numero 0 anno 2013
L’ORSO A TEATRO intervista L’ITALIA VISIONARIA una nuova generazione di compositori
SANTERIA
un nuovo punto di riferimento per i giovani milanesi
SEGRETI DEL MESTIERE
lezioni di fotografia 1
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Valeria Bonetti
Fabrizio Carricato
Studio A nasce per parlare ai giovani di giovani. Vogliamo raccontare storie di italiani che hanno il coraggio di vivere i propri sogni; storie di intraprendenza, di talento e sudore, per dare speranza a una generazione che oggi si sente sminuita dal contesto sociale. Vogliamo dimostrare che oggi, in Italia, si può ancora. Brainstormers
Valentina Andreozzi
Davide Calcagnile
Linda Alderigi
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INDIC L’Orso a teatro Brainstormers pag. 10
Library Music italiana: un universo parallelo Valerio Mattioli pag. 30
Web Movies
Canzoni Invisibili
Santeria
L’Italia Visionaria
www.raicinema.rai.it Laura Croce www.nonsologore.it pag. 19 Luca Doldi www.averelabarba.iy pag. 24
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www.moleskine.com www.invisiblesongs.com Emanuela Del Frate pag. 36 Fabio Guastalla pag. 52
CE Tributo a Battisti Gianluca Veltri pag. 65
Intervista molesta a Zerocalcare blog.contemporarytorinopiemonte.it pag. 80
The Pills: senza peli sulla lingua Alessandro Ricci pag. 69
Festival Internazionale del Giornalismo www.ilfattoquotidiano.it Leonardo MalĂ pag. 74
Segreti del mestiere: Lezioni di fotografia pag. 41
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L’ORSO A TE Una band milanese emergente, piena di voglia di fare, che ha organizzato un grosso evento al Teatro Oscar di Milano: un concerto/raccolta fondi con tanto di orchestra e gadget esclusivi per i fan. Li abbiamo intervistati per saperne di più. L’orso a teatro: in cosa consiste questo progetto? L’orso è un progetto nato con lo scopo di farci realizzare i nostri più grandi sogni musicali. Proprio per questo, anche se siamo un’entità minuscola nel panorama musicale, vogliamo fare qualcosa di importante, di significativo, che ci renda felici. Abbiamo deciso di organizzare una data a teatro a Milano, con orchestra. Perché pensiamo che se metti il cuore in un progetto, puoi fare qualsiasi cosa tu voglia. Noi, un’orchestra, un teatro e chi ci segue.
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Perché non saremmo nulla senza chi ci ascolta. La somma raccolta sarà destinata al finanziamento del progetto e, naturalmente, più sarà importante il vostro aiuto, migliore sarà la riuscita di questo evento. Il concerto verrà registrato interamente, al fine di rendere possibile, in futuro, la produzione di un EP/Bootleg con la registrazione dell’evento e di un documentario della serata. Lo spettacolo è riservato solo a chi aderisce a questo progetto di MusicRaiser fino all’esaurimento dei 300 posti a sedere; infatti non ci saranno biglietti alla porta
“Non si tratta di un vero e proprio concerto, ma di una festa”
EATRO o altre modalità d’acquisto, poiché non si tratta di un vero e proprio concerto, ma di una festa. Anche il merchandising esclusivo (la maglietta e il poster ad edizione limitata dell’evento, nonché la stampa esclusiva de Il Tempo Passa EP) non sarà in vendita ma sarà disponibile esclusivamente come ricompensa per chi ci supporterà in questa campagna. Abbiamo cercato di rendere le ricompense per i raisers davvero uniche, è tutto materiale inedito prodotto appositamente per chi crede in noi e in questa follia musicale. Abbiamo pensato anche a chi non potrà essere a Milano ma vuole darci un supporto, perché anche loro avranno modo di esserci, grazie alle registrazioni ad alta qualità dell’evento.
L’obiettivo economico da raggiungere serve a coprire parte delle spese necessarie alla realizzazione dello spettacolo. Noi vogliamo fare una cosa bellissima: suonare la nostra musica nel migliore dei modi, per tutti coloro che ci vogliono bene.
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Un sogno che si realizza o un meritato riconoscimento per il vostro lavoro? Forse sarebbe troppo pretenzioso dire che questo evento rappresenta il riconoscimento per il nostro lavoro in questi tre anni, ma allo stesso tempo siamo orgogliosi di questo, perché senza il supporto e l’amore di chi ci segue da tempo non avremmo mai potuto mettere insieme un evento così grande. Sicuramente un vero e proprio sogno che,
“Vogliamo suonare la nostra musica nel migliore dei modi, per tutti coloro che ci vogliono bene” 12
tre anni fa, non avremmo mai immaginato di poter realizzare e per questo, non ci stancheremo mai di dirlo, non basta il talento e la voglia di fare ma serve saper farsi volere bene.
Tre anni di musica tra alti e bassi: quale è il resoconto della vostra esperienza? Tre anni sono un buon traguardo, ma ancora abbiamo davanti a noi tanta strada da fare e tanti sogni ancora da realizzare. Nonostante ciò, in questi tre anni abbiamo avuto tantissime esperienze: mille soddisfazioni e altrettante porte chiuse in faccia. Siamo del parere che questo in fondo sia normale, e non ci abbattiamo mai: non è nel nostro spirito. Proseguiamo per la nostra strada ponendoci obiettivi mai irraggiungibili.
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In che modo i vostri raisers hanno influenzato la vostra musica? Questa domanda è la più semplice: senza di loro non siamo nulla. Nella nostra musica mettiamo davvero tanto di noi, ma le nostre esperienze più grandi sono quelle avvenute sul palco davanti a tante persone che ci guardano e cantano insieme a noi; quindi inevitabilmente non possiamo non parlare di loro. Questo è il motivo per cui, durante l’evento a teatro, abbiamo pensato fosse giusto che i nostri fan fossero ricompensati come dovevano, con gadget esclusivi e unici. Loro sono la nostra famiglia: ogni giorno, sui social network come in mezzo alla strada, sentiamo il loro affetto, il motore della nostra arte.
Chi vi accompagnerà in questa iniziativa? Sul palco ci accompagneranno alcuni amici, come il rapper Mecna (uno dei migliori scrittori di testi in circolazione), Pernazza,
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“Abbiamo pensato fosse giusto che i nostri fan fossero ricompensati come dovevano, con gadget esclusivi e unici” il coro gospel di venti elementi Old Spirit Gospel Singers, una sezione di fiati capitanati da Elia Dalla Casa ed Enrico Farnedi, che già ci hanno accompagnati nei lavori in studio, una sezione di archi, Vincenzo Parisi (Kafka On The Shore) al pianoforte e molti altri musicisti pronti ad unirsi per una serata che nelle nostre vite sarà unica e incredibile. Quello che chiediamo ai nostri fan è di partecipare insieme a noi a questo evento che celebra i tre anni di vita de L’orso.
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Come mai regali così speciali e unici? Ad esempio? Come più o meno abbiamo già detto pensavamo che fosse inevitabile premiare chi ci segue con qualcosa di unico, perché unico è l’evento che ci hanno permesso, grazie al loro sostegno, di realizzare. Quindi abbiamo deciso di andare un po’ controcorrente: tra i regali ci sono una foto di ringraziamento personalizzata su facebook, le bacchette di Giulio (il nostro batterista) o la fisarmonica di Gaia. Abbiamo avuto un riscontro molto positivo, i nostri fan sono stati entusiasti di portare a casa con loro un piccolo pezzo di noi! Ci sembrava giusto, visto che da tre anni, ad ogni concerto, loro ci lasciano un piccolo pezzo di loro (che ci portiamo sempre dietro).
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Un’ultima curiosità: il nome “L’orso” è breve, sobrio, tanto da passare quasi inosservato. Cela un particolare significato? La scelta del nome L’orso è puramente estetica e sonora, non volevamo un nome che ci obbligasse in un certo filone (come spesso accade in Italia con nomi molto lunghi o molto schierati); ci piaceva l’utilizzo di una parola d’uso comune al singolare per un progetto plurale. E, naturalmente, ci piaceva il suono e l’articolo apostrofato seguito da una minuscola (che, ahimè, generalmente non viene considerata dal web e dalla stampa!). L’orso; non pensavamo ci fosse bisogno d’altro per aprire il nostro mondo.
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WEB MOVIES Rai Cinema e Cubovision lanciano i Web Movies per sostenere il cinema di genere online. Che il web sia un canale sempre più centrale per la diffusione dell’audiovisivo è ormai chiaro ai più. Una delle caratteristiche più importanti della Rete, tuttavia, è quella di prestarsi a modalità di fruizione e contenu-
ti anche molto diversi da quelli tradizionali: un’opportunità che sembra aver colto Rai Cinema col suo progetto Web Movies, di cui si è parlato in occasione della VII edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, attualmente in corso all’Auditorium. L’iniziativa, in realtà, nasce nel 2010 come linea editoriale innovativa, destinata direttamente all’online e volta a promuovere i film italiani
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di genere e low budget, attraverso un canale alternativo a quello classico delle sale. A tale scopo Rai Cinema ha dunque selezionato dieci registi emergenti, molti sotto i 30 anni, per realizzare thriller, gialli psicologici e fantasy da far debuttare direttamente su Internet, grazie alla collaborazione con Cubovision di Telecolom Italia. A partire dal 15 novembre e a cadenza mensile, ciascuno di questi titoli verrà distribuito in modalità gratuita prima all’interno dell’offerta free di Cubovision, poi attraverso il canale web di Rai Cinema (Rai Cinema Channel) e su altre piattaforme quali YouTube. Al contrario di ciò che avviene solitamente, la visione a pagamento interverrà solo in seguito, attraverso lo store virtuale diiTunes, mentre è prevista anche l’uscita di un cofanetto home video, in cui saranno raccolte tutte le opere dei diversi autori, e
Una scena 20 da Fairytale
“ Riportiamo sugli schermi un prodotto culturale italiano trascurato” infine il passaggio televisivo su Rai Movie. “È un progetto a cui teniamo particolarmente”, ha commentato l’AD di Rai Cinema, Paolo Del Brocco, presentando i Web Movies al Festival di Roma, “è cominciato due anni fa come risposta al quesito che ci stavamo ponendo su come ricostruire il gusto per i film di genere. Abbiamo deciso di farlo con le potenzialità offerte da questi nuovi strumenti. Si tratta di un cinema forte, estremo, diverso da quello che siamo abituati a promuovere. Ma ci siamo anche divertiti a dimostrare
Riprese di Fairytale
come si possano ancora realizzare film a basso costo e allo stesso tempo di qualità”. Ecco invece le dichiarazioni che ci ha rilasciato Paolo D’Andrea, responsabile di Cubovision: “Con Rai Cinema abbiamo trovato un accordo per distribuire in anteprima per quindici giorni, a partire dal 15 novembre, film realizzati da nuovi registi e da produzioni indipendenti, che dopo la finestra di Cubovision saranno disponibili anche su altre piattaforme. È un’operazione che non solo ci permette di mostrare il senso e la funzionalità dei nostri servizi, ma mira anche a riportare sugli schermi un prodotto culturale italiano attualmente molto trascurato”. A inaugurare il servizio, questo giovedì, sarà il film Fairytale, di Ascanio Malgarini e Christian Bisceglia, a cui seguiranno Andare via di Claudio Di Biagio, Aquadro di Stefano Lodovichi, Circuito chiuso di Giorgio Amato, La voce dei cani di Mario Amura, L’ultimo weekend di Domenico Raimondi, Neverlake di Riccardo
Paoletti, The Happy Days Motel di Francesca Staasch, True Love di Enrico Clerico Nasino e The President’s Staff di Massimo Morini.
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SANTERIA A Milano, un luogo dove divertirsi e conoscere, il posto giusto per sviluppare nuove idee. Per chi non ne avesse mai sentito parlare la Santeria è una factory, un palazzina all’interno della quale ci sono moltissime attività diverse, ma tutte collegate al mondo della creatività: uffici di grafici, web designer, illustratori, promoter, uno studio di produzione musicale, un coworking con 10 postazioni, un bar bistrot, uno shop di vinili/vestiti/libri, una sala mostre/showcase e un cortiletto. Qui possono svilupparsi collaborazioni indotte dalla stessa Santeria, o anche autonome, perché l’ambiente è stato pensato per incanalare energie ed idee attraverso una concentrazione di professionisti del settore. A capo di questa iniziativa ci sono due grosse personalità: Andrea Pontiroli e Filippo Timi. Il primo oltre a gestire la Santeria è anche direttore artistico del Circolo Magnolia, che
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da anni sostiene la buona musica. Di lavoro realizza le sue idee e coordina le persone per creare il miglior risultato possibile, promuove musica e arte emergente. Nel 2012 è uscito il suo libro Un concerto da manuale. Soluzioni semplici per organizzare spettacoli, dove c’e’ tutta la sua esperienza di organizzatore di concerti ed eventi live. Filippo invece è un grafico amante dell’inchiostro e dei colori: la grafica della Santeria che vedete in foto è stata realizzata da lui.
“ Un luogo che è diventato un punto di riferimento per Milano, e un luogo di aggregazione in un quartiere che offre veramente poco”
Due persone ricche di idee che provano in ogni modo a migliorare questa Italia. Perché, come dicono loro, “di posti belli come la nostra Italia non ce ne sono, ed è qui che bisogna investire!” La santeria nel giro di due anni è diventato un punto di riferimento per Milano, e un luogo di aggregazione in un quartiere che offre veramente poco. Leggendo potrebbe sembrare un locale di dimensioni enormi, in realtà è uno spazio tutto sommato di dimensioni contenute, dove però “i contenuti” trovano sempre lo spazio adatto. Gli eventi che ospita sono anche inusuali per la normale programmazione di un locale, come i matinée, concerti con brunch della domenica mattina, o la cinemerenda, proiezione pomeridiana di film indipendenti, eventi pensati anche nel rispetto del contesto residenziale in cui è inserita Santeria.
Da circa tre mesi, però, non sono più in programmazione eventi come concertini acustici, showcase, dibattiti, rassegne di cinema, presentazioni di libri, mostre di pittori, illustratori e fotografi. La risposta a questo interrogativo proviene direttamente dall’amministratore Andrea Pontiroli, il quale ci spiega che “si tratta di una pratica di impatto acustico richiesta per i nostri eventi dalla polizia annonaria, che abbiamo scoperto poi non essere dovuta, in quanto le esibizioni e le proiezioni non
in quanto le esibizioni e le proiezioni non
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Andrea Pontiroli
rappresentano l’attività principale e si tengono in orari diurni. Nonostante questo è stata ricevuta una sospensione dei permessi e si è entrati in una trafila burocratica che dura ormai da tre mesi”. Sempre lo stesso continua riportando la causa di questo blocco momentaneo di alcune attività alle lamentele di alcune persone, ma anche e soprattutto a un’intolleranza ideologica, piuttosto che un reale disturbo. Le lamentele possono sicuramente aver aiutato a complicare l’iter, ma bisogna ricordare che la maggior parte degli eventi si svolgono solo in orari diurni e sempre a volumi molto bassi. La stima delle perdite economiche in tre mesi si aggira intorno ai 18.000 euro di mancato incasso. Per un posto come Santeria, aperto da soli due anni e con già dodici assunti è davvero una somma ingente, che mette a rischio l’intero progetto. La situazione per Andrea è chiara e la colpa va ricondotta a questa amministrazione, che ha sicuramente fatto molto per Milano sotto diversi aspetti, soprattutto per il sociale e per i diritti dei cittadini, ma per quanto riguarda la cultura, il commer-
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cio e il tempo libero non si è dimostrata all’altezza. I locali, i circoli e gli spazi in generale dedicati alla cultura soffrono di una situazione difficile, dove la burocrazia e i continui cambi di regolamenti frenano un reale sviluppo del settore. Per due anni il settore cultura ha lavorato senza un piano preciso di rilancio, senza darsi dei tempi e senza proporre delle soluzioni che comprendevano il lavoro e le competenze di altri assessorati. Sono diversi i punti che già due anni fa furono sottoscritti in campagna elettorale: dallo
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sportello unico dello spettacolo, alla semplificazione e digitalizzazione della burocrazia, dalla messa a disposizione degli spazi in disuso ai bandi dedicati per incentivare le ristrutturazioni e le assunzioni. La svolta dunque consiste nell’investire sulla cultura perché può generare lavoro, attivare il turismo, aumentare il proprio indotto e avere benefici incredibili sul sociale e anche sulla sicurezza. Più la città risulta viva, più risulta sicura. Nonostante quanto accaduto fino ad ora, sembra quindi che ben presto La Santeria potrà ritornare l’ambiente brulicante di idee che è sempre stato, il posto giusto dove divertirsi e conoscere.
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LIBRARY MUSIC
ITALIANA:
UN UNIVERSO PARALLELO Negli anni 70 fu uno dei fenomeni più strani e curiosi della musica italiana. Adesso è tempo di revival: all’estero, e anche da noi. Di passaggio al mio negozio di dischi di fiducia, per pura curiosità ho chiesto a uno dei gestori quale fosse il bestseller della settimana: il titolo più venduto, per capirci. A sorpresa, la risposta è stata Società Malata di Daniela Casa, un disco di library music italiana del 1975 recentemente ristampato da Penny Records. La sorpresa, devo dire, è stata prontamente riassorbita da una serie di assai più prosaiche considerazioni: la prima volta che mi occupai “seriamente” di library music risale a due anni fa esatti, e già ai tempi era ormai parecchio che il germe covava tra le pieghe della retromania più esoterica, complice il lavoro di riscoperta adoperato da gente tipo Broadcast giro Ghost Box e i soliti Demdike Stare. Da allora, il virus si è diffuso fino a sfociare apertamente nel revival. Anche se sì, di revival sui generis si tratta. Se arrivati a questo punto vi state giustamente chiedendo cos’è la library music, provo a rispondervi per sommi capi e senza addentrarmi nei complicatissimi distinguo
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che pure andrebbero fatti. Prendete le musiche “di servizio” che trovate in documentari, notiziari, sceneggiati radio, film TV, e via di questo passo. Ecco, quella è library music o, per dirla all’italiana, musica per sonorizzazioni. La differenza con le “colonne sonore” vere e proprie è sottile, ma ci torneremo poi. Per il momento basti dire che è un fenomeno che accompagna da sempre la storia del mezzo audiovisivo, e che tuttora non mancano le aziende specializzate in servizi di questo tipo. Per una serie di ragioni storiche però, c’è stato un periodo in cui a tale categoria si ri-
volsero non solo rispettati artigiani e tecnici del mestiere, ma – specie in Italia– autentici mostri sacri provenienti dagli ambiti musicali più disparati: jazz, rock, musica “sperimentale”, elettronica, classica contemporanea… e anche musica per film, ci mancherebbe. Il periodo in questione va all’incirca dai tardi anni ‘60 alla fine dei ‘70: in questo decennio, il mercato discografico fu sotterraneamente invaso da una quantità abnorme di album recanti titoli autoesplicativi del
“ Prendete le musiche che trovate in documentari, notiziari, film TV. Ecco, quella è la library music”
genere Disagio Sociale (musiche per servizi e rotocalchi su… be’, sul disagio sociale, no?), Violenza (nel caso al telegiornale servisse un accompagnamento per qualche servizio su sparatorie, rapine, scontri di piazza o simili), Biologia Marina (nei palinsesti RAI degli anni ‘70 i documentari su oceani e pesci andavano alla grande), Elettronica Tecnica e Spaziale (per speciali su astronauti eccetera) e chi più ne ha più ne metta. La library music fu un fenomeno trasversale che in quegli anni esplose in maniera più o meno clandestina in paesi come la Francia, l’Inghilterra e – come avrete capito – l’Italia, che a questo bislacco non-genere regalò un’impressionante quantità di perle quando non capolavori veri e propri. Alcuni dei nomi che contribuirono alla causa sono tra i pesi massimi della più nota musica per film: Ennio Morricone, per dirne uno. O anche Piero Umiliani, che in ambito library espresse le sue cose migliori. Dicevo
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della sottile differenza tra sonorizzazioni e musiche per il cinema: ecco, la principale caratteristica della library è che si tratta di materiali che nella maggioranza dei casi non furono pensati per titoli specifici, quanto per essere messi in enormi cataloghi audio a disposizione dei programmisti RAI, che poi potevano farne l’uso che più ritenevano appropriato. Era – come dire – “musica generica”, che stava lì, in attesa che qualcuno la utilizzasse a seconda delle circostanze: c’era da sonorizzare una scena su un gruppo di operai in fabbrica? Ecco pronto allo scopo un brano come Sala macchine di Amedeo Tommasi, una roba per elettronica protoindustrial che veramente ti faceva pensare ai plumbei interni di una catena di montaggio. Chiaro il meccanismo, no? Ora, non starò a raccontarvi dell’opaco (e quindi italianissimo) business che si sviluppò in quegli anni dalle parti di viale Mazzini e dintorni; né della straniante sequela di pseudonimi di cui si dotarono i compositori per alimentare il mercato, con dischi attribuiti a oscure sigle tipo Atmo, Di Jarrell, e persino Farlocco (guarda caso tre pseudonimi per la stessa persona: scoprirete di chi si tratta più avanti); quello che conta è che per i compositori italiani le sonorizzazioni rappresentarono, creativamente parlando, una valvola di sfogo straordinaria; liberi da vincoli di produzione e pretese del regista di turno, potevano sbizzarrirsi negli esperimenti più audaci e tirare fuori le cose più dissennate, pure dieci minuti di ronze elettroniche che poi avrebbero giustificato intitolandole Rumori al laboratorio aerospaziale. C’erano ovviamente una serie di svantaggi: i dischi di library music bisognava concepirli in fretta e con pochi mezzi; a volte non erano dischi “ufficiali” e quindi non avevano nemmeno un vero mercato, ma circolavano in poche copie tra colleghi e addetti ai
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lavori; gli stessi brani poi, dovevano perlopiù evocare atmosfere o situazioni ambientali, e finivano giocoforza per risolversi in vignette a malapena accennate e di certo tutto tranne che “concluse”. Molti dischi library sono effettivamente delle mediocri collezioni di bozzetti utili tuttalpiù come innocuo sottofondo per il notiziario dell’ora di pranzo. Ma altri contengono dei lampi di genio che a risentirli ora quasi non ci credi. Come detto, la library music tutta – e italiana in particolare – sta da qualche tempo vivendo un interessante revival che ha infine portato alla ristampa di numerosi titoli fino a ieri esclusivo patrimonio dei collezionisti più accaniti. Ve ne elenco un po’, nel caso vogliate approfondire una delle stagioni più creative della musica di casa nostra, e cosciente che di qui a qualche mese altre ristampe (magari di altri titoli di culto) andranno ad aggiungersi alle poche qui raccontate. Un’avvertenza: si tratta quasi sempre di ristampe in vinile e spesso in edizioni limitate; ma niente paura, è tutta roba che si trova facilmente presso i distributori specializzati e i soliti canali on line.
“ Per i compositori italiani le sonorizzazioni rappresentarono una valvola di sfogo straordinaria”
Daniela Casa Società Malata
Jay Richford & Gary Stevan Feelings
Penny Records, 2013
Golden Pavilion, 2012
Società Malata è un classico che in effetti aspettava da tempo di essere riscoperto, anche perché nel suo piccolo è un delizioso concentrato di italo-sound: uno strano miscuglio di lounge, trame sperimentali, jazz inquieto, struggimenti mediterranei e atmosfere (visto il titolo) malate. Lo ristampa l’italiana Penny Records in una bella edizione vinile + cd.
Non fatevi ingannare dai nomi inglesi: dietro questo disco del 1974 c’è l’italianissimo Stefano Torossi e Feelings è in assoluto tra gli album più di culto dello spaghetti-soul/funk, al punto da essere stato già ristampato più volte in passato. Questa edizione in vinile della portoghese Golden Pavilion non brilla per qualità, ma se non volete spendere 100 euro per il cd pubblicato da Easy Tempo…
Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza Eroina
Egisto Macchi Voix The Roundtable/The Omni Corporation, 2012
Cometa, 2011
Il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza fu la gloriosa formazione avantgarde fondata negli anni ‘60 dal compositore Franco Evangelisti assieme al solito Morricone. L’album in questione, inciso originariamente nel 1971, è evidentemente una specie di lavoro a tema sul mondo della droga, a uso e consumo degli allarmati notiziari RAI del periodo.
Astratto e misterioso, Voix risale al 1975 e viene qui riproposto dalle australiane Roundtable/Omni Corporation, che per il recupero della library italiana stanno facendo un lavoro splendido (tra le altre ristampe in catalgo: I Futurbili ancora di Macchi, lo straclassico Prisma Sonoro di Alessandro Alessandroni, e il clamoroso Niente ancora del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza).
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Teisco
Zanagoria
Tuscan Castle And Country Seat
Insight Modulation
The Roundtable, 2012
Wah Wah, 2013
La vera perla la Roundtable l’ha tirata fuori con questa ristampa di Teisco aka Marco Melchiori: il disco uscì una prima volta nel 1978 come commento sonoro per il ciclo di filmati Castelli e ville toscane in Italia. Cosa c’entrino ville e castelli di Toscana con questo capolavoro di psych-rock scoppiato che frulla cavalcate velvettiane, epifanie kraute e stordenti panorami neoclassici, non so.
Altro stranissimo affresco per elettronica “sperimentale” bizzarramente calata in tanti piccoli acquarelli naif è questo Insight Modulation di Zanagoria, nome dietro il quale si celava Giorgio Carnini nel lontano 1972. A ristamparlo è la spagnola Wah Wah, marchio di riferimento per i devoti della psichedelia ‘70.
Antonio Vuolo & Elio Grande Desert
Amedeo Tommasi Blues for Miles Davis
Strut, 2013
Adventure, 2013
L’inglese Strut è specializzata perlopiù in materiali di area disco, dance, funk e simili, quindi non stupisce l’interesse per questo album uscito originariamente nel 1979 e pubblicato ai tempi dalla Cardium. Un classico pre-italodisco che mescola Goblin, elettronica krauta, saltarelli mediterranei e spaghetti-funk.
Quando Tommasi compose questi pezzi ancora non sapeva che sarebbero entrati nel repertorio della library music. Amedeo Tommasi ha iniziato la sua carriera didattica con l’insegnamento dell’armonia Jazz alla scuola di musica St. Louis di Roma, inaugurando un sistema nuovo di insegnamento dell’armonia jazz, basato sulla riarmonizzazione dei famosi standard americani.
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CANZONI INVISIBILI Venti artisti per un ibrido multimediale, ispirato ai lavori di Italo Calvino, diventato una Moleskine special edition. E non solo. In anteprima il video creato dalla visual artist Tamara Ferioli per il brano: “Wenn in einer Winternacht”
Venti artisti per un ibrido multimediale, ispirato ai lavori di Italo Calvino, diventato una Moleskine special edition. Un vinile come taccuino, un taccuino come vinile. Musica, testi, illustrazioni e grafica si fondono in un’unica opera che riunisce venti diversi artisti provenienti da ogni parte del mondo e dediti alle più diverse forme di arte: danza, cinema, musica elettronica, jazz, scrittura di canzoni, poesia, illustrazione e arti visive. Un taccuino Moleskine, un vinile da 7” e una raccolta online danno vita a Canzoni Invisibili/Invisible Songs: un progetto di ampio respiro ideato da Alessandro Cremonesi (La Crus) e Lagash (Marlene Kuntz) per celebrare lo scrittore italiano Italo Calvino. Dieci romanzi sono stati reimmaginati, dedicando la massima cura al suo approccio interdisciplinare e collaborativo attraverso interpretazioni e reazioni libere.
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“ Un progetto di ampio respiro per celebrare lo scrittore italiano Italo Calvino” La ricerca della musica è stata orientata verso tutte le arti possibili attraverso i contatti e le relazioni che via via nascevano. In primo luogo le frequentazioni berlinesi, dove gli incontri con artisti di ogni genere sono stati molto generosi, ad esempio Rafael Anton Irisarri, in arte The Sight Below, che hanno incontrato mentre performava all’Horst Krzbrg durante il tour di Orcas (duo elettronico di Seattle pubblicato da Morr Music, la cui opera mi era stata segnalata da Alessandro
stesso). E poi Fran Healy, Ellen Allien, Dodo Nkishi, Erna Pachulke, il Draftsmen’s Congress e Thomas Gangnet (ha collaborato anche graficamente per il website) che hanno segnalato Martina Aschbacher, fondamentale collaboratrice di Douglas Gordon.
Tra le pagine viene lasciato intenzionalmente uno spazio bianco per continuare libere interpretazioni e favorire un dialogo creativo costante che può poi essere pubblicato sul portale online.
Con una speciale serigrafia dorata e una copertina appositamente tagliata, il taccuino diventa un portadischi. All’interno si trovano sessanta pagine ricche di poesie, illustrazioni, testi e immagini dell’illustratrice Tamara Ferioli, dell’artista Masbedo e del curatore di musica ambient The Sight Below, solo per citarne alcuni. Il tutto è raccolto armoniosamente sotto la splendida direzione grafica di Thomas Gangnet. Così le idee e le interpretazioni originali di alcune delle più entusiasmanti menti creative convergono sotto forma di audio e immagini.
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Pensato come progetto aperto, lo spazio online svolge la funzione di cantiere di idee, interpretazioni e possibili collaborazioni. Sfumando le gerarchie tradizionali del lavoro artistico, Canzoni Invisibili cerca di creare nuove formazioni artistiche ibride che vivono al di lĂ dei vincoli di analogico, digitale, audio e immagine.
Alessandro 38 Cremonesi
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SEGRETI DEL
MESTIERE Lezione di fotografia per chi dopo aver ascoltato tante storie esemplari abbia voglia di mettersi un po’ in gioco facendo qualcosa di semplice ma stimolante. Come impostare i diaframmi
foto 1 1 Anello dei diaframmi posto sull’obiettivo 2: ghiera dei tempi, posta sulla reflex
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foto 3 1: La ghiera per regolare il diaframma 2: Se la fotocamera è dotata di un display sulla parte superiore del corpo il diaframma
Se avete una reflex impostare i diaframmi è molto semplice. Tempo fa gli obiettivi per le reflex erano dotati di un anello dei diaframmi che bisognava ruotare per selezionare il diaframma prescelto, mentre sulle reflex vi era la ghiera che serviva a selezionare il tempo di esposizione (foto 1). Oggigiorno l’anello dei diaframmi sull’obbiettivo è sparito, per tanto sia la regolazione dei tempi sia quella dei diaframmi si attua sulla reflex. Vediamo come impostare il diaframma sulle moderne reflex digitali. Ci sono principalmente due modalità operative: la modalità priorità dei diaframmi e la modalità manuale. Soffermiamoci sulla modalità priorità dei diaframmi. La modalità priorità dei diaframmi Sulle reflez attuali, per operare in priorità dei diaframmi bisogna impostare tale modalità, posizionando la ghiera di selezione dei modi sul programma “priorità ai diaframmi”, contraddistinto dalla lettera [A] oppure [Av]. La posizione di questa ghiera cambia da modello a modello, ma tutte le reflex ne sono dotate (foto 2). Dopo aver impostato il programma a priorità dei diaframmi, con una rotella apposita (la cui posizione ovviamente cambia da modello a modello) si seleziona il diaframma desiderato (foto 3).
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Il programma della macchina selezionerà automaticamente il tempo di esposizione adeguato per garantire la corretta esposizione. La modalità manuale In questa modalità si seleziona manualmente sia il tempo di esposizione che il diaframma. Una volta questo era l’unico modo di operare per ottenere una fotografia: non esistevano i programmi e il fotografo impostava sempre manualmente i due valori. Poi furono inventati i programmi. Il primo, e il più utile, fu quello della priorità ai diaframmi. Il secondo fu quello della proiorità ai tempi. La maggior parte dei fotografi esperti continua ad usare per il 90% delle foto che fa l’automatismo a priorità dei diaframmi. Il motivo è semplice. Assegnando la priorità ai diaframmi è facile controllare la profondità di campo. Tuttavia è importante imparare ad utilizzare la modalità completamente manuale. Questo per due motivi. Il primo è che esercitandosi a scattare foto in manuale si riesce a percepire meglio il funzionamento dell’accoppiata base della fotografia: quella tempo/diaframma. In secondo luogo il saper operare manualmente ci permette di ottenere esattamente la fotografia che desideriamo, non necessariamente quella che ci suggerisce l’automatismo della fotocamera. Operate in questo modo. Posizionate la ghiera dei modi su [M] (il simbolo che indica l’esposizione manuale). Selezionate il diaframma desiderato. Una volta scelto il diaframma, operate con la ghiera dei tempi lasciandovi guidare dalla scala dell’esposizione o dal valore numerico che compare nel monitor superiore della fotocamera e/o nel mirino. L’esposizione corretta la si avrà quando la scala dell’esposizione, presente sul display superiore e/o nel mirino avrà raggiunto il valore centrale. Il valore di sovraesposizione o sottoesposizione può essere indicato da un numero (foto 5). Come già ricordato, le reflex entry level hanno di solito una sola ghiera per regolare tanto i diaframmi che i tempi. Con le bridge la modalità operativa è più o meno la stessa.
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foto 4
foto 5 1: Impostare la ghiera dei modi su M; 2: Ghiera di regolazione dei diaframmi; 3: Ghiera di regolazione dei tempi. In realtà solo i modelli professionali hanno la seconda ghiera, quella per regolare i tempi. Gli altri modelli utilizzano una sola ghiera per regolare sia i diaframmi che i tempi (si veda la foto 5). Di solito i tempi si regolano premendo un pulsante apposito mentre si ruota l’unica ghiera prevista; 4: Il tempo diaframma selezionato; 5: Il tempo di esposizione selezionato; 6: Il segnale di corretta esposizione (in questo caso il valore indicato + 0,7 EV ci indic
Per quanto riguarda le compatte, invece, sono molto pochi i modelli che consentono di operare variazioni del diaframma e del tempo di esposizione. Nei modelli dove effettuare tali regolazioni manualmente è possibile, di solito si deve operare come descritto in precedenza dalla reflex. Su alcuni modelli si può selezionare il diaframma e il tempo prescelti operando sul menù. Per tanto è necessario fare riferimento al libretto d’instruzione. Per esercitarsi: si imposti sulla propria fotocamare la modalità manuale e si varino i tempi e i diaframmi, osservando nel contempo la scaletta della sovra e della sottoesposizione. Si scattino fotografie con il tempo di esposizione corretto, poi si varino i tempi senza variare il diaframma, sia in sotto che in sovraesposizione, e se ne valuti il risultato.
La messa a fuoco foto 6
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In fotografia l’espressione “mettere a fuoco” significa fare in modo che i raggi luminosi provenienti dal soggetto siano concentrati dall’obbiettivo esattamente sul piano del sensore. In tal modo l’immagine apparirà nitida. Tale vividezza sarà riscontrabile esclusivamente sul piano di messa a fuoco. Tutto ciò che si trova avanti e dietro il piano di messa a fuoco apparirà quindi sfocato, tanto più sfocato quanto maggiore sarà la distanza dal piano di messa a fuoco (come vedremo, lunghezza focale dell’obbiettivo, diaframma usato e distanza di messa a fuoco influenzano la percezione di nitidezza). La messa a fuoco su un determinato punto si effettua spostando un gruppo di lenti all’interno dell’obbiettivo fino al momento in cui il piano desiderato appare nitido. Tale spostamento delle lenti dell’obbiettivo può essere effettuato manualmente, ruotuando un’apposita ghiera, oppure attraverso la messa a fuoco automatica. La messa a fuoco automatica viene effettuata premendo a metà il pulsante di scatto. Il pulsante di scatto di una macchina fotografica,
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infatti, ha sempre due posizioni. Premendo il pulsante sulla posizione uno si dà inizio all’operazione di messa a fuoco. Quando il piano prescelto è a fuoco la fotocamera ci avvisa, con un segnale visivo e (se se ne soleziona l’opzione) con un segnale acustico. Inoltre nel mirino- ottico o elettronico- l’immagine appare nitida. A questo punto si può scattare la foto imprimendo un’ulteriore pressione al pulsante (senza prima rilasciarlo). Non appena raggiunta la seconda posizione sentiremo il classico “click” indicante che la foto è stata scattata.
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L’uso del diaframma e la profondità di campo Uno dei concetti più importanti da imparare quando ci si accosta all fotografia è quell di profondità di campo. Solo quando si impara a controllare alla perfezione la profondità di campo attraverso il diaframma, infatti, si inizia a padroneggiare davvero lo strumento fotografico. Come abbiamo già considerato, un obbiettivo può mettere a fuoco esclusivamente su un determinato piano. Tutto ciò che si trova sul piano di messa a fuoco apparirà nitido, mentre tutto ciò che si trova dietro e davanti il piano di messa a fuoco apparirà sfocato, ossia poco nitido. Ciò avviene perchè un punto che si trova sul piano di messa a fuoco sarà riprodotto esattamente come un punto anche nella fotografia ottenuta, mentre un punto che si trova avanti o dietro il piano di messa a fuoco sarà riprodotto come un cerchietto sulla stessa fotografia. Si parla a questo proposito di cerchio di confusione. Nella pratica però, davanti e dietro il piano di messa a fuoco vi è un certo intervallo in cui la sfocatura è talmente contenuta da essere impercettibile: l’osservatore continua a vedere i particolri dell’immagine come nitidi. Questo intervallo è chiamato profonditò di campo. Si tratta dell’intervallo all’interno del quale il cerchio di confusione è talmente piccolo da
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essere comunque percepito come un punto dall’osservatore. Per capire meglio cos’è la profondità di campo, e come viene gradualmente il passaggio dal piano di perfetta nitidezza al vero e proprio sfocato si osservi le foto12 e 13. Il controllo della profondità di campo è sicuramente uno dei concetti fondamentali della fotografia. La profondità di campo, infatti, non è sempre uguale, bensì variabile a seconda di alcuni parametri: 1) la percezione personale: entro certi limiti l’osservatore dell’immagine, può percepire come nitidi dei particolari che sono leggermente sfocati. Di solito più si acquisisce “l’occhio fotografico”, più si diventa severi nel giudicare l’immagine perchè si raffina la capacità di distinguere, nell’immagine, ciò che è a fuoco e ciò che non lo è. Tale percezione dipende anche dall’ingrandimento della fotografia. Su una stampa di piccole dimensioni l’immagine può apparire più nitida. 2) la lunghezza focale: per semplificare- e molto- la questione, si usa dire che nei teleobbiettivi la profondità di campo è inferiore rispetto ai grandangoli. 3) la distanza del punto di messa a fuoco dal piano focale: se mettiamo a fuoco un soggetto vicino, a parità di lunghezza focale e di tutti gli altri parametri, la profondità sarà inferiore rispetto a quella che si tiene mettendo a fuoco un soggetto più lontano. 4) l’apertura di diaframma. Il diaframma e la profondità di campo Per farla breve la chiusura del diaframma fa aumentare la profondità di campo. Più il diaframma è chiuso, infatti, più i raggi che colpiscono il sensore saranno perpendicolari a esso. Più i raggi di luce sono perpendicolari al sensore, più il cerchio di confusione dei piani fuori fuoco è piccolo e si avvicina ad essere percepito come un punto. Questo restiuisce una sensazione di nitidezza. Per capire cosa accade chiudendo il diaframma, si osservino le immagini 14 (diaframma f/2), 15 (f/8) e 16 (f/22).
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Le tre immagini riportate ben illustrano come la variazione dell’apertura del diaframma porti ad ottenere immagini molto diverse dello stesso soggetto. Sta al fotografo selezionare, in base alla sua esperienza e al suo senso estetico, il diaframma più adeguato a restituire l’immagine che vuole ottenere. Le tre immagini della tazzina sono molto utili a dimostrare come un uso sapiente del diaframma si possa ottenere un’immagine migliore. Per esempio, l’uso di un diaframma aperto, porta a far sparire le antiestetiche briciole sul tavolo. Viceversa un diaframma più chiuso restituisce una maggiore impressione di nitidezza generale. Quando utilizzare un diaframma aperto e quando utilizzare un diaframma chiuso? In generale, ma non è certo una regola, quando si fotografa un paesaggio si desidera che tutti i particolari della scena siano nitidi. Di solito quindi si opta per un diaframma più chiuso. Quando si fa un ritratto, invece, di solito si desidera dare risalto al soggetto. Lo sfondo potrebbe distrarre inutilmente. Ecco quindi la necessità di utilizzare un diaframma piuttosto aperto, magari abbinato ad una focale medio-tele. La stessa cosa si può dire per la fotografia di animali. Spesso per dare risalto al nostro amico a quattro zampe è preferibile “eliminare” lo sfondo, rendendolo così sfocato da risultare uniforme e poco invadente.
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La posa B (bulb) Le fotocamere reflex e mirrorless in genere consentono di impostare tempi di otturazione che vanno da 1/8000 di secondi a trenta secondi. Questi tempi di espozione permettono di ottenere la corretta esposizione in tutte le normali condizioni di luce che si possono incontrare dall’aurora al crepuscolo. Esistono però delle situazioni fotografiche particolari nelle quali possiamo avere bisogno di tempi di esposizione più lunghi di trenta secondi. In questi casi ci viene in aiuto la posa B.
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Come funziona
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La posa B consente di mantenere aperto l’otturature della fotocamera per tutto il tempo stabilito dal fotografo, quindi anche per tempi superiori ai trenta secondi normalmente selezionabili con la fotocamera. Quando si imposta la posa B l’otturatore rimane aperto dal momento in cui si preme il pulsante di scatto al momento in cui lo si rilascia. Come attivarla L’opzione per la posa B si trova sulla ghiera dei modi delle fotocamere reflex. In alcuni modelli entry-level e in alcune mirrorless e bridge la posa B potrebbe essere selezionabile solo da menu. La maggior parte delle fotocamere compatte non consente di impostare la posa B. A cosa serve La posa B serve essenzialmente a scattare con tempi di esposizione più lunghi di trenta secondi. Di solito quindi tale opzione si usa di notte , quando occorrono pose di dverse minuti per riprendere una scena. A volte la posa B può essere usata per rendere il senso del movimento del nostro soggetto, specialmente in contrapposizione ad elementi statici presenti nel fotogramma. Un caso tipico è quello delle scie prodotte dalle automibili di notte. Alcuni usano la posa B anche di giorno, per fini creativi. Ovviamente per riuscire ad impostare tempi più lunghi di trenta secondi utilizzano dei filtri ND. Le applicazioni che si possono fare della posa B sono notevoli e sono limitate solo dalla nostra fantasia. Ad esempio, si può creare una natura morta e, in una stanza completamente oscurata, si può illuminarla con una torcia elettrica. Si tratta della tecnica del light painting. L’immagine 19 è un esempio di fotografia ottenuta con il metodo di light painting. In un ambiente completamente buio è stata impostata la posa B sulla fotocamera e poi, con l’otturatore aperto, le rose sono state illuminate con una piccola torcia.
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Cosa occorre Per utilizzare la posa B sono necessari due accessori. Il primo è un buon treppiede, indispensabile per mantenere la fotocamera ferma mentre si utilizzano pose lunghe. Il secondo è un telecomando (o un filocomando) per lo scatto. Quest’ultimo è necessario per non ingenerare delle vibrazioni che potrebbero causare il micromosso. Se tenessimo premuto il pulsante di scatto con il dito, infatti, il micromosso sarebbe assicurao. Il dark frame Quando si utilizza la posa B il sensore, a causa della lunga esposizione, si riscalda, e ciò provoca l’aumento di rumore digitale (la comparsa di tanti puntini rossi, blu e verdi) anche se stiamo usando basse sensibilità. Per ovviare a questo problema le fotocamere digitali hanno una funzione di riduzione rumore con le pose lunghe. Se scattate una fotografia della durata di molti secondi o minuti, non appena termina l’esposizione la fotocamera scatta un altro fotogramma, ad otturatore chiuso, utilizzando il medesimo tempo di esposizione che avete usato per la foto: il cosiddetto dark frame, che contiene quindi solo il rumore. Il dark frame ottenuto ad otturatore chiuso nelle medesime condizioni di temperatura esterna, conterrà pressappoco lo stesso rumore digitale della fotografia appena scattata. Il software della fotocamera andrà poi a sottrarre il rumore dalla vostra fotografia utilizzando il dark frame per individuare e correggere i punti spuri. Per questo motivo, se tale funzione è attivata (e in genere lo è di default), quando scattate una foto con tempi lunghi, vi ritrovate con la fotocamera inutilizzabile per un tempo esattamente identico a quello dell’esposizione della vostra foto. La fotocamera sta impressionando il dark frame, che poi utilizzerà per pulire la vostra foto dal rumore. È importante conoscere questo aspetto perchè i forum di fotografia sono letteralmente invasi da persone preoccupate perchè pensanso che la loro fotocamera sia guasta a causa di questo che è invece un procedimento normale.
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L’ITALIA VISI Negli ultimi tempi, in Italia, una nuova generazione di compositori ha dato vita a lavori di alto livello, abbracciando tradizione e avanguardia in chiave onirica. Dal pop surreale di Cabeki all’elettronica minimale di Mingle, passando per la psichedelia di Barbagallo e le riletture di Manuel Volpe.
Se gli Anni Zero italiani sono stati quelli della “leva cantautorale”, i Dieci potrebbero essere ricordati per l’avvento di una giovane generazione di compositori visionari e autarchici, legati al passato quanto alla volontà di sperimentare. Una coincidenza è una coincidenza, due coincidenze sono un indizio, tre coincidenze somigliano a una prova, diceva Agatha Christie. Quattro, probabilmente, lo diventano. Tra le pieghe di un panorama sempre più caotico e sovraccarico di uscite, negli ultimi mesi ha fatto capolino, seppur in sordina,
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una piccola schiera di talentuosi artigiani del suono, cesellatori di sogni, assemblatori di colonne sonore immaginarie. A voi scegliere la definizione migliore per descrivere la psichedelia multiforme di Carlo Barbagallo, il pop surrealista di Andrea Faccioli (Cabeki), le derive elettroniche di Andrea Gastaldello (Mingle), e il rinnovamento della tradizione attuato da Manuel Volpe.
“ Gli anni Dieci potrebbero essere ricordati per l’avvento di una giovane generazione di compositori visionari”
IONARIA Onnivore suggestioni Siciliano trapiantato a Torino, Carlo Barbagallo ha iniziato a produrre musica prima ancora di imparare a scrivere. “Suono e incido, potrei dire, da sempre. Ho centinaia di cassette registrate sin dall’età di cinque anni, cercando di ‘inventare’ il multi-traccia con radiolini anni Novanta messi uno di fronte all’altro. Probabilmente è intorno al 2000 che ho cominciato a lavorare in maniera più cosciente, quando riuscii ad avere per le mani il primo 4 piste a cassetta. Poi è arrivato il computer e molto più in là una certa coscienza dei mezzi”. Senza dubbio, Barbagallo non è tipo da tirarsi indietro, anzi: sono proprio la curiosità e la voglia di mettersi in gioco a farlo inserire in progetti musicali anche molto diversi tra loro: “Dal 1996 suono nei Suzanne’ Silver, dieci anni dopo formo i Redondo con
Giovanni Fiderio (Tapso II/Mashrooms) e Vincenzo Tabacco per la sonorizzazione dal vivo di film muti. Nel frattempo ho composto le colonne sonore di alcuni documentari e fondato la Noja Recordings; nel 2006 con Lorenzo Urciullo (Colapesce) abbiamo dato vita a Le Tempestine per suonare le nostre creazioni home-recording, negli anni seguenti è nato il progetto di improvvisazione libera Les Dix-Huit Secondes grazie a Lucia Urgese. Ho militato nella formazione live degli Albanopower, arrangiato e prodotto
Carlo Barbagallo
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i dischi dei Loners e Monsieur Voltaire, studiato sound engineering all’Apm di Saluzzo e oggi Musica Elettronica al Conservatorio di Torino, con il Blue Record Studio e Goat Man Records abbiamo fondato In The Kennel. Negli ultimi anni mi sto dedicando principalmente alla musica sperimentale, che pubblico sul blog The Noja Recordings Archives, e abbiamo messo in piedi il CoMET (Collettivo Musica ElettroAcustica Torino)”. Carlo Barbagallo è onnivoro: assorbe ogni tipo d’influenza e la riscrive a suo modo, esplorando il (post) rock nelle sue svariate accezioni – folk e blues, soprattutto – senza mai rinunciare a due elementi quali psichedelia e sperimentazione. “I miei ultimi due dischi Blue Record e Quarter Century, in realtà, sono stati realizzati quasi in totale collaborazione con altri musicisti-amici. È vero che principalmente, sia nei miei album precedenti che nei lavori sperimentali, faccio
“Mi lascio guidare istintivamente, bisogna solo concretizzare qualcosa che già esiste” 54
quasi tutto da solo. Nella maggior parte dei casi perché molte idee nascono, vengono sviluppate e completate nell’intimità casalinga. La ricerca del suono è il procedimento fondante del mio fare musica, ma gli iter possono essere infiniti; mi lascio guidare istintivamente, bisogna solo farlo uscire, concretizzare qualcosa che già esiste. Per dirla con le parole di David Tudor, la musica ‘composes itself’. I brani possono nascere in qualsiasi modo: da ore passate alla chitarra, da idee concettuali, da ispirazioni ambientali, da testi, da processi, dal fare musica stesso”. Blue Record è un coacervo di suggestioni: fraseggi jazz, scatti noise, soundtrack western. “Mi piace pensare che la mia musica possa essere la colonna sonora per film inesistenti, e credo che una composizione possa suscitare sensazioni, suggerire ambientazioni, descrivere paesaggi o caratteri, raccontare storie, collegare elementi pescati dalla memoria collettiva, ma non penso che l’aggettivo ‘cinematografico’ possa descrivere la natura di una musica. L’aspetto sonoro
del cinema è sicuramente parte del cinema stesso e non esiste musica che possa essere più o meno cinematografica, almeno che non si prendano come riferimento esclusivamente gli stereotipi del cinema di consumo. Del resto sono abbastanza lontano dall’accettare l’idea di musica funzionale, nel senso più stretto ed esclusivo di musica ‘a servizio di’ altro. Il legame tra intenzionalità dell’artista e ricezione del suo lavoro credo non esista; io stesso potrei volere che un mio brano susciti in me qualcosa perché la sua creazione è legata a determinate idee, volontà, istinti”.
“ La cosa che più mi interessa è che la mia musica sia prodotta da una spinta evocativa” Musica per cinecamera in Super 8 Andrea Faccioli, in arte Cabeki, sa suonare tutto, anche quello che non esiste. Perché se qualcosa non c’è, non resta che inventarlo. Semplice, no? Tipo prendere una vecchia lavatrice, di quelle col bidone dalla base larga, attaccare al pistone dodici corde e creare “una sorta di giostra – parole sue – dalla quale esce un suono metallico”. Si chiama arpa circolare, ed è uno dei ventiquattro strumenti che Cabeki utilizza in Una macchina celibe, uscito a fine 2012 per Tannen Records (così come il disco di esordio, Il montaggio delle attrazioni, datato 2011).
Andrea Faccioli
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Cabeki nasce a teatro, ed è nella contaminazione tra musica e arti visive che trova equilibrio ed espressione. Nei primi anni Duemila, dopo diverse esperienze in ambito rock, Faccioli accetta l’invito del regista-attore Lorenzo Bassotto, che gli chiede di allestire un set di musica in grado di accompagnarne le performance sul palco. È un’esperienza esaltante per il giovane musicista veronese, che affina anche la vena sperimentale nel progetto. Nel 2006 i tempi sono maturi per la nascita di Cabeki – “dopo gli spettacoli la gente mi chiedeva se esistesse un cd da comperare” – ma servirà un altro lustro prima che Il montaggio delle attrazioni veda la luce, più che altro a causa degli impegni dal vivo che tengono spesso Faccioli lontano dal suo studio casalingo.
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Ogni brano di Cabeki soddisfa un’unica, fondamentale necessità: emozionare. “Non ho mai pensato alla mia produzione come ‘musica cinematografica’ - dice – però la cosa che più mi interessa è che sia prodotta da una spinta evocativa. Per raggiungere tale scopo mi servo di strumenti dalla timbrica particolare, come l’arpa circolare appunto”. Ne consegue un sound astratto e minimale: caratteristica, quest’ultima, che diventa prioritaria in chiave live, laddove Cabeki è ancora una volta solo sul palco, circondato dagli “attrezzi” che suona simultaneamente. A veicolare l’immaginario circoscritto dalle sonorità strumentali sono i titoli di album e canzoni, in Una macchina celibe addirittura ispirati al maestro dadaista Alfred Jarry e al rapporto “magico” tra oggetti che prendono
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vita e l’uomo. “Non è facile dare titoli alla musica strumentale – ammette Faccioli – Le espressioni estrapolate dai testi di Jarry danno continuità alla narrazione”. Come in uno degli ingranaggi a lui cari, ogni singolo elemento è dove deve stare: e così il sound di Cabeki sa essere maestoso e rarefatto, e a un corredo di citazioni in parte dovute (Morricone, Rota), altrove più semplicemente affini (la Fantasia disneyana, giusto per dirne una), nella versione live le visioni diventano reali grazie a un proiettore Super 8 che, collocato all’interno di una vecchia valigia, riproduce sulla parete retrostante le fotografie scattate da una non meglio identificata donna italiana durante i suoi viaggi per il mondo avvenuti tra 1979 e 1987. Andare avanti tornando indietro, muoversi restando fermi. Nient’altro. Ne consegue un sound astratto e minimale: caratteristica, quest’ultima, che diventa prioritaria in chiave live, laddove Cabeki è ancora una volta solo sul palco, circondato dagli “attrezzi” che suona simultaneamente. Andare avanti tornando indietro, muoversi restando fermi. Nient’altro.
Andrea58 Gastaldello
“ La caratteristica del mio fare musica consiste nel bilanciare due poli: dolce/cattivo, bianco/nero” Polarità elettroniche “To mingle” in inglese significa mescolare. Per Andrea Gastaldello, mantovano di Castiglione delle Stiviere, tale espressione diventa nome d’arte e parola-chiave di una produzione ancora breve eppure già significativa. Ma andiamo con ordine. Se lo sfogo delle passioni giovanili per Gastaldello è un ruolo da chitarrista nella classica rock band locale, lo studio della materia musicale passa attraverso il Conservatorio Campiani di Mantova dove, oltre a studiare pianoforte, apprende che in Italia negli anni Cinquanta ebbero luogo importanti
ricerche pioneristiche sulla musica elettronica. “Avevo diciassette/diciotto anni e fu una scoperta devastante, che mi permise di conoscere produttori di musica colta come Bruno Maderna, Luciano Berio, Luigi Nono”, ricorda oggi. Alla curiosità segue la pratica, e con essa la voglia di andare oltre. Le prime produzioni di Gastaldello sono techno, “ma in poco tempo arrivo a creare l’A.G. Project, formazione trip hop con cui mi sono tolto
lavora a tempo pieno per la veronese Tannen Records ed è per questa che nel 2011 Mingle esordisce (in formato digitale) con l’album Movements: tredici movimenti, appunto, prettamente elettronici, slegati dai generi convenzionali, con tracce che passano da soluzioni vicine ad Aphex Twin a pezzi privi di sezione ritmica e vicini all’ambient, dalle parti di Autechre, fino ad approdare al minimalismo à la Steve Reich.
Manuel Volpe
delle belle soddisfazioni, suonando sia in Italia che all’estero e realizzando due dischi autoprodotti”. È un periodo di grande fermento per il musicista virgiliano, che arriva a comporre contemporaneamente musica da camera e colonne sonore di spot televisivi con brani elettronici. Poi arriva la svolta, quella decisiva: “Alla fine, il flusso di idee ed esperienze parallele che ho portato avanti negli anni è confluito in una scatola di nome Mingle. Il fatto di essere da solo mi ha fatto sentire libero, e così mi piace raccontare sensazioni e stati d’animo. La caratteristica del mio fare musica consiste nel bilanciare due poli: dolce/cattivo, bianco/nero”. Gastaldello, nel frattempo,
Scrittura del movimento Siciliano di famiglia, Manuel Volpe è cresciuto nelle Marche e si è poi trasferito a Torino, a poche centinaia di metri dall’amico, collega e conterraneo Barbagallo. E anche le loro storie si assomigliano: “Ho iniziato a studiare musica a dieci anni. A quattordici passavo i pomeriggi a scrivere canzoncine con Guitar Pro, divertendomi ad arrangiare dei pessimi violini midi con delle altrettanto imbarazzanti nylon guitar o vibes. Nel frattempo mi sono appassionato di jazz e musica del Sudamerica e ho cominciato a studiare più seriamente armonia e improvvisazione. A vent’anni ho deciso di voler
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“ Un brano inizia solo nel momento in cui mi racconta una storia attraverso la musica”
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lavorare a qualcosa che riassumesse tutte le mie passioni, e così ho cominciato a gettare le basi del mio primo album Gloom lies beside me as I turn my face towards the light, che è uscito solo oggi che ne ho venticinque.“ A differenza di Cabeki, Mingle e Barbagallo, non v’è traccia di avanguardia nell’opera di Volpe, il cui sound è piuttosto un sapiente intreccio tra musica popolare mediterranea e jazz. Una rilettura personale e a suo modo onirica: “Ho suonato diversi strumenti del disco, ma non tutti. Il motivo è semplicemente pratico: ogni brano nasce da un tema musicale (melodia e armonia); una volta tracciato l’argomento, cerco degli spunti a livello timbrico per definirne l’ambientazione (‘fisica’ o psicologica), poi penso delle parole che accompagnino questo mood senza sovrastarlo. Solo allora riesco a completare gli arrangiamenti (scenografia e caratteri) scrivendoli su carta, affidandone l’interpretazione a dei musicisti esterni. L’intento cinematografico è sempre voluto, addirittura premeditato. Un brano inizia solo nel momento in cui mi racconta una storia attraverso la musica. Una melodia è fatta di note che altro non sono che una sequenza di eventi, così come lo è una storia. Ora che ci penso, forse tutta l’arte contemporanea è ‘scrittura del movimento’, che sia di immagini o movimenti psicologici, emotivi o gestuali… Non saprei, ci devo riflettere, di sicuro non c’è niente di più cinematografico di una tela di Pollock”.
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UN TRIBUTO PER RILEGGERE
BATTISTI Lo stesso giorno in cui la vedova riesuma le spoglie di Lucio Battisti dal cimitero in cui riposavano - che peccato riparlare di lui per questi motivi -, 1.000 chilometri più a Sud, nel cartellone del Festival delle Serre di Cerisano, un manipolo di musicisti mette in scena Confusione, gioioso tributo al grande cantante di Poggiobustone. La musica di Lucio Battisti non può essere cristallizzata nel suo periodo storico ma è stata incisa nella storia e valica i limiti generazionali.
L’idea era quella di un ponte fra le produzioni più “alternative” del Battisti anni ‘70 e la nuova scena cantautorale italiana. Anima latina, capolavoro del 1974, sembra esser disco di riferimento per molti artisti indipendenti odierni. Da lì è nato un primo spettacolo in Toscana, e adesso arriva quello di Cerisano. Certa musica ha un valore circoscritto al periodo in cui è in voga, dopo di che diventa datata e dimenticata. Altra invece no, fa goal dritto nella porta della Storia una volta per sempre. Attraversa indisturbata decenni e generazioni senza perdere senso. Battisti è anticipatore del cosiddetto “indie”, intendendo una sana attitudine “individualista” prima che “indipendente”. Ha prima assecondato il gusto comune di concepire la canzone per poi intraprendere un percorso di varie fasi, raramente banali. Ci sono tanti Battisti: da spiaggia, d’alta classifica, romantico, tardo-introverso, cervellotico. Poi c’è il Battisti magmatico, progressivo, caotico degli anni 70. In questo vulcano pescano gli autori del tributo dal titolo Confusione. Gli anni di Il mio canto libero, Il nostro caro angelo, Anima latina, ma anche di Io noi tutti e Una donna per amico. Omaggio originale, poco retorico, rispettoso, divertente, a quindici anni dalla 65 65
morte. Si avvicendano gli artisti, e con loro grandi classici e brani più nascosti di un canzoniere maestoso. La Brunori SAS è la resident band: Massimo Palermo (batteria), Stefano Amato (basso e moog), Dario Della Rossa (tastiere), sotto la direzione del bravissimo battistiano doc Mirko Onofrio, sassofonista e arrangiatore del progetto, a cui tocca l’onere di aprire la serata cantando Gli uomini celesti. Alessandro Fiori sfodera un mini-concept con tre pezzi da Amore e non amore (1971): si penetra immediatamente un clima anni 70 col flauto traverso di Onofrio (Una), poi è armonica bluesy (Supermarket) e rock’n’roll (Se la mia pelle vuoi). Nicolò Carnesi è a suo agio con Comunque bella; da suoni tempestosi emerge Il veliero, poi la
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band lo lascia solo per una versione voce & chitarra di Ancora tu (applausi). Comincia in solitaria anche Appino, per proporre un inedito Battisti punk con La collina dei ciliegi, arrampicandosi e inciampando sulle foreste di versi (“ma quante parole ci metteva Mogol?”). Le tre verità alterna drammaticità e vitalismo rock. “Speriamo che Battisti non si
“Omaggio originale, poco retorico, rispettoso, divertente”
Dario Brunori, della Brunori SAS
stia rivoltando nella tomba”, ironizza Appino, alludendo alle tristi recenti vicende sepolcrali. Il mio canto libero riporta il clima dentro la classicità. “Quando musica e miseria diventan cosa sola”, è il turno di Di Martino: Anima latina è elettronica, giunglesca; è la dilatazione la cifra di questa sezione, irrompe il moog in Il nostro caro angelo; con Amarsi un po’ ti accorgi definitivamente di come Battisti faceva sembrare naturali e semplici le discese e le risalite, le cose più ardue e ardite (come tutti i fuoriclasse). Roberto Angelini accenna la melodia mesmerica di Umanamente uomo: il sogno. Quindi, accompagnandosi furiosamente alla pedal steel guitar, tra rumorismo e ambient approda a Insieme a te sto bene, con Carnesi che gli dà una mano a fare groove, per poi terminare il suo set trascinante con l’anima negroide, rock-blues di Dio mio Dario Brunori e Simona Marrazzo no. Dario Brunori e Simona Marrazzo, in versione Johnny Cash & June Carter (loro dicono Albano & Romina, con apprezzabile autoironia), esplorano il Battisti della ballad sofisticata: Perché no, Due mondi, Una donna per amico molto elettrica. Mirko Onofrio torna al microfono per una Sognando e risognando sabbatica. È il turno infine dei Gatti Mèzzi per una sequenza di classiconi: Anna, Anche per te, poi Il tempo di morire tutti insieme come a The Last Waltz, che manco si sta tutti sul palco. Però che bello che è, ricordarlo così, Lucio Battisti.
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THE PILLS: SENZA PELI SULLA LINGUA Ventiquattro puntate e più di due milioni di visualizzazioni complessive su youtube. A Roma, come in tutta Italia, la serie web The Pills è un must. Dietro ai numeri da blockbuster si nascondono tre semplici ragazzi di borgata che hanno letteralmente scalato il parco mediatico: dal web a Deejay-tv. Tra poco debutteranno su Italia 1. Li abbiamo incontrati per voi. Le grida dei bambini che corrono per le vie del Pigneto (quartiere popolare di Roma est, ndr.) sono soffocate dal rombo dei motorini che sfrecciano lungo le strade umide. Luigi posa la sua Peroni su uno dei tanti tavoli
Da sinistra: Luigi, Luca e Matteo
di plastica disseminati qua e là davanti al bar e si accende una sigaretta. Comincia a parlarmi della sua casa, della capitale: “Roma? Una cazzo di giungla. Dal cameriere del ristorante che ti ‘prende per il culo’, alla gente che non ti paga le ore di lavoro: è un campo di formazione immenso, una città a dir poco complessa”. Il sole è nascosto dietro alle nuvole di passaggio e le sue parole sembrano evocare una Los Angeles nostrana, mediterranea. È da questa complessità metropolitana, da una romanità che è “cazzona e malinconica allo stesso tempo” che nasce The Pills. È il 2011 e Luca Vecchi, Matteo Corradini e Luigi di Capua scrivono per Dude Magazine,
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una rivista di cultura di Roma. Una di quelle sere, mentre lavorano al giornale, in un appartamento qualsiasi lungo la via Appia, Luca piazza una telecamera sul tavolo e comincia a riprendere. In poco tempo, ciò che sarebbe dovuto essere “una costola del giornale” diventa un progetto a sé. Ma sarebbe un errore intellettuale parlare di progettualità. Piuttosto, come racconta Luigi: “Non ci siamo mai seduti a tavolino. Abbiamo deciso di fare qualcosa e lo abbiamo fatto, punto e basta”– la tensione della voce è quella di chi esprime un rabbia nascosta;– “tutto nasce da una frustrazione causata dal desiderio del “fare” che si scontra contro una realtà odierna caratterizzata da impieghi e lavori di ‘merda’”. Il ragazzo non ha peli sulla lingua ed è tutt’altro che ipocrita. Luigi racconta l’Italia di oggi, quella che si dispiega sotto agli occhi di tutti.
“Noi siamo antigenerazionali. Prendiamo in giro noi stessi, distruggiamo i nostri valori” C’è chi li ha definiti come fenomeno generazionale. Nulla di più lontano dal vero: “Noi siamo anti-generazionali. Prendiamo in giro noi stessi, distruggiamo i nostri valori. Il modo in cui oggi vengono create e vissute le sottoculture è talmente ridicolo che il solo modo di poterne parlare è distruggerle. Il nostro obiettivo è ridicolizzarci”. Con il suo look e la sua posa da hipster (definizione che lui negherebbe di sicuro) – camicia abbottonata fino al collo, giacchetto scamosciato e gambe accavallate – non si sa
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“ Siamo figli del tutto e del niente, il prodotto di una cultura che offre una quantità di input incredibili” bene se prenderlo sul serio, o meno. Almeno a posteriori però, questi ragazzi sembrano avere le idee chiare sul loro lavoro. Proprio per questo è impossibile dare un’etichetta alla loro arte: “Ci piacciono Moretti e Pozzetto, Giovanna Coscialunga e Jerry Calà, Jim Jarmush tanto quanto Fast&Furious. Assimiliamo qualsiasi cultura: videogiochi, cartoni animati e chi più ne ha, più ne metta. Siamo figli del tutto e del niente, il prodotto di una cultura che offre una quantità di input incredibili: siamo la generazione che ha fagocitato tutto!”, afferma sicuro Luigi, in trance. In un certo senso i The Pills rappresentano un’avanguardia in un momento in cui il cinema italiano “non fa più una lira nemmeno con i cinepanettoni”. Secondo Luigi, “è questo il momento di sperimentare, senza però autocelebrarsi. Le scuole di cinema sono piene di persone che si occupano delle stesse cose da quindici anni e che ignorano la contemporaneità: vige l’imposizione di regole e schemi mentali”. I fatti danno ragione al giovane trio: due anni fa, lo stesso Luigi aveva tentato invano di entrare nel Centro sperimentale di cinematografia di Roma. “Oggi – racconta con tono sarcastico – incontro gli studenti e mi dicono che analizzano le nostre puntate!”. Nonostante le difficoltà incontrate nel trovare uno spazio di espressione, i tre ragazzi “fanno parte di quella categoria di persone che hanno sempre visto gli altri andare all’e-
I tre di The Pills assieme a Mattia, uno dei loro collaboratori, sulla sinistra
stero, o in Erasmus”. “Da quando ci siamo conosciuti (a 17 anni, ndr.), siamo sempre rimasti qua, sepolti a Roma”, racconta. Dal modo in cui trascina la voce, è difficile capire se si consideri un cattivo o un buon esempio per i suoi coetanei. Eppure, grazie a loro, almeno per una volta non siamo costretti a parlare di “cervelli in fuga”. C’è anche chi li ha definiti come dei radical-chic mascherati, ma Luigi nega e, sulla scia della mia insinuazione, si lancia in una critica dell’elitarismo di sinistra: “Siamo fieri di non aver creato un prodotto elitario. Sebbene facciamo citazioni cinematografiche, queste non sono mai un fine in sé; non impediscono di capire le gag. È la cultura di sinistra ad aver creato, dagli anni ‘80 in poi e in contemporanea all’avvento di Fininvest, un mondo di intellettuali separati dal popolo. Noi cerchiamo di riconciliare queste due realtà”. Per avere conferma della
loro innocenza e umiltà, basterebbe farsi un giro nei locali di Roma e chiedere di loro. “Ci becchi alle serate come ci incontravi prima. La notorietà non ti cambia: se sei una testa di cazzo lo rimani; se non sei mai stato il figo della classe, non lo sarai mai”, dice Luigi che confessa di sentirsi addirittura a disagio quando qualcuno gli chiede un autografo. Lui di solito risponde: “Che ci fai con l’autografo? Prendiamoci una birra a questo punto, no?”. Questi ragazzi se ne fregano delle regole da vip: “Noi continuiamo a parlare di droghe e sesso. Se ci beccassi ‘fatti’ o mentre andiamo a trans non ce ne importerebbe nulla. Rientrerebbe nella nostra libertà produttiva”. Benedetta veracità. È vero: i The Pills hanno fagocitato tutto. Rimane solo da augurarsi che loro stessi non diventino carne da macello per i media.
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FESTIVAL INTERNAZIONALE
DEL GIORNALISMO Dibattiti e workshop sull’informazione: più di 200 eventi a ingresso libero e oltre 400 speaker da tutto il mondo. Cinque giorni tra keynote speech, incontri, dibattiti, tavole rotonde, interviste, presentazioni di libri, workshop, proiezioni di documentari, concorsi, premiazioni e mostre. E come sempre protagonisti della manifestazione giornalisti da tutto il mondo. Ritorna a Perugia il Festival Internazionale del Giornalismo, un evento unico nel panorama internazionale, grazie al format: più di 200 eventi con oltre 400 speaker a ingresso libero e aperto a tutti. Cinque giorni per analizzare e dibattere sul giornalismo tradizionale, che comincia pesantemente ad arrancare, e sul terreno del digitale, che non ha ancora saputo trovare una via di uscita alla crisi economica e un’alternativa profittevole al calo delle entrate derivanti da inserzioni e vendite. Il declino degli introiti pubblicitari sulle testate tradizionali e l’influenza della congiuntura economica hanno finito infatti per diventare un mix letale per un intero settore ancora incapace di trovare un’opzione in grado di sostenere iniziative editoriali, tanto più in
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rete, dove per ogni sedici dollari persi sul versante della pubblicità su carta se ne guadagna ancora uno soltanto sul digitale, e dove l’eccesso d’offerta ha finito col rendere meno nitidi i contorni della professionalità e di una adeguata retribuzione. E il trend, ormai stabile, sembra essere ancora ben lontano dall’attestarsi su numeri confortanti. Nello stesso momento, ha cominciato a venire meno la figura del giornale – e del giornalista – come depositario unico dell’informazione, avversato dalla concorrenza di lettori sempre meno ‘passivi’ e di una sostanziale disaffezione della cittadinanza nei confronti delle produzioni giornalistiche, soprattutto nei giovani (solo il 6% di lettori tra i ventenni, secondo una ricerca del Pew Center).
“Perugia si è trasformata in quella che è stata definita ‘la più grande scuola di data-journalism in Europa’”
In questo scenario appare evidente come la rievocazione di un passato che non sembra più in grado di riproporsi, e garantire ancora l’antico lustro alla categoria né la sostenibilità industriale, rischia di suonare “anti-storica”. Né, allo stato attuale, si può celebrare il panorama esistente, governato così com’è dall’incertezza sul futuro della professione, dei modelli di riproducibilità, sulla lenta e inesorabile mutazione dei contenuti – orientati sempre più al mobile, dove però Google e Facebook detengono da soli quasi il 70% delle entrate pubblicitarie alla ricerca di un business model che fatica ancora a imporsi.
che è stata definita “la più grande scuola di data-journalism in Europa”. Il giornalismo dei dati è stato uno dei temi principali della scorsa edizione sia per il numero di panel che per la qualità degli ospiti. Così si è potuto imparare a fare mappe e timeline in maniera veloce, sfruttare al meglio Twitter e Facebook e utilizzare Excel per fare
L’appuntamento del Festival Internazionale del Giornalismo è quindi un momento di scambio e dibattito sullo scenario attuale, un punto sulla situazione in questo passaggio decisivo. Per questo nella scorsa edizione sono stati presenti decine di pionieri dell’informazione digitale. Perugia si è trasformata in quella
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“L’evento si terrà grazie alla raccolta di fondi via internet e all’intervento di sponsor privati” giornalismo insieme a Steve Doig (uno dei pionieri del computer-assisted reporting). Spazio anche per l’altra grande promessa tecnologica del momento: i Big Data, sia per la loro utilità durante le emergenze naturali, che per i risvolti in politica. Ed è in questo contesto che entra in gioco uno degli ospiti più attesi: Harper Reed, Chief Technology Officer (Cto) di Obama for America. Rivoluzione digitale, quindi, importante leva di rinnovamento per il mondo dell’informazione, come dimostrano il moltiplicarsi degli strumenti di denuncia dal basso, la sperimentazione di nuovi strumenti per verificare le dichiarazioni dei politici e il cosiddetto
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Steve Doig
fact-checking, espressione inglese che significa “verifica dei fatti”, che consente di avere una risposta ai nostri dubbi attivando un processo di collaborazione civica in Rete.
Ampio spazio al dibattito su come finanziare il giornalismo di qualità e i modelli di business emergenti, a cominciare dai paywall (una sorta di “muro” che scatta dopo la lettura gratuita di venti articoli al mese, oltre i quali le notizie andranno pagate). Un tema che riprende il motto dell’edizione 2013 del Festival No paywall here! atto a comunicare la caratteristica che rende unica la manifestazione, considerando che altri eventi internazionali, organizzati con speaker di alto profilo, prevedono sempre un registration fee anche abbastanza elevato e per molte persone ‘inaccessibile’. Da qui la scelta di rendere l’ingresso e la partecipazione alle cinque giornate della kermesse totalmente gratuite. Gli organizzatori avevano annunciato di avere annullato la manifestazione per la scarsità di finanziamenti pubblici. L’evento si terrà grazie alla raccolta di fondi via internet e all’intervento di sponsor privati. L’ideatrice Arianna Ciccone: “Ci ha travolto un’ondata vera di sostegno, di personalità e cittadini comuni”
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INTERVISTA MOLESTA
A ZEROCALCARE Populismo, vocazioni generazionali, fumettologia, socialmania. Passando per propositi costruttivi e non, dichiarazioni sensazionalistiche e amici che quando compaiono nei suoi fumetti poi ci danno dentro…
“Ciao Zero, siamo tuoi fan da molti lunedì…” Con questa sussurrata e imbranata dichiarazione facciamo la conoscenza di Zerocalcare. Ci presentiamo (siamo tutti timidi), ci accomodiamo (siamo molto pigri) e ci parliamo (risate nervose). Si comincia dall’inizio, ovviamente, dal come mai ti chiami così e quand’è che hai iniziato a fare sul serio. Galeotto fu il forum che richiedeva un nick per accedere e commentare, e tempestivo fu il soccorso di ZeroCal, il detersivo noto per la sua efficacia protettiva che in quel momento splendeva raggiante in televisione. Da allora, Michele Rech è Zerocalcare, ventinovenne fumettista romano che per un sacco di tempo ha fatto soprattutto fumettacci sulle fanzine fotocopiate e locandine per concerti punk hardcore. Tra le attività che è riuscito a far esplodere - ed è successo tutto tra il 2011 e il 2012 – ci sono, in ordine di apparizione: il suo primo libro, La profezia dell’armadillo, autoprodotto da Makkox; il suo seguitissimo blog a fumetti, che racconta una “storiella” un lunedì sì e uno no; il suo secondo libro, Un polpo alla
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“Sinceramente l’idea di essere il portavoce della generazione mi fa accapponare la pelle!”
gola, edito da Bao Publishing. Ora, se vi piace la gente che non si prende troppo sul serio, che fa dell’ironia il sale dell’esistenza quotidiana, che disegna, e molto bene, questa esistenza quotidiana, che ha capito che il lunedì è un giorno mostruoso da affrontare con quell’unica cosa che ci salverà la vita, ossia l’umorismo, seguite Zerocalcare con la stessa costanza e passione rancorosa con cui lui segue l’umanità. Non gli abbiamo dato neanche il tempo di respirare che si è ritrovato con una penna in mano, mille occhi ansiolitici addosso e una vaghissima indicazione: “disegna quello che vuoi”. Ovviamente dopo le domande.
Parlando dei tuoi fumetti, tu dici che sono sul “populismo del rancore quotidiano”, che sono generazionali, ecco me la spieghi questa? M’impiccerò una cifra, ve lo dico...il racconto sulla generazione non è una cosa che cerco
di fare, se succede sono contento, però sinceramente l’idea di essere il “portavoce della generazione” mi fa accapponare la pelle! Io li ho definiti “populismo del rancore” perché in qualche modo mi sono reso conto che le cose che mi riesce più facile raccontare sono quelle che fanno rosicare; cioè se dovessi trovare altri temi divertenti da raccontare li andrei a cercare con la lanternina, mentre io sono una persona super rosicona, quindi mi trovo molto meglio a raccontare questi temi. Nel raccontarli mi rendo conto che c’è una forte dose di demagogia, e di questo a volte mi vergogno anche un po’! Quello più populista in assoluto è quello su Trenitalia, in cui racconto l’esperienza del treno dal cercare di fare il biglietto online al viaggio in sé, che è una cosa in cui tutti gli italiani si ritrovano.
Tu aprendo il blog ti sei impegnato a pubblicare una storia ogni lunedì, però dici anche di essere una persona molto incostante, quindi mi chiedo, come sta andando?
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Allora, innanzitutto io dico “maledetto lunedì”, infatti io quando ho deciso di fare il fumettista era anche un po’ per sfuggire agli schemi imposti del lavoro, solo che poi mi sono accorto che mi ci sono imprigionato da solo, e quindi ho iniziato a usare la parola “maledetto”. In realtà questo è l’unico modo per dare a questa roba una forma e una continuità, e per farne un mestiere, che non è il blog (che fa più che altro da traino), ma tutto quello che ci sta dietro. Ogni lunedì non ci sto riuscendo, in generale ogni due, ma quando non ci riesco tento
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comunque di fare una striscia di scuse. Comunque questa cosa per me è la morte, inizio sempre a farla il sabato pomeriggio e finisco la domenica notte, quindi me la vivo anche con l’ansia!
Infatti mi chiedevo, quando la finisci cosa pensi? Ti piace sempre, ti fa schifo...? No, non mi piace sempre, anzi io ho sempre un rapporto inverso al gradimento del pubblico, più penso che una striscia faccia
schifo, perché è troppo populista eccetera, più piace, mentre quando la trovo fighissima perché magari ho fatto mille riferimenti e mi sono impegnato non se la incula nessuno.
Però ho notato che appena pubblichi una storia, anche in mezzo alla notte, c’è un sacco di gente che commenta subito. Sì, sempre, fanno anche a gara a chi commenta per primo o a chi mi fa i complimenti più grossi ma la cosa più buffa è che ognuno racconta la sua esperienza riguardo al tema che ho discusso, come quando ho scritto quella di come si infila il piumone: c’erano cento persone che hanno raccontato di come infilano loro il piumone!
“Non sono certo Robbie Williams, ho successo ma nel ristretto campo di sfigati dei fumettisti” Ma non ti sei mai chiesto come mai hai così tanto successo? Perché piaci tanto alla gente? Beh innanzitutto la cosa va contestualizzata, cioè non sono certo Robbie Williams; ho successo ma nel ristretto campo di sfigati dei fumettisti! Comunque sì me lo sono chiesto, e credo che la gente al giorno d’oggi
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abbia una grande sete di storie su se stessi, cosa che dal punto di vista fumettistico al giorno d’oggi manca. Inoltre credo che questo sistema abbia funzionato molto bene sui social network, perché le mie storie non vengono lette nel senso tradizionale del termine ma vengono condivise sulle varie pagine di facebook, o vengono postate singolarmente dalle persone a cui fa ridere quella determinata storia.
Zerocalcare”. Come ti senti quando qualcuno ti chiama compagno? Non provo alcun disagio perché in fondo quella è la mia tribù, la mia gente.
Beh ma un conto è sentirsi di sinistra e un conto utilizzare ancora certe parole. Tu chiameresti camerata un camerata?
Nella parte inedita in “Ogni maledetto lunedì su due” sei alle prese con un naufragio. È chiaramente una metafora: ci sono stati eventi o considerazioni particolari che ti hanno spinto a scegliere questa ambientazione? Nella storia inedita dipingo la mia vita, da quando sono uscito dal liceo ad oggi, come un lungo galleggiamento in mezzo al mare, senza punti di riferimento o direzione. Una sorta di lunga attesa di non si sa cosa. In realtà non ho dovuto costruire nulla, è una sensazione estremamente precisa che ho vissuto per dieci anni, galleggiando nell’incertezza, senza sbocchi lavorativi, prospettive a lungo termine o appigli. Ho avuto voglia di raccontarlo dopo aver capito che l’insieme delle storie scanzonate del blog restituivano un’immagine parziale di quella che era la mia vita. Mi sembrava giusto, raccogliendo tutte quelle storie, fornire anche un contesto in cui quelle vicende si snodano.
Mi torna in mente la copertina di un libro sulla lotta NoTav in Val di Susa in cui è stata aggiunta una tua tavola, salutata sul web come il contributo del “Compagno
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#SaveTheArctic
#FreeTheArctic30
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