORE PER L’ARTE DI PIANO+ROGERS ARCHITECTS
LA SFIDA DELL’ACCIAIO DI FUSIONE DI OVE ARUP & PARTNERS, KRUPP INDUSTRIE UND STAHLBAU, E POHLIG HEINZ BLEICHERT. DALLA ROTTURA DELLE GERBERETTE AL SALVATAGGIO DI UNA STRUTTURA FRAGILE
P. 128 — 4.2 LA SFIDA DI OVE ARUP & PARTNERS PER L’IMPIEGO DI UNA STRUTTURA ALL’AVANGUARDIA IN ACCIAIO DI FUSIONE P. 130 — 4.3 LA RESISTENZA DELLE IMPRESE FRANCESI E LA DISPONIBILITÀ DI KRUPP INDUSTRIE UND STAHLBAU E POHLIG HECKEL BLEICHERT ALLA SFIDA LANCIATA DA ARUP P. 132 — 4.4 LA SVENTURATA SCOMMESSA DELLE IMPRESE TEDESCHE PER L’ACCELERAZIONE DELLA FABBRICAZIONE DEI MODELLATI DI FUSIONE P. 133 — 4.5 I DUBBI DEI CONSULENTI SULLA SOLUZIONE STRUTTURALE DI OVE ARUP & PARTNERS E LA SCELTA DI AFFIDARE LA CERTIFICAZIONE DELL’ACCIAIO ALL’INSTITUT DE SOUDURE P. 134 — 4.6 LA ROTTURA DELLE GERBERETTE P. 138 — 4.7 LO STUDIO DELLE PIATTAFORME PETROLIFERE E LE CONSULENZE DI SPECIALISTI SVIZZERI E TEDESCHI NELLA FUSIONE DELL’ACCIAIO PER IL SALVATAGGIO DELLA STRUTTURA DEL CENTRE P. 142 — 4.8 LE NUOVE FESSURAZIONI DEI MODELLATI E IL RITARDO NEL MONTAGGIO DELLA STRUTTURA P. 144 — 4.9 IL RITORNO DI KUSSMAUL PER IL “SALVATAGGIO” DELLA STRUTTURA DEL CENTRE POMPIDOU
LA GENESI E L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA DI CONDIZIONAMENTO DEL CENTRE POMPIDOU. VERSO UNA NUOVA FIGURA ARCHITETTONICA
P. 162 — 5.2 LA MESSA A PUNTO DELLA “SOLUZIONE A SISTEMA LOCALE” NELLA STRUTTURA VIERENDEEL E L’ABBANDONO DEGLI SCHERMI SU RUE DU RENARD P. 166 — 5.3 DALL’ADOZIONE DI UNA “SOLUZIONE A SISTEMA CENTRALIZZATO” ALL’ESIBIZIONE DELLE UNITÀ DI TRATTAMENTO DELL’ARIA P. 168 — 5.4 DALLA SOSPENSIONE DELLE UNITÀ DI TRATTAMENTO DELL’ARIA ALLA “TYPICAL BAY” DI LAURIE ABBOTT P. 172 — 5.5 DALLE CRITICHE DELLA DÉLÉGATION ALLA SCELTA DI “UMANIZZARE” L’IMPIANTO DI CLIMATIZZAZIONE TRAMITE LA RIADOZIONE DEGLI SCHERMI AUDIOVISIVI P. 173 — 5.6 L’EVOLUZIONE DELLA CONFIGURAZIONE DELLE UNITÀ DI TRATTAMENTO DELL’ARIA SULLA COPERTURA P. 176 — 5.7 DALLA FASCINAZIONE PER I TONI POP AL CODICE CROMATICO DEGLI IMPIANTI P. 180 — 5.8 IL PROCESSO DI PREFABBRICAZIONE DEGLI IMPIANTI P. 184 — 5.9 VERSO UNA NUOVA FIGURA ARCHITETTONICA
LA PROBLEMATICA TRASPARENZA DEL 3-DIMENSIONAL WALL DEL CENTRE POMPIDOU. DALL’INVOLUCRO TRASLUCIDO ED EMITTENTE AL MURO FINESTRATO
P. 194 — 6.2 IL 3-DIMENSIONAL WALL E L’INVENZIONE DI UN INVOLUCRO POLIVALENTE, FLESSIBILE E INTERATTIVO P. 198 — 6.3 L’IRRIGIDIMENTO DEL 3-DIMENSIONAL WALL E LA TRASFIGURAZIONE DELL’INVOLUCRO IN UNA SCOCCA DALLE LINEE PLASTICHE P. 202 — 6.4 L’ORIENTAMENTO DI GEORGES POMPIDOU E PIANO+ROGERS ARCHITECTS PER UN INVOLUCRO ARTISTICO E OPTICAL P. 208 — 6.5 LA CRISI DELLA TRASPARENZA DELL’INVOLUCRO A FAVORE DELL’ACCENTUAZIONE DELLA STRUTTURA P. 209 — 6.6 LA SCOMPARSA DEGLI SCHERMI AUDIOVISIVI P. 212 — 6.7 I TENTATIVI DI SALVAGUARDARE LA TRASPARENZA DELL’INVOLUCRO ATTRAVERSO IL FRAMELESS GLASS E LE PITTURE INTUMESCENTI DEI PROGRAMMI SPAZIALI AMERICANI P. 216 — 6.8 IL TRATTAMENTO POP DEGLI IMPIANTI E I PROGETTI DI TRASFORMAZIONE DELLA FACCIATA NEGLI ULTIMI DECENNI
IL DISPOSITIVO MUSEALE DEL CENTRE POMPIDOU DI RENZO PIANO, RICHARD ROGERS, GIANFRANCO FRANCHINI E PONTUS HULTÉN. DALL’OPEN SPACE LISCIO E VUOTO AL VILLAGGIO VERNACOLARE PER L’ARTE
P. 226 — 7.2 IL CENTRE POMPIDOU: UN LOFT DI “X” METRI CUBI D’ARIA CLIMATIZZATA PER L’ARTE CONTEMPORANEA P. 230 — 7.3 IL GIUDIZIO DELLA GIURIA: UNA VALIGIA FLESSIBILE PER LA SODDISFAZIONE DEGLI UTILIZZATORI P. 231 — 7.4 LE ESITAZIONI DEL CONSERVATORE DEL MUSÉE NATIONAL D’ART MODERNE DOMINIQUE BOZO: “UN RIFIUTO DEL MUSEO” P. 232 — 7.5 DALLA TENTATA TRASFIGURAZIONE ORGANICA DELLO SPAZIO MUSEALE, ALL’EQUIPAGGIAMENTO DEL LOFT CON GADGET TECNOLOGICI P. 240 — 7.6 IL DISPOSITIVO MUSEALE DI PIANO+ROGERS ARCHITECTS: DIAFRAMMI SOSPESI NELLO SPAZIO CONTINUO P. 241 — 7.7 L’ARRIVO DI HULTÉN, L’OPPOSIZIONE ALL’ESIBIZIONISMO DELLA TECNOLOGIA E IL RICORSO ALLA METAFORA DEL VILLAGGIO DI CABANE P. 244 — 7.8 L’ELABORAZIONE DEL DISPOSITIVO MUSEALE SENZA PIANO+ROGERS ARCHITECTS: DAL VILLAGGIO ALLE BOUTIQUE DI QUARTIERE P. 245 — 7.9 IL RITORNO DI PIANO+ROGERS ARCHITECTS E LA RIAFFERMAZIONE DI UN DISPOSITIVO MIESIANO DALL’ACCENTUATO EQUIPAGGIAMENTO TECNOLOGICO P. 250 — 7.10 VERSO IL COMPROMESSO FINALE PER IL MUSEO DEL CENTRE POMPIDOU: SPESSI MURI E VELARI TRASLUCIDI SOSPESI
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PREMESSA
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>.1 PREFAZIONE
Laurent Le Bon Presidente del Centre national d’art et de culture Georges Pompidou
Con il sopraggiungere dell’anniversario dei cinquant’anni dalla sua inaugurazione, il Centre Pompidou di Parigi si appresta ad affrontare un’importante opera di trasformazione tecnica e architettonica destinata a fare dell’edificio e della prospiciente piazza uno dei cantieri più importanti del decennio. In queste circostanze, ora più che mai, è tempo di riscoprire la storia della nostra istituzione e ricostruire le tappe che hanno condotto alla definizione di un’opera all’avanguardia nei settori dell’architettura, dell’ingegneria, della costruzione e della museologia. Appena un anno fa Boris Hamzeian, storico dell’architettura e ricercatore presso il nostro Musée national d’art moderne-MNAM-CCI, ha pubblicato il primo capitolo di un progetto editoriale di ampio respiro dedicato alla storia architettonica e costruttiva del Centre. Con il volume Live Centre of Information. Da Pompidou a Beaubourg (1968–1971) ha ricostruito le origini del Centre Pompidou, rimettendo in discussione i falsi miti e riscoprendo passaggi fondamentali, dalle prime riflessioni formulate dal presidente della Repubblica Georges Pompidou intorno al progetto di un “monumento” a Les Halles per rivitalizzare l’architettura contemporanea francese, alla genesi del progetto vincitore a opera di Renzo Piano, Richard Rogers, Gianfranco Franchini e Ove Arup & Partners, sino al processo di selezione che ha saputo individuare proprio 8
questa tra quasi 700 visioni giunte dai quattro angoli del mondo. Nell’attesa di proseguire questo progetto editoriale con la cronaca del cantiere e poi delle trasformazioni che il Centre ha subito negli ultimi decenni, Hamzeian ha deciso di seguire il principio che interpreta l’edificio del Centre nei termini di un assemblaggio di componenti, ciò che i suoi architetti e ingegneri hanno sempre definito come un “meccano”. Proprio come fosse una macchina, Hamzeian ha deciso di scomporlo nei suoi elementi fondamentali, la struttura metallica, gli impianti tecnici, la facciata tridimensionale, la piazza e il dispositivo museale, per raccontarcene la storia “pezzo per pezzo”. Attraverso una ricostruzione storica rigorosa, l’analisi delle fonti e decine di interviste ai protagonisti di questa storia, Hamzeian ci mette di fronte a un universo complesso nel quale ciascuno degli elementi distintivi del Centre Pompidou si afferma come il traguardo di un’elaborazione polifonica nella quale le ambizioni politiche e le nuove traiettorie della conservazione museale e della promozione culturale si intrecciano con visioni di architettura, sfide ingegneristiche e soluzioni tecniche d’avanguardia orientate sulle nuove tecnologie. Numerosi sono gli altri possibili Centre Pompidou che si tratteggiano nelle pagine di questo libro: quello rivestito di un involucro specchiante per
smaterializzare l’edificio tra le facciate del quartiere, quello dotato di un Forum costituito da platee e gradinate mobili e riconfigurabili per la definizione di un “teatro totale”, quello predisposto per essere un museo ridotto a sottili pannelli sospesi al soffitto in uno spazio continuo e indiviso, quello circondato da un lussureggiante manto erboso che si appropria di piazze, strade e vecchi edifici per estendersi all’intero centro storico, quello costruito ricoprendo gli impianti con speciali pannelli optical per generare un’opera d’arte a scala architettonica. Hamzeian riscopre tutti questi Centre Pompidou attraverso sette saggi, redatti tra il 2017 e il 2023, rivisti e corredati di oltre un centinaio di immagini inedite. Per la loro realizzazione ha beneficiato delle fonti documentali iconografiche conservate presso la Bibliothèque Kandinsky e il Pole Archives del Centre Pompidou, nonché dei preziosi fondi documentali di tutte le istituzioni pubbliche e private che seguono da anni questo progetto di ricerca e alla quali non possiamo che rivolgere un sentito ringraziamento, la Fondazione Renzo Piano, la famiglia di Richard Rogers, lo studio di ingegneria Arup, lo studio di architettura RSHP, gli archivi privati di Gianfranco Franchini, l’Institut Georges Pompidou e gli Archives nationales. Ci auguriamo che l’analisi delle componenti di questo straordinario meccano possa arricchire gli studi sull’architettura, l’ingegneria e la museografia
del secondo dopoguerra e al tempo stesso divenire uno strumento al servizio delle équipe che in questi mesi si stanno dedicando alla trasformazione della nostra istituzione, affinché il Centre Pompidou possa continuare a intercettare la novità e l’avanguardia.
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>.2 INTRODUZIONE
Tullia Iori Prof.ssa ordinaria in Storia dell’Ingegneria e della Costruzione Università degli Studi di Roma Tor Vergata
Boris Hamzeian ha fatto un lavoro faticoso. In archivio, anzi in mille archivi. Eppure sono sicura che in lui si annida il rammarico di un piccolo fondo che non è riuscito a consultare e che magari poteva conservare quel documento, tanto cercato, che avrebbe dato maggiore precisione a una piccola nota. In archivio il lavoro è difficile. Bisogna leggere e appuntare ogni singolo foglio di carta, scorrendo, uno dopo l’altro, migliaia di pagine: non solo i resoconti più succulenti ma anche i più banali scambi burocratici; e poi le note a mano indecifrabili, le copie sbiadite in decine di passaggi su carta copiativa, le relazioni di calcolo piene di passaggi oscuri, i noiosi computi metrici e i lunghi capitolati ciclostilati. E i disegni: che vanno esaminati, cercando le differenze fra decine di varianti, pieni di dubbi sulle ragioni di quelle stesse varianti, che non trovano supporto tra le carte scritte. E così con le foto di cantiere: migliaia, mai dal giusto punto di vista, da ispezionare a ingrandimenti esagerati sperando di comprendere dettagli tecnici misteriosi. Poi ci sono da indagare le vite dei protagonisti e, se sono ancora viventi, intervistarli, facendo appello a tutta la propria pazienza per riuscire a tenere le testimonianze almeno un po’ nel solco dell’opera, senza deragliamenti che portano troppo lontano. Un lavoro che non è per tutti. Bisogna avere molte doti, oltre all’intelligenza, tra cui la memoria, la meticolosità, la passione. Hamzeian sa fare bene questo lavoro. 10
La sua ricerca è stata ancora più difficile: ha scelto per il suo approfondimento un’icona. L’edificio è famosissimo, lo hanno visto tutti quelli che sono stati a Parigi almeno una volta. Di quanti altri edifici del Novecento potremmo dire la stessa cosa? Certo, non tutti visitano gli stessi luoghi, ma quell’edificio ha attirato irresistibilmente anche gli allergici all’arte. Eppure, la narrativa sul Centre Pompidou, a 46 anni dall’inaugurazione, è ancora mitologica e agiografica, basata sui testi propalati dai progettisti che – si sa – raccontano bugie, da sempre. Tanti anni fa ho lavorato sulla (ex) Casa del Fascio di Como di Giuseppe Terragni: l’architetto aveva curato personalmente e pubblicato, in occasione del completamento, un famoso numero monografico di Quadrante e da allora i tanti libri sull’autore e sull’opera assecondavano quanto scritto sulla rivista, confermando il clima sereno e collaborativo tra progettista, committenza e imprese. Poi, è emerso – tra le altre difficoltà delle imprese a rispettare le richieste di precisione millimetrica di Terragni –, che la copertura di vetrocemento del Salone delle Adunate aveva ceduto, si era terribilmente deformata ed era stata demolita e ricostruita, da capo, a spese della ditta di costruzione, con altri diffusori di vetro, più resistenti, e con travetti molto più alti. Per scoprirlo, bisognava andare in archivio e perdersi nella lettura delle carte, dei disegni, delle foto.
Hamzeian fa qui la stessa cosa: smonta e ricompone quello che abbiamo sentito fino a oggi. Ci fa conoscere la complessità del progetto e del cantiere di un’icona e i molti vettori cospiranti di questa storia che si muovono nello spazio, si compongono e portano al risultato finale in un racconto denso di documentazione ma che si legge come fosse un romanzo, grazie a una capacità narrativa inconsueta. Una considerazione finale permette di comprendere la motivazione del mio contributo. Hamzeian ci fa vedere la nascita di tutte le parti, dalla piazza agli impianti passando per le componenti fondamentali della struttura, la colonna, il friction collar, le travi Warren che danno vita al grande impianto metallico che risolve lo spazio e consente la versatilità. Come hanno accolto la struttura del Centre Pompidou gli ingegneri del Novecento italiano di cui mi occupo? Senza entusiasmo. Uno in particolare, Sergio Musmeci, la considerava un trilite chiuso da un’ottocentesca trave reticolare, ancorché di acciaio brillante, che ripeteva la stessa soluzione statica ideata da Heinrich Gerber cento anni prima. Certo, per la sperimentazione strutturale era un momento speciale, dopo due esposizioni universali rivoluzionarie. In quella di Montreal del 1967, Frei Otto aveva stravolto ogni tradizione presentando una gigantesca tensostruttura amorfa di reti di funi mentre Richard Buckminster Fuller aveva alzato una quasi sfera assemblando nello spazio piccole aste
ottimizzate le cui trasparenze erano oscurate da tende controllate da un computer. In quella di Osaka del 1970 David Geiger aveva sollevato un padiglione lunare con la sola forza dell’aria. L’architettura strutturale era cambiata, si era fatta visionaria, radicale, gigante. E il trilite parigino sembrava a Musmeci, che immaginava “forme ancora senza nome”, un inganno: fingeva di essere moderno ma invece era solo una scenografia. Ma su questa provocazione ci sarà ancora tempo di dialogare con Boris Hamzeian perché questo volume, ne sono certa, non è che un episodio di un progetto editoriale che potrà ancora sorprenderci.
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>.3
LE COMPONENTI DI UN’ARCHITETTURA TECNOMORFA Boris Hamzeian
Nel corso degli anni sessanta l’architettura va incontro a una trasfigurazione tecnica, estetica e filosofica senza precedenti. I progressi dell’elettronica e l’avvento della cibernetica e dell’informatica, l’applicazione inedita di procedimenti industriali al settore delle costruzioni, l’affermarsi della società di massa e della cultura pop concorrono a trasformare l’edificio in un dispositivo altamente tecnologico, quasi a realizzare la promessa con la quale, trent’anni prima, Le Corbusier aveva soggiogato le menti di un’intera generazione con la profezia di un’architettura-macchina. Già sul finire degli anni cinquanta, gli esponenti delle generazioni più giovani, frustrati nel vedersi circondati da un genere di architettura che, per quanto disponibile alla prefabbricazione e alla realizzabilità per componenti, aveva ancora l’aspetto di un “edificio”, si apprestano a trasfigurarla, non soltanto per farne un dispositivo meccanico, assemblabile, mobile, interattivo come gli oggetti industriali che iniziano a popolare le case della società di massa, ma anche per darle l’estetica e le forme proprie di quegli oggetti. Ha così inizio una delle esperienze più affascinanti del secolo scorso, quella che ha al suo centro la sfida, ancora aperta, dell’integrazione della tecnologia nell’architettura. Alla fine degli anni sessanta due dei membri del gruppo radicale fiorentino Superstudio la definiscono “architettura tecnomorfa”, nel corso degli anni ottanta diventa, volgarmente, “high-tech” in un momento in 12
cui la sua carica filosofica e politica era già esaurita. Il complesso sorto nel cuore di Parigi durante gli anni settanta e conosciuto con il nome di Centre Beaubourg – oggi Centre national d’art et de culture Georges Pompidou – rappresenta un caso esemplare di sperimentazione dell’architettura tecnomorfa. L’opera, nata dalla collaborazione tra gli architetti Renzo Piano, Richard Rogers, Gianfranco Franchini (poi costituitisi nella Piano+Rogers Architects) e gli ingegneri dello studio Ove Arup & Partners, guidati da Ted Happold, rappresenta un’occasione unica non soltanto per dissolvere l’architettura in un’infrastruttura industriale al limite delle capacità tecniche dell’epoca, ma anche per ricorrere a un approccio olistico e multidisciplinare al progetto che proprio Sir Ove Arup aveva definito nei termini di “progetto totale” (Total Design). Il Centre Pompidou diventa quindi l’occasione di concepire un edificio-macchina che mette in crisi la definizione stessa di architettura delineando una progettazione corale, complessa e per certi versi persino problematica, in cui architetti e ingegneri, sin dalle fasi preliminari del progetto, dialogano non soltanto con imprese di costruzione, curatori museali, specialisti di biblioteche e direttori d’orchestra ma vanno anche alla ricerca di scienziati di aero e idrodinamica, di tecnici del suono, di esperti di metallurgia, di pionieri della cibernetica e dell’informatica, di specialisti delle industrie automobilistiche, ferroviarie, sino ad arrivare alle imprese legate ai
programmi dei vettori della NASA e della monorotaia francese Aerotrain, con l’intenzione di includerne i ritrovati tecnologici nella macchina-Beaubourg. Se è vero che quest’opera è davvero una macchina industriale e tecnologica, allora sembra possibile sottoporla anche a un esercizio diverso, e cioè “dis-assemblarla” concettualmente nelle sue componenti fondamentali, per ricostruire di ciascuna la genesi, il disegno, la messa a punto e in certi casi anche la fabbricazione e il collaudo. È con queste premesse che gli impianti di condizionamento, il “muro tridimensionale” (3-dimensional wall), le componenti iconiche della struttura in acciaio di fusione, il museo e persino quel dispositivo urbano che oggi chiamiamo “piazza” sono diventati oggetto di indagine per poi prendere la forma di saggi monografici raccolti in un’opera concepita per essere letta, in totale o in parte e secondo qualsiasi ordine. Attraverso queste pagine – è questa la speranza dell’autore – si comprenderà che per cogliere le origini del progetto del Centre si deve fare riferimento ai prototipi d’avanguardia del secondo dopoguerra; che per disegnare le linee plastiche dei suoi giunti si deve guardare tanto ai dettagli delle coperture ottocentesche in ferro e ghisa quanto alle scocche delle automobili da corsa; che per fabbricarne i modellati in acciaio di fusione si dovranno tenere presente gli avanzamenti ingegneristici delle stazioni petrolifere nel Mare del Nord; che per saggiare le potenzialità
dei suoi piani si dovrà guardare alle possibilità di movimento su cuscinetti d’aria offerte dall’Aerotrain; che per risalire alle origini dell’allestimento del Musée national d’art moderne si dovrà pensare a un villaggio folkloristico fatto di spiazzi e capanne; e che infine per comprendere sino in fondo la natura della piazza non basterà andare a Siena ma si dovrà volare sino a Woodstock, dove un prato lussureggiante era riuscito ad accogliere, seppure per la durata di qualche giorno, l’amore libero, il pensiero emancipato e l’immaginazione di un’intera generazione. Qui non si tratta né di celebrare la carica visionaria dell’architettura tecnomorfa né di menzionare le molteplici sfide che il suo funzionamento e la sua manutenzione pone alla società e alla coscienza ecologica del XXI secolo, ma di analizzare un modello esemplare di quel movimento d’avanguardia per mettere anche in rilievo un momento storico in cui l’architettura si è affermata come un’opera plurale, multidisciplinare, tecnologica, democratica e certamente creativa.
Immagine successiva: il plateau Beaubourg prima dell’inizio dei lavori per la realizzazione del futuro Centre Pompidou, Parigi, 1971.
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2.7
UNA MACCHINA DI MARLY PRIVA DEL SUO SISTEMA DI POMPAGGIO
Con la combinazione di un anfiteatro e un Forum (che per quanto sigillato nel ventre dell’edificio va letto in continuità con l’anfiteatro), Piano+Rogers Architects riporta in auge l’idea originaria del progetto come collettore di folla metropolitana. Si potrebbe pensare che questa trasfigurazione del plateau sia una reazione alla “Note antipathique” che Sébastien Loste, l’uomo che ha precisato il contenuto del progetto per conto di Pompidou e che ora ne sta seguendo l’adeguamento al programma per conto della Délégation, ha espresso nell’estate del 1972. In quell’occasione aveva accusato gli architetti di perdere di vista un sistema di circolazione originale nel quale aveva riconosciuto un meccanismo analogo alla macchina idraulica di Marly, un pionieristico dispositivo ingegneristico per il pompaggio dell’acqua della Senna costruito nei pressi di Versailles per alimentare i giochi d’acqua dei giardini di Luigi XIV31. “Qual è, insomma”, scrive Loste, “l’idea trainante del progetto? È quella di essere una gigantesca ‘macchina di Marly’ che raccoglie le masse in un grande bacino, le porta verso l’alto attraverso un solo canale, le distribuisce tra i piani, le riprende, e poi le solleva ancora, e infine le raccoglie di nuovo per riportarle al suolo, secondo una configurazione dove la scala mobile si trasforma in una pompa centrale, unica e aspirante, che mette in moto l’intera macchina”32. Per quanto la soluzione ad anfiteatro sembra ricostituire quel bacino per dargli un’identità civica inedita, 68
Piano+Rogers Architects non riesce a risolvere la questione dell’approvvigionamento del suo flusso vitale. Non soltanto non chiarisce la natura delle gradonate al punto da far sorgere il dubbio che l’anfiteatro possa bloccare l’accesso alla platea sottostante, ma compie l’ambigua scelta di divergere il tunnel pedonale de Les Halles, prevedendone lo sbocco non nella piazza ma su rue Saint-Martin, tramite una scala di emergenza al servizio del parcheggio. Che sia preoccupato dalle discussioni con le autorità municipali circa la realizzabilità del tunnel o che intenda offrire una continuità formale all’anfiteatro, Piano+Rogers Architects sta mettendo in crisi il dispositivo urbano che vorrebbe potenziare. Per comprendere le esitazioni intorno alla natura dell’invaso è sufficiente guardare agli elaborati prodotti nel corso del 1973. Nella pianta del progetto definitivo (projet définitif) l’anfiteatro è accantonato e viene ripresa una soluzione che riporta alla mente la sunken square del concorso: un monumentale accesso al tunnel de Les Halles aperto sulla piazza e fiancheggiato da padiglioni destinati allo stoccaggio alternati a informi gradinate. Nella sezione apparsa su L’Architecture d’Aujourd’hui nell’estate del 1973 Piano+Rogers Architects sembra tornare a una cavea civica che però si frammenta in una combinazione di scale e gradinate, tali da rendere impossibile associarle all’immagine di un unico dispositivo per la visione collettiva33.
Piano+Rogers Architects e Ove Arup & Partners, Centre Beaubourg, Seconda messa a punto del progetto (avant-projet sommaire II), modello del dossier CROIA, vista sulle animazioni e sui rilievi predisposti nell’invaso del plateau Beaubourg, Parigi, maggio 1972.
Immagine successiva: Piano+Rogers Architects e Ove Arup & Partners, Centre Beaubourg, Terza messa a punto del progetto (avant-projet détaillé),sezione dell’edificio e del plateau Beaubourg con piazza a gradoni equipaggiata con un dispositivo per proiezioni, Parigi, estate 1972.
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3.10
LE RESISTENZE DELLE IMPRESE ALLA FABBRICAZIONE DI UNA STRUTTURA DAI PEZZI UNICI
Con i dossier preparati da Ove Arup & Partners tra gennaio e febbraio 1973 in vista della gara d’appalto per la costruzione della carpenteria metallica, l’evoluzione della gerberette si avvicina a conclusione. Le uniche modifiche che rischiano di comprometterne la configurazione e con esso l’intera soluzione strutturale riguardano lo svolgimento della gara d’appalto. Nella primavera del 1973 una delle cordate francesi in gara per l’assegnazione dell’appalto lotto 6, charpente primaire, diretta dalle imprese CFEM e Creusot-Loire, presenta una serie di varianti economicamente vantaggiose. Si tratta di due varianti strutturali principali basate, in un caso, sulla sostituzione della fusione con la tecnica della forgiatura a caldo, e nell’altro, sull’eliminazione completa del sistema Gerber sostituito da uno schema strutturale basato su una grande trave reticolare affiancata da una trave orizzontale ancorata ai pilastri e inserita nel 3-dimensional wall. Lo stravolgimento della struttura è scongiurato a giugno dall’assegnazione della gara d’appalto alla cordata diretta dell’impresa tedesca Krupp Industrie und Stahlbau che si dice in grado di eseguire l’opera senza variazioni strutturali al costo di 96 000 000 di franchi francesi, e prevede di assegnare le opere di fusione a Pohlig Heinz Bleichert-PHB. Da questo momento, le modifiche alla gerberette si limitano ad accorgimenti minori e variazioni millimetriche proposte dall’ente certificatore francese 120
SOCOTEC e dai tecnici di Krupp e PHB per migliorare la resistenza strutturale del pezzo e per ottimizzare la colata dell’acciaio durante il processo di fusione. Con la preparazione del progetto definitivo, consegnato a ottobre del 1973 e con la fusione dei primi prototipi si conclude il complesso processo di progettazione della gerberette, un pezzo destinato a diventare l’icona in grado di rendere visibile al pubblico la meccanica e la dinamica che attraversa tutta l’opera e non solo la sua struttura.
Ove Arup & Partners, Centre Beaubourg, Disegno definitivo della gerberette, Parigi, gennaio 1973.
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5.7
DALLA FASCINAZIONE PER I TONI POP AL CODICE CROMATICO DEGLI IMPIANTI
Nella soluzione presentata nel projet définitif dell’autunno del 1973 la perdita degli schermi audiovisivi su rue du Renard orienta gli architetti verso un altro elemento in grado di perseguire quell’idea di comprensibilità e umanizzazione degli organi tecnici: il colore 46. La questione della cromia era già stata evocata sin dal primo avant-projet sommaire con alcune prove basate sull’uso di due colori pop, il giallo e il rosso, ampiamente utilizzati da Archigram ma anche da Piano e Rogers, ad esempio per la struttura della Wimbledon House o la copertura dei prototipi abitativi a Garonne 47. Impiegati inizialmente senza una chiara codificazione funzionale, questi due colori restano predominanti nelle prove realizzate tra il 1972 e il 1973. Soltanto tra l’estate e l’autunno del 1973, Piano e Rogers, affiancati dall’architetto Alan Stanton, allievo di Archigram e membro del team di progetto del Centre dalla primavera del 1972, creano un vero e proprio codice didattico-funzionale capace di far distinguere, attraverso il colore, le parti dell’edificio e le sue funzioni, riprendendo una soluzione già sperimentata nell’Unité d’habitation di Le Corbusier e nel Data Center di El Segundo di Craig Elwood. La nuova codificazione cromatica, elaborata in collaborazione con l’artista François Morellet, prevede il giallo e il grigio per la struttura primaria e secondaria, il verde per la rete idrica, il rosso e il blu per i condotti di immissione e ripresa 176
dell’aria, l’arancio per la rete elettrica e il celeste per quella dell’aria compressa48. Fino alla fine del 1973 tutto questo rimane una prova di studio riservata agli architetti. Per le scelte ufficiali, infatti, la Délégation vorrebbe rivolgersi ai coloristi coinvolti nel progetto sin dall’inverno del 1971, quali Vasarely, Cruz-Diez e Agam, già consulenti del sistema decorativo della facciata, ai quali in questa fase si aggiungono anche Jean-Philippe Lenclos, un colorista vicino alla pop art e Georges Patrix, consulente di estetica industriale, noto per gli studi cromatici di importanti stabilimenti francesi. Benché la documentazione d’archivio non chiarisca né il numero né la natura delle proposte cromatiche avanzate, ciò che è noto è che a partire dall’assegnazione dell’incarico di dirigere il Musée national d’art moderne a Pontus Hultén nell’estate del 1973, sarà lui stesso ad assumere la direzione degli studi del rivestimento cromatico, assistito dal direttore del Centre de création industrielle François Mathey. Sin dal suo arrivo al Centre Hultén esprime la propria contrarietà nei confronti della palette cromatica proposta dagli architetti, colpevole a suo avviso di offrire agli elementi architettonici un’importanza eccessiva e persino controproducente, nel caso degli interni, per l’apprezzamento delle opere d’arte. Per questo motivo Hultén e Mathey si orientano su semplici bicromie per distinguere elementi di grande e piccola scala, eccezion fatta per gli
impianti, da dipingere in bianco, per depotenziarne l’espressività tanto negli esterni che negli interni. A queste prove seguiranno altre varianti, tra le quali una bicromatica. In questa soluzione basata sui toni blue de France e khaki Tour Eiffel è ormai evidente la perdita del controllo sulla scelta del colore da parte della Piano+Rogers Architects. La questione assume una tale importanza nella messa a punto del progetto che sarà presentata a Pompidou, il quale, col desiderio costante di offrire al Centre un rivestimento tale da farne una vera e propria opera d’arte alla scala della città, consiglierà di identificare il blu e il marrone nei toni usati dall’artista e amico Georges Braque in certe sue opere. Contrari all’appiattimento materico e percettivo che queste soluzioni cromatiche apporterebbero alla struttura e agli altri elementi dell’edificio, il team, su iniziativa di Rogers, riesce a convincere la Délégation a tornare alla codificazione funzionale che, salvo alcune modifiche minori, verrà trasposta fedelmente nell’opera realizzata.
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Piano+Rogers Architects, Studi sul colore delle componenti del Centre Beaubourg, modello con codice cromatico funzionale, proposto dal team di progetto, Parigi, 1973.
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Piano+Rogers Architects, Studi sul colore delle componenti del Centre Beaubourg, modello con codice bicromatico in blu e marrone proposto dalla Délégation e dal presidente Georges Pompidou, Parigi, 1973.
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5.8
IL PROCESSO DI PREFABBRICAZIONE DEGLI IMPIANTI
Una volta avviata la gara d’appalto del lotto 8, Climation et conditionnement d’air, e dei lotti relativi agli altri impianti del Centre, Abbott e Barker, sulla scorta della visione proposta dal fondatore di Ove Arup & Partners con l’epiteto di “progetto totale” (Total Design), avviano un’elaborazione integrata che coinvolge architetti, ingegneri e imprese. Contrariamente alla prassi, architetti e ingegneri intervengono in prima persona sul disegno esecutivo di tutte le componenti impiantistiche e, in certi casi, persino sui disegni di carpenteria dei fornitori, apportandone migliorie tecniche e variazioni estetico-formali. Con questo metodo sono messi a punto anche i condotti dell’impianto di condizionamento disposti sulla facciata di rue du Renard, realizzati tramite un corpo interno in acciaio galvanizzato, uno strato di isolamento intermedio e una scocca esterna in alluminio. Per la colorazione degli elementi – una questione complessa che coinvolge componenti tecniche diverse sia in termini di materiale che di fornitori, si ricorre a un procedimento di colorazione in fabbrica basato sulla stesura di un pigmento tramite trattamento elettrostatico e successivo fissaggio della cromia tramite cottura49. Avviato il processo di prefabbricazione, Abbott e Barker si dedicano al coordinamento del complesso iter di montaggio. Per organizzare tutti gli attori coinvolti nella fornitura e nel montaggio degli impianti il team 180
Superstructure produce migliaia di disegni. Si tratta di elaborati schematici realizzati a pennarello per questioni relative alle tempistiche e destinati a indicare il posizionamento, gli ancoraggi e le connessioni di ogni singolo elemento impiantistico50.
Piano+Rogers Architects e Ove Arup & Partners, Centre Pompidou, Assemblaggio dei condotti dell’impianto di condizionamento prima del montaggio sulla facciata su rue du Renard, Parigi, 1976.
Immagini successive: Laurie Abbott (Piano+Rogers Architects), Centre Pompidou, Progetto definitivo (projet définitif), facciata del 3-dimensional wall su rue du Renard, prospetto, Parigi, 1974 (ridisegnato nel 1976-1977).
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PREFAZIONE DI LAURENT LE BON
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€ 35
INTRODUZIONE DI TULLIA IORI
DURANTE LA PRIMA METÀ DEGLI ANNI SETTANTA NEL CUORE DI PARIGI PRENDE FORMA UN’OPERA CHE CRISTALLIZZA IL SOGNO DI UN’EPOCA, QUELLO DI UNIRE LE COMPETENZE DELL’ARCHITETTURA, DELL’INGEGNERIA, DELL’INDUSTRIA, DELL’AERONAUTICA, DELLA PROGRAMMAZIONE E DELL’INFORMATICA PER TRASFIGURARE UN EDIFICIO IN UNA MACCHINA ALTAMENTE TECNOLOGICA E INTERATTIVA, INTRINSECAMENTE FLESSIBILE E AL SERVIZIO DELLA FOLLA. IL SUO NOME È CENTRE POMPIDOU. ALLA VIGILIA DI UNA DELLE PIÙ GRANDI TRASFORMAZIONI MAI INTRAPRESE SU QUEST’OPERA E GRAZIE AL RICORSO A DOCUMENTI D’ARCHIVIO E A INTERVISTE INEDITE, È TEMPO DI RICOSTRUIRE LA GENESI E LA MESSA A PUNTO DELLE SUE COMPONENTI FONDAMENTALI: COLOSSALI GIUNTI IN ACCIAIO DI FUSIONE AL LIMITE DELLE CAPACITÀ TECNICHE DELL’EPOCA, IMPIANTI TECNICI TRASFORMATISI IN FIGURE ARCHITETTONICHE, UNA FACCIATA TRIDIMENSIONALE CONCEPITA PER ACCOGLIERE SCHERMI EMITTENTI PER L’EDUCAZIONE DELLA FOLLA, UNA PIAZZA TRINCERATA NEL CUORE DI PARIGI PER RACCOGLIERE IL FLUSSO VITALE DELLA METROPOLI E UN DISPOSITIVO MUSEALE PENSATO PER TRASFORMAZIONI CONTINUE. RINTRACCIARE L’EVOLUZIONE DI QUESTE COMPONENTI RAPPRESENTA LA CHIAVE PER LA COMPRENSIONE DI QUELL’APPROCCIO OLISTICO ALLA PROGETTAZIONE CHE VA SOTTO IL NOME DI TOTAL DESIGN.
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