"Cosa intendi per domenica? La mia (in)dipendenza dal lavoro" (Silvia Bencivelli)

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METRONOMI N. 1 Silvia Bencivelli

COSA INTENDI PER DOMENICA? la mia (in)dipendenza dal lavoro


Cosa intendi per domenica? la mia (in)dipendenza dal lavoro

© La casa editrice, avendo esperito tutte le pratiche relative all’acquisizione dei diritti e relativi permessi per i testi raccolti in questo volume, rimane a disposizione di quanti avessero comunque a vantare diritti in proposito. LiberAria Editrice Prima edizione in “METRONOMI”, maggio 2013 Tutti i diritti riservati Liberaria Editrice s.r.l. Via Abate Gimma 171 - 70122 Bari www.liberaria.it

Editore - Giorgia Antonelli Editor Narrativa Italiana “MEDUSE” - Alessandra Minervini Responsabile Narrativa Straniera “PHILEAS FOGG” e Rights Manager Mattia Garofalo Comunicazione - Caterina Morgantini Amministrazione - Elisabetta Stragapede Progetto grafico - Maria Rosa Comparato ISBN 978-88-97089-39-1


Postprefazione

Ho chiuso questo libro all’inizio dell’estate 2012. E siccome la mia vita cambia in fretta, e in fretta mi costringe a pensare, oggi credo che avrei scritto cose dal colore un po’ diverso. Per esempio. Da allora, ho un contratto lungo: l’ho firmato poche settimane dopo aver consegnato il libro in casa editrice. Un contratto non lunghissimo, ma lungo. Lungo davvero. Undici mesi, cioè il più lungo che abbia mai avuto. Dopo non si sa se ne seguiranno altri, per lo stesso lavoro nello stesso posto. Ma va bene così. Anzi: firmare un contratto per così tanti mesi di fila mi ha quasi dato una sensazione di soffocamento, come se avessi ricevuto una (vera) proposta matrimoniale. Dio che vincolo insopportabile, Dio che promessa insostenibile, non sono cose su cui si scherza, santo cielo che cosa ho fatto. E così via. Oggi di quel contratto ne è già passato più di metà e sono sorprendentemente ancora viva. I più ansiosi di voi vorranno sapere: dopo, quando sarà scaduto, che cosa succederà? Non lo so, non lo so davvero, ma ho tanti mesi davanti in cui pensarci e non sono preoccupata. 3


Cioè. Un po’ sì. Ma poco. Perché un’altra cosa che è cambiata nella mia vita è che ho perso uno dei lavori più importanti e belli che avevo e che (tradotto nella lingua dei dipendenti) mi dava quasi trecento euro al mese, puliti, da tre anni. L’ho perso nel senso che si trattava di un impegno di quelli a lunghissimo termine che ormai mi ero abituata a dare per scontato, ma chi lo sosteneva ha deciso di ritirare i soldi e io, da un mese all’altro, ho saputo di non avercelo più. Mai abituarsi, lo so. Ma sono un essere umano anch’io, nonostante la partita Iva, e so apprezzare certe consuetudini. Trecento euro al mese. Sono quelle cose per cui un dipendente scende in piazza e scatena i sindacati, oppure sale sul tetto con gli igloo di Decathlon e volantina per giorni minacciando scioperi paralizzanti. Noi invece, noi lavoratori della cultura a partita Iva, idraulici del punto e virgola, non possiamo farci niente: quello è un cliente in un libero mercato e per noi la sua scomparsa è come quella di chi trova un negozio più conveniente o smette di aver bisogno o voglia di un certo oggetto. Non ti puoi ribellare. Puoi solo rifarti i conti in tasca. E ricominciare a scrivere. Anche un altro lavoro che facevo da un paio di anni, una cosa da un migliaio di euro all’anno, è finita. E certi lavori che un tempo erano retribuiti x adesso vengono retribuiti x/2 per cui io, con orgoglio, li ho mollati da un pezzo. Finiti i soldi, dicono, quindi finito il lavoro per me. 4


E così il 2013 sarà più povero del 2012. O più ricco, ma di tempo libero (in questa fase della mia vita professionale, la somma soldi + tempo libero è praticamente una costante). Scriverò libri, mi dico, girerò documentari, investirò in cose di questo tipo, e già lo sto facendo. Oppure farò un lungo viaggio in Oriente. O tutte e tre le cose insieme. O nessuna, perché la mia vita cambia in fretta e chi me lo dice che tra qualche settimana non troverò un nuovo, bellissimo (e magari redditizio) lavoro in cui impegnare i successivi n mesi (con n che tende a undici)? Per questo adesso ogni tanto mi prende lo sconforto, e le pagine che avete appena letto mi sembrano quasi ingenue: mi sento come la pulce dello scienziato tedesco, quello a cui viene tolta una zampa alla volta per poi urlarle sempre lo stesso Zalta! Alla fine, strappate tutte le zampe, lo scienziato conclude, pensieroso: Togliere zampe a pulce zignifica renderla zorda! Ecco, io mi sento come la pulce, che udente o sorda che sia, senza zampe non può saltare, ma le si chiede di farlo lo stesso. Per il momento ho ancora diverse zampe, e robuste, a cui appoggiarmi, ma solo sei mesi fa ne avevo il 30% in più, e zaltare comincia a farsi difficile. Per questo, mentre prima dell’estate 2012 mi sentivo sicura aggrappata al mio ottimismo di granito, adesso non so più se ci zalterei sopra con la stessa arrogante sicurezza. Non so. Il 2013 povero di soldi e ricco di tempo. E il 2014 completamente bianco, lì ad attendermi, se avrò an5


cora le mie zampe. La cosa meravigliosa è che a volte, più che spaventarmi, mi sembra una bellissima opportunità. È cambiato anche il clima nel nostro paese: è peggiorato, e non lo credevamo possibile. Lo spread ha ricominciato a salire, poi è sceso di botto, poi è risalito (ho addirittura capito che cosa significhi, segno che un problema c’è davvero), Confindustria ha detto che la crisi durerà fino al 2014, e intanto, di nuovo, tagli e tagli dei finanziamenti pubblici affliggono quasi tutto quello di cui vivo: scuola, ricerca, sanità. Giusto l’esercito sembra salvarsi, ma escludo che l’esercito possa mai diventare mio cliente. Sarebbe sciocco pensare di esserne fuori, di non essere lambiti dalla crisi, ah la crisi. Semmai, te lo ricordano i balconi di Roma, dove le lucine colorate qualche mese fa venivano messe a comporre la scritta Buon Natale un cazzo. Sono cambiate anche altre cose. E per una volta non parlo di lavoro. È cambiata che ho fatto shopping. Siccome sono nata in estate e c’era di mezzo un babbo compleanno, ho fatto uno shopping estivo, quindi il problema del guardaroba medio-elegante di lavoro è stato risolto solo a metà. Poi è arrivato l’inverno e mi sono persino comprata una giacca decente. Ci sono cose contro le quali non puoi fare resistenza, e la fine dell’adolescenza è una di queste. È cambiata che i figli dei miei amici hanno imparato a leggere e a scrivere, qualcuno è appena nato, qualcun altro sta arrivando da molto lontano. Quegli incoscienti 6


dei loro genitori hanno deciso di avere le spalle abbastanza larghe per scommettere sul futuro. Io li guardo e penso che coraggio e allegria siano conquiste di cui andare fieri. Io, almeno, sono fiera di loro. Infine, è cambiata che una delle persone che racconto in queste pagine non c’è più. Se ne è andata lasciandomi qua. L’aneddoto che avete letto, per me, adesso, è un ricordo sereno che se ne tira dietro altri cento. Quando ho scorso queste pagine prima di darle alle stampe mi è venuto un po’ da piangere, ma poi da ridere di nuovo. Ed è per quella risata che il libro che avete in mano, oggi, lo dedico a lei.

Roma, febbraio 2013

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1. La natura della mia in-dipendenza

Interno Frecciarossa. Mi vibra il telefono in tasca: lo tiro fuori in silenzio e, vergognandomi un po’, osservo il display. Numero sconosciuto. Avvicino la testa al finestrino e butto uno sguardo fuori: l’Appennino è coperto di neve, il cielo è grigio. Prendo il fiato e bisbiglio: ‒ Pronto? Dice: ‒ Ciao, sono M., ti ricordi di me? Ti volevo proporre di partecipare al nostro progetto editoriale: una collana di libri sulle dipendenze. Dico, a voce ancora più bassa, la mano a conchetta sul telefono: ‒ Dipendenze?! Guarda che io non ne ho. Non bevo il caffè, la Nutella mi fa schifo, le cose pericolose mi fanno paura… Forse, a pensarci bene, c’è il burro di cacao, ma… Dice: ‒ No, aspetta. Per te avremmo pensato alla dipendenza dal lavoro, nel senso che… Dipendenza. Dal. Lavoro? Ops. Non lo sentivo da due anni, e sta dicendo proprio: ci racconti la tua dipendenza dal lavoro? Dipendenza. Che parola strana da associare a un lavoro indipendente. Anzi, a quello indipendente per definizione, il mio, quello del free lance, il commerciante 8


di parole. Quello di chi scrive su commissione oppure vende idee, e lavora da solo. Sono su un Frecciarossa: sto tornando da un posto dove ho fatto una moderazione e sto andando a fare riprese in un’altra città, ho una valigia piena di libri da studiare, il computer aperto sul tavolinetto del treno e scrivo. Non so nemmeno che giorno della settimana sia. So il numero del giorno, il 12, perché mi è necessario per incasellare impegni e scadenze del mese. Ma non so se sia lunedì o giovedì, per dire. Intanto mi chiedono di raccontare come e perché io viva per il mio lavoro. Strana curiosità: è il mio lavoro, non dovrebbe bastare? Vivo del, e vivo per, il mio lavoro. Ogni tanto succede anche con gli amici. Quando li incontro dopo qualche mese e vogliono l’aggiornamento, o quando hanno il coraggio di chiedermi che cosa stia facendo adesso: adesso in senso lato, non oggi che è il 12 del mese. Quando mi dicono che di domenica si potrebbe fare una gita tutti insieme, al mare o al lago, o una grigliata in collina, o, finché è inverno, passare la giornata nella nuova casa dell’amico X. Quelli che mi dicono pasquetta e ferragosto come se li aspettassero da trecentosessantaquattro giorni con l’impazienza di un bambino che sogna il Natale. Quelli che faticano a capirmi, forse ci hanno anche rinunciato, e ogni tanto mi sentono sbottare: che sia giovedì, domenica o pasquetta non importa, non vengo al lago, non posso. Non posso davvero. Il treno è pieno, sono imbozzolata nel cappotto. Non mi va di parlare. 9


re.

Rispondo frettolosa: ‒ Risentiamoci, ci devo pensa-

Come si dice numero del giorno nel mese? Dalle mie parti si usa averne, in questo modo: “Quanti ne abbiamo oggi?” Ma non credo di averlo mai sentito usare al futuro: “Domenica ne avremo 15”, suona male. Mentre oggi ne abbiamo 12 e sto andando verso il solito piccolo comune del nord dal nome complicato e afflitto da un rigido clima invernale, tipo Pavone Canavese, Ponzano Veneto, Priocca d’Alba, Casalecchio di Reno. Poi tornerò a Roma, poi ripartirò, poi ritornerò. Nelle pause farò la lavatrice, e mi soffierò il naso. Fa freddo, è il famoso inverno della grande nevicata. Ho una valigia stracarica di maglioni e calzettoni e per l’occasione ho persino ripescato i vecchi scarponi da montagna. Non vedo il mio amico G. da un mese, per non parlare di C. e V., dei miei familiari e dei miei amici pisani. Saranno sei o sette settimane che viaggio senza fermarmi più di tre giorni nello stesso posto, così l’ultima volta che li ho sentiti mi hanno tutti, tutti, proposto, o consigliato, una pausa. Cari. Dolci. Non è che non mi sappia prendere una pausa. Si tratta di una decisione difficile, che può discendere solo da un’attenta programmazione delle cose da fare e di quelle rimandabili. E non è necessariamente vincolata alle vostre feste comandate. Magari poi la pausa me la prendo, ma per andare due settimane in culo al mondo. Perché in culo al mondo sì che mi rilasso: posso svegliarmi presto tutte le mattine, leggere libri e guide, giocare a imparare un’altra lingua, chiacchierare e fare domande a gente col turbante o col 10


colbacco, mettere alla prova le mie ossessioni igieniste, e mantenere i miei normali ritmi di vita e la struttura della mia giornata, cambiandone solo il contenuto. Al ritorno viene facile ricominciare: un po’ come fare il cambio dell’armadio, che anche se si chiama in questo modo è il cambio delle cose che ci stanno dentro, all’armadio, mentre l’armadio rimane lì. Ma adesso è inverno, è proprio inverno, e io sono rannicchiata sul sedile di un Frecciarossa da qualche parte dell’Appennino. Mi ha telefonato M. e mi siete venuti in mente voi. E mi avete costretta a pensarci. Che razza di lavoro indipendente è, il mio, se non riesco a staccarmene mai? Mi rendo conto che da troppi giorni disegno ghirigori su e giù per l’Italia. Ho visitato borghi medievali di cui non ricordo il nome, ho assaggiato specialità regionali che mi sono sembrate tutte uguali, ho dormito in alberghi solitari, ho guardato soffitti sempre diversi e mi sono fatta domande strane su Cesare Pavese, Luigi Tenco e Marco Pantani. Ma tranquilli: a me piace questa vita e adoro il mio lavoro. Me lo sono inventato e allevato. È vero, ha ragione M.: in un certo senso ne sono dipendente. Il mio lavoro è il mio nord e il mio sud, il mio est e il mio ovest, il mio mezzogiorno e la mia mezzanotte. Sono il mio boss e la mia segretaria, il mio contabile e il mio scribacchino. Faccio fotocopie, scrivo libri, inseguo i creditori e tengo conferenze. Mi sveglio tra le cinque e le venti volte al mese in un letto non mio. E se è un albergo l’ho prenotato io, come il Frecciarossa e tutto il resto. Faccio tutto da sola. Sono indipendente. 11


Indipendente da tutto. Ed è vero: l’indipendenza genera dipendenza. Però raccontarla non è facile. Si rischia di scivolare nella tentazione di generalizzare, di elencare le proprie perversioni professionali in forma impersonale, come se appartenessero a tutti i lavoratori-indipendenti-dellefaccende-culturali, cioè a quelli tipo me, che al contrario sono sfuggenti a ogni definizione. Oppure si rischia di soffermarsi su questioni personali e parlare solo di sé, senza accorgersi che per la maggior parte degli altri i miei problemi non sono problemi e le mie felicità non sono felicità, finendo per allungare tiritere introspettive che non interessano a nessuno. Perché il nostro è un mondo di individualità sconnesse, e la mia è solo una di queste. Ma la mia è anche l’unica che conosca davvero e di certo è l’unica su cui abbia il diritto di pontificare. Non ho alternative: tocca che parli di me. L’indipendenza che dà dipendenza, nel mio caso, è una scelta a metà. Semplicemente, se uno svolge una professione di tipo intellettuale o creativo, oggi, in questo paese, deve imparare a camminare con le proprie gambe. Sappiamo bene, noi forzati della posta elettronica, che nessuno ci farà mai un contratto a tempo indeterminato per pensare una cosa prima degli altri, scrivere compulsivamente un blog che non rende nulla, leggere tutto quello che esce in libreria o almeno spulciarlo con regolarità, avere una rubrica con quattromila contatti a cui diamo del tu, fare belle fotografie o bei documenta12


ri, e riflettere su quel che ci accade intorno. In fondo ci sembra persino giusto. Anche perché ci fa sentire liberi e creativi. E poi, come dice il poeta, noi siamo la fascia alta dei morti di fame. L’unico problema concreto è che per essere davvero indipendenti dobbiamo imparare un sacco di cose sul mondo che proprio non avevamo messo in conto, che non c’entrano niente con quello che sappiamo fare, per cui non ci sentiamo affatto dotati né sono la risposta alla domanda “Tu che cosa fai di lavoro?” Soprattutto nessuno ci aveva avvertito. Sono cose fastidiose da cui è impossibile allontanarsi. Non danno dipendenza in senso psicologico, ma ti costringono a una dipendenza di tipo materiale: ti inchiodano lì, a quella scrivania, a contare monete come in un quadro fiammingo. Per esempio. Per esempio io ho due conti correnti. Alimento entrambi con attività legali, e non è così scontato. Uno è il conto corrente professionale: qui entrano tutti i soldi che guadagno, che poi sono le entrate contabilizzate. Escono le (poche) spese di lavoro, le spese professionali, e periodicamente una specie di stipendio che pago a me stessa sul secondo conto corrente, quello personale. È una forma di onanismo impalpabile migliore di tutte quelle volgarmente terrene che avete mai sperimentato. Funziona così: apro l’home banking e decido che mi pago millecinquecento euro, perché è arrivato il momento di una gratifica, perché sono stata una buona dipendente di me stessa. 13


Allora faccio un giroconto, cioè sposto i soldi da un conto corrente all’altro. La Silvia-dipendente vede crescere il suo conto corrente di quei millecinquecento euro, e mantenersi vicina alla soglia detta il-mare-della-tranquillità-di-mio-padre. Mentre la Silvia-padrona calcola con lucida freddezza quando sarà la prossima gratifica che concederà all’altra metà di se stessa. Il conto corrente personale ha solo questa come entrata (più i regali di nonna a Natale) e ha tutte le uscite di una persona normale, anzi un po’ meno. La spesa al supermercato, i biglietti del treno, il cinema, i libri, un paio di scarpe ai saldi, la birretta appena viene primavera e così via. I bonifici per il condominio? Dal conto professionale, perché essendo una che lavora da casa (quando è a casa), casa è anche studio. I ristoranti? Dal personale, anche se a volte, se sono fuori per lavoro, mi faccio fare la fattura e la scarico tra le spese professionali, per quanto si può. La parrucchiera? Dal personale, ovviamente, tre volte all’anno. Le bollette? Tutte domiciliate sul professionale, e poi tenute da parte per i momenti di riordino della contabilità. Il riordino della contabilità. Quattro volte all’anno (e l’ultima è la più difficile) devo far avere alla mia commercialista tutta la contabilità del trimestre. Immagino che ognuno abbia i suoi metodi. Io passo due mesi e mezzo a lanciare foglietti in un cassetto e le restanti due settimane a disperarmi. Col tempo sono diventata sempre più brava per 14


cui adesso perdo sempre meno pezzi, a parte che ogni tanto trovo ricevute dell’anno precedente e cerco di nasconderle a me stessa in quel breve iato che separa l’arrivo dello stimolo visivo sulla retina dalla sua percezione cosciente. O cose come una ricevuta del 32 ottobre che forse, con una penna nera e un po’ di bianchetto, potrei anche correggere. Poi ci sono gli scontrini delle farmacie e quelli dell’ottica per occhiali e lenti a contatto. E i biglietti di treno e aereo. Anche tutte le spese tipo iscrizione all’ordine, assicurazione sanitaria, spese bancarie: tutte lanciate nel cassetto. Ci sono periodi in cui aprire la cassetta della posta e trovarci una bolletta mi piace quasi, perché posso aggiungere un foglino alla mia collezione di foglini importanti. Tutti là in fondo al cassetto. Che poi bisognerebbe distinguere quello che si scarica dall’Iva e quello per l’Irpef, le cose che vanno sulla dichiarazione dei redditi e quelle da raccogliere trimestre per trimestre, ma la mia commercialista è una santa e siamo d’accordo (credo, almeno io ho sempre fatto così e lei non mi ha mai rimproverato) che le mando tutto insieme ogni trimestre e poi lei fa le sue cose per bene. Iva di qua e Irpef di là, perché io da sola non ci arrivo. Santa Commercialista da Madonna dell’Acqua, che è il posto dove ogni tanto mi riceve, a tre chilometri da casa dei miei. Non ho mai manifestato la minima vocazione per il diritto commerciale o la microeconomia, ma ho dovuto imparare almeno a essere ordinata nell’amministrazione contabile della mia attività libero professionale. Però so che a volte, vinta dallo sconforto, posso telefonarle. 15


La chiamo, piagnucolo, torno a sorridere. Ma purtroppo, lei, da sola, non basta. Dove Santa Commercialista non arriva è a una delle manifestazioni più interessanti di questa mia attività, cioè la gestione del Filone Excellone: una grande tabella excel in cui segno i lavori fatti, ci scrivo accanto il numero di fattura e la data di emissione e poi (quando è il momento) la data del pagamento. Ci metto anche le note che mi serviranno in futuro a ricordarmi come comportarmi: “cialtroni”, “attenta ai rimborsi”, “precisare che si tratta di un lordo”, “referente pinco pallino”, “ho litigato con la segretaria” e così via. E dove Santa Commercialista è presente solo in spirito è il momento fatidico del confronto tra il conto corrente professionale (quello sole entrate, dicevamo) e il Filone Excellone. Perché quel che ho fatto e fatturato ha da essere pagato. E bisogna controllare. Sempre. Mai fidarsi, mai. Mai.

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