Collana Períactoi | Quaderni n. 01 Ideata e diretta da Vittorio Fiore e Edoardo Dotto Università di Catania Comitato scientifico Francesca Castagneto – Docente di Tecnologia dell'architettura, Università di Catania, SDS Architettura Siracusa Alessandro Chiti – Scenografo Emanuele Garbin – Docente di Teorie, storia e tecniche della rappresentazione, IUAV, Venezia Annamaria Monteverdi – Esperta Digital performance, ricercatore e docente di Storia del teatro, Università Statale di Milano Fabio Quici – Docente di Comunicazione visiva e multimediale, rappresentazione contemporanea ed euristica, Università di Roma La Sapienza Pierluigi Salvadeo – Docente di Architettura degli interni, allestimento e scenografia, Politecnico di Milano Francesca Serrazanetti – Docente al Politecnico di Milano, critico teatrale, redattore di "Stratagemmi"
Alessandro Smorlesi Prefazione di Renzo Guardenti
In flagrante Il teatro di Fabrizio Crisafulli incontra Yasunari Kawabata 1995-2013
ISBN 978-88-6242-337-3 Prima edizione italiana, Ottobre 2018 © LetteraVentidue Edizioni © 2018 Fabrizio Crisafulli, Renzo Guardenti, Alessandro Smorlesi Tutti i diritti riservati È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Gli autori sono a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare. Progetto grafico: Officina 22 Editing e impaginazione: Danila Domizi e Vera Schwierz Crediti fotografici: Serafino Amato – pp. 58-59, 60, 61, 63, 76, 80, 81 (sx e dx) Fabrizio Crisafulli – p. 62 Lidia Crisafulli – pp. 6, 10-11, 16, 21, 22-26, 44, 47, 48, 49, 52, 53, 57, 66, 74-75, 81 (centro), 82, 83, 84, 85, 91 Gatd – pp. 18, 32, 33, 39, 40, 41, 42, 42, 65 Maria Cristina Nicoli – p. 15 LetteraVentidue Edizioni S.r.l. Via Luigi Spagna 50 P 96100 Siracusa, Italy Web letteraventidue.com Facebook LetteraVentidue Edizioni Twitter @letteraventidue Instagram letteraventidue_edizioni
Indice
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Un’esperienza che lascia il segno Prefazione di Renzo Guardenti IN FLAGRANTE
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Un teatro delle relazioni Il percorso di ricerca su Kawabata Sonni e Le Addormentate di Crisafulli-Deflorian, 1995 Die Schlafenden, 2013
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Dal romanzo alla scena Intervista a Fabrizio Crisafulli MATERIALI
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Due apporti artistici a Sonni e Le Addormentate Serafino Amato: l’esplorazione del corpo nudo Gli oggetti tattili di Adele Mirabella
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Partitura di Die Schlafenden APPARATI
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Schede degli spettacoli Antologia critica Bibliografia
Valeria Scardigno in Die Schlafenden, 2013.
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Un’esperienza che lascia il segno Prefazione di Renzo Guardenti
L’incontro col teatro di Fabrizio Crisafulli è un’esperienza che lascia il segno. Lo lascia, si potrebbe dire, nei recessi più intimi degli osservatori, intendendo con questo termine non solo chi assiste allo spettacolo – il pubblico tout court – ma anche chi vi entra in contatto per vie indirette e mediate, quali lo studio dell’attività dell’artista, la presentazione del suo teatro in contesti didattici, oppure anche attraverso l’esperienza di didatta dello stesso Crisafulli, esercitata per lungo tempo in prestigiose Accademie di Belle Arti e in diverse sedi universitarie, o ancora la lettura dei suoi saggi storico-critici di e sul teatro, lo spazio, il corpo, la luce. Due esperienze didattiche realizzate nell’ambito del mio corso di Istituzioni di regia presso l’Università degli Studi di Firenze possono essere utili a chiarire quanto ho appena espresso. La prima segna l’inizio del mio rapporto di collaborazione con Crisafulli, legato alla progettazione di una performance dedicata alla grande scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann che mi vedeva coinvolto insieme ai miei studenti nel lavoro di elaborazione drammaturgica, mentre Crisafulli si occupava della dimensione registica coadiuvato dai suoi allievi dell’Accademia di Belle Arti di Firenze. Quel che ho visto e udito. Omaggio a Ingeborg Bachmann, così si chiamava lo spettacolo, era stato inizialmente pensato come percorso negli spazi del teatro fiorentino della Pergola, tra i quali anche alcuni normalmente interdetti al pubblico. Si sarebbe dovuti passare dai sotterranei al Ridotto, e poi ai corridoi, il foyer, la sala, i palchetti, il palcoscenico. Per una serie di vicissitudini che non starò a riepilogare Quel che ho visto e udito subì diversi rinvii per poi essere realizzato (e profondamente ripensato) nel 2012 in uno spazio completamente diverso, quello del Teatro Studio di Scandicci, nell’ambito della rassegna Zoom Festival. La seconda esperienza è relativa a un seminario tenuto da Crisafulli nel 2016 sempre nell’ambito del mio corso di Istituzioni di regia, conclusosi poi con la presentazione al Cango di Firenze, sede della Compagnia Virgilio Sieni, dell’ultimo volume dell’artista catanese Il teatro dei luoghi. Lo spettacolo generato dalla realtà, pubblicato per i tipi di Artdigiland nel 2015. Anche in questo caso si trattava di un corso assai particolare, rivolto sia agli studenti del corso di laurea magistrale
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in Scienze dello spettacolo, sia a quelli iscritti alla laurea magistrale in Design e provenienti dal Dipartimento di Architettura, così come in occasione del lavoro su Ingeborg Bachmann il corso si era fondato sulla compresenza degli studenti di Istituzioni di regia e quelli dell’Accademia di Belle Arti. Le due esperienze didattiche si caratterizzarono per metodiche e finalità profondamente differenti. Nella prima l’intenso lavoro su serie eterogenee di testi della Bachmann, gli spazi della ‘Pergola segreta’, ricchi delle risonanze secolari della vita materiale del teatro fiorentino, ascoltati e intimamente sentiti da tutti noi grazie alle sollecitazioni discrete di Crisafulli, e poi il dover necessariamente ‘risentire’ l’intero allestimento alla luce della nuova configurazione spaziale del Teatro Studio di Scandicci, insieme al lavoro con lo stesso Crisafulli e la performer Simona Lisi, dettero luogo tra tutti gli attori coinvolti (studenti, docenti/drammaturghi/registi, performer) a quella che mi piace definire come una sorta di drammaturgia relazionale, capace di travalicare gli ambiti in sé e per sé limitati delle finalità didattiche o della realizzazione spettacolare. Analoga situazione nel secondo seminario, seppur con un fisiologicamente diverso gradiente di intensità data la brevità degli incontri e le modalità didattiche più convenzionali. Mi sono fin qui dilungato su queste due esperienze non certo per vezzo narcisistico, quanto piuttosto perché ritengo fermamente che, pur essendo di fronte a platee studentesche così eterogenee, assai difficili da allineare e da far convergere attorno a tematiche e metodologie reciprocamente distanti in virtù di formazioni e livelli di preparazione differenti, in entrambi i casi l’idea di teatro di Fabrizio Crisafulli è stata lo spazio fisico e mentale, e direi energetico, che ha consentito di attivare quella drammaturgia relazionale di cui parlavo poco fa. È questo il valore aggiunto delle due esperienze. E qui giungiamo a quella che può essere considerata come la parola chiave del teatro di Crisafulli e cioè relazione, il vero e proprio tratto pertinente e imprescindibile della sua visione scenica, del resto bene messa in evidenza da Alessandro Smorlesi in questo volume fin dal titolo del capitolo in cui vengono presentati gli spettacoli ispirati al romanzo breve di Yasunari Kawabata: Un teatro delle relazioni. Nel 2016, all’epoca del secondo seminario fiorentino, Smorlesi aveva già iniziato a lavorare alla sua tesi di laurea triennale in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo dedicata a Crisafulli regista e all’allestimento di Die Schlafenden, avviando anche un percorso di frequentazione personale con l’artista, di sicuro e grande giovamento nel processo di maturazione dell’intero lavoro; un lavoro, quello di Smorlesi, che rispondeva perfettamente a tutti i crismi di quel genere letterario che a conti fatti sono le tesi di laurea. Di quella tesi non è rimasto poi molto, e questo è un bene. E non certo perché la tesi su Die Schlafenden non sia stata un ottimo lavoro: se non lo fosse stata questo libro non avrebbe mai visto la luce.
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Il volume di Alessandro Smorlesi si distacca si potrebbe dire strutturalmente dall’elaborato precedente assumendo l’aspetto e la sostanza di un’operazione critica che più che puntare su processi ricostruttivi, su un’analisi di dettaglio o su dinamiche interpretative, si pone per certi versi nell’ottica di presentare l’evento attraverso un’operazione non dissimile da quella pratica di descrizione delle immagini che va sotto il nome di ekfrasis: e quale modo migliore si potrebbe individuare per parlare di un teatro come quello di Crisafulli, dove l’elemento visivo gioca un ruolo assolutamente centrale nel sistema del suo linguaggio scenico? Ma il contributo di Smorlesi assume una rilevanza particolare perché il giovane studioso è in certo qual modo il costruttore stesso della documentazione sull’operato dell’artista: in questo senso, Dal romanzo alla scena, la corposa intervista che segue la presentazione degli spettacoli e dove vengono ripercorse le linee di indirizzo del fare artistico di Crisafulli e indagati aspetti del percorso creativo degli allestimenti ispirati a Kawabata, inclusi quelli realizzati con Daria Deflorian negli anni ’90, costituisce non solo una fonte preziosa che chiarisce aspetti cruciali del teatro di Crisafulli, ma si distingue anche in quanto ulteriore modalità attraverso la quale il concetto basilare di relazione articola e amplifica la sua potenza generativa. Non è facile scrivere su artisti ancora in attività. Di questo Alessandro Smorlesi è perfettamente consapevole, ed è questa consapevolezza alla base della scelta di distaccarsi dall’impianto della tesi di laurea. E non è facile scrivere su Fabrizio Crisafulli, perché penso che l’intera sua vicenda artistica sia caratterizzata dalla sostanziale irriducibilità della sua scrittura scenica. Una irriducibilità che costituisce il fondamento e l’essenza del suo teatro, che necessariamente prescinde dalla parola come affabulazione retorica, dallo spazio come luogo della rappresentazione o come scenografia, dal corpo come strumento di esibizione di più o meno sofisticati artigianati performativi (penso al cosiddetto cabotinage tanto deprecato da Jacques Copeau), dallo spettacolo come veicolo di un messaggio. Un teatro che si sostanzia invece nella reciprocità della relazione: una relazione diretta, che tocca e attraversa chi agisce, guarda, sente, vive lo spettacolo in una dimensione di assoluto privilegio, quella fondata appunto sulla relazione individuale tra performer e singolo spettatore, così come negli allestimenti ispirati a La casa delle belle addormentate ognuno dei riguardanti assume lo sguardo del vecchio Eguchi. Un teatro che mette in scena, si potrebbe dire, il qui e ora della relazione. Il che, a ben guardare, è all’origine dello stesso teatro occidentale: al di là di quelle che sarebbero diventate le vestigia letterarie della grande drammaturgia tragica, i greci avevano perfettamente compreso che il teatro non poteva non fondarsi su questo concetto. Il qui e ora della relazione: allora come oggi. Per questo il teatro di Crisafulli attinge alla grandezza dei classici e il volume di Alessandro Smorlesi ne diventa viva testimonianza.
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Die Schlafenden, 2013.
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Die Schlafenden (2013) Nel 2013, a diciotto anni dalle performance create con Daria Deflorian, Crisafulli porta in scena Die Schlafenden, ulteriore lavoro ispirato a La casa delle belle addormentate, tornando evidentemente su un tema per lui ancora denso di stimoli. La nuova performance viene creata in Austria, presso la Tonhof di Maria Saal, un castello dell’alta Carinzia. L’idea di produrre lo spettacolo è di Gehrard Lehner, direttore del KE, un teatro di Klagenfurt col quale Crisafulli ha lavorato molto spesso in passato. Nel periodo che intercorre tra le due performance degli anni ’90 e Die Schlafenden, il regista ha avuto modo di sperimentare a fondo in spettacoli e installazioni la propria poetica del “teatro dei luoghi”: un tipo di ricerca nella quale il lavoro con il corpo, la parola, il movimento, lo spazio, la luce, il suono si plasma sotto l’influenza generativa e strutturante del sito, che viene inteso quasi come un “testo”31. Tanto che, nel caso di questo nuovo spettacolo, il drammaturgo, Andreas Staudinger, non svolge il suo lavoro autonomamente, a tavolino: affianca giorno dopo giorno il regista durante le prove, discutendo e trovando insieme a lui le soluzioni, a contatto con il luogo, gli attori, il musicista, i tecnici. Anche questa volta l’apporto del sito si rivela determinante: la Tonhof (letteralmente “casa del suono”) è un edificio patrizio con un grande parco, ai margini del piccolo centro storico di Maria Saal, che, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, i proprietari, il musicista sperimentale Gerhard Lampersberg e sua moglie Maja, una delle ultime grandi promotrici di “salotti” culturali in Austria, proprietaria della casa, aprirono ad artisti visivi, musicisti, registi, drammaturghi,
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poeti, romanzieri, critici, ospitandoli in residenza per offrire loro un luogo adatto alla ricerca. «La Tonhof – scrive Klaus Amann – è stata, per la letteratura austriaca del dopoguerra, un fenomeno indubbiamente unico, nato da un’iniziativa individuale, dall’amore per l’arte, il mecenatismo, l’entusiasmo, una forte dose di anarchia e la necessità, in un paese principalmente rivolto alla conservazione del proprio passato, di dare spazio all’arte moderna in un ambito speciale. È stata una sorta di luogo extraterritoriale, rispetto al prevalere delle tradizioni etniche e nazionali, e alla scena politica e culturale: un’enclave letteraria e artistica, una contropartita rispetto alle circostanze e alle idee del momento»32. Maja Lampersberg usava dire che la Tonhof era un “trasmettitore” di esperienze, rispetto al quale lei non faceva che mettersi “al servizio”. La casa ha continuato a svolgere la sua attività di sostegno alla ricerca artistica anche dopo la morte di Gerhard Lampersberg nel 2002, ed è divenuta luogo, oltre che di residenze artistiche, di mostre e rassegne teatrali, cinematografiche, musicali. Tra gli artisti visivi che vi hanno soggiornato nel corso del tempo, vi sono stati, ad esempio, Gerhard Ruhm e Christine Lavant; tra gli artisti dello spettacolo, l’attrice Bibiana Zeller e il regista teatrale Herbert Wochinz; tra gli scrittori, Thomas Bernhard, Peter Handke, Peter Turrini, Luigi Umberto Fink, Joseph Winkler. Ma ciò che del luogo è stato rilevante rispetto al lavoro di Crisafulli è il fatto che, nei decenni passati, la casa ha attirato su di sé i sospetti e le dicerie degli abitanti del luogo, che hanno sempre considerato eccentrici e “scandalosi” i comportamenti dei suoi ospiti33. Questa fama è stata ulteriormente alimentata, oltre i confini locali, dal romanzo di Thomas Bernhard Holzfällen (1984)34, che
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getta un’ombra non da poco sullo stile di vita dei Lampersberg e sul loro mecenatismo. La Tonhof ha per questi motivi ingenerato negli abitanti del posto, e non solo, sospetti, probabilmente ingiustificati, che hanno sempre fatto vedere la Tonhof come una sorta di “casa del peccato”. L’assonanza, per questo aspetto, tra le due case, la Tonhof e la casa del racconto di Kawabata, ha una certa influenza sul modo di sentire la situazione in cui si trova ad operare Crisafulli, come egli stesso dichiara nell’intervista contenuta in questo libro. Lo spazio dove lo spettacolo viene creato e presentato è la stalla della Tonhof, che è anche il luogo dove Thomas Bernhard aveva presentato i suoi primi esperimenti teatrali: uno spazio rettangolare, interamente in legno, con le finestre a trifoglio tipiche dell’architettura rurale austriaca. Con minimi accorgimenti scenografici, come applicare della carta di riso sulle finestrelle per poi illuminarle dall’esterno, e soprattutto con la qualità delle azioni, sempre misurate nello spazio, il regista crea un tipo di atmosfera rapportabile a quella del racconto, senza alcuno sforzo di ricostruzione stilistica. «I temi del romanzo – afferma – sono universali, e non necessitano necessariamente di un’ambientazione giapponese. Ma in maniera abbastanza naturale la stalla austriaca è diventata un interno giapponese senza che usassimo alcun tipo di oggetto o di arredo che rimandasse al Giappone»35. Come nelle precedenti versioni, il ruolo del voyeur è affidato al pubblico, che accede «al mistero delle addormentate con tutto quello che comporta in termini emotivi e di messa in gioco del proprio mondo interiore»36. A Simona Lisi e Angie Mauz è affidato il ruolo della maitresse, sdoppiato, come in Sonni; Maria Cristina Nicoli, Sigrid Elisa Pliessnig e Lucrezia Valeria Scardigno sono le vergini “addormentate” che agiscono quasi come un unico corpo. Si potrebbe forse dire che le prime, che si muovono in luce, sempre rivolte al pubblico, appartengano in buona misura alla sfera della volontà e del potere; e le seconde, sempre in penombra, a quella della sottomissione e del sacrificio, e svolgono azioni che rimandano alle memorie e alle fantasie del vecchio Eguchi, oltre che
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al loro stato di soggezione. Al contrario della padrona di casa, queste tre figure sono, come nel racconto, prive di parola. Il loro ruolo si svolge principalmente in termini di movimento ed è il principale portatore di quelle che sono alcune delle caratteristiche più tipiche del teatro di Crisafulli: la sfera ipnotica, quella onirica; l’enigma, la sospensione. La scena è improntata a criteri di massima semplicità e sintesi. C’è, al centro della scena, un praticabile quadrato, che diviene di volta in volta letto, altare sacrificale, tavolo da gioco. È «uno spettacolo raffinato, quasi in bianco e nero», scrive un recensore37, a tratti percorso da disegni e visioni di grande intensità, «mani che denudano i corpi e tracciano linee luminose; la sala che si trasforma per attimi in un tempio del desiderio»38. Altro elemento importante è il suono, creato da Andrea Salvadori, nell’elaborazione del quale viene messo ancora una volta a frutto l’approccio del teatro dei luoghi, con l’uso degli stessi rumori del sito (anche quelli esterni alla stalla, in questo caso), come elementi a partire dai quali viene creato, con un sofisticato procedimento di elaborazione, rimandi e risonanze, il paesaggio sonoro dello spettacolo. Con il suono, la luce è, fin dall’inizio, un vero soggetto “narrante”, parte centrale della struttura dello spettacolo. Luce e suono sono tempo, ritmo, drammaturgia, disegno39. Nella costruzione del lavoro, i diversi elementi espressivi sono venuti a costituire insieme al testo e al luogo, «un insieme di matrici e motivazioni, che, messe in relazione tra loro e in movimento, hanno prodotto nello spettacolo un circolo di energie riconducibili al romanzo, del quale fanno echeggiare contenuti profondi e moti interiori, ma dal quale allo stesso tempo si distaccano attraverso la forza di un’opera totalmente nuova, informata da una visione teatrale contemporanea. Un’opera che ha la forza di uno schianto profondo e prolungato. E si capisce la reazione commossa ed entusiastica del pubblico, intimamente scosso e quasi incredulo rispetto alla forza emotiva che ancora può sprigionare dal teatro»40.
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Note 1. Alessandro Smorlesi, Un esempio della poetica di Fabrizio Crisafulli: Die Schlafenden, tesi di laurea in Scienze dello Spettacolo, relatore prof. Renzo Guardenti, Scuola di Studi Umanistici e della Formazione, Corso di Laurea DAMS, Università degli Studi di Firenze, a.a. 2015-2016. 2. Tra le principali pubblicazioni sul suo lavoro, cfr. Raimondo Guarino (a cura di), Teatro dei luoghi. Il teatro come luogo e l’esperienza di Formia, 1996-1998, Gatd, Roma, 1998; Simonetta Lux (a cura di), Lingua Stellare. Il teatro di Fabrizio Crisafulli 1991-2002, Lithos, Roma, 2003; Silvia Tarquini (a cura di), Fabrizio Crisafulli: un teatro dell’essere, Editoria & Spettacolo, Roma, 2010; Id. (a cura di), La luce come pensiero. I laboratori di Fabrizio Crisafulli al Teatro Studio di Scandicci, 2004-2010, Editoria & Spettacolo, Roma, 2010; Nika Tomasevic (a cura di), Place, Body, Light. The Theatre of Fabrizio Crisafulli, 1991-2011, prefazione di Silvana Sinisi, Artdigiland, Dublino, 2013; Dossier monografico su Fabrizio Crisafulli, «Teatri delle diversità», n. 73-76, dicembre 2016-maggio 2017, pp. I-XXVIII. 3. Sui laboratori di Crisafulli cfr. Lilia Melissa, Laboratorio teatrale dell’Accademia di Catania, «Lighting Design», Milano, gennaio-febbraio 1991; Manuela De Cardona, Piccoli teatri totali, «Next», n. 20, Roma, 1992; Julie Little et al., Uverschamt Gut in Szene Gesetz, Institut für Angewandte Theaterwissenshaft, Università di Giessen, Giessen (Germania), ottobre 1992; Giovanni Iovane (a cura di), Intervista a Fabrizio Crisafulli, «Carte d’Arte», n. 4, Messina, 1992; Manuela Battaglino, Armoniche visioni, «Lighting Design», Milano, agosto 1994; Giuseppe Barbieri, Luce come materia del comunicare. L’esperienza del laboratorio di Urbino, «Gulliver», anno XIII, n. 1, Roma, 1995; Mike Clark, Avant-garde artistry. Lighting Takes Center Stage in the Works of Fabrizio Crisafulli, «Lighting Dimensions», n. 3, New York, aprile 1997; Francesco Calcagnini, Umberto Palestini, La fabbrica del vento, Baskerville, Bologna, 2010; Silvia Tarquini (a cura di), La luce come pensiero…, cit.; e i seguenti scritti dello stesso Crisafulli: Teatro e luce contemporanea: le poetiche, le tecniche, in AA. VV., Se all’Università si sperimenta il teatro, a cura di Vito Minoia, Magma, Pesaro, 1998; Drammaturgia della tecnica. Quindici anni di ricerca laboratoriale, in «Teatri delle Diversità», n. 18, giugno 2001; Autoanalisi di una ricerca in corso, in Id., Luce attiva. Questioni della luce nel teatro contemporaneo, Titivillus, Corazzano (PI), 2007. 4. «In quegli anni ero molto interessato ai problemi dell’assetto del territorio e dell’ambiente. […] Ricordo che, dopo aver svolto un’inchiesta sul grande polo industriale petrolchimico che sta a nord di Siracusa, mi resi conto della violenza con la quale la gente era stata espropriata dei propri luoghi. L’attività ormai prevalente del posto, quella che occupava il maggior numero di persone, usava materie prime provenienti da altri paesi e inviava altrove i prodotti trasformati. Sul luogo non rimaneva nulla, se non l’inquinamento. Mi resi anche conto in quell’occasione di come le aspirazioni e i desideri della gente del posto continuassero ad essere alimentati dai loro luoghi, pur così trasformati; e che il legame di ognuno col proprio posto d’origine aveva delle componenti fantastiche che non erano meno importanti di quelle quotidiane e materiali.
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Appunti di Crisafulli sulle azioni di Die Schlafenden, 2013.
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Daria Deflorian in Le Addormentate, 1995.
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Serafino Amato: l’esplorazione del corpo nudo Negli spazi attigui alla galleria dove venne presentato Le Addormentate furono esposte, le sere delle repliche, alcune grandi fotografie in bianco e nero di Serafino Amato. Erano il risultato di un lavoro di avvicinamento al senso e alle atmosfere del racconto svolto con la compagnia nella fase preparatoria dello spettacolo, per comprendere meglio il rapporto tra il voyer e il corpo nudo della ragazza addormentata. Il titolo scelto da Amato per la mostra fu Eguchi. Visioni di un presbite. Una seconda seduta fotografia venne realizzata, come ulteriore momento di comprensione, nella stessa galleria Sala 1.
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Foto dalla serie Eguchi. Visione di un presbite, 1995.
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Prima seduta fotografica di Serafino Amato, 1995. Pagina successiva: seconda seduta fotografica di Serafino Amato, 1995.
«Con Serafino abbiamo cercato (e trovato, credo) un modo produttivo di rapportare la fotografia al teatro. Di rendere la fotografia partecipe del processo di costruzione dello spettacolo. E il teatro della creazione fotografica. Era già avvenuto con quelli che chiamavamo i “braccamenti” notturni sulle “sciare” dell’Etna delle ragazze del Pudore bene in vista. Le ragazze fuggivano al buio – in una situazione di pericolo per l’oscurità e il terreno lavico accidentato – cercando di non farsi “acchiappare” dal flash del fotografo-inseguitore. Durante la corsa Serafino non guardava in macchina. La teneva sopra la testa, puntata in avanti: più arma che occhio. Io lo sorreggevo dalla cintura, da dietro, per non farlo cadere, guardando a terra, e tenendo a mia volta in alto il flash. Le ragazze cercavano di sfuggire ai lampi di luce con continue deviazioni. Quella specie di performance ad uso interno della compagnia fu un modo – nel periodo di preparazione dello spettacolo – di comprendere meglio il rapporto che la luce instaurava in scena con le attrici. Che della luce dovevano seguire indicazioni, spostamenti, marcature nello spazio. Che avevano spesso la luce negli occhi. Che erano soggette ai proiettori. I quali indicavano loro, in maniera estremamente precisa, posizioni, tempi, movimenti. Ma allo stesso tempo suggerivano spiragli, cunicoli, rivincite del corpo, vie di fuga, gioco, ribaltamento. Serafino ha inoltre realizzato, nel periodo di lavoro sulla Bachmann, grandi immagini ispirate a parole-chiave indicategli da Daria (Deflorian, n.d.r.), che entrarono a far parte dell’immaginario dello spettacolo. Ha poi seguito alcuni momenti di vita quotidiana della compagnia che in occasione delle sedute fotografiche divenivano un piccolo “teatro” privato, carico di idee anche per il nostro lavoro. Per Le Addormentate abbiamo realizzato ancora una “performance” interna alla compagnia. Ci interessava in quel caso comprendere meglio il rapporto tra una persona nuda e sveglia (come il vecchio Eguchi) ed
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una ragazza nuda e addormentata (come le “addormentate” del racconto). A questo si è aggiunto – di differente rispetto a Kawabata – un ulteriore punto di osservazione (che potrebbe corrispondere al lettore): quello dell’intera compagnia che durante la seduta attorniava il “set” fotografico, seguendone in silenzio le vicende. Serafino, nudo, con la macchina fotografica, esplorava da vicino il corpo nudo di Francesca (Francesca Limana: una delle attrici dello spettacolo, n.d.r.), a terra sul lettino. Dopo una prima fase un po’ innaturale, di imbarazzo, di ambientamento del gruppo e di Serafino stesso, i suoi movimenti hanno cominciato a risentire degli impulsi silenziosi di quel corpo. I suoi spostamenti in avanti, indietro, attorno ad esso, sembravano seguire quei sentimenti di tenerezza, meraviglia, aggressività, curiosità, vicinanza, violenza, distanza, che – come nel romanzo di Kawabata – di volta in volta il corpo nudo, inerme e disponibile, può suscitare. Serafino era attratto e respinto, intimorito e galvanizzato. Come nel romanzo, c’erano sentimenti apparentemente opposti». Fabrizio Crisafulli, Taccuini, in Lingua stellare. Il teatro di Fabrizio Crisafulli, 1991-2002, a cura di Simonetta Lux, Lithos, Roma, 2003
La nudità evoca potenze interiori in chi si mostra e soprattutto figurazioni e immaginazioni che appartengono all’osservatore; la nudità come chiave per evocare se stessi, come massima distanza dall’oggettività. La persona ripresa è in grado di mostrare un sé fin troppo visibile, in cui, il guardante, potrà interrogare un sé intimo, in fondo anch’esso ben noto. La percezione del corpo accomuna il genere umano assai più del vedere. ~ Serafino Amato