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Architettura lingua morta I (1984)*
Quando ho dovuto dare in fretta un titolo per il mio intervento a questo convegno intitolato “Architektur zwischen Individualismus und Konvention” , prima ancora di poter riflettere su quello che avrei voluto dire, come spesso succede, ho scelto questo titolo “Architektur, eine tote Sprache” senza sapere bene dove mi avrebbe portato.
Effettivamente è un titolo un po’ apocalittico, ma in quel momento mi è sembrato adatto all’argomento del convegno, oltre che a mettere l’accento sulle precarie condizioni del nostro lavoro oggi. In realtà si tratta di un titolo rubato a Arturo Martini, forse lo scultore contemporaneo che ammiro di più (lo scritto è “La scultura lingua morta” del 1945), un artista che scriveva in modo autentico, libero, così come si esprimeva nella sua arte, un artista che sapeva bene quello che faceva e perché.
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Ho scelto questo titolo, apparentemente senza via d’uscita, per mettere in primo piano un mio persistente disagio, un disagio che l’argomento di questo convegno faceva risaltare, e anche un po’ per sfidare questo disagio. Un disagio che da un lato riguarda il mio lavoro di architetto, che sempre di più mi fa dubitare del suo senso e della sua integrità e perfino del fatto che si tratti ancora di un mestiere, di un mestiere come gli altri, e che dall’altro riguarda l’inefficacia, non l’inutilità ma la prevedibile inefficacia, di quello che possiamo dire qui rispetto all’alternativa proposta dal tema del convegno, vista la situazione. Basta chiedersi infatti che senso ha oggi parlare di convenzione, cioè di fedeltà a una norma, di obbedienza a precetti sperimentati (o anche solo di intesa e di obiettivi comuni), quando da tempo ormai in architettura è diventata l’unica regola la trasgressione sistematica di ogni regola (tanto che è perfino inutile fare degli esempi).
In questo senso il tema dell’architettura divisa fra individualismo e convenzione è un tema certamente interessante, ma che sta a indicare un’alternativa puramente teorica, almeno secondo me. Se parlare di individualismo significa parlare di un elemento specifico e caratteristico dell’esperienza contemporanea, parlare oggi di convenzione significa invece evocare un’esperienza remota e quasi del tutto dimenticata, la stessa critica architettonica ormai dedica i
* Intervento all’I.B.A. Symposium - “Architektur zwischen Individualismus und Konvention” - Berlino, 8-10 ottobre 1984.
L’architetto e il suo lavoro (1998)*
So di non essere la persona più adatta per un intervento come questo che mi è stato affidato, un intervento introduttivo, di apertura, che deve appunto aprire la discussione e non limitarla e chiuderla come tendo a fare io di solito, e poi su temi come nuovi orizzonti della professione o la nuova formazione professionale, temi che si aspettano anche delle risposte di tipo tecnico-organizzativo, temi di fronte ai quali io mi trovo in difficoltà, devo confessarlo. È un po’ la stessa difficoltà, o imbarazzo, che provo di fronte a termini come professione e professionale, termini che cerco sempre di evitare, termini diventati generici e vuoti, ormai del tutto inadatti ad esprimere dei contenuti, almeno per me.
Non è che non abbia una mia opinione su problemi come questi, ma questa opinione mi deriva da un’idea del lavoro che faccio, l’idea che me ne sono fatto lavorando, facendo progetti e insegnando a progettare, che ha ben poco a che vedere con il nostro lavoro com’è diventato, o come a me sembra che sia diventato oggi. Non ha quindi molto senso, per me, di aggiungere alle diverse opinioni che verranno esposte qui anche la mia, che sicuramente è la meno utile oltre che la meno interessante, proprio perché la meno interessata ai problemi del nostro lavoro posti in questi termini.
Una cosa però posso dirla, a partire proprio dall’assurda situazione attuale, a partire dalle condizioni sciagurate oltre che assurde, almeno per me, del nostro lavoro oggi, una situazione impensabile solo pochi anni fa, anche per via dell’assoluto silenzio sotto cui sta passando. Nella situazione del nostro lavoro oggi (parlo del lavoro, ma lo stesso vale per la scuola), una situazione apparentemente senza uscita (almeno per il momento, vista la totale assenza di discussione e di alternative, se non di tipo personale), pur non sottovalutando l’importanza di quelle che gli specialisti in programmi ministeriali e in normative professionali considerano oggi delle priorità (come la parificazione e omologazione a livello europeo dei percorsi formativi e della stessa professione in un modello che privilegia la preparazione tecnico/organizzativa del lavoro, fino ad arrivare all’individuazione di una figura di architetto-manager, che trovo piuttosto deprimente, oltre a preoccuparmi molto sul piano personale), io
* Intervento al convegno internazionale “L’architetto in Europa: la formazione universitaria e i nuovi orizzonti della professione”, Napoli, Palazzo Reale, 23-25 ottobre 1998).
Identità dell’architettura italiana (2003)*
La difesa dell’identità dell’architettura italiana è un problema che, per la verità, non mi sono mai posto seriamente. Un problema che per me proprio non esiste. Forse, semplicemente, perché per me l’Italia è tout-court il paese dell’architettura (e l’italiano la lingua dell’architettura).
Se penso all’origine e sviluppo dell’architettura in Italia, penso sempre a qualcosa che immediatamente travalica i suoi propri confini. Penso a qualcosa che comprende quasi tutto: tutto il mondo occidentale fin da subito, quantomeno l’Europa (l’Europa continentale, che in fondo è quello che in realtà m’interessa di più nel mio lavoro).
Devo dire che per me, parlo del mio lavoro naturalmente, la storia dell’architettura comincia con l’architettura romana, tutta la nostra architettura, occidentale, mediterranea, l’architettura europea, quella islamica, bizantina, ecc., la storia dell’architettura che m’interessa, quella che interviene nel mio lavoro, è tutta racchiusa, per così dire, entro i confini della naturale evoluzione dell’architettura romana.
Forse perché solo di fronte all’architettura romana ho potuto riconoscere che i suoi problemi sono i nostri stessi problemi, e così anche le possibili risposte. Come diceva Adolf Loos, nelle nostre cose migliori noi seguitiamo a lavorare come lavoravano i romani. E seguitiamo a pensare che la nostra città sia ancora in gran parte la città romana, con le sue grandezze e le sue insuperabili difficoltà.
Lo stesso discorso vale per i grandi architetti del Rinascimento, cioè quelli che avevano stretto un patto di alleanza con gli antichi . Un momento straordinario e irripetibile di corrispondenza con il mondo antico, in cui risalta, diciamo così, la pariteticità ideale di quella corrispondenza (chi più chi meno e sopra a tutti Piero della Francesca).
Dopo di che (ma in realtà fin da prima, fin dalla romanizzazione) la storia dell’architettura in Italia diventa storia dell’architettura europea e poi occidentale (la grande architettura barocca, in Francia e Germania, in Inghilterra, l’architettura palladiana, il neoclassicismo in Europa, in America, ecc.).
«Da quando l’umanità ha preso coscienza della grandezza dell’antichità classica, un solo pensiero ha unito fra loro i grandi architetti. Essi pensavano: