Aldo Presta Appunti in attesa di discorsi compiuti
Tra disegni e scritture
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ISBN 978-88-6242-506-3 Prima edizione Marzo 2021 © LetteraVentidue Edizioni © Aldo Presta È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Progetto grafico: Aldo Presta LetteraVentidue Edizioni Srl Via Luigi Spagna 50 P 96100 Siracusa, Italia www.letteraventidue.com
Disegni Aldo Presta Scritti e commenti Mi piace Luisa Bocchietto - 7 Il tempo del disegno Marco Tortoioli Ricci - 8 “Non pensare, disegna!” Emanuele Fadda - 9 Il laboratorio di A. Cinzia Ferrara - 11 Fatti e intepretazioni Salvatore Zingale - 16 Altri spazi Mario Piazza - 44 In distans. Tagli germoglianti Silvia Vizzardelli - 62 Tutte le pagine che verranno Daniele Gambarara - 86 Più tardi Massimo Celani - 100 Discorsi con la matita Domenico Cersosimo - 147 La casa, la pena, il riscatto Claudio Gambardella - 148 Che storie! Giovanni Sole - 150 La forza immediata del segno Mariadelaide Cuozzo - 153 Sguardo che unisce Ida Giulia Presta - 154 Guardare/guidare con precisione Aurelia Sole - 155 In silenzio Matteo Presta - 155 Per l’appunto Marina Simonetti - 155 Discorsi compiuti? Ma sono piattaforme bellezza! Michele Costabile - 156
Mi piace Luisa Bocchietto Ci sono cose che ci piacciono, così d’istinto, come alcune persone. Forse riconosciamo in esse qualcosa di noi, o forse ci rivelano qualcosa di noi che non sappiamo, almeno non razionalmente o consapevolmente. Ci piacciono e vorremmo sapere di più e quando lo scopriamo ci accorgiamo che lo avevamo saputo da sempre, perché appunto era in noi. Amiamo ciò che ci assomiglia o che assomiglia ai lati forse più inascoltati, che pure ci appartengono. Non ho avuto modo di frequentare a lungo A., eppure, non importa, lo sento vicino. Per questo quando ho visto i suoi disegni apparire via via, mi sono sentita in dovere di inviargli un messaggio di sprone a farne qualcosa di strutturato, che restasse in modo meno fugace. Penso sia importante trovare un riscontro certo, in un dato momento, su cui fare appiglio, al di là di un like. Ci sono cose che meritano di più. Ci sono pensieri e disegni, e pensieri in forma di disegni, talmente belli che devono avere spazi adeguati e tempi più lunghi per poterli assaporare. Ci sono espressioni talmente sottili e così penetranti che non si possono lasciare andare. Questi disegni non so da dove nascano e perché, ma ognuno di essi mi parla, in modo immediato e profondo e vorrei averli tra le dita e poterli sfogliare ancora e poi ancora... E così, mi auguro, ora sarà, ed io sarò contenta e A., spero, pure. Mi piacciono queste linee discrete eppure decise, mi piacciono i loro racconti non urlati, eppure fanno rumore, mi piacciono i loro sfondi gai, eppure fanno pensare. Mi piace pensare che esistano affinità elettive, nonostante le distanze, mi piace pensare esistano le amicizie, nonostante le differenze, mi piace pensare esistano gli affetti senza interesse, per il puro piacere. Un piacere che deriva dalla bellezza quando è piena d’intelligenza. Una bellezza che nutre e ci fa felici di non essere soli, anche solo per un istante, anche solo per un sorriso strappato al nostro cuore terrorizzato di essere al mondo. Grazie A. per questo.
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le specie sopravvissute e non estinte, distinguendole dagli altri rami terminali del corallo evolutivo. Solo a quel punto, col disegno sotto gli occhi, si mette a scrivere (mette in parole, per così dire), prima sulla parte bassa del foglio, e poi su quella esterna. Quest’immagine, passata alla storia e ripresa innumerevoli volte (persino nei tatuaggi), è uno dei più incredibili documenti di una prestazione intellettuale geniale che l’umanità conosca. Mettiamoci nei panni del suo autore. Quando diremmo che Darwin ha intuito (“scoperto”, “compreso”, “elaborato” – fate voi) il meccanismo evolutivo? Dopo che ha commentato a parole quel che ha disegnato? Mentre disegnava? La prima volta che ha gettato uno sguardo al disegno? Difficile dirlo – ma credo che ben pochi direbbero che “ce l’aveva in testa” (già linguisticamente formato) e solo poi, a partire da un’espressione linguistica già compiuta, ha disegnato. A. non è Darwin, ma sa bene, per antica abitudine, che lasciar pensare le mani (specie quelle sapienti e allenate, come la sua) non è mai una cattiva idea, e l’intelligenza delle mani, e quella della penna, qualche frutto lo porterà. Ciò che disegna gioca con le opposizioni visuali più elementari, senza adagiarvisi mai completamente. Prospettive, spazi, isotopie figurative riconoscibili (il libro, la fabbrica, la città) hanno una consistenza sempre un po’ evanescente, e le opposizioni cromatiche – se ci sono – sono sempre binarie. Gli attori umani vanno spesso a fondersi con altri elementi: abbiamo uomini-antenna, donne-vaso, uomini-uccello, uomini-ciminiera e così via. Ma anche quando le figure umane restano tali, il loro contorno è appena abbozzato, a volte stirato ed espanso come se si trattasse di pupazzi di gomma (“nodi irrisolti”) per esplorare nuove prossemiche attraverso la protrusione di protesi di varia natura; altre volte il corpo generico che viene disegnato è letteralmente fatto a pezzi (“ricambi generazionali”), e spesso sessualmente connotato in un modo tra il primitivo e il grottesco, ma sempre con una sfumatura infantile. D’altra parte, il soggetto di alcuni disegni più intimisti (“seratona”, per esempio) è chiaramente lo stesso autore, e vi sono persino ritratti riconoscibilissimi, per quanto appena sbozzati (come il pensieroso Vanni Pasca di “quell’attimo”, in procinto di essere abbandonato dal coccodrillo della sua Lacoste). Gli ultimi esempi ci dicono però che l’espressione linguistica è in certi casi alternativa, ma mai estranea a questo disegnare. In certi casi, anzi, viene prima, e non dopo. Alcuni dei disegni più gustosi (non saprei davvero trovare un altro aggettivo non sinestesico – e già mi immagino un potenziale disegno di A. con divoratori di disegni che si leccano le dita) sono quelli in cui le metafore vengono prese sul serio, e diventano figura. Così le “professioni emergenti” affiorano (con una parte della testa, o con uno strumento) dal pelo dell’acqua, mentre alcuni nuotano sotto (con la speranza, chissà, di emergere prima o poi). Ma il pelo dell’acqua, nel disegno, è anzitutto una linea, e dunque un sostegno a cui aggrapparsi, o attaccare a un’altalena – ed è a questo punto che il disegno sta iniziando incontestabilmente a pensare da sé, in modo così immediato e luminoso che una metaforizzazione verbale non 10
riuscirebbe mai a tenergli testa. Insomma, questi appunti in attesa di discorsi compiuti hanno un’origine che non può ridursi alla situazione pandemica, con l’autore chiuso in casa (come noi tutti) che disegna in attesa di poter parlare. È un’attitudine più generale, una disposizione felice, e invidiata da noi possessori di mani tanto più stupide, che la situazione contingente – ma quanto contingente? ognuno di noi sa, sente, che per mille aspetti non potrà mai tornare tutto “esattamente come prima” – non ha fatto che magnificare. Gli “appunti in attesa di discorsi compiuti” sono già di per sé discorsi (e quanto eloquenti…!) che non necessitano forzatamente di un compimento verbale, anche se in certi casi lo chiamano a gran voce. Tutti coloro a cui questi disegni hanno fatto compagnia in questi mesi sanno che è una fortuna che oggi vengano riproposti tutti insieme (e con vari altri un po’ meno recenti), perché con queste immagini si chiacchiera che è un piacere.
Il laboratorio di A. Cinzia Ferrara Un grande maestro miniaturista e un altro grande miniaturista camminavano su un prato europeo e parlavano di maestria e arte. Di fronte a loro si parò una foresta. Quello più abile disse all’altro: «Disegnare con metodi nuovi significa avere una maestria tale che, una volta disegnato un albero di questa foresta, un appassionato che guardi il disegno venga qui e possa distinguere quell’albero in mezzo agli altri». Io, il povero disegno di un albero che vedete, ringrazio Iddio per non essere stato disegnato con una simile mentalità. Non perché abbia paura che se fossi stato disegnato con i metodi europei tutti i cani di Istanbul, credendomi vero, mi avrebbero pisciato sopra. Ma perché io non voglio essere un vero albero ma il suo significato. Orhan Pamuk, Il mio nome è rosso, Einaudi, Torino, 2001, p.55
Se poteste visitare il laboratorio di A. vi trovereste diversi strumenti e attrezzi, sparsi nello spazio e non ordinatamente disposti su un pannello a parete, come quelli che si trovano nelle officine meccaniche, dove si compongono come in un quadro, tutti allineati e suddivisi per tipologia e misura. I suoi strumenti sono un po’ sparsi dappertutto, potreste trovarne anche in spazi inusitati, non solo sul tavolo di lavoro, sulla tastiera del computer, vicino al taccuino, nell’astuccio di penne e colori, tra le pagine dei libri sugli scaffali, ma anche vicino a porte e finestre per impedire al vento di farle sbattere, negli armadi tra abiti appesi e nei cassetti tra camice ben ripiegate, sui ripiani della dispensa, tra barattoli trasparenti di conserve e confetture, all’ingresso di casa, nascosti tra ombrelli per i giorni piovosi. Se poteste visitare il laboratorio di A. trovereste anche strumenti che non lo sono davvero, assomigliano di più a semplici cose trovate nel corso delle sue ricerche e dei suoi 11
Cose che accadono
Immersi in un flusso continuo di eventi. Solo di pochi abbiamo esperienza diretta. Di alcuni solo un’idea vaga. Di moltissimi solo un qualche pallido segno. *** Ricorre periodicamente, una certa idea, una necessità sembra, di dare una qualche voce a una possibile radice etica e politica del mio agire. Ma appena provo a dargli forma, questa urgenza velocemente evapora.
Meritocrazia italiana
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Gesti forti
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Serve una mano
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Responsabilità
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Vertigine
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Spazi comuni
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Nello spazio si determina il nostro esserci. Nei luoghi ci troviamo e ci perdiamo.
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Altri spazi Mario Piazza
Gli spazi comuni non sono solo quelli fisici. Ci sono anche altri spazi. Ma senza quelli fisici, non si saprebbe dove stare. Una strada, una piazza, un parco siamo sicuri che li possiamo sempre ritrovare e frequentare. Proprio perché imprescindibili e assuefatti alla certezza della loro presenza, possiamo star tranquilli e vagare in tutte le specie di spazi. Dopotutto, come ci ha insegnato Perec è il nostro sguardo che “percorre lo spazio e ci da l’illusione del rilievo e delle distanze. È proprio così che costruiamo lo spazio: con un alto e un basso, una sinistra e una destra, un davanti e un dietro, un vicino e un lontano”. E in effetti gli spazi visti da vicino o da lontano cambiano. Ma in quest’anno dagli spazi bloccati, i nostri occhi non ci guidano più. Non troviamo più il cordolo del marciapiede amico, il cancello consunto del parco, le ali dell’angelo in marmo del monumento e la seduta nuovamente divelta della piazza. Sappiamo che esistono, ma la nostra vista ha inquadrature fisse. Non ha più appigli, scivola con la mente nell’orizzonte infinito senza ostacoli. Non vede più nulla. E anche gli spazi comuni, quelli della gente, della quotidiana socialità, si dissolvono. Restano forse le memorie di questi spazi e le immagini negli schermi delle nostre vite mediatiche. Lì li vediamo nudi, silenziosi luoghi metafisici. Quello
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che prima ci sembrava una certezza, ora ci appare il simulacro di una incerta condizione. E non per caso si cerca di dilatare e trasformare i nostri spazi privati, le nostre alcove in piccoli dispositivi di possibili socialità. Le finestre come vetrine, i balconi come palcoscenici, le terrazze come teatri. Insomma un virus ha cambiato molte cose, soprattutto quelle imprescindibili e certe. Ci ha obbligato davvero a fare nuovi sforzi per adeguarci e imparare, tante cose e soprattutto a come tenere vive le relazioni, il bisogno di spazi comuni. Ed è una riflessione che non si deve e non può più fermarsi alla riproposizione delle nostre abitudini quotidiane. Perché, mai come prima, ci sono le cose importanti, come la finitezza e i limiti che l’uomo si dovrebbe dare. Gli spazi vuoti sono l’immagine-messaggio, nient’affatto metafisica, che il virus ci sta avvertendo in maniera esemplare e terribile. Il mondo non è solo dell’uomo e che le leggi del suo continuo cambiamento non sono affatto solo nelle sue mani. Anzi, se ci lasciassimo guidare dalla natura e non la soffocassimo, l’aria ridiventerebbe pulita, si risentirebbero i profumi, si apprezzerebbero i silenzi e ci si potrebbe purificare. Ritroveremmo anche gli spazi comuni perduti e quasi non sapremmo riconoscerli. Ma la domanda è: l’uomo vuole davvero ancora imparare?
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Nel campus
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A lezione
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Corpi in attesa
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False partenze
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Che ci faccio qui?
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Divario nord-sud, proviamo così
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