Giorgio Grassi. Scritti scelti 1965-2015

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Indice

Introduzione di Luca Ortelli

A proposito di queste illustrazioni

Parte I

L’architettura del teatro e la città greca (1965)

La casa d’abitazione nelle città tedesche (1966)

Architettura e razionalismo (1970)

Parte II

Il castello di Abbiategrasso e la questione del restauro (1971)

Normativa e architettura (1974)

“Rurale” e “urbano” nell’architettura (1974)

L’architettura come mestiere (1974)

Questioni di architettura e di realismo (1976)

Un parere sul disegno (1976)

Nota sull ’architettura rurale (1977)

Sei risposte a “2C Construcción de la Ciudad ” (1977)

Il formalismo nell’architettura moderna (1978)

L’architettura di Hilberseimer (1978)

Il progetto di una piccola casa (1979)

Parte III

A proposito di avanguardia (1980)

Risposta a tre domande sulla monumentalità (1982)

Questioni di progettazione (1983)

Schinkel Als Meister (1983)

Architettura lingua morta I (1984)

Ipotesi di utilizzazione e restituzione architettonica del teatro romano di Sagunto (1986)

Agostino Renna (1988)

Un parere estorto su Schmitthenner (1988)

II (1988)

Architettura lingua morta
9 21 29 45 67 101 113 127 147 183 195 201 205 227 241 257 265 277 281 295 303 319 335 345 353

Un parere sul restauro (1989)

Un parere sulla scuola e sulle condizioni del nostro lavoro (1989)

Intervista sul teatro di Sagunto (1990)

La ricostruzione del luogo (1992)

Tessenow per esempio (1992)

Intervista sull’arredamento (1993)

A proposito del restauro di Sagunto (1993)

A proposito del mio lavoro a Berlino (1995)

Le spoglie della città antica (1995)

Die Rote Figur der Architektur (1995)

Architettura, università e città storica (1996)

Charlottenhof (1996)

Atene (1997)

Progetti per la città antica (1997)

L’architetto e il suo lavoro (1998)

Antichi maestri (1999)

Parte IV

A proposito di Berlino,della nuova Potsdamerplatz e del nostro progetto per l’area A.B.B. (2002)

A Kleihues per il suo 70° compleanno (2003)

Identità dell’architettura italiana (2003)

Il carattere degli edifici (2003)

Per Chris da Giorgio (2004)

Un architetto che scrive (2007)

La demolizione del teatro di Sagunto (2008)

L’architetto e il suo doppio (2008)

In risposta a “Il Giornale”, a proposito del libro “Una vita da architetto” (2008)

Il nuovo castello di Berlino come metafora (2008)

La ricostruzione in architettura: due esempi (2009)

Presentazione del libro sulla nuova sede della Cassa di Risparmio di Firenze (2010)

Un’idea di architettura, un modo di lavorare e il suo perché (2012)

Risposta a sette domande sulla “Capanna Primitiva” (2013)

Ernesto Nathan Rogers come maestro (2015)

369 377 393 407 413 419 431 443 453 461 469 477 483 489 499 509 527 535 543 547 567 571 581 589 595 599 605 619 625 643 647
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A. Loos, Wien, Haus Horner (1912).

Architettura e razionalismo (1970)*

Questa relazione, che per praticità è divisa in tre parti, riguarda in particolare il razionalismo tedesco. Cercherò di far risultare la scelta del razionalismo dalla più generale esperienza dell ’architettura del movimento moderno in Germania, a partire da alcune questioni che sono state ripetutamente oggetto del dibattito di quegli anni e cercando altresì di mettere in evidenza quei temi che c’ interessano più direttamente, di cui intendiamo occuparci in questo nostro gruppo di lavoro.

Mi occuperò quindi del razionalismo tedesco mettendo in discussione alcune questioni più generali, relative a tre temi che, con modalità diverse, hanno comunque caratterizzato il dibattito del movimento moderno, esse sono la questione “case basse, medie o alte? ”, la questione dello “stile” e la questione della “decorazione”. Naturalmente si tratta di temi che non si possono dire centrali nel dibattito del movimento moderno, specialmente gli ultimi due, però sono specifici del tipo di discorso che voglio fare qui e quindi vanno visti più che altro come un pretesto per un discorso sui fondamenti e sugli obiettivi del nostro lavoro, riferito appunto all ’esperienza dell ’architettura del razionalismo in Germania fra le due guerre.

“Case basse, medie o alte? ”

“Flach- Mittel oder Hochbau? ” è stato un tema classico del dibattito architettonico nel periodo fra le due guerre in Europa, infatti è stato oggetto di due congressi CIAM, quello di Francoforte del 1929 e quello di Bruxelles del 1930, e sono noti a tutti gli scritti che portano proprio questo titolo, uno è di Gropius, un altro di Ernst May (ma anche Le Corbusier, per esempio, ha affrontato questo tema direttamente nei suoi scritti). Tutti i più importanti architetti di quel periodo che hanno preso parte ai due CIAM in un modo o nell ’altro si sono occupati di questo tema mettendone in primo piano soprattutto la centralità rispetto al problema della costruzione di case a basso costo.

Il discorso di Gropius è esemplare proprio da questo punto di vista, Gropius confronta la possibilità di costruire con sistemi tradizionali, oppure con sistemi prefabbricati, case basse, medie o alte, avendo come parametro di riferimento

* Comunicazione del 19 maggio 1970, pubblicata con il n. 80 - 69/70, pp. 115-154, a cura dell ’Istituto di Composizione Architettonica , Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano.

PARTE I 67
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“La fonte meravigliosa” (K. Vidor 1949), Gary Cooper strappa le sovrastrutture decorative aggiunte da altri al suo progetto.

Il formalismo nell’architettura moderna (1978)*

Sono stato invitato a esprimere il mio parere sulle questioni sollevate da questa esposizione1 , io faccio l’architetto, non lo storico o il critico, e mi sembra giusto di cogliere questa occasione per mettere in discussione una questione che riguarda direttamente il mio lavoro, che riguarda cioè il progetto oggi. Una questione che riguarda però direttamente anche l’architettura del movimento moderno, infatti quello cui assistiamo oggi nel campo dell’architettura ha un preciso riscontro nell’esperienza di allora, mi riferisco alla questione del formalismo, accennerò soltanto a alcuni aspetti.

Parlare di formalismo, non come categoria astratta, ma come pratica progettuale, come momento tecnico/pratico, significa parlare di esempi concreti: per far questo mi riferirò all’esperienza italiana, ma anche più in generale a quella europea di quegli anni. Anzitutto una constatazione, io credo di non esagerare quando dico che oggi nessuna ricerca progettuale sfugge al formalismo. Naturalmente questa osservazione è piuttosto schematica nel suo essere anche un giudizio, perché è altresì evidente che questo problema riguarda solo in parte le forme in quanto tali. Questo dipende da condizioni oggettive, che non è il caso qui di approfondire, basti ricordare che da un lato sta la qualità specifica dell’architettura, quella cioè di essere opera collettiva per eccellenza, dall’altro sta l’assenza di contenuti collettivi nella privatizzata città borghese. Non m’interessa quindi parlare qui del professionalismo, che rappresenta l’adesione alla città del capitalismo quale essa è, mi riferisco invece a tutte quelle esperienze nel campo dell’architettura che in un modo o nell’altro si contrappongono a questa città rifiutandone i contenuti. Ecco, io sostengo che quasi sempre questa contrapposizione è per l’appunto una contrapposizione soltanto formale e che il formalismo nella situazione attuale non è affatto l’unica soluzione possibile, anche se certamente la più diffusa. Lo stesso possiamo dire, secondo me, per l’architettura del movimento moderno nel suo complesso, ad esclusione di pochissime esperienze.

PARTE II 227
1. L’esposizione “Il razionalismo e l’architettura in Italia durante il fascismo” alla Hochschule der Künste di Berlino. * Conferenza tenuta alla Hochschule der Künste di Berlino il 2 febbraio 1978. Pubblicata col titolo “Der Formalismus in der modernen Architektur” in “Freibeuter” n. 12, Berlino 1982.
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Pavia, progetto per borgo Ticino (1972).

Architettura lingua morta I (1984)*

Quando ho dovuto dare in fretta un titolo per il mio intervento a questo convegno intitolato “Architektur zwischen Individualismus und Konvention” , prima ancora di poter riflettere su quello che avrei voluto dire, come spesso succede, ho scelto questo titolo “Architektur, eine tote Sprache” senza sapere bene dove mi avrebbe portato.

Effettivamente è un titolo un po’ apocalittico, ma in quel momento mi è sembrato adatto all’argomento del convegno, oltre che a mettere l’accento sulle precarie condizioni del nostro lavoro oggi. In realtà si tratta di un titolo rubato a Arturo Martini, forse lo scultore contemporaneo che ammiro di più (lo scritto è “La scultura lingua morta” del 1945), un artista che scriveva in modo autentico, libero, così come si esprimeva nella sua arte, un artista che sapeva bene quello che faceva e perché.

Ho scelto questo titolo, apparentemente senza via d’uscita, per mettere in primo piano un mio persistente disagio, un disagio che l’argomento di questo convegno faceva risaltare, e anche un po’ per sfidare questo disagio. Un disagio che da un lato riguarda il mio lavoro di architetto, che sempre di più mi fa dubitare del suo senso e della sua integrità e perfino del fatto che si tratti ancora di un mestiere, di un mestiere come gli altri, e che dall’altro riguarda l’inefficacia, non l’inutilità ma la prevedibile inefficacia, di quello che possiamo dire qui rispetto all’alternativa proposta dal tema del convegno, vista la situazione. Basta chiedersi infatti che senso ha oggi parlare di convenzione, cioè di fedeltà a una norma, di obbedienza a precetti sperimentati (o anche solo di intesa e di obiettivi comuni), quando da tempo ormai in architettura è diventata l’unica regola la trasgressione sistematica di ogni regola (tanto che è perfino inutile fare degli esempi).

In questo senso il tema dell’architettura divisa fra individualismo e convenzione è un tema certamente interessante, ma che sta a indicare un’alternativa puramente teorica, almeno secondo me. Se parlare di individualismo significa parlare di un elemento specifico e caratteristico dell’esperienza contemporanea, parlare oggi di convenzione significa invece evocare un’esperienza remota e quasi del tutto dimenticata, la stessa critica architettonica ormai dedica i

* Intervento all’I.B.A. Symposium - “Architektur zwischen Individualismus und Konvention” - Berlino, 8-10 ottobre 1984.

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498 Parigi: (da “Playtime” 1964-67) Jaques Tati perplesso davanti a Tativille/La Défence (Parigi che ha rinunciato alla sua identità).

L’architetto e il suo lavoro (1998)*

So di non essere la persona più adatta per un intervento come questo che mi è stato affidato, un intervento introduttivo, di apertura, che deve appunto aprire la discussione e non limitarla e chiuderla come tendo a fare io di solito, e poi su temi come nuovi orizzonti della professione o la nuova formazione professionale, temi che si aspettano anche delle risposte di tipo tecnico-organizzativo, temi di fronte ai quali io mi trovo in difficoltà, devo confessarlo. È un po’ la stessa difficoltà, o imbarazzo, che provo di fronte a termini come professione e professionale, termini che cerco sempre di evitare, termini diventati generici e vuoti, ormai del tutto inadatti ad esprimere dei contenuti, almeno per me.

Non è che non abbia una mia opinione su problemi come questi, ma questa opinione mi deriva da un’idea del lavoro che faccio, l’idea che me ne sono fatto lavorando, facendo progetti e insegnando a progettare, che ha ben poco a che vedere con il nostro lavoro com’è diventato, o come a me sembra che sia diventato oggi. Non ha quindi molto senso, per me, di aggiungere alle diverse opinioni che verranno esposte qui anche la mia, che sicuramente è la meno utile oltre che la meno interessante, proprio perché la meno interessata ai problemi del nostro lavoro posti in questi termini.

Una cosa però posso dirla, a partire proprio dall’assurda situazione attuale, a partire dalle condizioni sciagurate oltre che assurde, almeno per me, del nostro lavoro oggi, una situazione impensabile solo pochi anni fa, anche per via dell’assoluto silenzio sotto cui sta passando. Nella situazione del nostro lavoro oggi (parlo del lavoro, ma lo stesso vale per la scuola), una situazione apparentemente senza uscita (almeno per il momento, vista la totale assenza di discussione e di alternative, se non di tipo personale), pur non sottovalutando l’importanza di quelle che gli specialisti in programmi ministeriali e in normative professionali considerano oggi delle priorità (come la parificazione e omologazione a livello europeo dei percorsi formativi e della stessa professione in un modello che privilegia la preparazione tecnico/organizzativa del lavoro, fino ad arrivare all’individuazione di una figura di architetto-manager, che trovo piuttosto deprimente, oltre a preoccuparmi molto sul piano personale), io

* Intervento al convegno internazionale “L’architetto in Europa: la formazione universitaria e i nuovi orizzonti della professione”, Napoli, Palazzo Reale, 23-25 ottobre 1998).

PARTE III 499
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GRASSI
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Thomas Jefferson, residenza di Monticello (1796-09).

Identità dell’architettura italiana (2003)*

La difesa dell’identità dell’architettura italiana è un problema che, per la verità, non mi sono mai posto seriamente. Un problema che per me proprio non esiste. Forse, semplicemente, perché per me l’Italia è tout-court il paese dell’architettura (e l’italiano la lingua dell’architettura).

Se penso all’origine e sviluppo dell’architettura in Italia, penso sempre a qualcosa che immediatamente travalica i suoi propri confini. Penso a qualcosa che comprende quasi tutto: tutto il mondo occidentale fin da subito, quantomeno l’Europa (l’Europa continentale, che in fondo è quello che in realtà m’interessa di più nel mio lavoro).

Devo dire che per me, parlo del mio lavoro naturalmente, la storia dell’architettura comincia con l’architettura romana, tutta la nostra architettura, occidentale, mediterranea, l’architettura europea, quella islamica, bizantina, ecc., la storia dell’architettura che m’interessa, quella che interviene nel mio lavoro, è tutta racchiusa, per così dire, entro i confini della naturale evoluzione dell’architettura romana.

Forse perché solo di fronte all’architettura romana ho potuto riconoscere che i suoi problemi sono i nostri stessi problemi, e così anche le possibili risposte. Come diceva Adolf Loos, nelle nostre cose migliori noi seguitiamo a lavorare come lavoravano i romani. E seguitiamo a pensare che la nostra città sia ancora in gran parte la città romana, con le sue grandezze e le sue insuperabili difficoltà.

Lo stesso discorso vale per i grandi architetti del Rinascimento, cioè quelli che avevano stretto un patto di alleanza con gli antichi . Un momento straordinario e irripetibile di corrispondenza con il mondo antico, in cui risalta, diciamo così, la pariteticità ideale di quella corrispondenza (chi più chi meno e sopra a tutti Piero della Francesca).

Dopo di che (ma in realtà fin da prima, fin dalla romanizzazione) la storia dell’architettura in Italia diventa storia dell’architettura europea e poi occidentale (la grande architettura barocca, in Francia e Germania, in Inghilterra, l’architettura palladiana, il neoclassicismo in Europa, in America, ecc.).

«Da quando l’umanità ha preso coscienza della grandezza dell’antichità classica, un solo pensiero ha unito fra loro i grandi architetti. Essi pensavano:

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* Intervento tenuto alla Facoltà d’Architettura di Firenze il 15 maggio 2003 in occasione del 1° Convegno intitolato “Identità dell’architettura italiana”.
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588 Luciano Semerani, schizzo della tomba di Rocco Scotellaro a Tricarico (Matera) dei BBPR (1957).

L’architetto e il suo doppio (2003)*

(I disegni di architettura di Luciano Semerani)

I disegni che vengono pubblicati qui sono esemplari di come Luciano Semerani intende il mezzo del disegno e di come lo utilizza in relazione al suo lavoro. – Devo dire qui di passaggio che non sono quasi mai d’accordo con quello che fa e che dice L.S. e che tuttavia sono un suo ammiratore convinto, credo per come lo fa e per come lo dice, ma anche proprio per questa nostra cordiale totale cacofonia –.

A detta di L.S., non esiste un altro tipo di disegni di sua mano, che sia rappresentativo di una fase successiva e più avanzata del suo lavoro di architetto. All’infuori di questi schizzi, che sono del tutto preliminari al lavoro del progetto, per lui, ci sono soltanto i disegni tecnici.

La mia ipotesi, sulla quale baso del resto anche la mia lettura dei disegni qui riprodotti, è che fra questi schizzi e i disegni esecutivi dei progetti (fatti a macchina come si usa oggi) vi sia qualcos’altro, che non è direttamente riconducibile al disegno, visto che vi lascia solo una debole traccia, ma che rappresenta appunto l’elemento più singolare e interessante del modo di affrontare il progetto di L.S., almeno per me.

Potrebbe essere il ricorso a un altro diverso mezzo espressivo, cosa del resto non verificabile, ma potrebbe anche essere, più probabilmente, qualcosa come l’intervento, diciamo così, di un altro che ha una visione e degli interessi più vasti e curiosi di quelli che normalmente sono il bagaglio di un architetto, un po’ come l’intervento di un doppio che a volte interviene al suo posto, qualcuno che decide per lui ma su un piano diverso e che fa apparire la materia del suo progetto molto più ricca e fascinosa di quello che è, di cui appunto lascia solo una debole traccia e soltanto in alcuni particolari disegni (si rende conto a questo punto L.S. di ospitare probabilmente, anche lui come molti insigni predecessori, un clandestino?).

Cominciamo col dire che questi di L.S. sono disegni autentici. Sono autentici schizzi di lavoro, non sono particolarmente affascinanti, né vogliono esserlo, almeno secondo me, non sono per nulla curati, è mia opinione che siano trattati così di proposito, fanno vedere solo quel minimo che in quel momento passa per la mente dell’architetto e che gli serve come aiuto momentaneo e/o

* Pubblicato, in “Il Disegno di Architettura” n. 34, aprile 2008, a commento di alcuni disegni di Luciano Semerani ivi riprodotti.

PARTE IV 589

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