Prefazione di Claudio Kulesko
Salvatore Simioli
BERG HAIN PER UN’ARCHITETTURA DEL PERFORANTE
24 Collana Alleli / Research Comitato scientifico Edoardo Dotto Nicola Flora Antonella Greco Bruno Messina Stefano Munarin Giorgio Peghin I volumi pubblicati in questa collana vengono sottoposti a procedura di peer-review
ISBN 978-88-6242-312-0 Prima edizione italiana Luglio 2018 © LetteraVentidue Edizioni © Salvatore Simioli © Claudio Kulesko (premessa) È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Book design: Raffaello Buccheri LetteraVentidue Edizioni Srl Corso Umberto I, 106 96100 Siracusa, Italy web: letteraventidue.com facebook: LetteraVentidue Edizioni twitter: @letteraventidue instagram: letteraventidue_edizioni
Salvatore Simioli
BERGHAIN Per un'architettura del perforante
QUANDO INVOCAMMO L’ILLIMITATO Claudio Kulesko*
* Ha collaborato con la rivista Alphaville – Per un’ecosofia del futuro, e piattaforme digitali come Not ed Effimera. Si occupa principalmente dell’opera di Deleuze e Guattari, di realismo speculativo, di filosofia delle scienze e pessimismo filosofico. È organizzatore e ideatore, assieme a Giuseppe Molica e Lorenzo Marsili, del seminario Musica e Filosofia dell’Università Roma Tre. Di recente OmbreCorte ha pubblicato un suo contributo su Antonin Artaud nel volume collettaneo L’Insorto del Corpo. 6
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Il Chaos viene prima di tutti i principi di ordine ed entropia; non è un dio né una larva, il suo desiderio idiota contiene e tratteggia ogni possibile coreografia, ogni insignificante etere e flogisto: le sue maschere, come nubi, sono cristallizzazioni della sua stessa impersonalità. Hakim Bey Non c’è bisogno di legge affinché vi possa essere trasgressione. La trasgressione è uno slittamento ritmico, un’eccedenza, un balzo in bilico tra necessità e contingenza. Laddove ogni cosa sembrerebbe essersi armonizzata secondo un ritmo comune, l’eccesso si manifesta sotto forma di rumore, dissonanza e disarmonia, trasformando radicalmente l’ambiente circostante. Solo l’ordine armonico, inebriato da un ingenuo narcisismo, può prendere sul serio l’idea che la trasgressione avvenga in funzione di un suo superamento, in virtù di un desiderio di oltrepassare la legge e formulare un nuovo codice; quest’idea è una miseria da grammatica universale. Si tratta piuttosto di un’affermazione illimitata – riguardante l’incenerimento dei limiti – che non pone alcunché: non un gesto prometeico, in cui il tentatore offre ai suoi consimili il frutto proibito della novità, ma un gesto totale, attraverso il quale un essere finito, limitato, irrompe nell’infinito, nell’illimitato. Non vi è alcuna dialettica, nessuna progressione, nessuna gradualità, solo nuda sperimentazione imbevuta di pericolo. Questa affermazione non-positiva è perciò necessaria, in quanto inarrestabile produzione di differenza, e al tempo stesso contingente, giacché in essa non vi è alcuna forma prestabilita, se non una forma dinamica, un formalismo della pura attività – ciò che, in ultima istanza, rende necessario questo movimento. Ciò significa che, anche se vi si prodigassero tutte le proprie forze e tutto il proprio tempo, giammai si riuscirebbe a distruggere o a occultare ogni traccia di scheletro difforme o mostruoso, a coprire le urla e i discorsi degli internati psichiatrici, a perseguitare ogni vagabondo, ogni bestia selvatica, ogni mistico dello spirito o del corpo transessuale, transdimensionale, transpecifico. Incalzati da questa marea della differenza, da questa eccedenza costante, le soggettività, gli ambienti e le cose trasbordano, divenendo altro da sé. Se le utopie, gli ordini armonici totalizzanti e totalitari, consolano i tutori della legge – avvolgendo il reale in una nebbia anestetizzante – le eterotopie, i luoghi trasbordanti, li «inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano Premessa
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I IL CONSUMO DI SÉ
Detonazione sincronizzata Quando venne chiesto al sindaco Klaus Wowereit, quale fosse l’identità di Berlino, egli rispose che se ne esisteva una, questa aveva sicuramente a che fare con la sua vita notturna1. Il clubbing berlinese, così come si presenta a noi oggi, è un fenomeno complesso e unico nel suo genere, motivo per cui, se lo considerassimo semplicemente come una forma di aziendalizzazione del tempo libero non potremmo che limitarci ad un’analisi banale del fenomeno. Dovremmo in quel caso, tra l’altro, ricordare che la “cultura del party” si diffuse nella Berlino occidentale già diversi anni prima che il Muro cadesse. Ma la realtà che ci intriga, è che la maggior parte dei club di cui pullula oggi la capitale tedesca, ha veramente ben poco a che fare con delle comuni discoteche2. Comprenderne il motivo sarebbe impossibile se non tenessimo conto di quei fatti che portarono Berlino negli anni Novanta a stipulare un nuovo “asse d’acciaio”3 con la città di Detroit. Se oggi Berlino può definirsi capitale mondiale della Techno, la lunga serie di eventi che l’ha portata ad esserlo comincia proprio nelle fabbriche dismesse di questa metropoli americana. Detroit affrontava in quegli anni una grande crisi economica che ne provocò il progressivo spopolamento e conseguentemente, persino la bancarotta4. La dorsale economica della città (che risiedeva nell’industria dei trasporti) crollò, e per questa ragione molti stabilimenti di produzione vennero chiusi. In un sistema sociale come quello americano, che non faceva altro che fomentare l’arrivismo, il diniego dell’opulenza promessa accrebbe solo il malcontento di quei soggetti già costretti al margine della società. Questa catastrofe però, trasformando rapidamente Detroit in una metropoli post-industriale, si mostrò anche per un lato positivo. Le fabbriche abbandonate per via della bancarotta divennero il setting perfetto per delle feste sfrenate, offrendo anche a quegli stessi soggetti sociali l’opportunità di sistematizzare una serie di sperimentazioni musicali che si erano già avviate negli anni Settanta in altre città degli Stati Uniti. Durante gli anni della contestazione, infatti, chi si vedeva ingiustamente discriminato per via della sua etnia o del suo orientamento sessuale, poteva facilmente accedere ad un’innumerevole quantità di 20
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eventi, che poco o niente avevano a che fare con la normatività con cui il sistema consumistico configurava solitamente il settore dello svago. Fu nei party di Mancuso, ad esempio, che nacque quella che fu poi definita Disco music. Questo neonato genere musicale apriva le porte ad un’idea di danza completamente nuova, che non impiegò molto tempo a diventare popolare anche tra le persone della classe dominante5. Secondo l’antropologo Francesco Macarone Palmieri, con la Disco, “cadeva l’idea del ballo come sedimentazione del binomio maschio/femmina dove l’uomo ‘conduce’ [...] e la donna si lascia guidare.” Il soggetto metropolitano cominciava così ad aprire il suo corpo “ad una danza individuale più che individualista, in cui tutti ballano con tutti”6. Per quanto la Disco potesse sembrare a prima vista un’atomizzazione della sala da ballo essa al contrario destrutturò una visione patriarcale del piacere e del desiderio, che fino ad allora avevano sempre marciato di pari passo. Alla sua diffusione capillare, in ogni caso, non poteva che seguire anche la sua stessa commercializzazione. La musica, che negli anni Settanta aveva rappresentato il focolare delle contestazioni, iniziò a perdere la sua connotazione rivoluzionaria e divenne il semplice indice di un edonismo da fine settimana, compatibile con i ritmi del lavoro in fabbrica. C’è da dire però che la sperimentazione non si fermò affatto. La produzione dal basso continuava a ricostruire delle nicchie alternative nelle quali fosse possibile sfuggire alla logica del grande mercato e questo processo induceva i dj ed i produttori di musica elettronica ad aumentare i battiti per minuto della loro musica, recuperando la dance floor come territorio di un mondo al margine. Si potrebbe dire, citando Deleuze, che ad ogni territorializzazione corrispondevano altre mille deterritorializzazioni. Ad esempio a Chicago negli anni ’70 la Disco venne ibridata con le altre tendenze musicali emergenti e diede vita a quella che venne poi chiamata House music. Ma come abbiamo già detto, fu a Detroit che l’atmosfera si fece realmente torrida: gli afroamericani Derrick May, Juan Atkins e Kevin Saunserson, mixando synth-pop ed electro-funk alla musica house, ma sottraendovi ogni parte cantata, sintetizzarono un nuovo tipo di musica elettronica dalle sonorità quasi afro-futuriste, in grado di trasformare il Dj in un orchestratore della folla, in una figura magica in grado di animare la dance floor come un corpo danzante7. Il consumo di sé
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III IL PERFORANTE
Titolo capitolo
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Teoria dell'evento L’ipotesi che lo spazio non fosse semplicemente uno sfondo neutrale ai soggetti sociali, ma fosse invece inesorabilmente prodotto dalle loro stesse contraddizioni fu ben formulata anche da Henry Lefebvre1, ma le considerazioni fatte a tal proposito da Foucault continuano ancora oggi a rivestire un ruolo importantissimo, se non altro perché furono le uniche ad aprire un campo d’indagine, l’eterotopologia, in cui, ospitando spazi di contestazione, l’architettura poteva diventare a tutti gli effetti la pars collidente dell’attuale progetto di istituzionalizzazione degli spazi. Un campo d’indagine molto affascinante per quegli architetti che da tempo lavoravano per restituire alla pratica architettonica una funzione sovversiva. Del resto l’idea che l’architettura potesse essere uno “strumento di trasformazione sociale” 2 non era affatto nuova: durante gli anni della contestazione furono molti gli architetti e i teorici che credettero che la disciplina dovesse ricominciare a parlare di questi temi. Nel Novecento, ad esempio, persino il modernismo aveva incarnato quest’istanza ma, come ben sappiamo, l’aveva anzitutto piegata ad una visione finalistica e teleologica della storia riponendo nel progresso tecnologico e nel miracolo economico una fiducia indiscussa ed indiscriminata, che non portò ai frutti sperati. Tuttavia generalizzare in questo modo la pluralità di pensiero che caratterizzò il movimento moderno sarebbe riduttivo ed ingenuo: non intendiamo affatto decostruire in questa sede la sua apparente natura monolitica, un lavoro, del resto, già ampiamente sviluppato da Marco Assennato nel suo libro Linee di fuga3; quanto piuttosto sottolineare che nonostante l’ipotesi di un’architettura votata “alla trasformazione dello stato di cose esistenti”, per dirla con Marx, sia comune a molti periodi storici, l’idea che questa potesse dirigersi contro ogni genere di istituzione, diventando un mezzo per sovvertire le attuali relazioni tra l’individuo e la società, era un’idea totalmente nuova. Se gli architetti oggi sembrano poco interessati ad entrare nel discorso politico, è pur vero che, dopo svariati anni in cui sembrava essersi esaurita, il recente stato di crisi ha imposto di riaprire questa discussione: un rinnovato éngagement e uno spiccato interesse per il contributo dell’avanguardia degli anni ’70 caratterizza sempre di più 76
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il lavoro di molti architetti contemporanei, i quali si dedicano nuovamente a fare dell’architettura quella Macchina da Guerra che avrebbe dovuto e potuto essere. Bernard Tschumi fu probabilmente colui che fin dall’inizio si sentì maggiormente coinvolto da questa possibilità: intuì prima di tutti quello che era il “paradosso” dell’architettura e dove risiedesse la sua difficoltà nel destituire il Potere. I suoi saggi appaiono ancora oggi indispensabili a chiunque si prefigga di trovare una chiave di lettura dello spazio architettonico che non mortifichi la sua dimensione politica e il suo potenziale rivoluzionario e che intenda smantellare radicalmente il presupposto che tutto questo con l’architettura abbia poco o niente a che fare. Potremmo facilmente sostenere che tutta la ricerca di Tschumi si fonda sul concetto di disgiunzione. L’architetto franco svizzero, attraversando il pensiero di Derrida, riuscì ad individuare nell’assioma modernista secondo cui la forma avrebbe sempre dovuto seguire la funzione, un interstizio concettuale, uno spessore, come direbbe Sara Marini, in cui l’architettura non sarebbe stata pensabile se non in funzione dell’evento stesso di cui diveniva contenitrice4. La natura precaria della relazione che vigeva tra forma e funzione emergeva chiaramente nelle occupazioni temporanee degli stabili dismessi degli anni Novanta, in cui l’allocazione di un nuovo programma, come quello di un free party, in un edificio che in precedenza adempiva ad una funzione completamente diversa, riusciva a liberare lo stesso potenziale di “detournement” che i situazionisti come Guy Debord o Constant avevano riconosciuto nel paesaggio metropolitano e nel suo attraversamento aleatorio. Questi fenomeni erano la prova che non solo forma e funzione erano disgiunte, ma in taluni casi, potevano collidere, e nelle dissonanze che si sarebbero prodotte da queste collisioni, nello spazio concettuale che si sarebbe delineato, riemergeva ciò che da troppo tempo l’architettura aveva completamente dimenticato: il Corpo e la sua capacità di violare la configurazione spaziale. Ciò che c’è di più interessante in queste forme di occupazione infatti, e che nel caso di Berlino e del Berghain emerge chiaramente, è che nascendo in stato di semi-legalità, se non di illegalità totale, gli edifici che si trovavano ad essere riutilizzati, in cui veniva allocato un nuovo programma, non venivano affatto riqualificati: in mancanza Il perforante
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L'osceno A valle di queste considerazioni è chiaro che quanto il Berghain ha di interessante non può trovarsi su di un piano formale. Certo, non si potrà non riconoscere nel progetto di quest’edificio la ricerca di un determinato equilibrio, ben espresso dalla facciata, dal ritmo scandito dai suoi pieni e vuoti, o più semplicemente dalle sue stesse proporzioni, eleganti e ben calibrate; ma è pur vero che queste proprietà, a cui si ricondurrebbe normalmente un presunto ideale di bellezza, appartengono meno al Berghain che alla ex-centrale elettrica in cui è allocato; motivo per cui, se ci dovessimo limitare a queste, non solo troveremmo scarso interesse a parlarne, quanto, cosa più grave, le astrarremmo anzitutto dal “piano di consistenza” dell’edificio stesso, ovvero da quel piano su cui si stipula un rapporto tra l’architettura e il Corpo, che chiama inesorabilmente in causa i modi in cui esso la utilizza. Se la profanazione dell’architettura ad opera del Corpo, nel caso del Berghain, incide in maniera così radicale sul loro rapporto è, piuttosto, proprio per la sua capacità di sconvolgerne e ribaltarne il piano formale, cambiandone completamente lo statuto. A seguito di ciò, le forme, o i significanti che ne restano, smettono di veicolare un qualsivoglia ideale di bellezza per vettorializzare piuttosto delle immagini che potremmo definire ambigue e disturbanti, che non esprimono più niente se non le intensità con le quali sono in grado di colpire l’individuo sul piano del suo desiderio: si tratta di tutta una micrologia della traccia, che agisce sull’inconscio in maniera quasi impercettibile. Quindi se da un lato saremmo portati a parlare del Berghain principalmente in termini di spazialità, dall’altro non possiamo avanzare in quest’indagine senza tener altresì conto di come queste immagini ne condizionino la natura, poiché sradicando progressivamente l’individuo dalle sue sicurezze, esse predispongono anche un nuovo tipo di spazio. Neanche potremmo mai ridurre queste considerazioni a quanto avviene all’interno del club: nonostante la disgiunzione con l’esterno e la conseguente trasformazione dell’involucro nel carapace di una dimensione a sé stante, si presentino come le sue caratteristiche più interessanti, è evidente come esse comportino l’attivazione di alcuni meccanismi anche prima che se ne varchi effettivamente la soglia. 84
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Ad esempio, se è vero che le luci stroboscopiche che ne provengono, varcandone il limite, smascherano completamente la presenza umana all’interno dell’edificio, è pur vero che esse semplicemente vi rimandano, in maniera tanto sottile da assumere quasi un tono tetro, se non addirittura teatrale. Anche il lungo e dilatato percorso che conduce all’ingresso, pur non essendo altro che un sentiero di terra battuta e transenne metalliche, opera attivamente sull’inconscio, cosicché passando dal paesaggio urbanizzato a quello dell’abbandono, dall’asfalto allo sterrato e alle sue pozzanghere, si acuisca la sensazione di essere ormai lontano dalla metropoli e dal suo sfavillante paesaggio, di star procedendo verso un territorio autonomo. Persino la fila gioca un suo ruolo: incanalando la folla già ad una grande distanza per via dell’immensa affluenza, non solo conduce gli individui in una lenta processione verso una facciata che non smette di incombere, ma alterna alla vista i frammenti di un immaginario che si comporrà solo successivamente all’interno del locale e che prima di allora si stende ancora in frantumi. Tracce di quanto non è più, tracce di quanto non è ancora. Potrebbe sembrare che tutte queste tracce, talvolta disturbanti, talvolta addirittura paralizzanti, siano solo tese a interporre tra l’edificio e l’individuo che vi si approssima, una distanza in grado di irrobustirne il carattere liminale, ma esse non operano sull’inconscio senza sviluppare direttamente un preciso rapporto anche con il Corpo: la strada sterrata lo conduce in un’accelerazione tanto quanto la fila in una decelerazione. Esse non solo sono il prodotto stesso del movimento degli altri individui all’interno e all’esterno del locale, ma li coinvolgono singolarmente delineando per loro una spazialità fatta di velocità, scarti e attraversamenti puntuali, in grado di condurli in un progressivo movimento di de-soggettivazione, in cui arriveranno persino mettere in discussione la loro stessa identità. Se l’esperienza di questa spazialità si concentra, com’è chiaro, attorno all’attraversamento della soglia, non dobbiamo credere che varcato l’involucro essa si esaurisca, rivelandosi semplicemente propedeutica. Essa passerà piuttosto drammaticamente su di un piano tanto immateriale quanto impercettibile. L’interno di questa ex-centrale elettrica, disarticolando le regole Il perforante
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La macchina perforante Se in ogni sala del Berghain c’è un Corpo che sta mutando, che si estende in territori sconosciuti e che si abbandona all’intensità dell’istante, lasciandosi se-durre dall’ambiente e dai modi di muta dei suoi dis-simili, ma soprattutto che comunica con un linguaggio a-sintattico, capiamo allora che il Rituale di Sparizione si è già compiuto. Avevamo già detto che in questa maniera sarebbero stati disfatti i tre strati, della soggettivazione, della significanza e dunque dell’organizzazione, e sarebbero potuti proliferare infine Corpi senz’Organi, ma ciò che non avevamo messo in luce era quanto quest’operazione sarebbe stata capace di riscrivere completamente anche i rapporti tra soggetto e oggetto del desiderio. D’altronde, lo sosteneva anche Derrida, quando il linguaggio viene sottoposto a queste operazioni di scoinvolgimento, non può più “sublimarsi o sottilizzarsi in direzione di un senso o di un oggetto. [... Prende ad esprimere se stesso] senza indugio, senza rilascio, senza ritardo”1. In altre parole non diviene altro che un linguaggio dell’Atto. Strano a dirsi, ma se l’architettura, dunque, si è infine rivelata una Macchina da Guerra, non lo ha fatto di certo grazie al lavoro di un architetto. Nonostante il Berghain sia stato poi, nel tempo, oggetto di alcuni lavori di riqualificazione, non è per via di questi che ha sviluppato delle capacità sovversive, o si è riuscito ad imporre come punto di riferimento nella lotta contro la discriminazione sessuale. Se questo edificio riesce a far emergere “l’elemento nomadico” del Corpo, ovvero ciò che lo trascina nelle “incontrovertibili metamorfosi che ci aprono alla geografia del corpo-territorio mutante”2 non sarebbe potuto nascere anch’esso che dai concatenamenti eventuali più improbabili. Non di meno però, il Berghain testimonia oggi la possibilità di una maniera totalmente nuova di approcciarsi al progetto architettonico, imponendoci di guardare ad esso non come organizzatore delle attività dell’uomo, ma come un suo possibile dis-organizzatore: un progetto che si prefigga di offrire all’uomo uno spazio da performare, non uno spazio liscio, ma uno spazio ricco di striature e complicazioni, tra le quali possa egli stesso apprendere a fluire in maniera liscia, sottraendosi così, una volta per tutte o almeno per una volta, all’assoggettamento 96
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della Sintassi; che si prefigga di trascinarne il Corpo in una serie infinita di catastrofi e imprevisti, in cui possano riaccendersi i suoi “focolai di mutazione continua” più sopiti. Se è vero che per mettere a punto un’architettura del genere occorre che si comprenda la natura macchinica del Corpo e che se ne individuino le anomalie per dedurne i meccanismi, è pur vero che un tale studio potrebbe rivelarsi molto difficile. Del resto questo tipo di architettura ha sempre avuto una sua mimetica: mima l’ordine e la struttura istituzionale in modo quasi perfetto, per recuperarne e astrarne ogni dinamica, e rivolgergliela contro. Nasce per una guerra di trincea, in cui si sposta sul piano della Realtà, in maniera tanto sotterranea quanto le basta a non essere individuata. Si infiltra in maniera sottile nella trama della quotidianità, motivo per cui una tale ricerca esige tempo ed estrema attenzione. Se una bellezza fa capo a queste Macchine, questa non può che essere quella bellezza “esplodente-fissa”3 di cui parlava Bréton; poiché è chiaro che il suo ruolo, così come quello di ogni esplosivo, è sempre stato quello di aprire un varco: un varco nei Muri, un varco nei Corpi, un varco nella Sintassi. Potremmo forse chiamarle Macchine Perforanti e dire, più precisamente, che la bellezza non è una loro proprietà, quanto piuttosto il loro fine: far detonare la bellezza, tramite reazioni a catena. All’architetto non rimane che investigare la Realtà per scovarle e moltiplicarle, in modo tale da innovare continuamente i modi con cui, attraverso la pratica architettonica, è possibile intervenire sul tessuto sociale per produrre nuove enunciazioni, nuovi valori e nuove relazioni possibili.
Epilogo
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BIBLIOGRAFIA
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Testi • • • • • • • • • • • • • • •
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Bibliografia
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Ad uno sguardo trasversale, il Club berlinese per antonomasia svela la sua natura eterotopica: se i Corpi che penetrano quest’edificio finiscono col trovarsi vis-à-vis con il proprio desiderio, è perché al suo interno gli si restituisce parte del proprio diritto naturale: la possibilità di una défaillance, l’opportunità di venir meno a sé stessi.