Il mestiere di architetto

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Indice ---


Introduzione

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Parte prima. L’architetto oggi 01. L’architetto e l’architettura 02. La scena italiana

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Parte seconda. Imparare il mestiere 03. La formazione universitaria 04. Le scuole d’architettura 05. Nuove frontiere della ricerca

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Parte terza. Il sistema professionale 06. Gli ordini e l’ordinamento professionale 07. L’articolazione della figura dell’architetto 08. I pianificatori e la pianificazione 09. I paesaggisti e il paesaggio 10. I conservatori e la conservazione 11. Orizzonti internazionali 12. Lavorare in Europa 13. Lavorare fuori dall’Europa 14. Nuovi modelli professionali 15. Le grandi società di progettazione 16. Gli studi di qualità 17. I piccoli studi innovativi 18. Assistenza umanitaria e cooperazione

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Parte quarta. Una nuova cultura del progetto 19. Il progetto 20. La digitalizzazione del progetto 21. Il BIM 22. Big Data e intelligenza artificiale

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Parte quinta. Regolamentare e promuovere la qualità 23. La legge per l’architettura 24. Architettura e arte 25. Qualità dell’architettura e qualità della vita 26. I concorsi 27. La governance

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Conclusioni Post scriptum Note Indice dei nomi

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Introduzione

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Peter Eisenman, seguendo le orme del padre, aveva iniziato a studiare chimica. A un certo punto, decise invece di fare l’architetto: “Ero terribilmente eccitato dai modelli e dai disegni, erano le cose che da ragazzino mi piacevano di più. Così andai dai miei genitori e dissi: ascoltatemi, farò l’architetto. Mi guardarono come se fossi matto. Mio padre pensò a uno dei miei soliti scherzi. Ma io dissi no, farò veramente l’architetto. Fu la prima decisione importante della mia vita. Da quel momento in poi sono stato un’altra persona”1. Perché apriamo il nostro discorso a partire da questa testimonianza personale, forse nemmeno tanto originale? Perché siamo, in primo luogo, convinti che scegliere di fare l’architetto cambi, effettivamente, la vita. Siamo poi convinti che il mestiere di architetto sia fra i più belli del mondo, forse il mestiere più bello del mondo. Ma il gap che separa questo mestiere più bello del mondo dall’odierna realtà professionale è, purtroppo, sempre più sensibile. Nei fatti, la maggioranza degli architetti – almeno fra noi italiani – non fa nemmeno più l’architetto e, quando resiste e continua a praticare la professione, lo fa a costo di tanta fatica, lottando quotidianamente contro infiniti problemi che lo distraggono e allontanano da quella dimensione creativa che è indispensabile presupposto di ogni progetto di qualità: fatturati sempre più bassi a fronte di costi e impegni fiscali, gestionali, assicurativi e previdenziali sempre più alti; concorrenza selvaggia – cosa ben diversa da una sana e costruttiva competizione – da parte di altri architetti, ma anche di ingegneri, geometri, periti edili, agronomi, interior designer, arredatori e altre simili figure professionali, a fronte di una committenza spesso poco preparata, se non apertamente irrispettosa delle nostre competenze, e di una 6

Livio Sacchi - Il mestiere dell’architetto


opinione pubblica che, nel migliore dei casi, è indifferente alla produzione architettonica contemporanea, quando non esplicitamente critica; crescita esponenziale della burocrazia cui ottemperare; incertezza del diritto; per non parlare delle difficoltà di comunicazione e pubblicizzazione oltre che della necessità di un continuo aggiornamento per, almeno, limitare il crescente senso di inadeguatezza rispetto all’avanzare delle nuove tecnologie digitali, delle nuove tecniche costruttive, dei nuovi materiali, delle nuove normative. Siamo inoltre convinti che il mestiere di architetto si stia attualmente riconfigurando in maniera molto diversa da ciò che esso è stato più o meno fino a pochi anni fa. Com’è avvenuto in altri ambiti, anche in architettura la digitalizzazione da una parte e la globalizzazione dall’altra hanno modificato e stanno continuando a modificare profondamente il ruolo, lo status e l’operatività del mestiere, delineando orizzonti nuovi, lontani da quelli cui siamo abituati e, forse proprio per questo, anche molto interessanti. I cambiamenti cui le società contemporanee sono oggi sottoposte sono, d’altra parte, così generali e pervasivi – come, forse, non era mai storicamente avvenuto – da non poter non assumere dimensioni, per certi aspetti, persino preoccupanti. Sappiamo tutti che la gran parte (circa il 65%) di quelli che adesso sono bambini, una volta adulti, faranno lavori che ancora non esistono, che non si sono ancora configurati. Per quanto riguarda la figura dell’architetto, riteniamo che essa sia invece destinata a durare ancora a lungo. Ma siamo altrettanto convinti che assumerà forme completamente diverse da quelle che conosciamo e alle quali siamo più o meno preparati. Il principale driver di tali cambiamenti ci sembra abbastanza facilmente identificabile: si tratta della complessità e delle sfide che ne derivano. Pensiamo alla complessità progettuale, che deve misurarsi con una scala dimensionale grande come non lo era mai stata prima d’ora; alla complessità tipologica, con edifici sempre più flessibili, resilienti e polifunzionali; alla complessità normativa, con la necessità di rispettare standard sempre più rigorosi in termini di sostenibilità, prestazioni energetiche, accessibilità, sicurezza, igiene ecc.; alla stessa complessità gestionale degli studi professionali; pensiamo infine alla complessità evolutiva delle tecnologie informatiche, che richiedono addestramento costante e ingenti investimenti, e alla dipendenza che esse determinano. Il perdurare di una lunga condizione di crisi, in atto almeno dal 2009, cui di recente si è aggiunta quella innescata dall’emergenza sanitaria del Introduzione

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Parte prima / L’architetto oggi


01. L’architetto e l’architettura

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Cominciamo col definire chi è e cosa fa un architetto e che ruolo occupa nelle società del nostro tempo in generale (della condizione italiana parleremo, più in particolare, nel capitolo successivo). Ciò ci condurrà, inevitabilmente, a toccare, sia pur solo tangenzialmente, un tema ancor più difficile: la ridefinizione contemporanea dell’architettura. La parola architetto deriva, com’è noto, dal greco ἁρχιτέκτων, termine formato dal verbo ἄρχω, che indica comando, e dal sostantivo τέκτων, costruttore, letteralmente, quindi: capo-costruttore. Si tratta di una definizione, per molti aspetti, ancora valida, anche se ai più oggi l’architetto sembra piuttosto essere, in un’accezione più vasta e generale, “chi trasforma il paesaggio naturale e urbano attraverso la progettazione di opere architettoniche”1. Se, dal punto di vista etimologico, appare dunque abbastanza chiaro come egli sia, primo di tutto, un costruttore, sia anzi a capo dei costruttori, è altrettanto chiaro che, nella modernità, la componente progettuale prevale su quella costruttiva. Si tratta di un aspetto importante, che avremo modo di approfondire, cui si affianca la dicotomia fra teoria e pratica, in particolare nei suoi risvolti formativi: ne parleremo nel terzo capitolo. La distinzione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale non è peraltro tema da poco, costituendo anzi un punto fondamentale della stessa nascita della modernità in architettura. Filippo Brunelleschi fu probabilmente fra i primi ad averne piena consapevolezza: non a caso il suo biografo, Antonio di Tuccio Manetti, ne esalta il meraviglioso «intelletto». Ma, “nella distinzione tra il momento del progetto e quello dell’esecuzione è in gioco anche la distinzione tra un’attività «liberale» e un’attività «meccanica», e dunque l’assunzione da parte dell’individuo colto del compito di organizzare e guidare 18

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la società. È la nascita dell’intellettuale come soggetto attivo, oltreché come figura speculativa”2. La perdurante crisi del mestiere non deve oscurare il fatto che l’architetto occupa comunque un posto cruciale nelle società contemporanee per almeno due ragioni. La prima è di ordine economico: all’interno di tali società, una significativa percentuale del PIL è legata all’industria delle costruzioni; a sua volta questa è indubitabilmente orientata dai progettisti in generale e dagli architetti in particolare. La produzione architettonica contemporanea è fondamentale per l’immagine delle città e per la qualità della vita che queste ultime sono in grado di esprimere, contribuendo, in maniera sostanziale, al prestigio tecnico e culturale del paese di cui tali città fanno parte; l’architetto è inoltre il professionista che, forse più di ogni altro, contribuisce allo sviluppo del territorio e del paesaggio. Come rileva il recente rapporto Makno, intorno alla sua figura si “intrecciano, come in nessuna altra ‘missione’ professionale, tematiche e problematiche tecniche e tecnologiche, sociali, culturali, estetiche ed etiche in tutte le loro tante, diverse derivate”3. Ciò ci introduce alla seconda ragione per cui l’architetto svolge un ruolo importante: una ragione, forse molto più significativa, di ordine essenzialmente culturale e politico. L’architetto non è infatti soltanto un progettista necessario alla produzione edilizia, ma è anche, come s’è anticipato, un intellettuale che orienta i percorsi e le scelte della società, essendo egli al tempo stesso al servizio della società. Walter Gropius, in un testo del 1955, si domandava: “L’architetto ha il compito di guidare o di servire? La risposta è semplice: mettere una ‘e’ al posto della ‘o’. Guidare e servire sembrano due compiti interdipendenti”4. In ogni caso, al di là dell’opzione guidare/servire, Servant or Leader, quella dell’architetto è una figura così importante che ci piacerebbe definirla indispensabile. Eppure, proprio su quest’ultimo punto, non mancano ombre e contraddizioni: stando, per esempio, a quanto emerge dalle inchieste alla base del citato rapporto Makno (per quel che valgono simili ricerche), nel sentire di molti l’architetto «non è una figura indispensabile “…suggerimenti e idee si trovano anche su Internet”»5. Una conclusione che, da una parte, è inequivocabile segno dei tempi; ma che dall’altra avvilisce profondamente il profilo professionale degli architetti, devastandone la condizione psicologica. Sarebbe interessante interrogarci sulle cause che hanno portato a ciò.

L’architetto e l’architettura

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Il pensiero di Zevi Sul ruolo, sul carisma e sulle difficoltà dell’architetto non possiamo dimenticare ciò che, nel 1972, scriveva Bruno Zevi nel suo seminale Architectura in nuce: “Ovunque esista un’immagine edilizia personalizzata, dal dolmen e dal menhir alla clinica psichiatrica e alla centrale atomica, la figura dell’architetto è presente con una testimonianza assai più valida del dato anagrafico e della tradizionale «vita»: è l’artista che accoglie e interpreta i contenuti offertigli dalla società e dai clienti improntando ogni programma edilizio col timbro della sua vocazione; che assimila le conoscenze tecniche ma non le subisce; anzi le usa e rinnova in funzione del suo proposito, del suo sogno spaziale; che partecipa alla cultura linguistica ma non passivamente, anzi intervenendovi con un apporto che l’arricchisce e trasmuta. L’architetto opera tra infinite difficoltà, redige progetti che non esegue, costruisce edifici che poi vengono alterati, affronta il giudizio delle classi dirigenti e delle commissioni edilizie, è condizionato in ogni mossa dalle preesistenze ambientali, dai piani regolatori urbani e del paesaggio, insomma come ogni uomo teso a vivere nel mondo e a rappresentarlo, conquista la sua libertà con estrema fatica, con durissimo appassionato travaglio”6. Un profilo, questo delineato da Zevi, che ancora oggi, a circa mezzo secolo dal momento in cui è stato scritto, mantiene tutta la sua vivacità oltre che una evidente attualità. Al di là del riferimento alla clinica psichiatrica e alla centrale atomica – che al tempo in cui scriveva Zevi facevano parte della contemporaneità e che appaiono invece un vero e proprio anacronismo, almeno in Italia – l’architetto è certamente, ancora oggi, tutto questo. E, ancora oggi, il suo lavoro è diviso fra l’attività progettuale e quella costruttiva, in maniera spesso foriera di non pochi malintesi e problemi. Non a caso, lo stesso Zevi nota in proposito: “Non vi è attività artistica in cui le fasi di ideazione e di realizzazione siano disgiunte come in architettura. Un quadro che non sia dipinto da chi lo ha concepito non è mai opera d’arte, tanto è vero che quando il maestro si limita a prepararne il bozzetto e ne affida l’esecuzione agli allievi, opera d’arte è il bozzetto, non il quadro. Uno scultore potrà tracciare cento disegni per una statua, ma sarebbe incredibile che egli si disinteressasse di modellarla nella creta, nella cera, nel marmo. Ancor più assurda appare l’ipotesi di un poeta che commetta ad altri la stesura di un suo canto. Un’opera d’arte insomma esiste solo quando è espressa, e la si esprime facendola, vivendone il processo che va dalla schematica prefigurazione all’ultima pennellata, al colpo di 20

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bulino finale, alla correzione dell’ultimo verso, alla nota di chiusura sinfonica. Una condizione del genere si riscontra assai raramente nella storia dell’architettura, sì che, se dovessimo sfoltirla di tutti gli edifici in cui non si è verificata la presenza continua e diretta di una stessa personalità, la si dovrebbe ridurre, come si è visto, a pochissime opere”7. Un brano significativo, che merita di essere analizzato con cura. In primo luogo viene data per scontata l’appartenenza dell’architettura alle arti; ne parleremo più diffusamente nel capitolo 24. Ciò non significa che ogni edificio sia un’architettura, anche se è proprio a quest’ultimo enunciato che puntavano, più o meno consapevolmente, i migliori esponenti del movimento moderno. Viene poi affermata l’importanza assoluta della mano creativa dell’artista, della inscindibilità del momento ideativo e progettuale da quello realizzativo e costruttivo. Sappiamo in realtà che, per le arti, non è sempre così, nemmeno in pittura e in scultura: basti pensare a quante opere – per esempio contemporanee, ma il discorso vale anche per le botteghe del passato – siano sotto il controllo dell’artista soltanto sul piano ideativo e non, letteralmente, sotto quello esecutivo. Ma non è questo il punto. Ciò che è importante è che quanto afferma Zevi, con la consueta vis espositiva, resta sostanzialmente vero: non vi è attività artistica in cui le fasi di ideazione e realizzazione siano disgiunte come lo sono, nei fatti, in architettura. L’origine di ciò va probabilmente ricercata nel Rinascimento italiano in generale e nel pensiero albertiano in particolare. “Nel saggio «Il non artista: Leon Battista Alberti» Julius von Schlosser accusa il celebre umanista di redigere i progetti a tavolino, di trasmetterli ai costruttori discutendone i particolari per corrispondenza, senza impegnarsi personalmente nei compiti della realizzazione architettonica”8. Alberti è dunque il primo a plasmare un’immagine e un ruolo che ha condizionato, per secoli, il nostro mestiere. Da quel momento in poi gli architetti sono stati, in larga misura, sollevati dall’imprescindibilità della loro presenza in cantiere; sono diventati, in qualche modo, degli intellettuali o dei creativi puri, per utilizzare un termine, improprio, della nostra contemporaneità, prima che degli artefici. Con Alberti, l’architettura cessò – forse – di essere un mestiere, diventando una espressione della cultura, per anticipare, con uno slogan non privo di profondità semantica, un tema che approfondiremo in seguito. Ma torniamo alla figura dell’architetto contemporaneo.

L’architetto e l’architettura

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Parte seconda / Imparare il mestiere


05. Nuove frontiere per la ricerca

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“L’Architettura è un vero lavoro di ricerca. Un architetto deve provare ad avanzare in ogni progetto, provare a fare un passo in avanti nella grande storia dell’Architettura. Non si tratta di costruire forme generate capricciosamente che producano lo stupore della gente ignorante. E a volte anche degli eruditi, che ignorano quasi tutto dell’Architettura. Si tratta di realizzare spazi per mezzo della ragione e che, inoltre, appartengano al tempo nel quale sono stati costruiti, che attestino il proprio tempo. L’architettura ha sempre cavalcato le nuove tecnologie, per questo diciamo che l’architettura di valore ha avuto sempre il carattere di vera ricerca. (…) Quel che fecero Palladio, Bernini e Borromini, ma anche Mies van der Rohe e Le Corbusier, è stato un vero lavoro di ricerca. Compresero a fondo il proprio tempo e adoperarono la chiave della tecnologia per aprire le porte di nuove strade per la concezione dello spazio architettonico”1. Così si esprime Alberto Campo Baeza sulla ricerca. Definizioni Ma cos’è, più in generale, la ricerca? Una definizione ancora oggi valida ci sembra quella data da John Dewey, che in un saggio del 1938, Logic, propose la stessa logica come teoria della ricerca. Dewey osserva, specificamente, che tutte le forme logiche nascono attraverso un lavoro di ricerca e concernono il controllo della ricerca in vista dell’attendibilità delle asserzioni prodotte. Si tratta insomma di qualcosa che coincide, in larga misura, con la stessa filosofia. Per cui la ricerca va intesa come “la trasformazione controllata o diretta di una situazione indeterminata in altra che sia determinata, nelle distinzioni e relazioni che la costituiscono, in modo da convertire gli elementi della situazione originaria in 90

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una totalità unificata”2. Più di recente, in particolare negli anni sessanta del secolo scorso, si parlò anche molto di ricerca operativa, una metodologia che in realtà ebbe origine negli stessi anni in cui scriveva Dewey, con l’obiettivo di prendere decisioni strategiche – si era alla fine degli anni trenta, in tempo di guerra – su basi il più possibile scientifiche. Tale ricerca operativa è stata poi applicata alla progettazione architettonica e soprattutto urbana, oltre che alla programmazione economica. “In senso generale si possono distinguere tre fasi della ricerca: analisi del problema; schematizzazione dei processi in corso di studio e formulazione di un modello logico-matematico; controllo del modello. I principali modelli di ricerca operativa classificabili secondo il tipo di scelta da affrontare sono: la programmazione lineare e dinamica (scelta sotto certezza funzionale), teorie dei processi stocastici e delle code (scelte sotto condizioni di rischio), teorie dei giochi, delle decisioni statistiche (scelte sotto incertezze), modelli simulativi”3. Sono, peraltro, le basi del discorso sui Big Data e sull’intelligenza artificiale, di cui parleremo nel capitolo 22. In architettura esistono, com’è noto, almeno due consolidati tipologie di ricerche: quella progettuale, messa in atto da chi progetta (e, sperabilmente, realizza), sia dentro sia fuori dal mondo accademico, e quella di carattere storico-critico, che tradizionalmente si colloca all’interno delle università e di altre istituzioni scientifiche. Tuttavia tali due tipi sono, o almeno dovrebbero essere, strettamente legati fra loro: la ricerca storico-critica acquista significato nella misura in cui guarda a quella progettuale e viceversa. Non si tratta insomma di compartimenti stagni: ce lo ricorda, fra l’altro, la nozione di critica operativa introdotta e definita da Manfredo Tafuri come “un’analisi dell’architettura (o delle arti in generale), che abbia come suo obiettivo non un astratto rilevamento, bensì la «progettazione» di un preciso indirizzo poetico, anticipato nelle sue strutture, e fatto scaturire da analisi storiche programmaticamente finalizzate e deformate. In tale accezione la critica operativa rappresenta il punto di incontro fra la storia e la progettazione. Anzi, si può ben dire che la critica operativa progetta la storia passata proiettandola verso il futuro: la sua verificabilità non risiede in astrazioni di principio; essa si misura volta per volta con i risultati che ottiene. Il suo orizzonte teoretico è la tradizione pragmatista e strumentalista. Si può anche dire di più. Un tale tipo di critica, anticipando le vie dell’azione, forza la storia: forza la storia passata, dato che, nell’investirla di una forte Nuove frontiere per la ricerca

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Parte terza / Il sistema professionale


13. Lavorare fuori dall’Europa

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Siamo convinti che la competitività italiana sui nuovi orizzonti globali sia decisiva per riconquistare spazi di lavoro che la crisi ha purtroppo gravemente eroso. I prossimi saranno anni in cui si giocherà una partita molto difficile: l’internazionalizzazione può offrire potenzialità di crescita e dare varietà alle condizioni di mercato, costituendo la chiave del successo un po’ per tutte le attività economiche; né gli studi di progettazione faranno eccezione in tal senso. Inoltre, quando uno studio sta attraversando un buon processo di crescita in ambito locale, è ragionevole che ambisca ad ampliare il proprio raggio d’azione per evitare di saturare le opportunità dove è già presente. Tuttavia, le occasioni di lavoro all’estero possono partire da condizioni molto diverse. Un conto è restare all’interno dei confini europei, come abbiamo visto nel precedente capitolo, un conto andare in paesi con sistemi radicalmente diversi, al di fuori dell’Europa. Se la sostanza del lavoro professionale rimane più o meno la stessa, contratti, pagamenti, assicurazioni, titoli e competenze cambiano. Competere a livello globale non è facile, anzi tutt’altro: è tra le sfide principali poste oggi agli architetti italiani. L’elevato interesse generato da tale sfida non significa certo che tutti i nostri architetti debbano provare a emigrare; tuttavia, avere la possibilità di estendere la propria attività professionale al di fuori dai confini del vecchio continente, in paesi dove la crescita demografica, economica e quindi edilizia ha dimensioni che da noi sono semplicemente impensabili, costituisce un’occasione di cui è difficile non subire il fascino. Diciamo subito che lo si può fare in almeno tre modi: a. trasferendosi e cercando un impiego all’interno di un grande studio internazionale presente in loco o in uno studio del posto (opzione più 176

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interessante di quanto si possa immaginare, soprattutto per la prima delle due possibilità e in particolare per i giovani: non necessariamente si finisce col fare i disegnatori; piuttosto è vero che è meglio misurarsi con progetti di livello internazionale, ancorché non da titolari, che restare a casa ad aspettare); b. aprendo una filiale del proprio studio, soluzione peraltro più o meno obbligata per chi desidera, per esempio, lavorare in Cina e, comunque, in larga misura auspicata e richiesta anche in alcuni paesi mediorientali; c. lavorando dal proprio studio in Italia, in collaborazione con un local architect, limitandosi quindi a frequenti trasferte. Essere attivi contemporaneamente in due o più paesi comporta notevoli vantaggi: permette, per esempio, di usufruire di congiunture economiche più favorevoli e di aumentare la propria capacità di reazione, essendo meno esposti ai fattori esterni propri di un unico mercato. Ciononostante, bisogna essere pronti per l’aumento di volume dei propri affari e, soprattutto, consapevoli dei rischi veicolati dagli investimenti sui mercati esteri: la riuscita di un efficace programma di internazionalizzazione prevede, inevitabilmente, un impegno piuttosto consistente in termini finanziari e lavorativi. Operare in contesti culturali diversi può offrire non poche difficoltà pratiche, magari maggiori e diverse da quelle cui si è abituati a confrontarsi, ma comporta anche un allargamento della propria rete di relazioni, offrendo possibilità d’incontro con nuove idee e nuove prospettive e consentendo di espandere il campo d’azione dello studio: un aspetto da non sottovalutare per svolgere con successo e soddisfazione la professione, sia sul piano psicologico sia su quello dei fatturati. I mercati globali offrono inoltre la possibilità di attingere a contesti in cui è possibile approfittare di fattori esterni favorevoli quali, per esempio, una migliore congiuntura economica, più snelli adempimenti burocratici, un regime fiscale più vantaggioso. Allargare la propria presenza verso tali mercati permette infine di dipendere meno dai fattori esterni non controllabili quali le crisi locali e di poter scegliere di operare dove maggiore è la convenienza. Cosa fare? Molta attenzione all’esportazione del lavoro degli architetti verso i paesi extraeuropei è stata dedicata negli ultimi anni dall’ACE, Architects’ Council of Europe, che nel 2019 ha pubblicato una Guide to Lavorare fuori dall’Europa

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working internationally, nell’ambito di un progetto cofinanziato dal Creative Europe Programme dell’Unione Europea. La guida è in parte modellata su di una precedente, simile guida edita dal RIBA. D’altra parte, lo stesso CNAPPC, era uscito – pochi mesi prima, nello stesso 2019 – con una piccola pubblicazione, reperibile anche online e in quanto tale facilmente suscettibile di aggiornamento, intitolata Lavorare all’estero e specificamente dedicata all’esportazione del lavoro degli architetti italiani. Sia a quest’ultima, assieme al Gruppo operativo Esteri, sia a quella di ambito europeo, assieme ai colleghi dell’ACE, ha collaborato attivamente chi scrive. Anche altri paesi, in modi diversi, hanno provato ad avviare simili iniziative. La Bundesarchitektenkammer – Federal Chamber of German Architects, per esempio, assieme a Verband Beratender Ingenieure, l’associazione degli ingegneri tedeschi e la Deutsche Bauindustrie, l’associazione dei costruttori, ha pubblicato Made in Germany, in cui l’intero settore AEC, Architecture, Engineering, Construction tedesco propone i propri successi sui mercati stranieri. Iniziative simili si registrano negli altri principali paesi europei. Ma mentre non è difficile essere d’accordo sull’esistenza e sulla riconoscibilità del made in Italy, del made in the UK o del made in Germany, il problema maggiore, a livello europeo, è stato proprio l’identificazione del made in Europe, di un brand che riuscisse cioè a essere inclusivo e riconoscibile alla scala continentale. A fronte di tale, in fondo prevedibile, difficoltà, la guida dell’ACE si è quindi limitata a offrire una lunga serie di consigli pratici riguardanti i concorsi, i finanziamenti, le parcelle, l’accesso ai mercati e le relative ricerche di mercato, le fonti a supporto delle numerose iniziative d’internazionalizzazione riservate gli architetti ecc. Ma segnala anche alcuni importanti eventi annuali che costituiscono altrettante occasioni d’incontro fra committenti, investitori e progettisti quali, per esempio, il MIPIM a Cannes, il MIPIM Asia a Hong Kong o altri eventi analoghi quali Cityscape a Doha e a Dubai. Pregi e difetti di noi italiani Tornando a noi, va detto che una sia pur sommaria analisi della situazione attuale in relazione alle opportunità di lavoro all’estero per gli studi di architettura italiani lascia emergere alcuni punti di forza e altri, invece, di debolezza. Fra i primi è la buona accoglienza solitamente riservata agli architetti italiani, con il riconoscimento della nostra elevata 178

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preparazione sia tecnica sia culturale: ne abbiamo già parlato. Fra i secondi, il più evidente è la nota condizione di parcellizzazione dei nostri studi: in generale, le nostre strutture professionali sono di dimensioni troppo piccole per gestire le difficoltà organizzative e gli investimenti richiesti dal livello internazionale. Uno studio associato o una società più o meno grande e consolidata ha certamente più probabilità di successo rispetto al singolo professionista o a un piccolo studio. Affinché il piano di approccio a uno o a più mercati stranieri sia affidabile, lo studio deve essere ben rodato e molto ben organizzato. L’improvvisazione non paga: comporta troppi margini di incertezza perché la programmazione possa risultare efficiente. Va poi detto che molti nostri studi non sono ancora sufficientemente aggiornati sui processi di progettazione più innovativi, spesso dati per scontati all’estero. Il ritardo, tollerabile finché si opera in ambito locale, non è quasi mai accettato fuori dal nostro paese, dove la richiesta di progettisti internazionali è intrinsecamente legata al desiderio di acquisire servizi progettuali di dimensioni considerevoli e all’avanguardia, spesso non reperibili presso i professionisti locali. Inoltre, se avere dimestichezza con le lingue straniere è un ovvio vantaggio, in molti casi si rivela una necessità. Si tratta di una condizione non così diffusa tra i professionisti italiani: sebbene le barriere linguistiche possano essere aggirate facendo affidamento su interpreti o collaboratori locali, questi ultimi spesso indispensabili anche per il normale disbrigo delle pratiche amministrative, è tuttavia importante potenziare le proprie capacità di comunicazione diretta allo scopo di intrattenere relazioni efficaci con i clienti, sia privati sia pubblici, e con le istituzioni. A livello comunicativo, il lavoro dell’architetto è ancora oggi fortemente personalizzato e saldamente legato al carisma personale del titolare dello studio: poter esporre alla committenza il proprio progetto con competenza e padronanza della lingua è molto diverso dall’affidarsi a un, sia pur brillante, collaboratore. Fra le tante opportunità da sfruttare sono i finanziamenti, sia nazionali sia europei, cui è possibile attingere quando si esporta il proprio lavoro; interessante è anche la possibilità di avvalersi di giovani talenti locali. Ma, a fronte di tali vantaggi, non mancano i rischi: da quelli derivanti dall’esposizione economica alle tante forme di protezionismo interno; dalla possibilità di furto intellettuale (in contesti in cui la proprietà intellettuale è spesso scarsamente tutelata) alle diversità normative e culturali alle quali bisogna rispondere con pazienza e capacità di Lavorare fuori dall’Europa

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Azioni immediate Continueremo il nostro ragionamento nel capitolo successivo dedicato al BIM. Anticipiamo tuttavia una serie di azioni immediate che ci sembrano sempre più chiaramente indispensabili per le ricadute dirette o indirette che hanno sul nostro mestiere: promuovere la digitalizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, soprattutto quello vincolato e di notevole valore storico e artistico, mediante l’utilizzo di sistemi che ne agevolino la gestione, con la conseguente ottimizzazione della spesa pubblica per l’edilizia; completare e uniformare, a livello nazionale, la digitalizzazione della pubblica amministrazione; rinnovare, arricchire e migliorare la qualità dei servizi professionali prestati dagli architetti; avviare piattaforme di condivisione e ricerca del lavoro, che permettano di individuare, territorialmente, gli studi di progettazione secondo le categorie definite dal decreto parametri (uno strumento che, se condiviso con le stazioni appaltanti pubbliche, potrebbe costituire un valido supporto all’individuazione dei professionisti da invitare a presentare l’offerta economica per le gare sotto la soglia dei 40.000 euro e come elenco fornitori per le altre gare); favorire e facilitare la transizione al digitale delle strutture professionali mediante una serie di incentivi e detassazioni mirate, mettendo inoltre a disposizione software open source utili per gestire l’elaborazione progettuale e la stessa gestione degli studi. Un esempio significativo, a livello nazionale, è costituito dall’accordo, proposto nel 2020, da una lunga serie di enti operanti sulla scena dell’industria delle costruzioni (fra cui l’ANCE, Associazione nazionale dei costruttori edili; l’ASSOBIM, Associazione per la diffusione del Building Information Modeling; i consigli nazionali degli architetti, degli ingegneri e dei geometri; l’UNI, Ente italiano di normazione; Federcostruzioni; Federcomated e il Politecnico di Milano) per l’elaborazione di una strategia digitale nazionale dell’ambiente costruito e per il lancio di una piattaforma nazionale delle costruzioni, magari all’interno di una possibile, più ampia piattaforma europea: una forte spinta alla digitalizzazione dell’intero sistema.

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Livio Sacchi - Il mestiere dell’architetto


21. Il BIM

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Sappiamo tutti di cosa si tratta: acronimo di Building Information Modelling, il BIM designa un processo progettuale che sostituisce al progetto tradizionale una vera e propria simulazione digitale della costruzione di un edificio in maniera computabile, interoperabile e in grado di assicurare coerenza fra gli elementi che lo compongono, rispondendo, inoltre, ai fenomeni che potrebbero verificarsi in ogni fase del suo ciclo di vita. “Una rappresentazione digitale del processo costruttivo che facilita lo scambio e l’interoperabilità delle informazioni in formato digitale”, come suggerì Chuck Eastman, direttore del Building Lab di Georgia Tech. Coniato nel 1992, l’acronimo vale anche Building Information Management ovvero Behavioural Information Modelling, ed è ulteriormente declinabile come Land o Geospatial Information Modelling, Infrastructure Information Modelling, Landscape Information Modelling, District o Urban Information Modelling se riferito al territorio, alle infrastrutture, al paesaggio, al quartiere o alla città; in francese Bâtiments et Informations Modélisés. In altre parole, il BIM è un processo che si avvale di tecnologie digitali basate su logiche parametriche in grado da una parte di coniugare dati geometrici e alfanumerici, sovrapponendo immagini e informazioni, dall’altra di assicurare coerenza progettuale grazie alla verifica della dimensione finanziaria (i costi) e cronologica (i tempi); ha inoltre importanza e diffusione crescente all’interno dei processi di ideazione, progettazione, realizzazione, gestione e manutenzione degli edifici. Interoperabilità e coerenza dei modelli 3D sono le due parole chiave che, forse meglio di altre, ne sintetizzano le principali caratteristiche. Con il BIM tutti i soggetti coinvolti portano avanti, insieme, una vera e propria Il BIM

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Interrogativi conclusivi Riuscirà la nostra professione, oggi così duramente colpita dalla crisi, a ridefinire i propri obiettivi, rendendosi più matura e consapevole del proprio ruolo sociale, dei propri limiti e, soprattutto, dei limiti delle risorse? Si sta davvero aprendo una rinnovata stagione dell’architettura della partecipazione in cui l’interazione creativa sarà accessibile a tutti, come già avviene nel campo dell’industrial design? Siamo forse agli esordi di un nuovo paradigma progettuale in cui l’architettura, come s’è anticipato, diventa open source (secondo una logica ampiamente sperimentata e condivisa fra i creatori di software), frutto composito di innesti, ibridazioni e feedback diversi, aperta a una estetica hack, che significa “violazione” ma anche “improvvisazione”? Quel che è certo è che il BIM è, per definizione, un percorso aperto e promette ampi spazi all’innovazione, nel senso più ampio del termine. Come concludeva un rapporto CENSIS di qualche anno fa: chi non vuole o non sa innovare non sarà mai fuori dalla crisi; simmetricamente, chi si è rivelato in grado di innovare dalla crisi è, forse, già fuori.

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Livio Sacchi - Il mestiere dell’architetto


22. Big Data e Intelligenza artificiale

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A un intervistatore che gli chiedeva come fosse nato il concept dell’Holocaust Memorial a Berlino, Peter Eisenman rispose: “Il computer fu un fantastico aiuto. Inserimmo un po’ di dati di base e vennero fuori due superfici, sagomate a caso, diverse. Provammo a sovrapporle l’una sull’altra e a combinarle con le steli. Una delle superfici divenne il pavimento del Memorial, l’altra delimitò il bordo superiore delle steli”1. I dati, di cui non senza una certa nonchalance parla Eisenman, sono importanti in architettura: sia che si tratti di richieste oggettive di tipo funzionale (non è evidentemente il caso del monumento berlinese), sia che si tratti di elementi eteronomi, tuttavia interni alle logiche progettuali o, meglio, autoriali che ne regolano il disegno. Utilizzata per la prima volta nel 1999 da Steve Bryson, David Kenwright, Michael Cox, David Ellsworth e Robert Haimes in un articolo pubblicato dal mensile americano “Communications of the ACM”, Big Data è una locuzione che sintetizza un processo complesso: da una parte indica l’impressionante quantità di dati cui siamo esposti, dall’altra il sempre più impegnativo lavoro di analisi che siamo chiamati a fare, in tutti i settori e quindi anche nella progettazione, costruzione e gestione dell’architettura e delle città. A voler essere precisi, la locuzione andrebbe utilizzata dai 100 PB (petabyte, la quinta potenza di 1.000) in su, anche se, in particolare in Europa, si è diffusa anche per quei dataset che è possibile conservare su normali penne Usb. Il più volte citato rapporto Makno ci ricorda che: “la massa di informazioni che deriva dal progresso tecnologico non riesce ad essere appannaggio di un unico soggetto. Alcuni intervistati sottolineano l’importanza di una multidisciplinarietà più ‘allargata’ rispetto ai canoni Big Data e Intelligenza artificiale

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