"Mia figlia spiegata a mia figlia", di Dario De Marco

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Dario De Marco

MIA FIGLIA SPIEGATA A MIA FIGLIA. LA MIA DIPENDENZA DA… MIA FIGLIA!

Saggio


1. Mi presento Ciao, sono Dario, ho trentotto anni e sto cercando di smettere. Sì, lo so, la formula è sbagliata. Una persona affetta da dipendenza che sta provando a uscirne – che sia alcolista anonimo, tossico che scala il metadone o gambling-addicted – non dice mai “sto provando a uscirne”, “mi sto disintossicando” o peggio ancora “ho smesso”. Perché queste sono opinioni, intenzioni, o auspici, e invece l’unica cosa che conta sono i fatti oggettivi. Quindi, la formula rituale è: Ciao, mi chiamo Dario e sono cinquantadue giorni che non... Che non? Che non cosa? Ecco il problema. Che non l’accompagno all’asilo tutte le mattine, inventandomi ogni volta una storia che sia abbastanza intrigante da distrarla dall’imminente distacco ma abbastanza serena per non turbarle l’inizio di giornata (ultimamente andavo forte con passi scelti dal Signore degli Anelli, dite che sotto i cinque anni è troppo presto?). Che non faccio di tutto per impegnarle i pomeriggi, portandola ai giardinetti se è bel tempo, oppure a casa di amichette (i cui genitori non avrei frequentato di mia spontanea volontà neanche dopo dieci anni su un’isola deserta), o ancora a casa nostra, lanciandomi in rappresentazioni teatrali le cui protagoniste obbligate sono le Barbie o altre insopportabili fatine. Che non la porto a fare ginnastica, fornendole durante il tragitto acqua, merendine e occasionali passaggi in braccio o sulle spalle, spogliandola asciugandola e rivestendola, spiando dalla porta semitrasparente per guardarla fare gli esercizi e reprimendo un moto di stizza ogni volta che qualcuno le passa davanti nella fila, e in tutto questo – ecco, la patologia! – divertendomi anche. Che non mi scervello, a partire dalle cinque di pomeriggio, su quali manicaretti prepararle per cena, badando che il pasto assolva sempre alla triplice funzione di: a) bilanciare equamente l’apporto di carboidrati, proteine, vitamine e fibre; b) essere costituito da ingredienti sani, preferibilmente biologici, con il minor numero possibile di manipolazioni chimiche, additivi e raffinazioni; c) avere un buon sapore, perché penso sia giusto abituarla a una grande varietà di gusti, e soprattutto evitare i menù simil ospedalieri a base di pastine scotte e merluzzetti al forno, per cui cerco sempre di cucinarle qualcosa che potrei mangiare anche io (cosa che poi puntualmente succede davvero, perché gli avanzi mica vorrai buttarli?). Che non? Ecco, tutte queste cose sono senz’altro vere. Ma forse non centrano il quid della mia dipendenza da mia figlia. Dovrei inquadrare questo quid, allora. Ma prima voglio premettere una cosa, a scanso di equivoci. Perché dalle situazioni appena descritte si potrebbe pensare che la figlia sia completamente a carico mio. No, non sono un ragazzo padre: ho una meravigliosa compagna, che fa per la nostra creatura almeno altrettanto rispetto a quello che faccio io (e abbiamo anche due fantastici nonni sempre a disposizione, oltre che altri due nonni, da parte mia, che scalpitano perché i mille chilometri di distanza non consentono loro di fare lo stesso). Solo che, siccome tutti e due siamo lavoratori autonomi, e fatichiamo da casa, e siccome negli ultimi tempi (ehm, diciamo tre o quattro anni) a lei sta andando un po’ meglio che a me – tradotto, lei sta piena di lavoro fin sopra i capelli e io non ho una mazza o quasi da fare – allora mi sembra giusto dare una mano in casa, e con la bambina. Che questo poi sia la causa, o la conseguenza, o tutt’e due, della mia addiction, be’ lo scopriremo solo alla fine, forse. Di certo questo, cioè la situazione lavorativa, è precisamente quello che sta alla base del mio, recentissimo, percorso di disintossicazione obbligata. Perché appunto, da un paio di mesi a questa parte sto, per la prima volta dopo cinque anni, uscendo di casa la mattina e tornando la sera (no, non vi preoccupate, non ho trovato un lavoro. Ma qualcosa che negli orari ci assomiglia, e si spera anche nelle prospettive). Per dire, lei quest’anno oltre che proseguire la ginnastica, nella stessa palestra dell’anno scorso, ha iniziato a fare danza, in un altro posto. Ora, siccome le lezioni sono iniziate da poco, io questo posto non so neppure com’è fatto, non ci sono mai andato, e non ci saprei andare neanche volendo, perché non so proprio dove sta. Sorridete, a voi giustamente pare una quisquilia, ma io già sento che mi sto perdendo un pezzo di vita. Ero abituato bene, o male, dipende. Un po’ per causa di forza maggiore, quindi. Un po’ anche per il fatto stesso di scrivere questo libro. Perché


quando una cara amica e stimata collega ti chiede e ti richiede un libro sulla tua dipendenza dall’essere padre, che cosa vuol dire? Che vede in te uno scrittore? Sì, magari. Che vede in te un papà flippato, che parla e scrive solo di quello. Perciò, ho dovuto prendere coscienza della mia addiction. E ho cominciato questo percorso di rehab. In cui la lontananza fisica è solo il pretesto. E di cui questo libro è lo strumento principale. All’inizio, come sempre nelle disintossicazioni, c’è stata l’euforia. Novità una dietro l’altra, stimoli a manetta: vai, ce la posso fare, mi dicevo, anzi, cosa vuol dire farcela? Non sono mica un tossico, smetto quando voglio, anzi non ho mai iniziato. E già. Poi è cominciata la vera scimmia: con la routine. E lì è stata dura. È ancora dura. La mattina esco che le donne di casa stanno dormendo, e ritorno a pomeriggio inoltrato che la piccola si è fatta le sue otto ore di asilo e pure l’eventuale palestra. Il tempo di fare due sciocchezze in cucina, mangiare ‒ che a volte è un momento di tensione e magari ci scappa pure una mia cazziata ‒ ed è subito le noveeunquarto, che lei è stanca ma non vorrebbe andare a nanna, e io sono stanco e vorrei mandarla a nanna per poter fare un po’ di cazzeggio al pc prima di crollare, da un lato, e dall’altro penso che poi non la vedrò per quasi ventiquattr’ore, e mi sento in colpa e passo repentinamente dalla severa ingiunzione alla coccola lacrimevole: un pazzo, le sembrerò. Per dire, sentite quello che è successo oggi. Torno a casa, apro la porta ed è chiusa a chiave, segno che non c’è nessuno. (Parentesi. Già trenta secondi prima mi era venuto un po’ il magone perché mi ero ricordato che una volta, fino a un annetto fa o poco più, avevo un chiaro segnale per capire se lei fosse in casa o meno, le rare volte che uscivo da solo: la presenza del passeggino sul pianerottolo, o ancora prima nell’androne al piano terra. Ora il passeggino, che la pigrona ha smesso di usare tardino rispetto alle sue coetanee, c’è ancora ma giace fisso e inutilizzato di fianco alla porta. Ecco, pensare questo mi ha messo tristezza, come mi capita tutte le volte che considero qualcosa che non tornerà mai più. Ma si tratta, mi rendo conto, di un mio problema, che c’entra con la dipendenza dalla figlia solo marginalmente. O forse no, boh). Quindi, alle sei di sera non c’è nessuno a casa. E come mai, oggi non è neanche giorno di ginnastica o danza. Mah, che strano. Quasi quasi telefono, e mentre finisco di formulare questo pensiero, mi viene in mente: il dentista. Oggi la piccina, nemmeno cinque anni, si andava a togliere la prima carie della sua vita. Me lo ricordo, io, le prime volte che andavo dal dentista, le prime carie ai denti da latte. Certo, per carità, i traumi infantili sono ben altri; ma comunque la prima otturazione è un momento storico, un piccolo rito di passaggio. Il fatto che non l’avessi potuta accompagnare, come in altri tempi sicuramente avrei fatto, già mi dispiaceva. Ma la cosa più grave non è stata l’assenza fisica. È stato il fatto che, porca pupazza, mi ero dimenticato! Mi era completamente passato di mente, non c’è Google calendar che tenga. Quindi, tutto mortificato e col senso di colpa a mille, ho fatto quello che non avevo mai fatto prima, quello contro cui nel mio rigido calvinismo morale ho sempre predicato: sono sceso a comprarle un regalino. Ovviamente, per tenere a bada il super-io, ho preso una cosina che nel mio prezzario mentale rientra non nella fascia “regalo” ma nella categoria “sfizio”, e in più non una svenevole bambolina tutta fuxia ma un mostro di quelli che piacciono anche a me. Ma sta di fatto che lo scambio che ho messo in atto è quello lì: oggetto versus affettività, bene materiale per compensare l’assenza di bene immateriale. Proprio uguale a, come ho detto tante volte, “quei genitori che pensano solo a lavorare”. Non so se rendo l’idea. Non so se ho reso l’idea. Della mia dipendenza. Probabilmente no. Probabilmente non ci riuscirò mai, perché è un obiettivo non raggiungibile per antonomasia. Provateci voi: provate a chiedere a un drogato cos’è la droga. Non saprà rispondervi. La droga per lui non è definibile perché non è confinabile: è tutto, è il mondo, è la vita. Oppure, come quella vecchia storiella citata da David Foster Wallace. Quella dei due giovani pesci che incrociano un pesce anziano, e lui gli fa: ciao ragazzi, com’è l’acqua?, e continua a nuotare. Dopo un po’ uno dei giovani si volta verso l’altro e dice: che cavolo è l’acqua? In questo periodo il papà va assai di moda. Per parlarne bene, per parlarne male. Per farlo parlare direttamente. I papà online – dopo la sbornia dei mummy blog – sono molto trendy. E anche in libreria. Solo di recentissimi: c’è Michele Serra (Gli sdraiati) alle prese con l’ineffabile mondo


adolescente (non ancora un mio problema, però temo che lo diventerà prima di quanto sospetti). C’è lo psicologo Massimo Recalcati che teorizza, e un po’ rimpiange, la scomparsa del padre (Cosa resta del padre? e Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre). C’è chi ‒ somma invidia ‒ riesce a trasformare l’esperienza personale in fiction (Antonio Scurati, Il padre infedele). Ci sono narrazioni, diari, guide, manuali; ce ne sono di seri, semiseri, spiritosi; di generici e specifici. Mi piacerebbe dirvi che li ho letti tutti, questi libri, o almeno i più importanti. La verità è che a me non interessa teorizzare, riflettere, approfondire sul papà: certo di letture ne abbiamo macinate, io e la mamma, ma soprattutto durante la gravidanza, e qualcosa nei primi mesi. Dopo, siamo stati travolti dalla realtà. Ciao, sono Dario, ho trentotto anni e sono cinquantatré giorni che non. Ma questo libro non parla della mia disintossicazione, bensì della mia dipendenza. Non di quello che sarà da ora in poi, ma di quello che è stato finora. Se siete pronti, io partirei. Ah, un’ultima cosa. Molti di voi, che hanno avuto la pazienza di leggere fin qui, potranno dire: bene grazie, sei simpatico ma sticapperi, a me che mi tange, mica ho una figlia, io. E neanche un figlio. E neanche sto per farli. E anche se potessi, non vorrei. Eccetera. Insomma, questo libro non parla di me, questo libro non è per tutti. Ecco, adesso non è che voglio fare il ruffiano, e sono convinto che se una cosa vuole essere per tutti in realtà non è per nessuno. Ma sono anche convinto che questo libro non può porsi come riservato a una categoria (i papà, o al massimo i genitori. Anche i nonni, toh). E soprattutto sono convinto di quello che una volta disse la mia compagna: è vero, non tutti siamo genitori, ma tutti siamo figli. Sembra una scemata, ma pensateci: veniamo tutti da lì, nessuno si è autogenerato, o è stato catapultato dallo spazio. Perciò, qui non si parla di paternità, o genitorialità. Si parla dei figli. Si parla di voi. Dell’acqua.


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