"Un segreto che non guardo", di Chiara Dotta

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Chiara Dotta Un segreto che non guardo ma che sta al centro del cortile Romanzo


Un segreto che non guardo ma che sta al centro del cortile Š La casa editrice, avendo esperito tutte le pratiche relative all’acquisizione dei diritti e relativi permessi per i testi raccolti in questo volume, rimane a disposizione di quanti avessero comunque a vantare diritti in proposito. LiberAria Edizioni Prima edizione in MEDUSE, Novembre 2014 Tutti i diritti riservati Liberaria Editrice s.r.l. Via Abate Gimma 171 - 70122 Bari www.liberaria.it ISBN978-88-97089-81-0


Zurigo HB La volpe tra i binari ha il color del ferro, dei sassi brumosi e dei vetri sparsi sul terrapieno, dei palazzi. Forse cerca qualcosa, forse niente, e il muso basso sfiora piano i detriti, senza piste. Non ha paura dei treni. Ăˆ indifferente a tutti i rumori del traffico. Sembra giunta a un punto estremo della propria vita, perduta oltre ogni dove. E qui cammina. Fabio Pusterla


Un segreto che non guardo ma che sta al centro del cortile Daria e i suoi amici giocavano sempre in un triangolo di prato che puzzava di ferrovia. Sul lato nord correvano i binari del treno, che arrivava piano perché la stazione era vicina. Non c’erano altalene o scivoli, solo una fontana e due panchine dove si sedevano alcuni vecchi. Daria faceva la quarta elementare della scuola lì vicino, una sola sezione, cinquanta bambini al piano terra di un palazzo. Non avevano né il rientro pomeridiano, né mensa né palestra, facevano ginnastica nel corridoio. D’estate Daria, Sara e due altri compagni rimanevano in città, perché i loro genitori lavoravano e poi non c’erano abbastanza soldi per fare più di una settimana al mare. Perciò si incontravano il pomeriggio nel cortile. A volte si mettevano d’accordo per portare i pattini a rotelle e giocavano a inseguirsi per le strade e le discese d’asfalto, i lunghi marciapiedi di piastrelle di fronte ai portoni dei palazzi, nascosti dietro ai muretti o dentro i garage aperti. Spesso giocavano a pallavolo usando come rete il cancello del piccolo cortile del signor Bondi. Facevano un campo dentro al cortile e un campo sulla strada, ma bisognava interrompere l’azione quando passavano le macchine. Allora si spostavano nella discesa del garage dell’abitificio, sempre chiuso, che aveva davanti tutto il muro del palazzo sopra, liscio e perfetto per giocare. Il primo lanciava la palla contro il muro, un rimbalzo, il secondo la rilanciava, un rimbalzo, sempre nello stesso ordine finché la palla cadeva, eliminato. Vinceva quasi sempre Daria, era veloce. Magrolina, con i capelli corti che sembrava un maschietto, il viso dai lineamenti regolari. Anche i ragazzini più grandi, quelli con il motorino che si riunivano seduti sul muretto più in là, spesso la guardavano. A lei piaceva un ragazzino della sua classe, uno che non giocava nel cortile con loro perché sua mamma non lo lasciava stare tutto il giorno in quel prato. Ogni tanto Davide la invitava a casa sua a fare i compiti, e una volta si erano nascosti sotto il letto e lui le aveva detto: “Adesso ci diamo un bacio come mi ha spiegato mio cugino, tu devi fare così con la lingua” e le ha fatto vedere come doveva muoverla davanti alle labbra. Daria ha fatto così, e le loro lingue si sono incontrate. Da quel pomeriggio Daria ha avuto paura di essere rimasta incinta. Nel garage di una delle case che davano sul prato a triangolo lavorava un signore in pensione, Cecco. Aveva più di sessant’anni, naso e pancia grossi e tondi sui pantaloni blu da lavoro. Occhi neri semichiusi. In testa, capelli solo ai lati. Passava spesso il pomeriggio a trafficare lì dentro con i suoi attrezzi e c’erano dei giorni che usciva a chiacchierare con i bambini, soprattutto con Daria aveva fatto amicizia, era la sua preferita: “Sei una bimba simpatica e proprio carina” le diceva. Una volta che lei era arrivata un po’ prima al giardino e non c’era ancora nessuno, la chiamò da dentro il garage. Lei si fermò con la mano appoggiata al ferro del cancello davanti al piccolo cortile di Cecco. C’era il sole fuori e non lo vedeva bene, seminascosto nel buio. - Vieni dentro, ti faccio vedere cosa sto facendo – disse lui, facendole segno con la mano. Daria si avvicinò alla saracinesca. - Non te l’ho mai fatto vedere? - No. - E vuoi vederlo? - Sì. Le mostrò delle assi di legno appoggiate su due sostegni di metallo arrugginito. - Ah… E che cosa ci fai? - Ci faccio un mobile. Le assi le sembravano brutte, magari era un mobile che voleva tenere in garage. Poi Cecco le si avvicinò, aveva sempre la saliva un po’ spessa agli angoli della bocca. Daria pensò che non era mica tanto bello, con quel naso grosso con i peli neri.


Cecco sorrise, le accarezzò con la mano i capelli corti. La avvicinò a sé tenendola per le spalle. Contro la sua pancia, Daria sentiva una montagnetta dura. Cecco la strofinò contro di lei. - Devo andare a chiamare Sara - disse Daria facendo un passo indietro, e guardò verso la luce dell’uscita. - Aspetta ancora un po’ - disse Cecco, prese la mano di Daria e la appoggiò sui suoi pantaloni, sulla montagnetta tra le cosce. Daria staccò la mano con uno strattone e corse fuori, verso casa di Sara. Mentre aspettava seduta su uno scalino che la sua amica scendesse, si chiese se Cecco si fosse arrabbiato per il suo comportamento. Alla fine mica le aveva fatto niente di male per scappare così, e forse adesso Cecco non le avrebbe più parlato. Così qualche giorno dopo, quando lo vide di nuovo dentro il garage, lo salutò lei per prima con la mano, come per fargli capire che le dispiaceva. Ma Cecco le fece un cenno di sfuggita, sembrava arrabbiato. Una settimana dopo Daria era di nuovo sola nel cortile, e Cecco la richiamò. Lei entrò dentro al garage. - Hai finito il mobile? - Sì, ora ne sto facendo un altro, ti faccio vedere. Assi di legno, nessun mobile. Ma Daria rimase lo stesso. Cecco si tirava giù la cerniera dei pantaloni, le afferrava il polso e faceva entrare la sua mano dentro le mutande bianche. - Stringi - le diceva, e Daria afferrava il pene duro con la pelle un po’ molle. Cecco conduceva la sua mano su e giù. - Stringi - ripeteva. Poi come per uno sforzo si piegava un po’ sulla pancia e Daria sentiva un liquido caldo entrare nei pertugi del suo pugno. Cecco allora le lasciava il polso, Daria toglieva la mano dai pantaloni e scappava via. Un giorno che Daria era dentro il garage, dal balcone sopra uscì la moglie di Cecco, era una donna piccolina e dallo sguardo cattivo. Si sporse, ma non poteva vederli. - Cecco! - lo chiamò. Lui sussultò, tolse veloce la mano di Daria dai suoi pantaloni, e si sporse con la testa verso il balcone. Daria stava nascosta nel buio del garage perché non voleva farsi vedere da lei. - Cecco dove sei! - urlò la moglie. - Vengo, eh! Vengo! - le rispose, e lei rientrò. Daria lo osservò per un attimo mentre usciva dal garage. Poi sgattaiolò via correndo.


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