2 - A Nord di Trento a Sud di Bolzano - Nördlich von Trient Südlich von Bozen

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A NORD DI TRENTO A SUD DI BOLZANO La vite e il paesaggio

NÖRDLICH VON TRIENT SÜDLICH VON BOZEN Wein und Landschaft



> Dalvit, Colline S. Michele all’Adige / Hßgel bei S. Michele all'Adige


A NORD DI TRENTO A SUD DI BOLZANO La vite e il paesaggio

NÖRDLICH VON TRIENT SÜDLICH VON BOZEN Wein und Landschaft

Un'idea di / Ein Projekt von

Ambiente Trentino

www.ambientetrentino.it Istituto Nazionale di Urbanistica Nationales Institut für Urbanistik Trentino | Alto Adige-Südtirol

Indagine fotografica a cura di / Bildrecherche Luca Chistè Fotografie di / Fotografien Gianni Bodini Giorgio Dalvit Fabio Maione Stefan Stecher Catalogo a cura di / Katalog Luca Paolazzi, Tommaso Iori, Daniele Carli

con il sostegno finanziario di / mit finanzieller Unterstützung durch

Testi di / Texte Tatiana Andreatta, Angela Alaimo, Elena Dai Prà, Marius De Biasi, Giovanna Ulrici, Bruno Zanon Postfazione / Nachwort Aldo Bonomi Traduzioni / Übersetzungen a cura della Regione Trentino Alto-Adige/Südtirol herausgegeben von der Region Trentino Alto-Adige/Südtirol

con il patrocinio di / Unter der Schirmherrschaft von

Grafica e comunicazione / Grafische Gestaltung und Kommunikation Do.it snc Stampa / Druck Lineagrafica Bertelli Editori in collaborazione con / In Zusammenarbeit mit © 2013 Tutti i diritti sono riservati / Alle Rechte vorbehalten Edizioni / Verlag Ambiente Trentino piazza Garzetti 16, Trento

ISBN 9788890814914


A NORD DI TRENTO A SUD DI BOLZANO NÖRDLICH VON TRIENT SÜDLICH VON BOZEN La vite e il paesaggio Wein und Landschaft

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LA VITE E IL PAESAGGIO / WEIN UND LANDSCHAFT Imperial Wines

Luca Paolazzi, Tommaso Iori, Daniele Carli

sospeso tra il radicamento e l’ubiquitarietà.

Il paesaggio, sosteneva Enrico Turri, “racconta in due modi diversi la storia degli uomini”. Da un lato il racconto “del vivere storico degli individui e dei gruppi sociali in un certo ambito territoriale, visto come paesaggio, trasformato in paesaggio”; dall’altro, il racconto della “sua formazione, del suo costituirsi attraverso il tempo”, intendendo in questo secondo caso il paesaggio come una “successione di momenti e modi diversi delle società umane di rapportarsi con il territorio che le ospita, di viverlo e trasformarlo secondo le proprie esigenze vitali”1. “A nord di Trento a sud di Bolzano” nasce da qui, dalla consapevolezza che il paesaggio è racconto, crocevia di storie individuali nel loro farsi narrazione collettiva, spazio fisico e culturale che cambia con lo scorrere del tempo, senza soluzione di continuità, espressione dinamica dell’identità di un territorio e di coloro che lo abitano. “In questo senso possiamo pensare che il paesaggio sia come un deposito, un magazzino di storie avvenute e di fatti che il tempo fa precipitare per effetto del procedere storico che, inesorabile, come un processo chimico, rinnova via via le situazioni territoriali”2. Capire il paesaggio significa indagare noi stessi nel nostro perenne sostare sul confine tra ciò che non è più e quel che non è ancora. Lo stesso confine che segna il territorio compreso fra Trento e Bolzano, “apparentemente spazio di mezzo, luogo compresso fra due capoluoghi, corridoio tra la pianura e l’Europa”, ma in realtà “microcosmo originale e complicato, frontiera nascosta fatta di frammenti da decifrare e di memorie costruite attorno all’incontro tra la civiltà latina e quella germanica.”3 Un confine sempre più labile e meno rappresentativo di questo territorio continuo, ponte sospeso tra l’Europa ed il Mediterraneo, che trova nella complessità delle proprie differenze il valore della sua unicità. Dopo l’analisi delle forme urbanistiche ed architettoniche della prima edizione, in questa seconda abbiamo deciso di volgere lo sguardo all’elemento che più di tutti caratterizza l’identità di questo territorio: la vite. La vite come unità elementare della percezione, forma paesaggistica, fattore produttivo, descrittore territoriale. Ma soprattutto, la vite come elemento

Attraverso la fotografia abbiamo cercato di costruire il racconto del paesaggio viticolo della Valle dell’Adige, indagandone i segni del tempo, le forme dei luoghi e le tracce del lavoro umano lasciate da chi, con costante reciprocità, col suo lavoro trasforma il paesaggio al contempo interiorizzandolo come proprio spazio mentale. Il paesaggio viticolo è dialogo tra passato e presente, nell’eterna tensione del mondo contadino tra tradizione e innovazione. Di fronte alle esigenze della produttività e della conservazione dei caratteri originali del paesaggio, il territorio si modifica e offre di sé immagini diverse. In mezzo intravediamo i segni di quel “tradimento fedele” nel quale i contadini distinguono ciò che va abbandonato e ciò che invece è utile e necessario trasmettere. Il mondo contadino incessante-

mente trasforma e conserva, conciliando sé stesso col tempo che passa. Sono tanti gli elementi attraverso i quali si può decifrare il paesaggio viticolo: le geometrie delle sistemazioni della vite, i metodi di allevamento, le linee della viabilità interpoderale, le forme e le collocazioni degli edifici rurali, il suo rapporto con gli spazi antropizzati, siano essi urbani, industriali o commerciali. La storia dell’agricoltura è storia di lavoro e fatica. Il rapporto tra l’uomo e la vite interpreta e narra la tradizione come nessun’altra attività umana: nella stagionalità del lavoro, meccanizzato o manuale, le conoscenze e i saperi tradizionali si fanno tecnica e la tecnica conforma il paesaggio. Nella certezza che solo “l’immobilismo storico lascia povero di elementi il paesaggio”4. www.imperialwines.it

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E. Turri, “Il paesaggio racconta”, 2000, www.ocs.polito.it/biblioteca/articoli/turri_1.pdf idem 3 G. Ulrici, “Un occhio critico da Trento a Bolzano”, Corriere del Trentino, 23 novembre 2012 4 E. Turri, “Il paesaggio racconta”, 2000, www.ocs.polito.it/biblioteca/articoli/turri_1.pdf 2

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> Bodini, Magrè / Margreid


Die Landschaft, behauptete Enrico Turri, erzählt die menschliche Geschichte auf zwei verschiedene Weisen: Zum einen widerspiegelt sie den Werdegang der Menschen und der Gesellschaft in einem bestimmten Gebiet, zum anderen veranschaulicht sie ihre eigene Entstehung und Entwicklung. In dieser Hinsicht zeigt die Landschaft als Aufeinanderfolge historischer Phasen den Umgang der menschlichen Gesellschaften mit dem eigenen Lebensraum, die Art, wie diese die Umwelt verwandeln und den eigenen Bedürfnissen anpassen1. „Nördlich von Trient und südlich von Bozen“ entsteht aus diesem Bewusstsein der Landschaft als Erzählung, als Kreuzungspunkt individueller Geschichten, die sich zu kollektiver Narrative entwickeln und einen sich ständig verändernden Lebens- und Kulturraum bilden. Es ist der dynamische Ausdruck der Identität eines Gebietes und der Menschen, die es bewohnen. In diesem Sinne ist die Landschaft als Überlagerung von historischen Geschehnissen und Gegebenheiten zu sehen, die wie in einem chemischen Vorgang das Gebiet ununterbrochen umgestalten2. Die Landschaft verstehen bedeutet, uns selbst in unserem immerwährenden Innehalten an der Grenze zwischen dem Vergangenen und dem noch nicht eingetretenen Zukünftigen zu erforschen. Eine solche Grenze verläuft auch zwischen Trient und Bozen. Es handelt sich nicht um ein reines Durchgangsgebiet zwischen der Po-Ebene und Europa, sondern um einen originellen und komplizierten Mikrokosmos, wo die Spuren des Zusammentreffens der lateinischen und germanischen Kultur zu erkennen sind3. Eine zunehmend verschwimmende Grenze durch ein in seiner Vielfalt einzigartiges Gebiet, das eine Brücke zwischen Europa und dem Mittelmeerraum darstellt. Die erste Veröffentlichung befasste sich mit der Analyse der urbanistischen und architektonischen Formen. In der zweiten Ausgabe möchten wir einen Blick auf einen Aspekt werfen, der die Identität dieses Territoriums vornehmlich charakterisiert: der Weinbau. Dadurch wird die Wahrnehmung und Nutzung der Landschaft geprägt: Der Weinstock symbolisiert zugleich die Verwurzelung und die Allgegenwärtigkeit.

in unterschiedlichen Bildern darbietet. Wir bemerken die Spuren dieses „treuen Betrugs“, den die Bauern begehen, wenn sie entscheiden, wovon sie sich trennen müssen und was hingegen zu überliefern ist. Die bäuerliche Welt verwandelt und bewahrt ständig und söhnt sich selbst mit der Zeit aus, die verstreicht. Es gibt viele Aspekte, die uns dabei helfen, die Weinlandschaft zu entschlüsseln: die Geometrie der Weingärten, die Methoden der Reberziehung, der Verlauf der Feldwege, die Formen und die Anordnung der landwirtschaftlichen Gebäude, ihre Beziehung zu Ansiedlungen, Industrie- oder Handelsflächen. Die Geschichte der Landwirtschaft ist die Geschichte von Arbeit und Mühe. Die Relation zwischen Mensch und Rebe beruht auf einer sich stets weiterentwickelnden Tradition: in der saisongebundenen, mechanisierten oder manuellen Arbeit wird das überlieferte Wissen zur Technik und die Technik formt die Landschaft. Denn Starrheit und Immobilismus sind sicherlich keine Bereicherung für die Landschaft4. www.imperialwines.it

Wir haben versucht, die Geschichte der Etschtaler Weinlandschaft in Fotografien zu erzählen. Kernpunkte sind die Zeichen der Zeit, die Formen des Geländes und die Spuren der Arbeit von Menschen, die mit ihrem Tun die Landschaft prägen und sie gleichzeitig als eigenen geistigen Raum in sich aufnehmen. Die Weinlandschaft steht im Zeichen des Dialogs zwischen Vergangenheit und Gegenwart, der sich in der bäuerlichen Welt im Zwiespalt zwischen Tradition und Innovation äußert. Die Produktionserfordernisse einerseits und das Bestreben zur Wahrung des ursprünglichen Charakters andererseits führen zu einem ständigen Wandel der Landschaft, die sich uns 6

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E. Turri, “Il paesaggio racconta”, 2000, http://www.ocs.polito.it/biblioteca/articoli/turri_1.pdf ebenda 3 G. Ulrici, “Un occhio critico da Trento a Bolzano”, Corriere del Trentino, 23 novembre 2012 4 E. Turri, “Il paesaggio racconta”, 2000, www.ocs.polito.it/biblioteca/articoli/turri_1.pdf 2


I FOTOGRAFI E L’INDAGINE / FOTOGRAFEN UND FORSCHUNG DAL METODO INDUTTIVO A QUELLO DEDUTTIVO

VON DER INDUKTIVEN BIS ZU DER DEDUKTIVEN METHODE

Luca Chistè

In questa “circolarità del valore”, elemento strategico e permeante del progetto rimane comunque l’immagine fotografica. Sono molti i motivi di interesse di questo nuovo percorso visivo legato al territorio compreso fra le periferie nord della città di Trento e quelle che si estendo a sud di Bolzano. Per diverse ed importanti ragioni: in primo luogo perché questo progetto offre, nella prospettiva di una maggiore specializzazione di analisi rispetto all’omologa indagine della prima ricerca – i paesaggi di un’agricoltura messa a dimora per la produzione del vino e delle sue declinazioni legate al processo produttivo – l’estensione di una “catalogazione” ragionata del territorio che, per certi versi, inizia ad avere un respiro ampio, strutturato, longitudinale. Si tratta di un aspetto che occorre considerare non solo dal punto di vista dell’azione fotografica in sé e per sé, ma come valore storico, poiché, grazie alla somma dei diversi elementi che compongono questo quadro di ricerca visiva, ci si sta muovendo in uno spazio che dilata i confini dell’evento episodico, per divenire importante punto di riferimento nella disciplina fotografica legata alla comprensione del territorio, delle sue specificità e delle dinamiche che lo connotano. Un valore importante sotto il profilo progettuale, metodologico ed operativo, poiché, se a queste ricerche ne saranno aggiunte altre, in qualche anno di lavoro sarà creato un vero e proprio “panel” longitudinale di studio territoriale basato sulla fotografia. Un altro elemento di interesse riguarda il fatto che in ciascuno dei due progetti sin qui approcciati, è stata garantita agli autori, ancorché nell’ideazione di specifiche linee guida di ricerca, una notevole libertà di azione, volta a salvaguardare, sotto il profilo espressivo, la soggettività delle sguardo di cui ciascun fotografo è portatore. Il terzo elemento di interesse, a cui molti altri se ne potrebbero aggiungere, deriva dall’idea che le ricerche per immagini funzionano bene se esse si accompagnano con un approccio multidisciplinare, capace di comprendere un’estesa pluralità di attori e istituzioni: urbanisti, architetti, agronomi, esperti di settore delle diverse realtà produttive, università ed enti territoriali. Una prospettiva che offre alla fotografia piani di lettura articolati e che “scambia valore”, per generare, a sua volta, altre ipotesi di ricerca visiva derivanti dagli studi specialistici di ciascun settore.

Per questa seconda edizione del progetto sono stati chiamati quattro fotografi, diversi per territorio di provenienza (due per la provincia di Trento e due per quella di Bolzano) e portatori, ciascuno, di una propria cifra artistica ed interpretativa. Gianni Bodini, Giorgio Dalvit, Fabio Maione e Stefan Stecher, hanno operato la loro indagine non con l’assegnazione di uno specifico ed individuale tema, ma con l’idea di poter lavorare, contemporaneamente, su un’unica linea di azione tematica, declinata in alcuni fondamentali capisaldi che, muovendo dall’interpretazione delle forme del territorio vitivinicolo, giungesse fino alle inevitabili “contaminazioni” con i confini urbani delle città, ne indagasse l’intima essenza sotto il profilo dell’identità culturale (la restituzioni di alcuni peculiari luoghi di culto, legati alla religiosità popolare presenti nelle campagne) per giungere alla descrizione, figlia di una sintesi efficace, del processo produttivo del vino. Una ricerca basata sul principio deduttivo versus quello induttivo: muovere da un piano di ricerca entro cui i singoli sguardi

potessero muoversi trasversalmente, piuttosto che, costruire, da singole ricerche fotografiche per autore, una mostra nel suo complesso. Un approccio per certi aspetti inedito, la cui ricchezza è evidente nel lavoro di questa rassegna: sono state moltissime le immagini, tutte di notevole qualità tecnica ed espressiva, prodotte in relazione alle macro aree tematiche individuate dal piano generale di ricerca. Immagini portatrici di una competenza dello sguardo che dimostra quanto articolato, duttile e affascinante sia il territorio compreso fra due province i cui confini sono destinati a dissolversi, l’uno nell’altro, grazie all’opera dell’uomo e da come egli organizza, disegna e gestisce lo spazio agricolo e quello antropico. Un unico grande respiro, che restituisce con chiarezza, alla nostra percezione, la morfologia dei luoghi e di come appaiano determinanti, per la loro comprensione, i sistemi culturali e quelli produttivi di chi lo abita e se ne prende cura. Allo sguardo dei quattro autori e al valore del loro impegno, è necessario tributare il nostro più sincero ringraziamento.

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Es sind viele die Interessen, die diese neue visuelle Fahrt durch das Gebiet zwischen dem nördlichen Stadtrand Trients und der südlichen Peripherie Bozens erregt. Aus vielen und wichtigen Gründen: zunächst, weil dieses Projekt eine durchdachte “Katalogisierung” des Gebietes zeigt, die in gewisser Hinsicht einen strukturierten und längsgerichten Weitblick hat. Es geht um die Perspektive einer grösseren analytischen Spezialisierung im Vergleich zu der analogen Untersuchung der ersten Forschung – die Landschaften einer Landwirtschaft, die an den Herstellungsprozess Weins angepflanzt ist. Das ist ein Aspekt, dass man nicht nur in der Hinsicht des fotografischen Aktes an und für sich gelten soll, sondern auch als geschichtliches Wert. Dank der Gesamtheit verschiedener Elementen, die dieses visuelle Forschungsbild bestehen, bewegt man sich in einen Raum, der die Grenzen eines episodischen Ereignisses verbreitet, um wichtiger Bezugspunkt der Fotografie zu werden. Eine Fotografie, die mit dem Verständniss den Eigenschaften und den Entwicklungen eines Gebietes tief verbunden ist. Ein wichtiges Wert unter dem Gesichtspunkt der Struktur, der Methode und der Verwirklichung des Projekts, denn falls neue Forschungen noch hinzu kämen, wird es in ein paar Jahren ein richtiges längsgerichtes “Panel” des Landsstudium durch die Fotografie sich entstehen. Interessant ist der Tat, dass eine grösse Aktionsfreiheit den Fotografen zu den beiden Projekten garantiert wurde. Eine Freiheit in der Planung von bestimmten Forschungsplanen, die unter dem Gesichtspunkt der Audrucksfähigkeit auf die Subjektivität jedes Fotografen achtet. Ein dritte interessantes Aspekt, dem noch viele hinzufügen werden konnten, stammt aus der Idee, dass die Untersuchungen durch Bilder nur zusammen mit einem multidisziplinären Ansatz gut funktionieren. Dieser multidisziplinäre Ansatz soll fähig sein, eine erweitere Vielfalt von Hauptpersonen und Institutionen, das heisst Stadtplaner, Architekten, Agronomen, Fachberater der unterschiedlichen Herstellungswirklichkeiten, Universitäten und Landeseinrichtungen zu vereinigen. Eine Perspektive, die der Fotografie gegliederte Lesenplanen bietet, um andere Hypothese der visuellen Forschung aus fachmännischen Studien jedes Sektors abwechselnd zu entwickeln. Im diesen “Kreislauf des Wertes” bleibt die fotografische Darstellung als strategischer und ständiger Aspekt des Projekts. Für diese zweite Ausgabe des Projekts wurden vier Fotografen berufen, unterschiedlicher Herkunft (zwei für die Provinz Trient und zwei für die Provinz Bozen), unterschiedlicher künstlerischen Eigenschaft und unterschiedlicher Interpretation. Gianni Bodini, Giorgio Dalvit, Fabio Maione und Stefan Stecher, haben ihre Forschung ohne Vergabe eines speziellen und individuellen Themas geführt, mit der Ideee einer einzigen thematischen Linien-Aktion gleichzeitig folgen zu können. Eine Aktion auf einige wesentliche Angelpunkten gegründet, die mit der Interpretation der Formen des Gebietes

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(Weinbau und Weinerzeugung) anfängt und mit einer unvermeidbaren “Verseuchung” der Stadtgrenzen fortgeht. Damit man das innere Wesen der Städten unter dem Gesichtspunkt der kulturellen Identität (die Rückgabe mancher Kultstätten, die mit der Volksreligiosität auf dem Land verbunden ist), erforschen kann, um die Beschreibung des Weinherstellung zu erreichen. Das ist eine Forschung auf den deduktiven Prinzip versus den induktiven begründet: man bewegt sich aus einem Forschungsplan in dem die einzelne Blicke sich transversal bewegen konnten, statt eine Ausstellung im Grossen und Ganzen mit einzelnen Forschungen aufzubauen. Eine neue Herangehensweise, deren Wert in dieser Austellung deutlich ist: es waren viele die Bilder, alle einer bemerkenswerten ausdrucksvollen Qualität, die in Bezug auf die bestimmten Makrogebiet des allgemeinen Forschungsplan gemacht wurden. Bilder, die eine bestimmte Kompetenz auf dem Blick beweisen, und zeigen wie gut durchgedacht, fexibel und faszinierend das Gebiet zwischen den zwei Provinzen ist, deren Grenzen sich zusammenzuschließen werden, dank der Aktion des Menschen, seiner Organisation und Leitung des ländlichen und menschlichen Raums. Ein einziger Atem, der klar unserer Wahrnehmungsvermögen die Geomorphologie der Orten wiedergibt. Um diese Orten besser zu verstehen, sind die kulturelle und die produktiven Systeme entscheidend. Bei den vier Autoren, ihrem Blick und ihrem Eifer soll man sich richtig ehrlich bedanken.


LE FORME DEL PAESAGGIO VITIVINICOLO DELLA VALLE DELL’ADIGE / DIE FORMEN DER WEINLANDSCHAFT IM ETSCHTAL Angela Alaimo, Elena Dai Prà

Il paesaggio è uno scrigno di segreti per chi lo sa guardare. Nell’immagine sincretica che rimanda all’osservatore è possibile cogliere i segni delle territorializzazioni succedutesi nel tempo, insieme ai progetti che lo stanno trasformando. Tra continuità, discontinuità e trasformazioni, il paesaggio rivela la sua natura mutevole e cangiante, la dimensione dinamica degli spazi abitati e trasformati dall’uomo. Come direbbe Denis Cosgrove, il paesaggio è un prodotto sociale che rimanda ad una precisa ideologia del mondo. Vi ritroviamo il risultato di espressioni socio-culturali che sono riuscite ad affermarsi, elementi persistenti in abbandono, diversi modi di intendere la relazione uomo e ambiente. Attraverso quella che per molti resta “una bella veduta”, possiamo leggere il nomos della terra (Schmitt, 1991) che lo ha creato. Per questo nel paesaggio si intrecciano le dimensioni che strutturano il nostro stare insieme; lì prendono forma l’identità dei popoli che lo hanno abitato, i segni del lavoro dell’uomo che ha piegato la terra alle proprie esigenze produttive, ma anche i sogni e gli ideali che hanno guidato le società che si sono avvicendate. Il paesaggio come bene comune e risorsa da preservare per le generazioni future è un’acquisizione relativamente recente; nasce nel momento in cui si è persa l’ancestrale relazione tra l’uomo e ambiente, quando i disastri di progettualità miopi hanno portato alla perdita della diversità ambientale e culturale, distruggendo l’armonia degli elementi paesaggistici che ne fondano i principi di bellezza e di sostenibilità. La Convenzione Europea del Paesaggio, firmata a Firenze il 20 ottobre del 2000, è sicuramente una delle risposte più decise a questa situazione e sancisce il concetto, oggi collettivamente condiviso, che il paesaggio costituisce la cornice fondamentale entro cui si colloca il patrimonio culturale e naturale d’Europa, che deve quindi essere preservata. Nel percorso che stiamo per intraprendere analizzeremo le componenti fondamentali del paesaggio vitivinicolo della striscia di territorio che separa il Trentino dall’Alto Adige, cercando di comprendere quali elementi lo rendono unico. È impossibile prescindere dalla dimensione che maggiormente segna quest’area di transito: il suo essere frontiera. La frontiera non è il

confine, non si esaurisce nella linea di demarcazione politica tra diverse giurisdizioni. La frontiera è una fascia territoriale dai contorni sfumati che sarebbe forse più appropriato rappresentare attraverso la tecnica pittorica dello sfumato, tanto utilizzata dai cartografi antichi che custodivano il senso poetico dello spazio, più che quello metrico, oggi dominante. Proprio loro, realizzando carte utili per le esigenze del proprio tempo, non potevano prescindere dal dare anche forma artistica alla dimensione del paesaggio, alla sua bellezza.

Osservando il paesaggio della Valle dell’Adige si colgono, nel fondovalle e lungo i versanti, i segni della fatica dell’uomo, volta alla creazione di spazi agricoli nell’opera di terrazzamento dei pendii e in quella di protezione e sistemazione idraulica per il contenimento dell’irruenza delle acque nelle aree pianeggianti. In questo paesaggio, i territori vitivinicoli rappresentano indubbiamente uno tra i segni più forti, che possiamo considerare come “iconema” contemporaneo (Turri, 1998), tratto distintivo e caratteristico di questa realtà territoriale.

L’area di frontiera di cui ci occupiamo unisce e separa due mondi culturali distinti che hanno lasciato i segni dei loro diversi progetti territoriali. Questi si trovano intrecciati e frapposti, perché nei territori di frontiera i segni del paesaggio nascono dall’unione più che dall’artificiosa separazione di contesti contigui che proprio dalla vicinanza, dallo scambio, dai continui attraversamenti, traggono forza e peculiarità.

In Trentino la grande varietà di profili climatici (dal submediterraneo, al continentale, all’alpino), coniugandosi alla diversità geologica dei suoli (rocce cristalline e rocce moreniche e arenarie, derivanti in gran parte dalla disgregazione e dal deposito gravitazionale delle rocce dolomitiche), offre molteplici possibilità alla coltivazione della vite e alla produzione enologica. Proprio per questo, la vite rappresenta una delle componenti più particolari del suo paesaggio.

L’attività agricola nelle zone alpine ha da sempre dovuto affrontare grandi sfide ambientali per conquistare spazi coltivabili: nelle aree pianeggianti vincendo una dura e impari lotta contro le acque, mentre nei terreni più acclivi gareggiando col bosco.

La coltura della vite assume svariate forme, in stretta relazione alle caratteristiche orografiche e climatiche dell’ambiente di accoglienza. Questa estrema adattabilità, unita alla plasticità vegetativa, ne ha con-

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sentito la diffusione anche in condizioni pedoclimatiche critiche, portando alcuni studiosi a definirla come “pianta colonizzatrice per eccellenza, già manifesta in altre epoche storiche” (Cusimano, 1990, p. 34). I fattori che ne influenzano l’allevamento sono profondamente legati all’andamento morfologico del territorio e al clima. L’uomo tenta di armonizzare questi diversi vincoli, trasformandoli in possibilità, creando così specifici terroir, espressione dell’imprescindibile relazione che il vino ha non solo con la terra, ma anche con la comunità che lo produce. Proprio l’intreccio tra le diverse componenti ambientali del terreno (esposizione al sole, profilo, suolo, valutazione dell’idoneità) e del clima (vento, umidità e temperatura) e colturali (scelte di particolari sistemi di allevamento, potatura e concimazione), contribuisce a creare gli elementi di unicità e specificità del paesaggio vitivinicolo. I paesaggi vitivinicoli dell’Italia del Nord nascono seguendo l’impostazione etrusco-romana che prevede l’utilizzo di viti alte e molto produttive dotate di un sostegno vivo (strutture alberate) o a secco (le pergole). La forma di allevamento prevalente in Trentino è sicuramente la tradizionale “pergola trentina” che rappresenta, secondo i dati 2010 della Camera di Commercio di Trento, circa il 78% nella variante semplice ad un’unica ala o in quella doppia a due ali opposte tra loro. Di recente, troviamo anche l’introduzione di forme di allevamento a parete verticale, come il sistema a Guyot e a spalliera: anche se questi ultimi rappresentano, oggi, solo il 22% della superficie coltivata. Anche la scelta di vitigni prevalenti è legata alle condizioni orografiche e climatiche. In climi freddi vengono infatti scelte uve a maturazione precoce, mentre la presenza di determinati sistemi morfologici (montagne, foreste, laghi e fiumi) garantisce un’importante azione termoregolatrice capace di proteggere, ad esempio, le vigne da venti freddi d’inverno o di garantire l’umidità durante la stagione più calda. Nel paesaggio vitivinicolo della Valle dell’Adige coesistono sistemi viticoli estremamente diversificati le cui specificità sono ricollegabili all’andamento altimetrico del terreno. La produzione collinare e di altura lascia segni difficilmente confondibili con quelli delle aree pianeggianti. Le forme di allevamento della vite che si osservano esprimono profondamente la duttilità della relazione tra l’uomo e l’ambiente. I viticoltori, infatti, modellano la vite grazie alla natura sarmentosa della pianta che la rende adatta a diverse manipolazioni, scelte in considerazione delle caratteristiche geomorfologiche dell’ambiente in cui l’allevamento si inserisce. Un elemento comune segna, poi, il paesaggio vitivinicolo di questi territori di frontiera alle diverse latitudini: l’accostarsi di due diversi regimi fondiari che costituiscono un elemento di cesura forte tra il paesaggio Trentino e quello dell’Alto Adige. In questa area di frontiera, 10

proprio le forme dell’abitato permettono di ritrovare nel paesaggio ipotetiche linee di confine. Il regime fondiario diversificato marca profondamente lo spazio, portando alla presenza di strutture abitative sparse, che rispecchiano il regime fondiario del maso chiuso tipico dell’Alto Adige che, garantendo l’unità economica della proprietà agricola, ne impedisce la suddivisione. Il risultato paesaggistico è la presenza di incasato storico circondato da vasti appezzamenti agrari. Mentre in Trentino, in conseguenza dell’applicazione del regime ereditario romano, la proprietà agraria ha subito una maggiore parcellizzazione, frazionando notevolmente il territorio agricolo con risultati visibili nel paesaggio. Rispetto alle peculiarità altimetriche, è possibile notare come la distribuzione delle superfici vitate si ripartisca per il 39% in fondovalle, per il 41% in collina e per il 20% in montagna. Questa suddivisione non stupisce se consideriamo che, nell’allevamento della vite, le aree collinari o pedemontane sono state da sempre favorite per la giacitura del terreno, ovvero l’inclinazione che favorisce un migliore drenaggio e una maggiore irradiazione dei raggi ultravioletti, incrementando notevolmente l’attività vegetativa e la maturazione dei frutti: mentre nei fondovalle la moderna agricoltura speculativa si è innestata solo successivamente, diffondendosi ampiamente grazie alle possibilità di sfruttamento intensivo e commerciale. Nelle aree collinari e montane del territorio della Val d’Adige, i terreni vitati si presentano come avvinghiati ai terreni in declivio sulla valle quasi senza alcuna soluzione di continuità, a testimonianza della

caparbietà dei viticoltori del luogo. Nella scelta dei terreni si prediligono i versanti maggiormente orientati a sud, e vi persistono sistemi di coltura più tradizionali in cui a volte la policoltura abbraccia ancora armoniosamente antichi masi. Osservando l’organizzazione dei filari in relazione alla pendenza del terreno, ritroviamo le forme caratteristiche del paesaggio vitivinicolo alpino con le tipiche sistemazioni della vite. Nelle aree meno scoscese, la sistemazione a rittochino, porta ad una disposizione dei filari nel senso della pendenza, per facilitare il corretto deflusso delle acque e la meccanizzazione della raccolta. Nei terreni invece che presentano nello stesso appezzamento diverse inclinazioni, ritroviamo la sistemazione a spina, che permette di mantenere l’orientamento dei filari in massima pendenza. Anche la sistemazione di traverso presenta un andamento armonico col rilievo, integrandosi dolcemente nel paesaggio. In questo caso, l’orientamento dei filari segue le curve di livello, senza modificare la pendenza naturale (se questa lo consente). Certamente però sono i terrazzamenti e i ciglionamenti, utilizzati quando la pendenza supera il 40%, uno degli elementi precipui del paesaggio collinare e montano viticolo tradizionale. Essi si inseriscono nella struttura del versante, creando superfici adatte al posizionamento dei filari, spesso sostenute da muri a secco, gabbie, gradoni di tavole, ripiani e ciglioni erbosi. Questi sono luoghi di importante interesse di conservazione del paesaggio tradizionale, poiché frutto di conoscenze legate al lavoro tramandato per secoli tra le comunità. Queste pratiche, trasmesse a livello familiare di generazione in generazione, racchiudono


un ricco bagaglio spesso dato per scontato: veri e propri tesori di conoscenze utili per combattere i fenomeni di dissesto idrogeologico oggi molto diffuso proprio a causa dell’abbandono di queste sistemazioni dei pendii. Purtroppo, le aree terrazzate sono diventate oggi marginali per la minor produttività, rispetto ai sistemi di sfruttamento più redditizi del fondovalle, e per le difficili condizioni di coltivazione che hanno portato in molti casi all’abbandono, con conseguenti processi di rinaturalizzazione dei sistemi terrazzati. Sempre lungo i versanti, osserviamo, soprattutto nell’area altoatesina, la sistemazione a girapoggio che si sviluppa in armonia con le curve di livello accompagnata da piccoli cingolati. I vigneti sono qui associati alla frutticoltura, con maggiore predilezione per il melo. Gli edifici rurali sono situati al centro dei vigneti, rispecchiando le caratteristiche del sistema fondiario di cui abbiamo parlato sopra. La presenza della vite nelle aree marginali più acclivi e in quelle di montagna ha garantito storicamente un reddito ai suoi abitanti. Le difficoltà strutturali della coltivazione (difficile agibilità dei terreni, basse produzioni e lontananza dai centri di commercializzazione) hanno però preservato una viticoltura tradizionale più armonica col territorio, impedendo la meccanizzazione e l’ampliamento eccessivo delle aziende. Purtroppo però, oggi, questo tipo di paesaggio produttivo è a rischio, a causa della flessione dei ricavi e dell’aumento dell’età media dei viticoltori che provoca una contrazione dell’area vitata. L’allevamento della vite si diffonde in pia-

nura solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento nel momento in cui, anche nella Valle dell’Adige, si creano le condizioni sociali e tecniche per lo sviluppo di una agricoltura specializzata ed intensiva. I territori della pianura erano stati infatti, da sempre, poco adatti alla coltivazione della vite per tre principali ragioni: anzitutto la difficile gestione delle acque che provocava continue inondazioni, poi la minore esposizione ai raggi solari e infine le frequenti gelate primaverili, pericolose nel periodo dell’anno in cui la pianta inizia a germogliare. Abbiamo rintracciato quattro momenti fondativi di questo territorio, passaggi epocali di non ritorno che ne segnano indelebilmente la forma paesaggistica. Tutti si collocano, e non è un caso, in una fase storica di grande fervore a livello mondiale, quella della Seconda metà dell’Ottocento. La prima cesura, rispetto al paesaggio tradizionale, si realizza quando l’uomo vince la sua battaglia contro le acque, attraverso la realizzazione di ingenti opere di regimazione idraulica dell’Adige e del Noce, i due principali corsi d’acqua della pianura. La bonifica di territori, prima paludosi e destinati principalmente all’allevamento nei periodi autunnali e invernali, apre nuove possibilità di utilizzo del suolo. Nella seconda metà dell’Ottocento, si porta così a compimento con interventi massicci e definitivi il progetto iniziato già nella prima metà del Settecento da Maria Teresa d’Austria di risanamento di queste aree paludose. Al dominio delle acque si lega la possibilità di aprire un asse ferroviario lungo la valle: la costruzione della ferrovia del Brennero (inaugurata nel tratto che comprende l’area

da noi analizzata nel 1859) rappresenta un secondo momento di rottura rispetto al territorio tradizionale. L’arrivo della ferrovia, segno tangibile dell’antropizzazione della valle e della modernità dei tempi, trasforma radicalmente le dinamiche di attraversamento, mutandone l’antica vocazione. Da luoghi storici di transito diventano assi di rapidi attraversamenti spaziali. Proprio qui, nella strettoia in cui oggi scorre il confine tra le province di Trento e Bolzano, confluivano le principali vie di comunicazione che costituivano per i territori a nord del Tirolo un’importante via di accesso verso sud. Da qui passavano i tradizionali percorsi del Grand Tour che seguivano l’antico assetto viario segnato dalla storica via romana Claudia Augusta, a cui si deve la famosa descrizione di Goethe della piana rotaliana, definita in “Viaggio in Italia” il più bel giardino visitato d’Europa. Ancora oggi è possibile scorgere i segni di questi antichi camminamenti in sentieri come quello del pittore Dürer, in cui le strade del vino intrecciano l’arte, nel tentativo di valorizzazione turistica dell’antico patrimonio di questi luoghi. La ferrovia segna così inesorabilmente la marginalizzazione di questo territorio che perde la sua centralità, diventando solo spazio di attraversamento e di passaggio nel contesto di un complesso sistema plurimodale formato, oggi, oltre che dalla ferrovia, dall’autostrada e dai due assi di attraversamento ordinario, rispettivamente in destra e sinistra Adige. Il terzo cambiamento, che segnerà la storia evolutiva di questo territorio, è la costruzione nel 1874 dell’Istituto di ricerca agrario di San Michele all’Adige che consente di rispondere a gravissime patologie della vite (oidio, peronospora, filossera, ecc.) causa in questo periodo di carestie e di un brusco arresto della produzione viticola. Il quarto e ultimo, ma non certo per importanza, momento generativo della trasformazione che stiamo analizzando è il passaggio al sistema cooperativistico, che si diffonde in Trentino all’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento, sulla base di esperienze di successo che provengono dai vicini paesi tedeschi. Questa nuova forma di organizzazione porterà ad una radicale trasformazione delle strutture proprietarie con la nascita dei primi consorzi irrigui, di nuove forme di lavoro cooperative, di imprenditoria privata sostenuta dal sistema pubblico. L’organizzazione cooperativistica diventerà un tratto distintivo dell’economia trentina e investirà i principali settori produttivi (frutticolo, lattiero-caseario, zootecnico e viticolo) (Grillotti Di Giacomo, 2000). Sono queste le premesse socio-culturali che consentono la transizione al moderno modello di produzione agricola industriale che diventerà il sistema prevalente nei territori del fondovalle: piccole aziende, associate tra loro in cooperative, organizzate gerarchicamente tra loro su più livelli, che vengono gestite da moderne cantine sociali all’interno delle quali si realizza la maggior parte della vinificazione delle uve e l’attività di commercializzazione del prodotto finale.

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Nel paesaggio di pianura ritroviamo con forza i segni di questa storia, legata all’assoggettamento progressivo della terra all’esigenze dell’uomo. L’elemento del paesaggio oggi preponderante è indubbiamente la struttura reiterata e monocorde dell’allevamento intensivo della vite, con i caratteristici sistemi a pergole doppie, in cui il tipo di sfruttamento agricolo rivela le necessità di una produzione vitivinicola di tipo industriale. Si è persa qui, quasi totalmente, la dimensione policolturale che ha da sempre caratterizzato il paesaggio della vite, in cui i filari venivano intervallati da alberi da frutto, attraverso una diversificazione che assicurava non solo varietà paesaggistica, ma soprattutto, equilibrio e fertilità del suolo. Nel paesaggio agrario della vasta pianura si affiancano invece, giustapposti tra loro, sistemi di sfruttamento intensivo: accanto alla vite, troviamo il melo la cui coltivazione è stata anch’essa piegata alle esigenze del mercato mondiale, con una notevole perdita della varietà delle specie coltivate. Forse proprio l’assenza di spazi vuoti, liberi da questa forma di sfruttamento, rende il paesaggio regolare e monotono. Anche l’andamento del fiume sinuoso, ma disciplinato, rivela i segni di una territorializzazione forte che ha saputo arginare la forza delle acque che avevano da secoli impedito lo sfruttamento agricolo della valle, ma che al contempo, grazie alle continue inondazioni e straripamenti, ha creato quelle condizioni uniche che hanno fatto la fortuna di uno dei vitigni autoctoni più importanti oggi nella produzione enologica del territorio. Il Teroldego, infatti, deve la sua forza proprio all’acqua, che ha saputo modellare un terreno ricco di materiali sedimentari e sab12

biosi che costituiscono oggi la fertile base per le uve rosse di questo famoso vino. Il breve percorso delineato ribadisce l’importanza che assume oggi la salvaguardia del paesaggio vitivinicolo. Attraverso la promozione della cultura del vino, la tutela del paesaggio e della tradizione è possibile cogliere la sfida per promuovere una valorizzazione condivisa e partecipata del territorio. Conoscere il paesaggio vitivinicolo è il primo passo per intraprendere esplorazioni e azioni capaci di coniugare passato, presente e futuro. Infatti, solo rispettando il patrimonio paesaggistico è possibile progettare uno sviluppo integrato e sostenibile, nel rispetto delle tradizioni identitarie e culturali dei luoghi. I filari della vite, nel paesaggio vitivinicolo che abbiamo attraversato, sono spesso preceduti da una pianta di rose, segno persistente di una tradizione culturale e colturale unica, armonica continuità tra passato, presente e futuro. La rosa ci ricorda, poeticamente, l’importanza di custodire la bellezza di antichi saperi e di delicatissimi equilibri.

Wer genau hinsieht, erkennt in der Landschaft einen Schrein voller Geheimnisse. Sie enthüllt dem aufmerksamen Beobachter die Zeichen der erfolgten Territorialisierung sowie deren künftigen Entwicklung. Die Landschaft zeigt in der Kontinuität, der Diskontinuität und den Umwandlungen ihre veränderliche und schillernde Natur, den dynamischen Charakter der vom Menschen bewohnten und umgestalteten Räume. Um es wie Denis Cosgrove auszudrücken, ist die Landschaft ein Produkt der Gesellschaft, das auf eine bestimmte Weltanschauung verweist. Wir finden darin das Ergebnis der jeweils herrschenden sozio-kulturellen Vorstellungen sowie verlassene Spuren der Vergangenheit und verschiedene Auffassungen der Beziehung des Menschen zur Umwelt. In dem, was für viele nur „ein schöner Anblick“ ist, können wir den Nomos der Erde (Schmitt, 1991) erkennen, der es erschaffen hat. Aus diesem Grund sind in der Landschaft die Dimensionen miteinander verflochten, die unserem Zusammenleben Struktur verleihen. Sie zeugt nicht nur von der Identität der sie bewohnenden Völker und der Arbeit des Menschen, der die Erde seinen Produktionsbedürfnissen angepasst hat, sondern auch von den Träumen und Idealen der Gesellschaft in ihrer historischen Entwicklung. Die Vorstellung der Landschaft als Gemeingut und für die künftigen Generationen zu bewahrende Ressource ist eine relativ junge Errungenschaft, die in dem Moment entstanden ist, als die ursprüngliche Bindung zwischen Mensch und seiner Umwelt verloren ging, als die durch kurzsichtige Planung hervorgerufenen Katastrophen zum Verlust der landschaftlichen und kulturellen Diversität führten und als die Harmonie der landschaftlichen Elemente, in denen die Prinzipien der Schönheit und der Nachhaltigkeit verschmelzen, zerstört wurde. Die am 20. Oktober 2000 in Florenz unterzeichnete Europäische Landschaftskonvention ist sicherlich eine der einschneidensten Reaktionen auf diese Situation. In diesem Übereinkommen ist die heute allgemein anerkannte Auffassung verankert, dass die Landschaft den grundlegenden Rahmen für das europäische Kultur- und Naturerbe darstellt und demnach zu schützen ist. In der vorliegenden Übersicht werden wir die Hauptelemente der Weinlandschaft des Gebietsstreifens zwischen Trentino und Südtirol untersuchen und versuchen, zu erkennnen, welche Elemente seine Einzigartigkeit ausmachen. Man kann dabei nicht von der Tatsache absehen, dass es sich um ein Übergangsgebiet handelt. Die politische Demarkationslinie zwischen verschiedenen Bezirken durchquert ein Grenzgebiet mit verschwommenen Umrissen, das am besten mit der Sfumato-Maltechnik darzustellen wäre, die den Kartografen des Altertums so lieb war. Im Unterschied zu unserer Zeit, in der höchste Maßgenauigkeit angestrebt wird, hatten sie noch den poetischen Sinn für den Raum und stellten Landkarten her, die den Bedürfnissen der damaligen Zeit entsprachen, ohne darauf zu verzichten, der Landschaft mit all ihrer Schönheit auch eine künstlerische Form zu geben. Das hier betrachtete Grenzgebiet vereint und trennt zugleich zwei kulturell verschiedene Welten, die die Zeichen ihrer unterschiedlichen Landschaftsplanung hinterlassen haben.


Diese Zeichen sind miteinander verflochten und überlappen sich, denn in Grenzgebieten entstehen Landschaftsbilder eher durch die Vereinigung als durch die künstliche Trennung angrenzender Lebensräume, die gerade durch diese Nachbarschaft, durch den Austausch und die stetigen Grenzüberschreitungen ihre Kraft und Besonderheit erlangen. Die Landwirtschaft im Alpenraum steht seit jeher der großen, von der Umwelt gestellten Herausforderung gegenüber, Ackerland zu gewinnen. In den Ebenen musste sie einen schweren und ungleichen Kampf gegen das Wasser und an den Berghängen gegen den Wald antreten. Wenn man die Landschaft des Etschtals betrachtet, erkennt man die Zeichen der mühevollen menschlichen Arbeit, die durch das Anlegen von Terrassen an den Berghängen und durch den Bau von Dämmen und Wasserleitungen gegen das anschwellende Wasser in der Talsohle auf die Schaffung von urbarem Boden abzielte. In diesem Gebiet bildet das Rebland heutzutage eines der charakteristischsten Landschaftselemente („iconema“ lt. Turri, 1998). Das Trentino bietet mit seiner großen klimatischen Vielfalt (Mittelmeer-, Kontintentalund Alpenklima) und der unterschiedlichen geologischen Beschaffenheit seiner Böden (metamorphes Gestein, Moränen- und Sandgesteine, die zum Großteil aus der Zersetzung und Sedimentierung der Dolomitgesteine entstanden sind) zahlreiche Möglichkeiten für den Weinbau und die Weinherstellung. Aus diesem Grund ist die Rebe eines der herausragendsten Elemente seiner Landschaft. Der Weinbau nimmt je nach den orographischen und klimatischen Gegebenheiten des Anbaugebiets unterschiedliche Formen an. Die extreme Anpassungsfähigkeit und vegetative Plastizität der Weinrebe ermöglichte ihren weit verbreiteten Anbau auch bei schwierigen bodenklimatischen Verhältnissen, so dass einige Forscher sie als „Kolonisationspflanze“ schlechthin definierten, was bereits in früheren historischen Epochen bekannt war (Cusimano, 1990, S. 34). Die Faktoren, die ihre Erziehungsform beeinflussen, hängen stark mit der Geländestruktur und dem Klima zusammen. Der Mensch versucht, diese verschiedenen Bedingungen miteinander in Einklang zu bringen und auszunutzen. Es entsteht so ein Terroir, ein Begriff, der die enge Bindung des Weins nicht nur mit dem Boden, sondern auch mit der menschlichen Gemeinschaft, die ihn produziert, zum Ausdruck bringt. Aus dem Zusammenwirken der verschiedenen Faktoren in Bezug auf Boden (Sonneneinstrahlung, Bodenprofil, Eignung), Klima (Wind, Feuchtigkeit und Temperatur) sowie auf Anbau (Wahl besonderer Erziehungsformen, Schnitt und Düngung) ergibt sich die Einzigartigkeit und Besonderheit der Weinlandschaft. Die norditalienischen Weinbaulandschaften entstehen in Anlehnung an das etruskischerömische Vorbild, bei dem hohe und ertragreiche Rebsorten angebaut wurden, die sich

entweder an Bäumen oder Stützgerüsten („Pergola“) hochrankten. Die im Trentino vorherrschende Erziehungsform ist sicherlich die traditionelle „Trentiner Pergola“, die – mit ihren Varianten „einfacher Pergel“ mit einem einzigen Flügel oder „Doppelpergel“ mit zwei gegenüberliegenden Flügeln – laut Angaben der Handelskammer Trient (2010) 78% der Anbaugebiete betrifft. In jüngster Zeit wurden auch Erziehungssysteme mit einer vertikalen Laubwand wie die Guyotund die Spaliererziehung eingeführt, die derzeit jedoch nur 22% der Anbaufläche ausmachen. Auch die Wahl der vorwiegenden Rebsorten hängt von den orographischen und klimatischen Verhältnissen ab. In einem kühleren Klima werden frühreifendere Rebsorten bevorzugt, und das Vorhandensein bestimmter morphologischer Gegebenheiten (Gebirge, Wälder, Seen und Flüsse) wirkt sich regulierend auf die Temperatur aus, wie z. B. dadurch, dass die Weinstöcke im Winter vor kaltem Wind geschützt werden oder die Feuchtigkeit in den wärmeren Jahreszeiten gewährleistet wird. In der Weinlandschaft des Etschtals finden sich sehr unterschiedliche Anbausysteme, deren Besonderheiten auf die Höhenlage des Bodens zurückzuführen sind. Der Weinbau an Hügeln und Berghängen zeichnet sich ganz eindeutig vom Anbau in der Ebene ab. Die Formen der Reberziehung lassen genau erkennen, wie sich der Mensch seine Umwelt gefügig machen kann. Die Rebe kann dadurch, dass es sich um eine Rankpflanze handelt, je nach den geomorphologischen Gegebenheiten des Anbaugebiets von den Winzern unterschiedlich geformt und

bearbeitet werden. Die Weinlandschaft dieses Grenzgebiets zeichnet sich weiters durch eine Besonderheit aus: Das Aufeinandertreffen zweier Grundstücksrechtssysteme stellt eine klare Zäsur zwischen der Trentiner und der Südtiroler Landschaft dar. Die hypothetischen Grenzlinien lassen sich genau an den Siedlungsformen erkennen, denn das unterschiedliche Grundstücksrecht prägt den Raum einschneidend. In Südtirol sind einzelne, zerstreut liegende Wohngebäude zu beobachten, weil das dort herrschende, auf den geschlossenen Hof ausgerichtete Grundstücksrecht die wirtschaftliche Einheit des landwirtschaftlichen Besitzes gewährleistete und dessen Aufteilung (unter den Erben) verhinderte. Das Landschaftsbild ist also durch historische Baukomplexe gekennzeichnet, die von ausgedehnten, landwirtschaftlich genutzten Flächen umringt sind. Im Trentino hingegen, wo das römische Erbrecht angewandt wurde, erfuhr der landwirtschaftliche Besitz und somit auch der landwirtschaftlich genutzte Boden eine stärkere Zersplitterung, was auch heute noch in der Landschaft zu erkennen ist. In Bezug auf die Höhenlage ist zu sagen, dass 39% der Weinbauflächen in der Talsohle, 41% auf hügeliger Lage und 20% in Gebirgshöhe liegen. Diese Aufteilung überrascht nicht, wenn man bedenkt, dass die hügeligen Gebiete und solche an den unteren Berghängen seit jeher wegen ihrer Lage für die Reberziehung bevorzugt wurden, denn am Hang fließt das Wasser besser ab und die Pflanzen erhalten eine höhere Sonneneinstrahlung, was das 13


Pflanzenwachstum und das Heranreifen der Früchte fördert. Erst später konzentrierte sich die moderne und auf Umsatz abzielende Landwirtschaft auf die Gebiete in der Talsohle, wo sie sich dank der Möglichkeit einer intensiven und kommerziellen Bodennutzung auch stark ausbreitete. In den Hügel- und Berggebieten des Etschtals scheint das Rebland den sanft zum Tal abfallenden Boden fast unterbrechungslos zu umklammern, was die Beharrlichkeit der örtlichen Weinbauern bezeugt. Für den Weinbau werden die Südhänge bevorzugt, an denen noch sehr traditionelle Anbausysteme verwendet werden, bei denen nicht selten noch die Mischkultur alte Höfe harmonisch umgibt. Wenn man die Anordnung der Rebzeilen im Verhältnis zur Bodenneigung betrachtet, so findet man die typischen Formen der alpinen Weinbaulandschaft wieder. In den weniger abschüssigen Gebieten ermöglicht das Auszeilen in Falllinie einen korrekten Abfluss des Wassers und eine mechanisierte Weinlese. Finden sich hingegen auf dem gleichen Grundstück verschiedene Neigungen des Bodens, werden die Rebzeilen im Fischgrätenmuster angeordnet, damit sich ihre Ausrichtung der Falllinie anpasst. Auch die Ausrichtung quer zum Hang fügt sich harmonisch in die Landschaft ein. In diesem Fall folgen die Zeilen dem Verlauf der Höhenlinien, ohne dass die natürliche Neigung geändert werden muss (wo dies möglich ist). Aber die Hauptelemente der traditionellen Weinlandschaft in Hügel- und Berggebieten sind sicherlich die Mauer- und Erdterrassen, die angelegt werden, wenn die Neigung mehr als 40% beträgt. Sie sind in der 14

Struktur des Hanges eingebettet und bilden für das Auszeilen geeignete Flächen, die häufig durch Trockenmauern, Drahtrahmen, Bretterstufen, Absätze und Grasböschungen gestützt werden. Sie sind ein wichtiger Bestandteil des Landschaftserbes, das Ergebnis jahrhundertelang überlieferten Wissens. Diese in den Familien von Generation zu Generation weitergegebenen und oftmals für selbstverständlich gehaltenen Arbeitsweisen erweisen sich als äußert nützlich, um das hydrogeologische Gleichgewicht zu schützen, das heute durch das Verschwinden dieser Tradition immer mehr gefährdet ist. Die Terrassen sind heute leider wegen ihres im Vergleich zu den gewinnbringenderen Anbausystemen in der Talsohle niedrigen Ertrags und auch wegen der schwierigen Arbeitsbedingungen nur noch zweitrangig. Die Aufgabe dieser Gebiete führt häufig dazu, dass die Terrassenhänge wieder in ihren natürlichen Zustand zurückkehren. Im Südtiroler Gebiet beobachtet man auch eine Anordnung der Rebzeilen, die den Unebenheiten des Hanges folgt und somit mit den Höhenlinien harmoniert. In diesem Fall geht der Weinbau mit dem Obstbau einher, wobei der Apfelanbau am beliebtesten ist. Die landwirtschaftlichen Gebäude befinden sich in der Mitte der Weinberge, was die Besonderheiten des Grundbuchsrechts widerspiegelt, von dem oben die Rede war. Der Weinbau an steilen Hügel- und Berghängen stellte früher eine Einkommensquelle für die Bewohner dieser Gebiete dar. Die strukturellen Probleme (schwer zugängliche Böden, niedriger Ertrag und weite Entfernung von den

Handelszentren) haben jedoch dadurch, dass die Arbeit nicht mechanisch verrichtet werden kann und die landwirtschaftlichen Betriebe nicht übermäßig wachsen, dazu geführt, dass sich der traditionell geführte Weinbau erhalten konnte, der sich besser in die Landschaft einfügt. Diese Art Produktionslandschaft ist heutzutage jedoch leider sehr gefährdet, denn der Rückgang der Erlöse und das zunehmende Durchschnittsalter der Weinbauern bewirkt eine starke Schrumpfung der Rebflächen. Die Verbreitung des Weinbaus in der Ebene setzt erst in der zweiten Hälfte des 19. Jahrhunderts an, als sich auch im Etschtal die gesellschaftlichen und technischen Voraussetzungen für die Entwicklung einer spezialisierten und intensiven Landwirtschaft abzeichnen. Die Gebiete in der Talsohle eigneten sich nämlich seit jeher weniger für den Weinbau, und dafür gibt es mindestens drei wichtige Gründe: In erster Linie war das Wasser, das andauernde Überflutungen bewirkt, schwer im Zaum zu halten; zweitens ist der Boden im Tal einer geringeren Sonnenbestrahlung ausgesetzt und schließlich gibt es im Frühjahr häufig Frost, was während der Sprießzeit gefährlich ist. Wir können vier Momente in der Geschichte ausmachen, die dieses Gebiet und seine Landschaftsform grundlegend und einschneidend geprägt haben. Es ist kein Zufall, dass alle vier Momente in der zweiten Hälfte des 19. Jahrhunderts liegen, d. h. in einer Epoche, in der weltweit große Veränderungen vor sich gingen. Der erste Einschnitt in die traditionelle Landschaft findet in dem Moment statt, als der Mensch durch die Begradigung der Etsch und des Noce, der beiden wichtigsten Flüsse im Tal, den Kampf gegen das Wasser gewinnt. Die sumpfigen und hauptsächlich im Herbst und Winter für die Viehzucht verwendeten Böden werden melioriert und bieten neue Nutzungsmöglichkeiten. Das bereits in der ersten Hälfte des 18. Jahrhunderts von der österreichischen Kaiserin Maria Theresia eingeleitete Projekt zur Trockenlegung von Sumpfgebieten wird somit durch massive und endgültige Eingriffe in der zweiten Hälfte des 19. Jahrhunderts abgeschlossen. Nachdem das Wasser bewältigt ist, eröffnet sich die Möglichkeit, eine Eisenbahnachse im Tal zu erstellen. Der Bau der Brennereisenbahn (1859 wurde die Strecke eingeweiht, die das hier untersuchte Gebiet durchquert) stellt den zweiten Einschnitt in die traditionelle Landschaft dar. Die Eisenbahn ist ein sichtbares Zeichen der Umwandlung der Landschaft durch den Menschen und der modernen Zeit. Mit ihrer Einführung wird dieses Gebiet, das früher eine wichtige Verbindungsfunktion hatte, zum reinen Übergangsgebiet, das nur schnell durchquert wird. An der Klause, wo heute die Grenze zwischen den Provinzen Trient und Bozen verläuft, trafen die Hauptverkehrswege zusammen, die die Gebiete nördlich von Tirol mit dem Süden verbanden. Hier verlief die klassische Route der Grand Tour, die dem von der alten Römerstraße Via Claudia Augusta vorgegebenen Wegverlauf folgte und auch von Goethe


unternommen wurde. Ihm verdanken wir die berühmte, in der „Italienischen Reise“ enthaltene Beschreibung der Piana Rotaliana, die er als „den schönsten Weingarten Europas“ definierte. Die Spuren davon lassen sich noch heute erkennen, wie z. B. auf dem Dürerweg, wo sich Weinlandschaft mit Kunst verwebt und das Kulturerbe dieser Orte touristisch aufgewertet wird. Mit dem Bau der Eisenbahn verliert dieses Gebiet folglich seine zentrale Rolle und wird unerbittlich an den Rand gedrängt: Es wird zu einer bloßen Transitstrecke innerhalb eines komplexen Systems von Verkehrswegen, das heute nicht nur aus der Eisenbahn, sondern auch aus der Autobahn und den beiden Staatsstraßen links und rechts der Etsch besteht. Der dritte Moment, der die Entwicklungsgeschichte diese Gebiets einschneidend verändert, ist das Jahr 1874, in dem die landwirtschaftliche Versuchsanstalt in San Michele errichtet wird und Strategien gegen gravierende Krankheiten und Schädlinge der Rebe (echter und falscher Mehltau, Reblaus usw.) ausgearbeitet werden können, die zu jener Zeit schwere Hungersnöte und einen jähen Rückgang der Traubenproduktion auslösten. Der vierte und letzte, aber deshalb nicht weniger wichtige Moment, der die Umwandlung des hier untersuchten Gebiets beeinflusst hat, ist der Übergang zum Genossenschaftssystem, das sich im Trentino Anfang der achtziger Jahre des 19. Jahrhunderts verbreitet, nachdem es in den deutschsprachigen Nachbarländern große Erfolge erzielt hat. Diese neue Organisationsform führt mit der Entstehung der ersten Bewässerungskonsortien, der neuen genossenschaftlichen Arbeitsformen und eines privaten Unternehmertums, das von öffentlicher Seite unterstützt wird, zu einer radikalen Veränderung der Eigentumsformen. Die genossenschaftliche Organisation wird zu einem Kennzeichen der Trentiner Wirtschaft und betrifft die wichtigsten Produktionssektoren (Obstbau, Milch- und Käseproduktion, Viehzucht und Weinbau) (Grillotti Di Giacomo, 2000). Dies sind also die gesellschaftlichen und kulturellen Voraussetzungen, die den Übergang zum modernen Modell der Intensivlandwirtschaft ermöglicht haben, welches in den Gebieten in der Talsohle heute vorherrscht: kleine landwirtschaftliche Betriebe, die sich zu hierarchisch organisierten Genossenschaften zusammengeschlossen haben, und moderne Kellereigenossenschaften, in denen der größte Teil der Verarbeitung der Trauben zu Wein und die Vermarktung des Endprodukts von statten geht. Die Landschaft der Talsohle trägt die Zeichen dieser Entwicklung, in der der Mensch allmählich das Land den eigenen Bedürfnissen gebeugt hat. Das heute vorherrschende Landschaftsbild besteht unweigerlich aus der sich eintönig wiederholenden Struktur des intensiven Weinbaus mit seiner charakteristischen Doppelpergel, die der Notwendigkeit einer industriell angelegten Weinproduktion entspricht. Die Mischkultur von Reben und Obst, die seit jeher die Weinlandschaft gekennzeichnet hatte und nicht nur landschaftliche

Abwechslung, sondern vor allem das Gleichgewicht und die Fruchtbarkeit des Bodens sicherte, ist endgültig abhanden gekommen. In der Agrarlandschaft der weiten Ebene findet man hingegen Reihe an Reihe intensiv genutzte Anlagen: neben den Reben auch Apfelbäume, deren Anbau sich gleichermaßen den Bedürfnissen des Weltmarkts beugen musste und den Verlust zahlreicher alter Kultursorten zur Folge hatte. Gerade das Fehlen leerer, naturbelassener Flächen lässt die Landschaft als gezähmt und eintönig erscheinen. Sogar der sanft gewundene, geordnete Verlauf des Flusses ist Ergebnis der großflächigen Landgewinnung. Die Gewässer, welche über Jahrhunderte eine landwirtschaftliche Nutzung der Talsohle verhindert hatten, jedoch gleichzeitig dank der ständigen Überschwemmungen auch die einzigartigen Grundlagen für eine der wichtigsten Rebsorten im Panorama der lokalen Weinproduktion geschaffen haben, wurden eingedämmt. Der berühmte Teroldego verdankt seinen Charakter eben diesen Gewässern, die den Boden, auf dem der Rotwein heute gedeihen kann, mit Sedimenten und sandigen Ablagerungen angereichert haben. Mit diesem kurzen Überblick wird die dem Schutz der Weinbaulandschaft zukommende Bedeutung hervorgehoben. Durch die Unterstützung der Weinkultur, den Schutz von Landschaft und Tradition kann eine Förderung und Aufwertung des Territoriums angegangen werden, die gemeinsam getragen wird und an der sich alle beteiligen. Der erste Schritt in diese Richtung ist das Kennen der Weinbaulandschaft, um Konzepte und Aktionen anbahnen zu

können, die Vergangenheit, Gegenwart und Zukunft miteinander in Einklang bringen sollen. Denn nur, wenn das landschaftliche Erbe bewahrt wird, kann eine integrierte und nachhaltige Entwicklung unter Beachtung der identitätsstiftenden kulturellen Traditionen des Ortes geplant werden. An der Kopfseite der Rebzeilen der auf diesen Bildern gezeigten Weinbaulandschaft blüht oft ein Rosenstrauch als bleibendes Zeichen einer einzigartigen kulturellen und landwirtschaftlichen Tradition, als harmonischer Übergang zwischen Vergangenheit, Gegenwart und Zukunft. Die Rose erinnert uns auf poetische Weise daran, wie wertvoll der Schutz der Schönheit des alten Wissens und eines höchst empfindlichen Gleichgewichts ist.

Angela Alaimo è dottore di ricerca in geografia, Università degli studi di Trento Elena Dai Prà è ricercatrice in geografia, Università degli studi di Trento Angela Alaimo ist Forschungsdoktorin für Geografie an der Universität Trient Elena Dai Prà ist wissenschaftliche Mitarbeiterin für Geografie an der Universität Trient

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> Bodini, Caldaro / Kaltern

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> Stecher, Caldaro / Kaltern

> Stecher, Caldaro / Kaltern 18


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> Stecher, Cortaccia / Kurtatsch

> Maione, Val d’Adige vista da Pochi / Etschtal von Buchholz aus gesehen 20



> Maione, Dintorni S. Michele all’Adige / Umgebung von S. Michele all’Adige

> Maione, Sulla strada del Vino, dintorni di Caldaro / Auf der Weinstraße bei Kaltern

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> Maione, Sulla strada del Vino, dintorni di Pressano / Auf der WeinstraĂ&#x;e bei Pressano

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> Maione, Sulla strada del Vino, sopra S. Michele all’Adige / Auf der Weinstraße oberhalb von S. Michele all’Adige 24



> Maione, Dintorni di S. Michele all’Adige / Umgebung von S. Michele all’Adige

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> Maione, Sulla strada del Vino, sopra Cortaccia / Auf der WeinstraĂ&#x;e oberhalb von Kurtatsch

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> Maione, Dintorni di Trento / Umgebung von Trient

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> Maione, Dintorni di S. Michele all’Adige / Umgebung von S. Michele all’Adige > Maione, Dintorni di Trento / Umgebung von Trient

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> Maione, Dintorni di Trento / Umgebung von Trient

> Maione, Dintorni di Trento / Umgebung von Trient

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> Bodini, MagrĂŠ / Margreid

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> Bodini, Caldaro / Kaltern-RĂśmigberg

> Bodini, MagrĂŠ / Margreid

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> Bodini, MagrĂŠ / Margreid

> Bodini, Cortaccia / Kurtatsch

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LE VITI E IL CEMENTO / VERBAUTE REBLANDSCHAFT Giovanna Ulrici, Bruno Zanon Istituto Nazionale di Urbanistica - Sezione Trentino

1. Agricoltura e urbanistica, racconto di un legame debole I problemi e le prospettive dell’attività agricola e del territorio rurale nel suo complesso rimangono troppo spesso marginali nei processi di pianificazione territoriale e di promozione dello sviluppo, nonostante la loro importanza quanto ad assetto del territorio e in termini economici, entro il quadro della politica agricola comunitaria. Le opposte dinamiche di abbandono e di specializzazione tendono ad allontanare i destini della città da quelli della campagna, una volta strettamente connessi in ragione della capacità del territorio agricolo di produrre cibo e risorse per il mercato urbano in cambio di servizi, prodotti artigianali e industriali. L’affermazione della necessità di contenere lo sviluppo urbano ha visto nei tempi recenti la formulazione di principi e l’elaborazione di pratiche, cui anche l’INU ha contribuito in modo significativo, che sono stati efficacemente riassunti nello slogan del “contenimento del consumo di suolo”. Tali indirizzi hanno prodotto molteplici disegni di legge, accomunati da un dato di principio: distinguere e contrapporre il territorio edificato – la cui espansione va attentamente controllata o evitata a favore del “costruire nel costruito”– da quello aperto e in particolare da quello ad uso agricolo - da tutelare attentamente dalle troppo diffuse pratiche che comportano abbandono e spreco dei valori intrinseci del suolo fertile –. Questa distinzione ha sicuramente portato all’attenzione il problema dell’erosione e della frammentazione dello spazio agricolo, dell’uso improprio dei terreni, della diffusione edilizia, ma si accompagna ad un approccio ancora legato alla zonizzazione funzionale: da un lato la città, dall’altro la campagna. Tale approccio riduce i rischi per l’economia agricola e la qualità ambientale esclusivamente allo sviluppo insediativo – con il rischio di abbassare la guardia nei momenti di crisi, come l’attuale – , non considerando a pieno le dinamiche proprie del territorio agricolo. Ancora una volta emerge la difficoltà a superare una concezione segnata da un modello (mentale, prima ancora che operativo) gerarchico, per il quale la città è superiore alla cam34

pagna. Manca la disponibilità ad addentrarsi nella complessità – dal punto di vista spaziale, economico e sociale – degli spazi aperti, spesso compromessi da pesanti alterazioni e da una marcata frammentazione – soprattutto negli ambiti di margine urbani – ma ancora ricchi di valori da comprendere a fondo. Nonostante prevalga l’immagine di tali aree quali spazi “in attesa” di un diverso destino (in genere costruito), essi forniscono una pluralità di servizi eco-sistemici e presentano molteplici potenzialità per ricercare un equilibrio tra città e campagna, come suggerito da molte politiche comunitarie. Quali politiche territoriali possono assicurare, quindi, il mantenimento della produzione agricola intesa anche come manutenzione del territorio e come risorsa eco-sistemica? È di quest’anno l’introduzione della nuova Politica Agricola Comunitaria (PAC), che supera l’approccio delle precedenti politiche di settore europee, concentrate sullo sviluppo dell’imprenditoria agricola. La nuova priorità è data al territorio e allo sviluppo delle regioni rurali. Si traggono anche le conseguenze della constatazione che il reddito pro capite rurale risulta più alto in prossimità di aree urbane, perché ciò le rende capaci di attrarre più investimenti

sia per il ruolo svolto nella qualità e nella protezione dell’ambiente sia per le molteplici risorse culturali, storiche e ricreative che possono offrire (Pallottini, 2013). Il rapporto città-campagna viene quindi visto non più in termini di contrapposizione o di conflitto ma di cooperazione, in vista di un equo scambio di beni e servizi, materiali e immateriali, di mercato ed eco-sistemici. 2. Tra Trento e Bolzano: territorio, paesaggio e insediamenti che cambiano Le immagini fotografiche della presente ricerca sul territorio della valle dell’Adige chiariscono benissimo il rapporto tra territorio agricolo e sistemi urbani, facendo emergere i caratteri peculiari di questa regione alpina. Qui le due province di Trento e di Bolzano, seguendo percorsi diversi, hanno ricercato – e per ampi tratti conseguito – l’impossibile, ossia una condizione di benessere legata alla continuità di modi di vita rurali, ritenuti altrove incompatibili con la modernità (Diamantini, 1999). I tratti distintivi sui quali concentrare l’attenzione riguardano non solo le caratteristiche del contesto montano, quanto la condizione di confine tra gruppi etnico-linguistici e sistemi insediativi differenti, nonché l’impiego di modi diversi di affrontare le sfide della


globalizzazione e della valorizzazione delle identità e dei saperi locali. Nell’articolato lavoro di osservazione del territorio tra Trento e Bolzano condotto a partire dalla prima edizione di questo progetto, si sosteneva la tesi che si tratta di un territorio costruito di recente a seguito di importanti operazioni di bonifica, di infrastrutturazione e di organizzazione dello spazio agricolo (Zanon, 2013). A seguito di poderose opere di regimazione dell’Adige e del Noce e di realizzazione della ferrovia, di strade e di ponti, si è consentito un progressivo uso intensivo del fondovalle, prima di allora utilizzato in maniera discontinua. Tali opere, proseguite nel tempo (i canali, la ferrovia Trento-Malé, l’autostrada, le circonvallazioni) hanno consolidato le attività agricole ma hanno sostenuto la diffusione insediativa. L’esito è stato un macrodisegno lineare che ha prodotto la frammentazione del territorio agricolo e ha sostenuto la diffusione di attività e attrezzature urbane, in particolare i grandi volumi commerciali e produttivi, che sembrano pesanti massi crollati dall’alto dei versanti in siti distanti dai centri urbani, mentre i vigneti salgono sempre più sulle colline a est. Queste trasformazioni, a partire dagli anni Sessanta, sono avvenute in territorio trentino entro processi di pianificazione territoriale che, divenuta piena competenza provinciale, è stata definita con il Piano Urbanistico Provinciale del 1967 (redatto con la consulenza di Giuseppe Samonà) quale spina dorsale delle politiche di sviluppo (Provincia Autonoma di Trento, 1968). Altri programmi di settore si sono incrociati con tali indirizzi, in modo non sempre coerente, dando luogo a conflitti ben leggibili sul territorio: aree urbane, zone produttive, grandi attrezzature collocate in modo discontinuo, la cui ulteriore espansione è frenata solo dalla capacità delle aree agricole specializzate di creare valori - produttivi ma anche identitari - in grado di bilanciare il valore economico dei suoli edificabili. Per quanto riguarda il territorio a nord di Trento, un terzo delle aree industriali provinciali individuate dal PUP del 1967 si collocavano tra l’area di Spini di Gardolo e la Piana Rotaliana. Si è trattato, per molti aspetti, della costruzione di una città lineare incardinata su due poli, quello di Lavis a sud e quello di Mezzolombardo e Mezzocorona, ipotizzati come unico centro urbano e capisaldi dell’industrializzazione, a nord (Diamantini, 2013). Per quanto riguarda l’area sudtirolese, la chiave interpretativa del paesaggio agricolo è ormai consolidata (Diamantini, 1999). La legge provinciale del 1957, incentrata sul concetto di paesaggio culturale (Kulturlandschaft), considerava che l’eccellenza del paesaggio, incluse le sue componenti naturalistiche, è l’esito storico di trasformazioni antropiche di lunga durata che hanno visto interagire gli abitanti-coltivatori con gli aspri luoghi della montagna. Il disegno di sostanziale conservazione del paesaggio agricolo consentì di innalzarlo ad interprete del sistema dei valori tradizionali e quindi di “rappresentazione delle differenze” della popolazione di lingua tedesca (Diamantini, 1999). In questo quadro, la città di Bolzano non

faceva parte del disegno generale e quindi era costretta a crescere dentro se stessa e per molti versi in opposizione al territorio agricolo circostante. Le trasformazioni sono state tuttavia ampie e profonde, in quanto il sistema agricolo sudtirolese attuale non è certamente quello tradizionale, sia per il grado di specializzazione – che richiede uso di tecnologie avanzate e pieno inserimento nei meccanismi di mercato – sia per l’integrazione con altri settori, in primo luogo il turismo, nonché per l’uso sapiente di meccanismi di marketing, che coinvolgono anche l’architettura delle cantine. Emerge quindi una contraddizione. L’immagine dell’agricoltura rappresenta un fondamento identitario dell’area sudtirolese e tuttavia la specializzazione del comparto agricolo e l’integrazione tra l’agricoltura e le altre attività economiche hanno comportato profonde trasformazioni e innovazioni che lasciano trasparire il carico retorico di tale immagine, mentre fanno comprendere come il territorio non sia un dato, una semplice eredità del passato, ma sia l’esito di un processo continuo di costruzione dello spazio di vita da parte della comunità locale. L’osservazione del territorio tra Trento e Bolzano nella sua interezza, superando la “frontiera nascosta” del confine provinciale, entro il quale usualmente si sviluppano le indagini e le regolamentazioni, ha permesso di evidenziare, assieme alle peculiarità locali, il procedere di fenomeni di omogeneizzazione dei comportamenti negli ambiti di margine urbano e nelle aree di contatto dell’edificato con il territorio agricolo. In questo si può leggere un fenomeno di decadimento delle differenze territoriali ma anche della qualità nel disegno dei margini tra urbano e rurale.

3. Città e campagna, premesse per un futuro virtuoso Il rapporto tra città e campagna nel più ampio contesto alpino si sostanzia di specificità riconosciute da trattati quali la Convenzione delle Alpi, mentre alcune eccellenze – quali le Dolomiti – sono incluse nella lista dei beni “Patrimonio dell’umanità” dell’Unesco. In molte delle città alpine si possono riconoscere processi di una felice ricomposizione politicamente pianificata con il territorio montano circostante. In questo rapporto biunivoco non emerge solo la forza della città, in grado di “fare urbana la montagna”, ma anche il ruolo della montagna e dello spazio aperto, che permeano la città e i modi di vita degli abitanti, il cui orizzonte mentale e culturale pone la montagna non come semplice sfondo ma come ambito di vita (Mattiucci, 2010). Va ricordato, in proposito, come esista da un lato una domanda potenziale vastissima, dall’altro una base estesa di risorse naturalistiche, paesistiche e culturali. Per cogliere tali opportunità bisogna però evitare la standardizzazione dell’agricoltura, coinvolgere i fruitori dei luoghi nella conoscenza delle produzioni locali, rinvigorire la cultura dell’ospitalità che ha caratterizzato il mondo rurale sino a cinquanta anni fa (Salsa, 2012). Si tratta di valori recuperabili anche da parte dell’attuale agricoltura specializzata e in particolare della vitivinicoltura: il valore del vino – e il suo prezzo – sono strettamente connessi ai valori locali trasmessi, alla qualità del paesaggio incluso nel prodotto, alla storia che il vino racconta. Comprendere nella riflessione sull’agricoltura vitivinicola anche le due città capoluogo, Trento e Bolzano, comporta la 35


necessaria riflessione su quale rapporto – o non-rapporto – si stabilisca nelle azioni di pianificazione di questa “campagna di mezzo”. Si può partire da alcuni dati relativi al comune di Trento, che presenta il più esteso territorio comunale a destinazione agricola della provincia di Trento (oltre un migliaio di ettari di soli vitigni), con circa 900 aziende attive. Nonostante questi dati, la città ha costantemente eroso il territorio agricolo, con un consumo di suolo verde a discapito di tanti lotti residui e frange abbandonate nelle fasce periurbane. Queste contraddizioni richiamano con forza l’attenzione sul rapporto tra il paesaggio e il ruolo degli attori territoriali sulle Alpi: affinché si verifichi una trasformazione del paesaggio in una logica di attore collettivo, è necessario che prima si modifichi la percezione di tale paesaggio (Ferrario, 2012). Il 5 maggio 2012 lo Stato Italiano ha ratificato i protocolli della Convenzione delle Alpi e tra essi il protocollo “agricoltura di montagna”, documento che afferma: “Gli agricoltori vanno pertanto riconosciuti anche in futuro, per i loro compiti multifunzionali, come protagonisti essenziali del mantenimento del paesaggio naturale e rurale, e resi partecipi delle decisioni e delle misure per le zone montane” (art.4). Nel territorio indagato da queste immagini fotografiche la pianificazione territoriale e urbanistica può rappresentare un laboratorio per la gestione del territorio agricolo, in particolare se si sfrutta a pieno il ruolo di governo del territorio del livello istituzionale intermedio, quello della Comunità, cui spetta il compito di elaborare una strategia di sviluppo territoriale locale intesa come “costruzione di paesaggio”. In questo qua36

dro si deve dare risposta ai modelli culturali complessi di chi abita oggi la città di montagna. Già nel 1967 Samonà aveva introdotto lo strumento del “parco attrezzato”, concepito per governare ampie zone verdi situate all’esterno dei perimetri urbani, allo stesso tempo da fruire e tutelare mediante l’inserimento del mondo rurale nel nuovo tessuto urbano a saldatura tra componenti urbanistiche, economiche e sociali. È stata una previsione di scarso successo, a causa di una applicazione del piano incentrata sulle norme e sui vincoli, anziché sugli stimoli progettuali. Tuttavia si tratta di una intuizione quanto mai attuale, in quanto proponeva di risolvere un antico conflitto nel rapporto, anche spaziale, tra città e campagna. Il compito quindi rimane. Il piano urbanistico locale, nella prospettiva fin qui individuata, può avere un ruolo importante se supera l’orizzonte delle procedure urbanistiche di assegnazione dei diritti di uso del suolo. Si tratta di sviluppare a pieno il concetto di pianificazione integrata – intesa come raccordo di livelli territoriali e amministrativi diversi e di differenti settori di intervento – al fine di tutelare le produzioni agricole e gli stessi agricoltori, che sono i principali attori in gioco. È necessario trattare in modo congiunto il suolo urbano e quello agricolo mediante la pianificazione della loro conservazione o trasformazione all’interno di obiettivi condivisi. L’applicazione attenta e responsabile di meccanismi di compensazione e di perequazione può permettere una redistribuzione dei diritti edificatori e della rendita fondiaria all’interno delle aree agricole preservandole da erosioni edilizie. È necessario, inoltre, adottare pratiche di partecipazione (diretta

o indiretta) dei diversi soggetti nella formazione degli strumenti di governo del territorio per diffondere le informazioni, costruire conoscenza condivisa, rendere efficaci gli strumenti di attuazione. Il processo di pianificazione deve essere un punto di incontro dei portatori di interesse e un momento di progettazione partecipata che coinvolga i produttori agricoli, da una parte, e i fruitori-abitanti della città, dall’altra. Agricoltori e cittadini sono ormai in buona parte omogenei per stili di vita ma rappresentano territori locali differenti per caratteri naturali, storia, identità culturali, modalità d’uso. Tali differenze non costituiscono il problema ma rappresentano la ricchezza di contesti come quelli indagati, dove gli insediamenti si estendono tra i vigneti.

1. Landwirtschaft und Urbanistik: die Geschichte eines labilen Gleichgewichts Im Allgemeinen werden leider die Probleme und Zukunftsperspektiven der Landwirtschaft und der ländlichen Gebiete bei der Raumplanung und Entwicklungsförderung all zu oft als Randthemen betrachtet, obschon die EU-Agrarpolitik der Raumordnung und den mit dieser verbundenen wirtschaftlichen Aspekten große Bedeutung zuschreibt. Die gegensätzlichen Dynamiken der Landflucht und der Spezialisierung öffnen eine Kluft zwischen Stadt- und Landleben, welche hingegen einst eng miteinander verbunden waren: Die Landwirtschaft lieferte Lebensmittel und sonstige Ressourcen für die städtischen Märkte gegen Dienstleistungen sowie Handwerks- und Industrieprodukte. In letzter Zeit werden immer mehr Stimmen laut, die eine Begrenzung der städtischen Entwicklung sowie die Festlegung von Grundsätzen und Vorgehensweisen fordern, zu deren Ausarbeitung auch das INU (Istituto Nazionale Urbanistica) in bedeutetem Maße beigetragen hat und die in dem Slogan „Stoppt den Landfraß“ wirksamen Ausdruck finden. Zum Thema wurden zahlreiche Gesetzentwürfe ausgearbeitet, denen allen folgendes Prinzip zugrunde liegt: Die Unterscheidung zwischen verbautem Land, dessen Ausdehnung genau zu überwachen und zugunsten des „Bauens im Bestand“ zu vermeiden ist, und offenem Land, insbesondere der landwirtschaftlichen Flächen, die vor der zu sehr verbreiteten Landflucht und der Verschwendung der Werte des fruchtbaren Bodens zu schützen sind. Diese Unterscheidung hat gewiss dazu geführt, die Probleme im Zusammenhang mit dem Landfraß, der Zersplitterung der landwirtschaftlichen Flächen, der angemessenen Bodennutzung und


Art und Weise, die Globalisierung zu beherrschen und die lokalen Identitäten und Brauchtümer aufzuwerten, verlangen unsere Aufmerksamkeit. der Verbauung zu fokussieren, obwohl sie noch an die funktionelle Gebietseinteilung zwischen Stadt und Land gebunden ist. Dadurch werden die Gefahren für die Landwirtschaft und die Qualität der Umwelt ausschließlich auf die Siedlungsentwicklung zurückgeführt, anstatt in einem Krisenmoment wie diesem, die im landwirtschaftlichen Gebiet innewohnende Dynamik im Auge zu behalten. Wiederum taucht die Schwierigkeit auf, sich von der hierarchischen (eher geistigen als operativen) Einstellung der Überlegenheit der Stadt gegenüber dem Land zu lösen. Man ist nicht dazu bereit, sich mit der räumlichen, wirtschaftlichen und gesellschaftlichen Komplexität der offenen Flächen zu konfrontieren, die oft – insbesondere in den Stadtrandgebieten – schwerwiegenden Veränderungen und einer markanten Zersplitterung ausgesetzt sind, die aber noch an Werten festhalten, die es zu verstehen gilt. Der vorwiegende Eindruck ist, dass diese Flächen auf ein anderes Schicksal „warten“ (meistens werden sie bebaut). Hingegen bieten sie zahlreiche ökosystemare Dienstleistungen und ein großes Potential für die Herstellung eines Gleichgewichts zwischen Stadt und Land. Welche territorialen Maßnahmen können also zur Wahrung der landwirtschaftlichen Produktion beitragen, die auch als Landschaftserhaltung und ökosystemare Ressource zu verstehen ist? Dieses Jahr wurde die neue Gemeinsame Agrarpolitik (GAP) eingeführt, die die vorhergehenden einschlägigen europäischen Maßnahmen novellieren, welche sich ausschließlich auf die Agrarbetriebe konzentrierten. Das Territorium und die Entwicklung der ländlichen Gebiete stellen nun die neuen Prioritäten dar. Von Bedeutung ist ferner die Feststellung, dass das Pro-Kopf-Einkommen in der Nähe städtischer Gebiete höher ist. Gerade diese Tatsache fördert nämlich größere Investitionen in Qualität und Schutz der Umwelt sowie in zahlreichen kulturellen, historischen und Erholungsressourcen (Palottini, 2013). Das Verhältnis von Stadt und Land hat sich vom Stadt-Land-Gegensatz oder Konflikt zur Stadt-Land-Kooperation entwickelt, die einen fairen Austausch materieller und immaterieller Güter und Dienste sowie im Bereich Markt und ökosystemare Dienstleistungen voraussetzt. 2. Zwischen Trient und Bozen: Gebiet, Landschaft und Siedlungen im Wandel Die fotografische Studie des Gebiets des Etschtals verbildlicht genau das Verhältnis zwischen landwirtschaftlichem Gebiet und Gemeindeplanung, indem sie die Besonderheiten dieser alpinen Region hervorhebt. Die Provinzen Trient und Bozen haben auf unterschiedlichen Wegen das Unmögliche – den Wohlstand in enger Verbundenheit mit der ländlichen Tradition – angestrebt und großteils auch erreicht, was heutzutage andernorts als unvereinbar betrachtet wird. (Diamantini, 1999). Nicht nur die typischen Merkmale der Berglandschaft, sondern das Vorhandensein verschiedener Sprachgruppen und Siedlungssysteme, die verschiedene

In der ersten Ausgabe dieses Katalogs wurde anhand der im Gebiet zwischen Trient und Bozen durchgeführten Beobachtungen die Meinung vertreten, dass sich dieser Landstrich erst vor kurzer Zeit infolge von Meliorierungsarbeiten, der Schaffung von Infrastrukturen und der Einteilung landwirtschaftlicher Flächen so entwickelt hat (Zanon, 2013). Die Talsohle konnte endlich im Vergleich zu früher dank wichtiger Wasserschutzbauten an der Etsch und dem Noce, des Baus der Eisenbahnstrecke sowie von Straßen und Brücken intensiv genutzt werden. Im Laufe der Jahre wurden weitere Bauten wie Kanäle, die Trento-Malé-Eisenbahn, die Autobahn und Umgehungsstraßen realisiert, durch die die Landwirtschaft zwar unterstützt wurde, jedoch die Siedlungsverteilung zugenommen hat. Das sich daraus ergebende Bild bezeugt die Zersplitterung des ländlichen Gebiets und die Verbreitung städtischer Aktivitäten und Einrichtungen, insbesondere großer Einkaufs- und Produktionszentren, die weitab von den Siedlungen wie riesige von den umliegenden Bergen herabgestürzte Felsblöcke hervorstechen, während die östlichen Hänge mit Reben bepflanzt sind. Diese Umwandlungen begannen im Trentino bereits in den 60ger Jahren im Rahmen der Raumplanung und als die Provinz die diesbezügliche volle Zuständigkeit erhielt, wurde mit der Beratung von Giuseppe Samonà der Landesraumordnungsplan 1967 zur Untermauerung der Entwicklungspolitik ausgearbeitet (Autonome Provinz Trient,

1968). Weitere Sektorprogramme haben sich mit diesen Vorgaben gekreuzt, die sich durch die Ausdehnung der urbanen Räume, Gewerbegebiete und diskontinuierlich verteilten Großeinrichtungen negativ auf das Territorium ausgewirkt haben, die nur durch die Fähigkeit der landwirtschaftlichen Sondernutzung eingedämmt wird, produktive und identitätsbezogene Werte zu schaffen, die imstande sind, den Marktwert der Bauflächen auszugleichen. Im Gebiet nördlich von Trient befand sich zwischen Spini di Gardolo und der Rotaliana-Ebene ein Drittel der im Landesraumordnungsplan 1967 aufgenommenen Industriegebiete. Unter vielen Gesichtspunkten zeichnete sich ein lineares zweipoliges Stadtbild ab: Lavis im Süden und Mezzolombardo und Mezzocorona im Norden, die wie ein einziges Stadtgebiet und als symbolische Bezugspunkte der Industrialisierung betrachtet wurden (Diamantini, 2013). Was Südtirol anbelangt, wurde der Schutz der Natur- und Kulturlandschaft weitgehend gesichert (Diamantini, 1999). Mit dem Landesgesetz von 1957, das auf dem Begriff Kulturlandschaft aufbaute, wurde die perfekte Landschaft als das historische Ergebnis langfristiger anthropogener Wandlungen bezeichnet, die von den im rauen Berggebiet angesiedelten Bauern herbeigeführt wurden. Die Erhaltung der landwirtschaftlichen Gebiete führte dazu, dass diese zum Ausdruck der traditionellen Werte und folglich der „Unterschiede“ der deutschsprachigen Bevölkerung wurden (Diamantini, 1999). Die Stadt Bozen war in diesem Gesamtbild nicht inbegriffen und demnach unter vielen Aspekten gezwungen, sich im Gegensatz zum umliegenden 37


Agrarland zu entwickeln. Die Wandlungen sind allerdings gut sichtbar, denn das heutige Südtiroler Agrarsystem ist bestimmt nicht mehr mit dem herkömmlichen vergleichbar. Hohe Spezialisierung, die die Verwendung moderner Technologien und die volle Eingliederung in die Marktmechanismen erfordert, sowie die Interaktion mit anderen Sektoren, insbesondere dem Tourismus, und der kluge Einsatz von Marketingstrategien, die auch die Kellereiarchitektur umfassen, kennzeichnen heute die Südtiroler Landwirtschaft. Dies steht im Widerspruch zur Behauptung, dass die Landwirtschaft das Spiegelbild der Südtiroler Identität sei, denn die Spezialisierung des Landwirtschaftssektors und die Interaktion mit anderen Wirtschaftssektoren haben tiefgreifende Wandlungen und Innovationen bewirkt und vermitteln ein rhetorisches Bild: Das Territorium ist nicht nur ein Faktum, ein einfaches kulturelles Erbe, sondern das Ergebnis der fortwährenden Gestaltung eines Lebensraumes seitens der örtlichen Gemeinschaft. Beobachten wir das Gebiet zwischen Trient und Bozen in seiner Gesamtheit, indem wir uns über die „unsichtbare Grenze“ zwischen den beiden Provinzen hinwegsetzen, innerhalb deren üblicherweise die jeweiligen Maßnahmen ergriffen werden, so können wir außer den örtlichen Besonderheiten die fortschreitende Vereinheitlichung der Verhaltensweisen in den städtischen Randgebieten sowie in den Anschlussgebieten zwischen Siedlungs- und Agrarflächen feststellen. Hierin lässt sich der Verfall der territorialen Unterschiede und das Schwinden der klaren Grenzen zwischen Stadt und Land erkennen. 3. Voraussetzungen für eine glänzende Zukunft in Stadt und Land Die Beziehung zwischen Stadt und Land im Großraum der Alpen wird durch die in mehreren Abkommen – darunter die Alpenkonvention – anerkannten Besonderheiten bestätigt, und einige herausragende Elemente – z. B. die Dolomiten – wurden in die Liste des UNESCOWeltnaturerbes aufgenommen. In vielen Alpenstädten kann man eine harmonische, politisch geplante Aussöhnung mit dem umliegenden Berggebiet feststellen. Aus dieser Wechselbeziehung geht nicht nur die Stärke der Stadt hervor, welche es vermag, den „Bergen einen urbanen Charakter“ zu verleihen, sondern auch die Rolle der Berge und der offenen Flächen, die die Stadt und die Lebensweise ihrer Einwohner durchdringt, weil ihr geistiger und kultureller Horizont von den Bergen als Lebensbereich und nicht als einfache Kulisse ausgeht (Mattiucci, 2010). In diesem Zusammenhang sei daran erinnert, dass einerseits eine sehr breite potentielle Nachfrage und andererseits eine breite Palette an verfügbaren natürlichen, landschaftlichen und kulturellen Ressourcen vorhanden sind. Um diese Chance zu ergreifen, muss man von einer standardisierten Landwirtschaft absehen. Die Besucher müssen in das Wissen um die 38

lokalen Erzeugnisse eingeweiht werden. Die Kultur der Gastfreundlichkeit, die bis vor fünfzig Jahren die bäuerliche Welt charakterisiert hat, muss neu aufleben (Salsa, 2012). Diese Werte können durchaus auch von der heutigen spezialisierten Landwirtschaft wieder entdeckt werden, insbesondere im Bereich der Weinwirtschaft: Der Wert des Weins und sein Preis hängen nämlich stark mit den vermittelten lokalen Werten, mit der Qualität der im Produkt selbst enthaltenen Landschaft sowie mit der Geschichte zusammen, die den Wein begleitet. Dass in den Überlegungen zum Weinbau auch die beiden Landeshauptstädte, Trient und Bozen, einbezogen wurden, erfordert über die Beziehung bzw. die fehlende Beziehung innerhalb der jeweiligen Planungsinstrumente zu diesem dazwischen liegenden Agrarland nachzudenken. Man kann dabei von den Daten zur Gemeinde Trient ausgehen, die das weitläufigste Gemeindegebiet mit landwirtschaftlicher Zweckbestimmung der gesamten Provinz aufweist, nämlich über tausend Hektar Rebanlagen, die von ungefähr 900 Betrieben bewirtschaftet werden. Trotz dieser Tatsache hat sich das Stadtgebiet fortlaufend zum Nachteil der landwirtschaftlichen Flächen ausgebreitet, wobei am Stadtrand zahlreiche unkultivierte Restflächen zurückgeblieben sind. Diese Gegensätze erfordern eine gezielte Aufmerksamkeit für die Zusammenhänge, die die Rolle der territorialen Entscheidungsträger im Alpenraum mit der Landschaft verbinden. Damit eine Umgestaltung der Landschaft im Sinne kollektiver Entscheidungen stattfinden kann, muss sich im Vorfeld die

damit einhergehende Begriffswelt ändern (Ferrario, 2012). Am 5. Mai 2012 hat Italien die Protokolle zur Durchführung der Alpenkonvention und darunter jenes betreffend die Berglandwirtschaft ratifiziert, welches im Art. 4 u. a. Folgendes besagt: „Die Landwirte sind deshalb auch in Zukunft aufgrund ihrer multifunktionalen Aufgaben als wesentliche Träger der Erhaltung der Natur und Kulturlandschaft anzuerkennen und in die Entscheidungen und Maßnahmen für die Berggebiete einzubeziehen.“ Für das auf diesen Bildern gezeigte Gebiet kann die Raumordnung und die urbanistische Planung ein Mittel zur Verwaltung der Agrarflächen werden, insbesondere wenn dabei die Rolle der lokalen Entscheidungsträger, d.h. der Gemeinschaft, zur Gänze ausgeschöpft wird, welche für die Ausarbeitung von lokalen Entwicklungsstrategien im Sinne einer „Landschaftsgestaltung“ zuständig sind. Dies sind die Aspekte, welche in der Gegenwart angesichts der komplexen Kulturmodelle der Bewohner der Alpenstädte zu berücksichtigen sind. Bereits 1967 sprach Samonà von der Schaffung von Erholungsparks als Mittel zur Gestaltung der weitläufigen Grünflächen am Rande der Stadtgebiete, die gleichermaßen zu nutzen und zu schützen sind, indem die Eingliederung der Landwirtschaft in die neue städtische Struktur sozusagen als Kitt zwischen den urbanistischen, wirtschaftlichen und sozialen Komponenten fungiert. Die Idee blieb erfolglos, weil man sich bei deren Umsetzung vorwiegend auf Bestimmungen und Bedingungen konzentrierte, anstatt planerische Anreize


zu schaffen. Heute ist eine solche Intuition aktueller denn je, weil sie eine Lösung für den immer währenden – auch räumlichen – Konflikt zwischen Stadt und Land darstellt. Die Aufgabe ist noch offen. Die Gemeinderaumordnungspläne können unter den bisher dargelegten Gesichtspunkten eine wesentliche Rolle spielen, sofern sie sich über die Verwaltungsmechanismen der Zuteilung von Grundnutzungsrechten erheben. Dabei gilt es, die integrierte Planung weiterzuentwickeln, die als Vernetzung der unterschiedlichen Ebenen auf dem Territorium und in der Verwaltung sowie der verschiedenen Maßnahmenbereiche zu verstehen ist, mit dem Ziel die landwirtschaftliche Produktion zum einen und die eigentlichen Hauptakteure, die Landwirte zum anderen zu schützen. Urbane und landwirtschaftliche Flächen müssen unbedingt gleichzeitig behandelt werden, wobei die Planung für ihren Erhalt bzw. ihre Umgestaltung im Rahmen von gemeinsam getragenen Zielsetzungen erfolgen muss. Die wachsame und verantwortungsvolle Anwendung von Entschädigungs- und Ausgleichsmaßnahmen schafft die Möglichkeit für die Neuverteilung der Bebauungsrechte und des Grundertrags innerhalb der landwirtschaftlichen Gebiete und bewahrt sie ebenso vor der Verbauung. Außerdem sollte die direkte oder indirekte Beteiligung sämtlicher Akteure an der Ausarbeitung der Instrumente zur Verwaltung des Territoriums angestrebt werden, damit Informationen verbreitet, ein gemeinsame Wissensbasis aufgebaut und wirksame Umsetzungsstrategien erzielt werden. Der Planungsprozess muss die

Gelegenheit für das Zusammentreffen der Interessenvertreter werden, ein Anlass für die gemeinsame Planung, an der sowohl landwirtschaftliche Produzenten als auch Nutzer/Stadtbewohner mitwirken. Landwirte und Stadtbewohner haben nunmehr einen vergleichbaren Lebensstil, doch sie vertreten Gebiete, die sich aufgrund ihrer Naturbeschaffenheit, Geschichte, kulturellen Identität und Nutzungsweise unterscheiden. Diese Unterschiede stellen allerdings nicht ein Problem dar, sondern sind der wahre Reichtum der Gebiete, wie das hier beleuchtete, in denen die Siedlungen von Weinbergen umringt sind.

Riferimenti bibliografici / Bibliographische Angaben Diamantini, C. 1999, “Il progetto di società come progetto di territorio: il ‘modello sudtirolese’”, in: Diamantini C., Zanon B. (a cura di / Hrsg.), 1999, Le Alpi, Immagini e percorsi di un territorio in trasformazione, Temi Editrice, Trento, pp. / S. 127-150. Diamantini, C., 2013 “Percorsi di differenziazione territoriale: a nord di Trento, a sud di Bolzano”, Sentieri Urbani, n° 10, pp. / S. 20-25. Mattiucci, C., 2012, “La montagna come giardino”, Lo Squaderno, n°20, pp. / S. 63-66. Pallottini R. (a cura di / Hrsg.) 2013, “Urbanistica, agricoltura e la nuova PAC”, contributo del gruppo di lavoro “Politiche agricole” dell’INU, atti del XXVIII Congresso nazionale INU, Salerno, 2013, www.inusalerno2013.it/inu/attachments/article/79/Gruppo%20politiche%20agricole.pdf. Provincia Autonoma di Trento, 1968, Il Piano Urbanistico del Trentino, Padova, Marsilio. Salsa A., 2012, “L’agricoltura di montagna nella tradizione alpina”, in: De Fino G. (a cura di / Hrsg.), 2012, Agricoltura e paesaggio nell’arco alpino, TSM, Trentino School of Management, Trento, pp. / S. 31-35. Ferrario V., 2012, “Agricoltura e paesaggi dolomitici”, in: De Fino G. (a cura di / Hrsg.), 2012, Agricoltura e paesaggio nell’arco alpino, TSM, Trentino School of Management, Trento, pp. / S. 37-55. Zanon B., 2013, “Pianificazione urbanistica e forma del territorio tra Trento e Bolzano. Il caso dell’area trentina, Sentieri Urbani, n°10, pp. / S. 29-34.

Giovanna Ulrici è architetto, Presidente dell'Istituto Nazionale di Urbanistica sezione Trentino

Giovanna Ulrici ist Architektin und Präsidentin des Nationalen Instituts für Urbanistik – Sektion Trentino

Bruno Zanon è professore di Tecnica e Pianificazione Urbanistica, Università degli studi di Trento

Bruno Zanon ist Professor für Städtebau und Raumplanung an der Universität Trient 39


> Maione, Piana Rotaliana vista da est / Die Piana Rotaliana von Osten aus gesehen

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> Dalvit, Ripresa aerea di Roverè della Luna / Luftaufnahme, Roverè della Luna

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> Dalvit, Ripresa aerea nuovo ponte Zambana in confluenza Noce-Adige / Luftaufnahme, neue Brücke der Umfahrungsstraße von Zambana beim Zusammenfluss von Noce und Etsch

> Stecher, San Michele all’Adige 42



> Stecher, Mezzocorona

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> Stecher, tra Zambana e Pressano

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> Maione, Sulla strada del vino, presso Caldaro / Auf der WeinstraĂ&#x;e bei Kaltern

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> Maione, Cortaccia / Kurtatsch

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> Bodini, Appiano / Eppan

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> Stecher, San Michele all’Adige


> Stecher, Ora / Auer

> Stecher, Ora, Laimburg / Auer, Laimburg

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> Stecher, Roverè della Luna

> Stecher, Roverè della Luna

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> Stecher, Roverè della Luna

> Stecher, Mezzolombardo 52


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PERGOLE, LASSIEREN E ALTANI / VON PERGELN, LASSIEREN UND ALTANI Marius De Biasi per l'Istituto Nazionale di Urbanistica - Sezione Alto Adige/Südtirol

Molti degli abitanti della nostra regione non se ne accorgono nemmeno, ma il paesaggio agrario dei nostri territori vocati alla produzione vitivinicola, tuttora dominato dalle pergole, in Europa rappresenta un unicum. Se si esce dal Sudtirolo e dal Trentino e si confrontano i paesaggi agrari con i nostri, ci si accorge che mancano le pergole. Anche nelle zone vitivinicole di Francia e Spagna le pergole, come le conosciamo noi, non si trovano che sporadicamente. Qual è la ragione di tale differenza e come si è sviluppato il nostro tipico modo di coltivazione? E inoltre: le pergole in Trentino e in Sudtirolo hanno la stessa storia? La nostra ricerca è facilitata dal fatto che, ad uno sguardo attento, si possono tuttora ricostruire le tappe dell’evoluzione dei vigneti verso le loro forme tipiche attuali. Accanto alle forme più diffuse sono ancora chiaramente riconoscibili i relitti di metodi di coltivazione più antichi, nonché le loro fasi successive. Sono di grande aiuto le immagini di vigne nell’arte figurativa, anche se lo sguardo deve rivolgersi sopratutto agli sfondi, giacché le viti di per sé raramente sono il motivo predominante della rappresentazione e compaiono spesso come casuali ornamenti. Inoltre è possibile dedurre informazioni significative sulla diffusione delle pergole anche dai rapporti giuridici che vigevano nelle campagne nel Medioevo. Uno sguardo oltre i nostri confini regionali Un modo tipico di coltivare le viti molto diffuso in Italia era quello della vite con sostegni vivi (detta allora anche degli altani)1. Nelle pianure dell’Italia settentrionale e centrale si trovava anche la vite maritata all’olmo. Più tardi, al posto dell’olmo si iniziò ad usare il gelso. Una variante di tale tipo di coltivazione era la cosiddetta piantata padana, tipica della pianura, che oggi è presente solo come relitto. In questa forma, le viti erano piantate in filari che fiancheggiavano i lunghi campi di seminativi. Tre erano le ragioni che consentivano tale modo di coltivare le viti: 54

• la vite selvatica in origine è una pianta rampicante che per raggiungere il sole con i suoi tralci si serve di un albero. Non soffoca la pianta ospite, come fa ad esempio l’edera, ma nel corso del tempo, come succede per ogni rapporto di simbiosi, si è adattata. Non soffre inoltre del fatto che le sue radici debbano convivere con la sua pianta ospite. • In Italia il clima più caldo permette di piantare viti praticamente dappertutto, sicché una produttività più ridotta, come quella della vite maritata, non era di grande importanza. • I sostegni vivi fornivano nel contempo legna da ardere e legname, nonché fogliame per l’alimentazione degli animali da cortile. Più tardi i gelsi fornivano la foglia per i bachi da seta. Le vigne nel loro insieme servivano anche da barriere antivento. In Italia, da sempre, c’era un altro modo molto diffuso di coltivare a vite, conosciuto come astaria, dalle corte aste usate per sostenere le viti2. Anche in Trentino tale modo di coltivare la vite era molto diffuso. Le astarie erano tanto comuni, che i geografi si servivano di una loro stilizzazione per simbolizzare vigneti tout court, anche in zone dove è dimostrato che i vigneti erano

soprattutto di tipo a pergola. Antiche tracce di pergole nell’area tedesca e nei territori tirolesi Nei territori tedeschi a nord delle Alpi anche i Celti conoscevano il vino. Furono loro a inventare le botti in legno. Al tempo della dominazione romana erano assai diffuse sia la produzione vitivinicola, sia l’importazione di vino dal sud. Nel primo Medioevo un nuovo impulso alla diffusione della cultura del vino venne dal cristianesimo, poiché la Chiesa per il proprio culto ha bisogno del vino. Molto presto i vescovadi e i conventi si impegnarono nella produzione vinicola, tanto che i vescovi spesso erano indicati come patres vinearum. Ovunque in Europa i conventi svolsero un ruolo civilizzatore assai importante. A nord delle Alpi furono decisivi per la diffusione della coltivazione della vite. Alcuni iniziarono molto presto. La fondazione dell’abbazia benedettina di Benediktbeuern in Baviera risale al secolo VIII. Nella coltivazione della vite i frati ripresero le precedenti tecniche agrarie romane ancore presenti, le svilupparono in modo originale e le adottarono nelle loro estese proprietà fondiarie. Alcuni storici sostengono che i Bavari, da poco convertiti al cristianesimo, nel secolo VIII accelerarono la loro


colonizzazione dei territori a sud delle Alpi proprio a causa della presenza della coltivazione della vite. Nei fatti, già nel 1074 un abate del convento di Benediktbeuern accenna ad una “vinea pretiosa” posta nei dintorni di Bolzano3. Ai già grandi possedimenti fondiari di conventi, abbazie e chiese, frutto del loro lavoro di dissodamento, presto si affiancarono donazioni, lasciti ed eredità. La maggior parte dei terreni migliori, compresi quelli a vocazione vinicola, passarono nelle loro mani. Nelle preziose vinea il principale obiettivo divenne quello della massimizzazione della produzione giacché il vino, accanto alla sua utilizzazione per gli scopi del culto, molto presto divenne ovunque una merce ambita, ben pagata ed economicamente conveniente, dalla cui produzione le signorie terriere traevano buona parte delle loro entrate. Ne derivarono anche difficoltà e conflitti tra le signorie terriere e i contadini coltivatori: dove c’erano solo viti non era possibile seminare cereali. Gli sforzi di conventi svevi e bavaresi di introdurre le forme di coltivazione che massimizzassero la produzione vinicola nelle loro numerose proprietà fondiarie sia a nord, ma soprattutto a sud delle Alpi (e nel territorio poi sudtirolese), sono documentate molto presto. A nord delle Alpi, per via delle condizioni climatiche avverse, i terreni adatti alla coltivazione della vite erano relativamente pochi. Ci si può facilmente immaginare che le pergole e i loro precursori fossero conosciuti da tempo. Soprattutto nei territori a sud delle Alpi ogni signoria religiosa che possedeva numerosi vigneti era interessata alla massimizzazione della produzione. È accertato che fin dal secolo XII circa 40 conventi e abbazie qui presenti spedivano grandi quantità di vino a nord del Brennero4. Anche nel territorio poi sudtirolese il terreno adatto alla coltivazione della vite era limitato, ma per ragioni diverse che a nord. I fondovalle rappresentano meno dei 5% del territorio complessivo. A tale fatto si aggiunge che lo sfruttamento agrario dei terreni tra Merano e Salorno allora era limitato dalla presenza di estese paludi. I terreni adatti alla coltivazione della vite si concentravano sulle colline e sui pendii dell’Oltradige e nella parte meridionale della Valle dell’Adige. Anche sui pendii soleggiati della Val Venosta e nelle zone favorevoli della media Vale d’Isarco (in ambedue le zone predomina il clima secco interalpino) non c’erano molti terreni adatti. È plausibile che la pergola si diffondesse assai presto, fin da prima della fondazione della Contea del Tirolo. La diffusione nelle zone pianeggianti avvenne in forma di grandi pergolati convergenti a formare un portico chiuso. Nei dintorni di Merano e Bolzano venivano definiti Argen5. In zone collinari dominavano le pergole semplici, dette Puntaun, Patäune, Patein, Punt, da cui anche il termini Puntwein, ovvero vino di pergola. Vigneti attorno a Bolzano e Trento a partire dal secolo XVII L’esempio più noto relativo alla predominanza delle pergole nei terreni vinicoli del Sudti-

rolo è l’immagine della città di Bolzano di Matthäus Merian, che risale all’anno 1649. Le pergole circondano l’intera città. Domina la monocoltura, giacché i proprietari erano intenzionati a trarre il maggior utile possibile dai loro terreni. Tra i vigneti, molti sono quelli relativamente grandi, cosa che permette di intuire rapporti giuridici, struttura proprietaria, condizioni del coltivatore ecc. (vedi immagine 1) Nei secoli XVI e VXII nei dintorni di Trento vigevano condizioni assai diverse. L’immagine è tratta dalla “Pianta prospettica di Trento” di Giovanni Andrea Vavassore, stampata nel 1563 a Venezia6: essa dimostra che la coltura bassa delle viti, in filari nei quali si riconoscono degli alberi come sostegni, era dominante. Gli alberi nei filari di vigne lasciano intuire influenze provenienti dal sud, dove gli altani erano assai diffusi. Fasce di coltivazione si alternano a file di vigne, sia come astarie che come altani 7. L’immagine avvalora quanto scrivevano cronisti ed esperti di viticoltura, che ancora nel XIX secolo scrivevano: “Il modo di coltivare nella valle dell’Adige cambia con il cambiare della lingua. Sotto normalmente le ghirlande italiane, sopra i pergolati” 8. (vedi immagine 2) Le attuali pergole trentine e sudtirolesi, per quanto siano simili hanno un’origine diversa. Le pergole trentine sono di gran lunga più recenti. Altri indizi che indicano l’introduzione in epoca recente delle pergole trentine si trovano nella costituzione (Landesordnung) di Michael Gaismayr del secolo XVI, in particolare laddove egli apprezza il modo di coltivare le viti che egli conosce dal Trentino. Le chiama Glasuren o Lassieren. Egli propone di bonificare le

paludi delle pianure dell’Adige e di piantarvi vigneti come in terra italiana (wälsch Land) e trasformarli in Glasuren per poter piantare grano tra i filari di viti9. Dunque riteneva fosse opportuno introdurre un nuovo tipo di coltivazione, non le Pataun o Punt (pergole), come erano usuali nei terreni pianeggianti del Tirolo per massimizzare la produzione. Probabilmente in Trentino c’era anche qualche rara pergola, come in Tirolo in certi luoghi erano presenti Lassieren e astarie10. Gli svantaggi della coltura intensiva e delle pergole Siamo abituati a considerare la massimizzazione della produzione come un obiettivo al quale tendere. Il produttore aumenta il suo guadagno e il consumatore ne approfitta, perché la concorrenza fa diminuire i prezzi. In Sudtirolo fin dal Medioevo la predominanza della coltura intensiva era un vantaggio solo per i proprietari. Nel conflitto tra conduttore e proprietario il primo, la parte più debole, era pesantemente svantaggiata. Il contadino, il cui interesse primario era quello di disporre di abbastanza seminativi e pascoli per il proprio sostentamento, doveva adeguarsi alle pretese dei proprietari della terra. La citazione dalla costituzione di Gaismayr dimostra quali tensione provocava la monocultura, giacché i numerosissimi vigneti occupavano i terreni migliori e più produttivi e limitavano fortemente sia la produzione destinata all’alimentazione sia, in parte, anche quella per il foraggio per il bestiame in stalla e per i cavalli. Ciò a sua volta portava con sé altri svantaggi. Ne citiamo qui uno solo. I singoli coltivatori di vigneti che lavoravano a mezzadria o in regime di colonia parziaria potevano certo 55


vendere la parte loro spettante di vino, ma a causa dell’incetta (Frühkauf) messa in atto in primavera da speculatori che pagavano prezzi bassissimi, i contadini dovevano procurarsi a credito cereali e altri generi alimentari sul mercato. Ciò portava a un drammatico indebitamento e metteva in moto un circolo vizioso infernale dal quale contadini non riuscivano a liberarsi. L’evoluzione della “coltura mista” in Trentino e l’assenza delle pergole Nelle regioni vinicole dell’attuale Trentino le forme miste delle Lassieren e degli altani erano predominanti. La minore pressione in direzione della monocoltura in tempi passati risultava sia dalla minore richiesta di vini proveniente dal nord (divieti di importazione), che da condizioni climatiche complessivamente migliori, che facilitavano la crescita della vite. Anche in terreni favorevoli ci si poteva permettere di ripiegare su forme meno redditizie (Lassieren e altani appunto). Più tardi, quando il vino divenne una merce molto ambita e redditizia e la pressione per una maggiore produzione aumentò, furono i rapporti agrari predominanti a svolgere un ruolo decisivo per il mantenimento della coltura mista. I contadini coltivatori trentini erano in stragrande maggioranza coloni non proprietari, che in una condizione di “polverizzazione fondiaria” coltivavano numerose piccole particelle di terreno, lontane tra loro, appartenenti a diversi signori. I padroni dei singoli fazzoletti di terra coltivati dal colono potevano di regola aumentare a piacimento il canone e solo loro decidevano cosa doveva essere coltivato. Su ognuna delle tante particelle solo in casi eccezionali il colono poteva decidere di propria iniziativa cosa coltivare. Nei contratti agrari predominanti, la mezzadria e la colonia parziaria, ciò era stabilito espressamente per ogni appezzamento. Se un colono non si adeguava, il signore ne cercava un’altro. Nel dintorni dei centri urbani commercianti, notai, avvocati, canonici, parroci, artigiani benestanti e persino intere confraternite si garantivano il proprio approvvigionamento alimentare acquistando quei fazzoletti di terreno che producevano i diversi beni che a loro servivano: frumento, vino, legumi, verdura, frutta, olio, fieno. Erano i padroni dei terreni ad avere interesse a mantenere la coltura mista. Fino al secolo XIX in Trentino dai proprietari delle terre non venne nessun sistematico impulso a cambiare il tradizionale modo di coltivare le vigne11. Esistevano anche impedimenti di natura economico politica. In Tirolo si volevano proteggere i vini locali dalla concorrenza dai vini meno costosi provenienti dal sud. Fino a quando esistette il divieto di importazione, anche ai trentini più intraprendenti venne a mancare la convenienza economica ad adottare forme di coltivazione più produttive. Le pergole in Trentino si diffusero più tardi, partendo dai proprietari di terreni delle giurisdizioni trentino–tirolesi. Erano quelle rappresentate nelle Diete provinciali di Innsbruck per le quali c’erano minori limitazioni all’esportazione12. La produzione specializzata

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subì un’accelerazione nel 1803, quando, con la soppressione del Principato, il territorio trentino divenne il Tirolo meridionale italiano. Dopo le guerre napoleoniche i divieti di importazione di vini dal sud furono progressivamente aboliti. Gia alla metà del secolo XIX iniziano le prime rappresentazioni di pergole, tuttavia ancora in coltura mista. Gli altani passarono in secondo piano. Solo alla fine del secolo XIX, quando la produzione vinicola ebbe un ulteriore impulso con la costruzione della ferrovia, le pergole trentine si diffusero. Dal 1900 circa esse avevano soppiantato tutti gli altri sistemi di coltivazione, dopo che, tra il 1880 e il 1890, a partire dalla Piana Rotaliana avevano superato il confine linguistico13. Non solo pergole La maggiore eccezione alla predominanza della pergole in Sudtirolo nel Medioevo era data dai vigneti del convento di Novacella, a nord di Bressanone, dove era il clima freddo (siamo oltre i 600 m di altitudine) ad imporre la coltivazione con viti molto basse. C’erano qui e là anche altri modi di coltivare le viti, come è testimoniato dal documento di conferimento al contadino del “maso del pendio pergolato” (Puntleithof) nel 1386 a Velturno, in un terreno che si trovava all’interno di una delle enclave del Principato vescovile di Bressanone. Nel documento il contadino viene impegnato a corrispondergli come censo “non solo metà dei cereali, ma anche metà del vino di tutte le vigne del maso, sia su alberi, cespugli, su pergole e su muri” 14. Elenchiamo in sintesi i tipi di coltivazione della vite presenti in Sudtirolo.

• I vigneti su terreni favorevoli, che fin da prima della costituzione della Contea erano quasi tutti di proprietà di conventi, capitoli e altre istituzioni religiose nei quali le pergole dominavano. • Le viti nei masi sotto gli 800 m che si trovavano nelle zone ai margini dei terreni vinicoli migliori, con pergole che delimitavano i campi coltivati (Randpergeln), pergole in mezzo ai prati (Wiesenpergeln), pergole tese sopra le strade, filari di bordo campo, Glasieren e pergole vicino agli edifici. • I vigneti presenti nelle poche signorie patrimoniali allodiali, dove il contratto con il contadino era deciso unicamente in base all’interesse del signore (contratti detti Freistift). Anche il modo di coltivare le viti poteva essere diverso, influenzato come era dall’interesse e dai gusti del signore.

Tratto da AA.VV., Rebsaft, ARUNDA 83, Silandro 2013, ivi De Biasi, Marius Von Pergeln, Lassieren und altani. Ein Beitrag zur Ziehung der Rebe und zur Entstehung der Pergeln in Suedtirol und im Trentino. Diritti riservati.

1 Stenico, Marco e Welber, Mariano, Mezzolombardo nel Campo Rotaliano. Contributi e documenti per la storia antica del teroldego, Moschini, Rovereto 2004, p. 67 e 417. 2 Montanari, Massimo, Cultura, lavori, tecniche, rendimenti, in Storia dell’agricoltura italiana II., (Il Medioevo e l’Età moderna), Polistampa, Firenze, 2002, p.. 59-81, ivi p. 60.


Immagine 1 / Abdildung 1 Pianta della città di Bolzano di Matthäus Merian nella Topographia Provinciarum Austriacarum del 1649. Matthäus Merians Bozner Stadtplan in der Topographia Provinciarum Austriacarum aus dem Jahr 1649.

3 de Rachewiltz, Siegfried – Haller, Franz, Tiroler Weinbau im Mittelalter, nche in Viticoltura tirolese nel Medioevo, DVD edito dal Museo storico provinciale di Castel Tirolo, 2002, cap. 7. 4 de Rachewiltz – Haller,Viticoltura tirolese nel Medioevo, op.cit. cap.5. 5 Ladurner-Parthanes, Matthias, Vom Perglwerk etc., op. cit. p. 46. 6 Haus-, Hof- und Staatsarchiv Vienna. 7 Il concetto è ripreso da Parthanes, Vom Perglwerk etc., a.a.O., p. 38. 8 Ladurner-Parthanes, Vom Perglwerk etc., a.a.O, S. 38: Relazione di Freiherr A. v. Babo, su incarico della Scuola agraria di Klosterburg, che nel 1864 visitò le zone viticole del Tirolo. Ladurner riporta inoltre che Giovanni Zippel, nella sua opera Die Società Enologica Trentina und der Weinbau des Trentino dell’anno 1905 fa osservazioni analoghe. 9 Hollander A., Michael Gaismairs Landesordnung, Schlern 1932, p. 425 e segg.

Immagine 2 / Abdildung 2 Particolare dalla “Pianta prospettica di Trento” di Giovanni Andrea Vavassore, 1563. Ausschnitt aus der “Pianta prospettica di Trento„ von Giovanni Andrea Vavassore, 1563.

10 Per le pergole trentine vedi Stenico, Marco, Welber, Mariano, Mezzolombardo etc. op. cit. p. 67, ivi anche la piantina con le Lassieren in Sudtirolo (Lassayr in Naturns, Glasier in Auer etc.), vedi Ladurner-Parthanes, Vom Perglwerk etc. op. cit., p. 36 u. 37. 11 Più dettagliatamente in De Biasi, Marius, Il Sudtirolo dalla Contea alla Heimat, Praxis 3, Bozen, 2008, pp. 262-268. 12 La storia dell’esportazione dei vini trentini verso nord è complicata. I problemi via via diminuirono quando nel 1083 il Principato fu abolito e il Trentino fu aggregato al Tirolo. Stenico-Welber, Mezzolombardo nel Campo Rotaliano, op. cit., ivi in particolare Welber, p. 245 e segg. 13 Ladurner-Parthanes, Vom Perglwerk etc., op. cit. p. 38. 14 de Rachewiltz – Haller,Tiroler Weinbau im Mittelalter, op.cit. cap.12.

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sehr ins Gewicht fiel.

Den meisten Südtirolern und den Trentinern fällt es gar nicht auf, Aber die Agrarlandschaft in unseren Weinbaugebieten - noch weitgehend von den Pergeln geprägt – ist in Europa ein Unikum. Verlässt man Südtirol und das Trentino und vergleicht man die Reblandschaften mit den unseren, fällt sofort auf, dass die Pergeln fehlen. Auch in den Weingegenden Frankreichs und in Spaniens sind die Pergeln, wie wir sie kennen, kaum vorzufinden. Worauf ist das zurückzuführen, und wie hat sich in unseren Weinbaugebieten eine für die Ziehung der Rebe so typische Form verbreitet? Und: ist der Weg hin zu den heutigen Pergeln im Trentino vergleichbar mit dem Werdegang der Südtiroler Pergeln? Bei unserer Recherche hilft uns der Umstand, dass – bei genauerer Betrachtung – die Entwicklung der jeweils typischen Ziehart der Rebe noch deutlich nachvollziehbar ist. Neben den gängigen, weit verbreiteten Formen sind Spuren der alten Ziehung und deren stufenweise Entwicklung aus älteren Formen noch klar zu erkennen. Mancherorts findet man sogar wahrlich kulturlandschaftliche Relikte vor. Des Weiteren sind die Bilder der Reben in Kunst und alten graphischen Darstellungen von großem Nutzen, wobei sich unser Blick meist auf den Hintergrund der Bilder richten muss, da Reben selten das Hauptmotiv darstellen und sie meist als nebensächliche, wenn nicht sogar zufällige Ausschmückungen erscheinen. Zwar indirekte, aber aufschlussreiche Informationen über den Werdegang der Pergeln geben die im Mittelalter vorherrschenden Agrarverhältnisse.

• Die lebendigen Baumstützen lieferten gleichzeitig Nutz- und Brennholz, dienten als Windschutz und gestatteten es, Laub als Futter für das Kleinvieh zu gewinnen. Später lieferten die Maulbeerbäume das Futter für die Seidenraupe. Ein Ausschnitt des Stadtplans von Rovereto (1508) beweist, dass die typischen italienischen altani nicht nur in Norditalien, sondern auch im südlichen Teil des Fürstbistums Trient verbreitet waren. Seit jeher gab es in Italien eine zweite, weit verbreitete Ziehung der Rebe, die man Steckelebau nannte. In italienischen Dokumenten aus dem Mittelalter wird sie auch astaria (von asta, Stange) genannt2. Im italienischen Sprachraum – besonders aber im Trentino – war also die Reblandschaft seit jeher nicht vom Bild der Pergeln gekennzeichnet, obwohl gewiss mancherorts auch Pergeln vorhanden waren.

Ein Blick über unsere Region hinaus Eine typische, weit verbreitete und sehr alte Ziehart der Rebe war in Italien die vite con sostegni vivi (damals auch altano genannt)1. In den Ebenen Nord- und Mittelitaliens fand man sehr oft z.B. die vite maritata all’olmo, das heißt die „Ehe zwischen Rebe und Ulme“ vor. Später wurden in dieser Ziehart Maulbeerbäume als Stützen benutzt. Eine lokale Variante war die sogenannte piantata padana, die in der Poebene üblich war, obwohl sie heute fast überall verschwunden ist. In dieser Form waren die Reben in Zeilen angepflanzt, welche die langen Äcker säumten. Vor allem drei Gründe waren es, die diese Art der Ziehung und die altani begünstigten: • die Urrebe ist eine Schlingpflanze, die in der Natur mit ihren Ranken an Bäumen parasitenhaft emporklettert, um so das Licht zu erreichen. Sie erstickt aber den Baum nicht, sondern hat sich, wie jeder echte Schmarotzer, gut angepasst. Sie leidet auch nicht unter der Tatsache, dass ihre Wurzeln neben jenen des Wirtbaumes Nahrung suchen müssen. • In Italien ermöglicht das wärmere Klima praktisch überall Reben anzupflanzen, sodass eine etwas geringerer Ertrag in der Ziehart der vite maritata in älteren Zeiten nicht allzu 58

Sehr alte Spuren der hohen Ziehart der Reben im deutschen Sprachraum und im späteren Südtirol Nördlich der Alpen kannten schon die Kelten den Wein. Ihnen verdanken wir sogar die Erfindung der Holzfässer. Unter den Römern waren die Weinproduktion und der Weinimport aus dem Süden weit verbreitet. Im frühen Mittelalter erfuhr die Weinproduktion durch die Ausbreitung des Christentums einen neuen Impuls, da die Kirche aus kultischen Zwecken auf den Wein angewiesen war. Sehr früh widmeten sich Bistümer (der Bischof wurde auch pater vinearum genannt) der

Weinproduktion und -kelterung. Besonders Klöster und Stifte (einige davon fingen sehr früh an, Benediktbeuren wurde im VIII Jahrhundert gegründet) spielten auf Grund der Verflechtung von religiösen und wirtschaftlichen Zielen im frühen Mittelalter eine entscheidende zivilisatorische Rolle. Im Weinbau griffen sie noch vorhandenes römisches Können auf und entwickelten es weiter, wobei sie in ihren ausgedehnten Besitzungen alte Agrartechniken wieder verbreiteten und neue einführten. Manch ein Historiker hat das Überschreiten der Alpen durch die soeben christianisierten Bajuwaren mit dem Weinvorkommen im Süden verbunden. Tatsache ist, dass schon im Jahre 1074 ein Abt des Klosters Benediktbeuren eine vinea pretiosa erwähnt, die in Bozen gelegen war3. Sobald sich in den großen Ländereien von Bistümern, Klöstern, Stiften und Kirchen neben den Rodungen auch Schenkungen, Vermächtnisse und Widmungen häuften, gingen die meisten der für die Weinproduktion günstigen Böden und Äcker in kirchliche Hand über. In den kostbaren vinea, wurde die Maximierung der Produktion bald oberstes Gebot, zumal Wein, neben seiner kultischen Verwendung, bald wieder ein allenthalben begehrtes, gut bezahltes, gewinnbringendes Produkt wurde, mit dem geistliche und weltliche Grundherren den Großteil ihres Einkommens erwirtschafteten. Daraus entstanden sowohl ein Interessenskonflikt zwischen Grundherren und Bauern als auch produktive Engpässe: wo nur Reben waren, da gab es kein Getreide. Auf den günstigen Böden, die im Besitz von Klöstern und Stiften waren, dominierte die Monokultur. Die Bemühungen bayerischer


und schwäbischer Klöster, sowohl in ihren nördlichen, als auch in ihren ausgedehnten, südlich der Alpen gelegenen Besitzungen (im späteren Südtirol) die erträglichsten Formen der Ziehung der Reben einzuführen, sind sehr früh nachzuweisen. Im Norden waren vor allem wegen der ungünstigeren klimatischen Verhältnisse die für den Weinbau geeigneten Böden relativ selten. Man kann sich gut vorstellen, dass in den Weingärten nördlich der Alpen die Weinlauben oder ihre Vorläufer seit jeher bekannt waren. Die geistlichen Grundherren waren – vor allem in unseren Gegenden - An der Maximierung der Produktion in ihren zahlreichen Weingärten interessiert. Sicher ist, “dass etwa 40 Klöster Unmengen von Wein aus ihren Südtiroler Besitzungen über den Brenner verfrachteten“ 4. Auch im späteren Südtirol waren die geeigneten Böden begrenzt, allerdings aus anderen Gründen als im Norden. Die Talsohlen machen weniger als 5% des Landes aus. Hinzu kommt, dass die landwirtschaftliche Nutzung der Talsohle durch die ausgedehnten Etschauen zwischen Meran und Salurn damals stark eingeschränkt war. Die für die Rebe geeigneten, trockenen Böden konzentrieren sich auf die Hügel und Hänge im Überetsche und im unteren Etschtal. Die sonnigen Südhänge des Vinschgaus sowie die Gegenden des unteren Eisacktales (in beiden Tälern herrscht inneralpines Trockenklima) besaßen auch nicht viele für den Anbau von Reben geeignete Hänge. Es ist durchaus vorzustellbar, dass bei uns die hohe Ziehung der Reben schon sehr früh, das heißt noch vor der Gründung Tirols, angewandt wurde. Einige Autoren sind der Meinung, dass bereits die Räter hier pergelähnliche Gestelle benutzt hatten und dass sich daraus die Pergeln entwickelten, die sich später durch das Wirken von Klöstern und Stiften allgemein etablierten5. In den flacheren Gegenden geschah das in Form von großen offenen oder geschlossenen Weinlauben (in der Umgebung von Meran und in Bozen hießen sie 1274 auch Argen)6; in hügeligen Gegenden - auf Hängen und Steilhängen - in Form einfacher Pergeln. Früher waren für diese Ziehart Namen wie Puntaun, Patäune, Patein, Punt üblich, von denen dann wiederum Begriffe wie Puntwein abgeleitet wurden. Weingärten um Bozen und Trient in der frühen Neuzeit Das wohl bekannteste Beispiel für die Vorherrschaft der Pergeln in den ergiebigen Weinböden Südtirols ist Merians Bozner Stadtbild aus dem Jahre 1649. Pergeln umgeben die ganze Stadt. Die Art der Bestellung der Weingärten bekräftigt die Verbreitung der Monokultur, die weltlichen und geistlichen Besitzer dieser Weinäcker waren darauf bedacht, das größtmögliche Einkommen aus ihren Besitzungen zu erwirtschaften. Zahlreiche Weingärten sind relativ groß, was Schüsse auf Agrarverhältnisse, Besitzstruktur, Stellung des Baumannes etc. zulässt. (siehe Abdildung 1)

Trentiner Stadtbilder aus den vorigen Jahrhunderten zeigen ganz andere Zustände. Das Bild ist ein Ausschnitt aus der Pianta prospettica di Trento von Giovanni Andrea Vavassore, die 1563 in Venedig gedruckt wurde7. Das Bild beweist, dass die niedere Ziehung – in Zeilen, in denen auch Bäume vorkommen – in Trient und Umgebung vorherrschend war. Die Bäume in den Rebenreihen deuten auf Einflüsse aus dem Süden hin, wo die „altani“ weit verbreitet waren. Auch hier sind die Äcker zahlreich. In den einzelnen Weingärten erkennt man, dass sich die Rebenreihen im Steckelebau mit den dazwischen liegenden Ackerstreifen abwechseln8. Das Bild untermauert die Aussagen von Chronisten und Weinbaufachleuten, die bereits Ende des XIX. Jahrhundert schrieben: “Die Erziehungsart ändert sich im Etschtal mit dem Wechsel der Sprache. Unten gewöhnlich italienische Girlanden, oben Dachlauben„9. (siehe Abdildung 2) Die modernen Trentiner und Tiroler Pergeln, obschon sie heute sehr ähnlich sind und vergleichbar zu sein scheinen, haben einen grundsätzlich anderen Werdegang. In den meisten Gegenden ist die heutige pergola trentina weitaus jünger. Weitere Indizien für das Fehlen der Pergeln im Trentino finden wir in der Landesordnung des Michael Gaismair, und zwar dort, wo er die Zieharten der Reben preist (er spricht von glasuren und lassieren), die ihm aus dem Trentino bekannt waren. Er schlägt vor, die Auen des Etschtales trocken zu legen, um dort Weingärten anzulegen. Man soll dabei “die poden weinggarten zu glasuren machen wie im wälsch Landt und darzwischen

getraide anbauen„10, also keine Punten oder Patäune anlegen, wie sie in den produktiven poden weingarten Tirols üblich waren. Was Pergeln betrifft, gab es im Trentino selbstverständlich auch Ausnahmen, wie es in Südtiroler Weingegenden mancherorts Lassieren und Steckelebau gab11. Intensivkultur und Vorherrschaft der Pergeln brachten auch beträchtliche Nachteile mit sich Wir sind es gewohnt, die Maximierung der Produktion als ein anzustrebendes wirtschaftliches Ziel zu betrachten. Der Produzent vergrößert dadurch seinen Gewinn und der Konsument profitiert, weil die Konkurrenz sinkende Preise mit sich bringt. Im Mittelalter und bis hinauf in die Neuzeit war die hierzulande für die Reben weit verbreitete Intensivkultur aber nur für den Grundbesitzer von Vorteil. Im Konflikt zwischen Baumann und Grundherrn war ersterer, die schwächere Partei, stets benachteiligt. Der Bauer, dessen lebenswichtiges Interesse es war, Getreide für seine Ernährung anzubauen und Weideflächen anzulegen, musste sich den Wünschen des Grundherren fügen. Das Zitat aus der Landesordnung Gaismairs beweist, welche Spannungen die Monokultur mit sich brachte, denn die unzähligen Weingärten besetzten die besten und produktivsten Gründe und verminderten die Gesamtproduktion von Nahrungsmitteln für die Bevölkerung und von Futter für Vieh und Pferde beträchtlich. Das brachte wiederum eine Reihe negativer Folgen mit sich. Hier sei nur an eine angeführt: zwar konnten die einzelnen Teilpacht-Bauern der Weinhöfe ihren Anteil an Wein verkaufen, 59


aber aufgrund des “Frühkaufs„ (die Ernte wurde schon zu Jahresbeginn von Händlern, die mit der Not der Bauern spekulierten, zu Spottpreisen gekauft) mussten die Bauern das Getreide und andere Nahrungsmittel auf Kredit erwerben. Das führte oft zu einer hoffnungslosen, verhängnisvollen Verschuldung, aus deren Teufelskreis sich die Bauern nicht befreien konnten. Die Entwicklung der “coltura mista„, der “Acker- Wein- und Baumkultur„ im Trentino und das Fehlen von Pergeln In den Weingebieten des heutigen Trentino waren Lassieren und „altani“, also gemischte Bewirtschaftungsformen der Äcker, vorherrschend. Der geringere Druck hin zur Monokultur ergab sich in älteren Zeiten einerseits aus der geringen Nachfrage aus dem Norden (Einfuhrverbote) und andererseits auf Grund der allgemein besseren klimatischen Bedingungen, die das Gedeihen der Rebe erleichterten. Auch in den günstigen Böden konnte man es sich leisten, für die Reben weniger produktive Zieharten zu benutzen (Lassieren, altani, Steckelebau). Auch als der Druck später größer wurde, weil der Wein zu einer begehrten Ware geworden war, spielten die vorherrschenden Besitzverhältnisse eine entscheidende Rolle für die Beibehaltung der coltura mista, die Acker-, Wein- und Baumkultur. Die Trentiner Bauern waren meist Colone, die im Zustand der sogenannten polverizzazione foniaria mehrere zerstreute, verschiedenen Besitzern gehörende Kleinparzellen bestellten. Die Grundherren konnten in der Regel den Zins ihrer kleinen Parzellen nach Belieben erhöhen und alleine sie bestimmten, was angebaut werden durfte. Auf den meisten Parzellen, die der colono bestellte, war ihm jede Eigeninitiative untersagt. In den beiden am meisten verbreiteten Vertragsformen – livelli und Teilpacht – war das für die jeweilige Parzelle festgeschrieben. Fügte sich der Baumann nicht, suchte sich der Grundherr einen anderen colono. In der Nähe von Städten und größeren Ortschaften (wo Händler, reichere Kaufmänner, Notare, Rechtsanwälte, Kanoniker, Stadtpfarrer, begüterte Handwerker, sogar ganze Bruderschaften die eigene Nahrungsmittelversorgung dadurch sicherten, dass sie möglichst viele Kleinäcker erwarben) lag die coltura mista im Interesse der Grundherren. Somit ging von den Besitzern kein Impuls zur Änderung der althergebrachten Art der Rebenziehung aus12. Einer Erhöhung der Weinproduktion standen auch wirtschaftspolitische Hemmschuhe im Weg. In Tirol galt es, die Südtiroler Weine von der Konkurrenz der billigeren Weine aus dem Süden zu schützen. Solange das Importverbot bestand, fehlte unternehmungslustigeren Trentinern der wirtschaftliche Anreiz, die Weinproduktion zu forcieren und die weniger produktiven Zieharten zu verändern. Die Pergeln setzten sich im Trentino erst später durch und gingen von den Giurisdizioni trentino–tirolesi aus. Das waren jene Trentiner Gerichte, die in den Tiroler Landtagen

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vertreten waren und für die daher wenige Ausfuhrbeschränkungen bestanden13. Die spezialisierte Weinproduktion wurde 1803 beschleunigt, als das Fürstbistum aufgehoben und zu Welschtirol wurde. Nach den napoleonischen Kriegen wurden die Einfuhrverbote welschen Weines allmählich aufgehoben. Einen weiteren Impuls erfuhr die Weinproduktion durch den Bau der Eisenbahn. Schon Mitte des XIX. Jahrhunderts kommen in der Umgebung von Trient erste Darstellungen von Pergeln vor, allerdings immer noch in der coltura mista. Ab etwa 1900 verdrängten die Pergeln dann alle anderen Zieharten, nachdem sie, ausgehend von der Piana rotaliana, um 1880/90 die Sprachgrenze überschritten hatten14. Nicht nur Pergeln Die bedeutendste Ausnahme zur Vorherrschaft der Pergeln in Südtirol waren die Neustifter Weingaerten noerdlich von Brixen, wo das rauere Klima und die Höhenlage (über 600 m) niedere Zieharten aufzwang. Mancherorts gab es in Südtirol im Mittelalter neben den Pergeln auch andere Zieharten, wie aus der Verleihungsurkunde für den Baumann des Puntleithofes in Feldthurns (1386) zu entnehmen ist. Darin wird der Baumann vom Grundherrn dazu verpflichtet, als Grundzins “nicht nur das halbe Getreide, sondern auch den halben Wein zu geben, und zwar aus allen Reben die im Hofe wachsen, es sei denn auf Bäumen, Stauden, auf Pergeln oder Mauern„15. Zusammenfassend gab es in Südtiroler folgende Zieharten der Rebe • Die Weingärten auf den günstigen Böden,

die vor der Gründung Tirols fast durchaus von Klöstern und Stiften, Bistümern und kirchlichen Institutionen eingenommen worden waren und wo die Pergeln dominierten. • Reben in Höfen unterhalb der 800 Höhenmeter, die in den Randgebieten des Weinbaues lagen, dem Landesfürsten unterstellt waren. (Randpergeln, Wiesenund Ackerrandpergeln, Wegpuenten, Glasyren, Hauspergeln).. • Reben und Weinberge in den wenigen Patrimonialherrschaften Tirols eigens betrachten, dort wo der Vertrag mit dem Baumann vom jeweiligen Grundherren nach Gutdünken bestimmt werden konnte (Stichwort „Freistift“). Auch die Ziehung konnte verschieden sein und wurde sowohl vom Interesse, als auch vom Geschmack des Grundherrn beeinflusst.

Aus Sammelwerk Rebsaft, ARUNDA 83, Schlanders 2013, dort De Biasi, Marius Von Pergeln, Lassieren und altani. Ein Beitrag zur Ziehung der Rebe und zur Entstehung der Pergeln in Suedtirol und im Trentino. Alle Rechte vorbehalten.

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Stenico, Marco - Welber, Mariano, Mezzolombardo nel Campo Rotaliano. Contributi e documenti per la storia antica del teroldego, Moschini, Rovereto 2004, S. 67 u. S. 417. 2 Montanari, Massimo, Aufsatz, Cultura, lavori, tecniche, rendimenti, in Storia dell’agricoltura italiana II., (Il Medioevo e l’Età moderna), Polistampa, Firenze, 2002, S. 59-81, u. S. 60.


Marius De Biasi è autore di libri di storia locale. Nei suoi lavori economia contadina e storia del paesaggio agrario assumono grande rilievo.

Marius De Biasi hat einige Bücher über die Geschichte unseres Landes geschrieben. In seinen Werken spielen Landwirtschaft und Geschichte der Agrarlandschaft eine große Rolle. 3

de Rachewiltz, Siegfried – Haller, Franz, Tiroler Weinbau im Mittelalter, DVD Landesm. f. Geschichte, Schloß Tirol, 2002, Kap. 7. 4 de Rachewiltz – Haller, Tiroler Weinbau, a.a.O., Kap.5. 5 Tumler, Franz, Terminologie des Weinbaues im Etsch- und Eisacktale, Schlern Schriften 4, Wagner, Innsbruck 1924, Ss. 12-13 zitiert in Ladurner-Parthanes, Vom Perglwerk zur Torggl, Athesia, Bozen, 1972, S. 40. 6 Ladurner-Parthanes, Matthias, Vom Perglwerk etc., a.a.O., S. 46. 7 Haus-, Hof- und Staatsarchiv Wien. 8 Der Begriff ist von Ladurner-Parthanes, Vom Perglwerk etc., a.a.O., S. 38, übernommen. 9 Ladurner-Parthanes, Vom Perglwerk etc., a.a.O, S. 38: Bericht des Freiherr A. von Babo, der im Auftrag der Obst und Weinbauschule in Klosterburg 1864 das Tiroler Weinbaugebiet bereiste. Ladurner berichtet des Weiteren, dass Giovanni Zippel in seinem Werk Die Società Enologica Trentina und der Weinbau des Trentino aus dem Jahr 1905 ähnliches beschreibt.

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Hollander A., Michael Gaismairs Landesordnung, Schlern 1932, S. 425 u ff. Für die Trentiner Pergeln siehe: Stenico, Marco, Welber, Mariano, Mezzolombardo etc. a.a.O. S. 67, dort auch die Karte. Für die Südtiroler Lassieren (Lassayr in Naturns, Glasier in Auer etc.), siehe Ladurner-Parthanes, Vom Perglwerk etc. a.a.O. 36 u. 37. 12 Dazu ausführlich in De Biasi, Marius, Il Sudtirolo dalla Contea alla Heimat, Praxis 3, Bozen, 2008, S. 262-268. 13 Die spätmittelalterliche und neuzeitliche Geschichte der Ausfuhr des Trientner Weine ist sehr komplex. Die Probleme nahmen allmählich ab, als 1803 Trient zu Tirol geschlagen wurde. Stenico-Welber, Mezzolombardo nel Campo Rotaliano, a.a.O., dort besonders Welber, S. 245 u ff. 14 Ladurner-Parthanes, Vom Perglwerk etc., a.a.O., S. 38. 15 de Rachewiltz – Haller,Tiroler Weinbau im Mittelalter, a.a.O., Kap.12. 11

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> Bodini, Bronzolo / Branzoll

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> Bodini, Appiano / Eppan

> Bodini, Appiano / Eppan

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> Bodini, Termeno / Tramin-SĂśll

> Bodini, RoverĂŠ della Luna

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> Stecher, Pressano

> Bodini, Pochi / Bucholz

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> Bodini, Termeno / Tramin

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IL LAVORO DELL’UOMO / ARBEIT VON MENSCHENHAND Tatiana Andreatta

Il vino accompagna da millenni la vita dell’uomo. Bevanda carica di significati simbolici e rituali, dal potere euforizzante, integratore e ricostituente; ma anche merce di scambio, non solo tra la popolazione ma anche tra vignaioli esperti e imperatori esigenti. A oggi il vino continua ad essere un alimento ed un elemento importante nella vita degli individui. Una bevanda ormai a disposizione di molti e consumata nelle situazioni e negli ambienti più vari, pur sempre oggetto di nuove riflessioni. Tuttavia il vino è “solo” il risultato finale di un lungo processo che il contadino mette in atto circa un anno prima rispetto alla vinificazione. Un processo che inizia in inverno con la potatura e si conclude con la vendemmia l’autunno successivo. Volendo compiere una breve analisi in chiave antropologica del lavoro del vitivinicoltore nella contemporaneità, è necessario partire proprio da qui, dal vigneto e dagli individui che in esso operano. Per parlare di vino in quest’ottica, è fondamentale analizzare ciò che sta alla base della sua produzione ma anche e soprattutto guardare a chi sta dietro ad un prodotto – non solo alimentare – che i non esperti consumano spesso senza la consapevolezza del suo processo produttivo, fatto da un insieme complesso di conoscenze, tecniche, strategie e fatica. Nella storia legata all’attuale Trentino - Alto Adige, e in particolare alla Valle dell’Adige compresa fra Trento e Bolzano, la vite ha costituito da sempre la principale coltura. Ad eccezione di periodi segnati da interruzioni o rallentamenti per cause belliche o epidemiche, il contadino trentino si è fin dai tempi antichi dedicato alla viticoltura, spesso anche solo per il proprio fabbisogno. Prima dell’avvento della meccanizzazione dell’agricoltura, dagli anni Sessanta in poi, le tecniche e gli attrezzi da lavoro erano molto diversi rispetto a quelli moderni. La potatura invernale ed estiva e la vendemmia erano eseguite con l’ausilio del roncolo. Zolfo e rame, utilizzati contro i parassiti animali e vegetali, erano cosparsi con solforatrici e irroratrici manuali. Così anche lo scasso del terreno, la spollonatura, la defogliatura e in generale tutte le cure che il contadino rivolgeva al vigneto erano effettuate senza l’impiego di macchinari. Anche nella

seconda fase del processo vitivinicolo, cioè la vinificazione, il contadino ricopriva una posizione di primaria importanza. A mano avveniva il travaso dell’uva nelle brente, la pigiatura con l’ammostatoio, il trasporto attraverso le botti castellate, la follatura, la svinatura e il travaso nelle botti. Si assisteva, quindi, ad un coinvolgimento totale ed in prima persona del vitivinicoltore, poiché ogni fase di lavoro necessitava di un suo intervento manuale diretto. Ai giorni nostri le macchine agricole si sono sostituite quasi totalmente al contadino, apportando, tra gli altri, enormi contributi in termini di riduzione dei tempi lavorativi e di forza fisica necessari al lavoro nei campi. Nel tempo sono cambiati molteplici aspetti della vitivinicoltura, come ad esempio gli attrezzi, le tecniche, le strategie e gli approcci, sia nel vigneto che in cantina. Ma sono variati anche i materiali. Il legno era il protagonista di questo settore, come in molti altri della vita contadina, adesso quasi totalmente sostituito dalla plastica e dall’acciaio. In legno erano gli strumenti da lavoro, il pergolato, i recipienti ma soprattutto le botti, costruite con accuratezza e maestria da esperti bottai. Il contadino di un tempo era costretto ad adattarsi a numerose limitazioni, in primo

luogo a quelle ambientali proprie delle zone alpine. Il poter contare solo sulla forza umana lo ha costretto a individuare soluzioni ingegnose e versatili, e gli ha permesso di sviluppare saperi e competenze attraverso la pratica e il diretto contatto con il vigneto. Il viticoltore trascorreva gran parte del tempo nei filari, sperimentava, imparava e soprattutto osservava l’ambiente che lo circondava, con l’obiettivo di comprenderlo al fine di gestirlo nel miglior modo possibile. Tutto ciò ha permesso la nascita di una cultura materiale e immateriale legata alla vitivinicoltura. Un insieme complesso di conoscenze che sono arrivate fino ai giorni nostri. Coltivare la vigna e produrre vino fino a mezzo secolo fa, all’interno di un sistema agrosilvopastorale di quasi totale sussistenza e in condizioni estremamente diverse da quelle attuali, implicava modalità e concezioni che con il passare del tempo sono mutate o addirittura scomparse. La modernità ha permesso di ottenere risultati un tempo impensabili e ha garantito l’apporto di mezzi che hanno accorciato sempre più la distanza fra l’essere umano e i suoi obiettivi produttivi. Allo stesso tempo, la forte accelerazione degli ultimi decenni ha in parte costretto il contadino a rivedere i metodi di coltivazione tradizionali per riuscire a far 67


fronte a nuove esigenze. Nuove sperimentazioni, tecniche e soluzioni hanno permesso di raggiungere risultati sempre più ambiziosi. Il settore vitivinicolo è uno degli ambiti dell’agricoltura che maggiormente è riuscito ad adattarsi ai cambiamenti, sapendosi affermare come il frutto della relazione dialettica e dinamica fra tradizione e innovazione. Nuovi scenari per la vitivinicoltura I cambiamenti che negli ultimi decenni hanno interessato il modo di fare e concepire la vitivinicoltura, hanno portato ad un abbandono generale dell’agricoltura tradizionale e progressivamente alla perdita di quella relazione simbiotica fra l’uomo e l’ambiente tipica del tempo in cui a governare erano le leggi della natura e non quelle del mercato. Tuttavia questa condizione, caratterizzata da forti cambiamenti, ha permesso l’emergere di realtà alternative che si sono distinte e che, pur rappresentando una minoranza, hanno avuto e sempre di più avranno un forte impatto culturale sulla vitivinicoltura del Trentino-Alto Adige. Il riferimento è a quelle aziende che hanno intrapreso la strada della sostenibilità ambientale, praticando un’agricoltura di tipo integrato, biologico o biodinamico1, pur indicando queste definizioni modalità differenti d’intervento sul vigneto e in cantina. Tuttavia tali approcci sono caratterizzati da una visione per molti aspetti simile, che pone al primo posto il dovere da parte del contadino di operare con rispetto nei confronti dell’ambiente, del paesaggio e del territorio. Le nuove tecniche proposte da questi tipi di agricoltura prevedono, in generale, la diminuzione o la totale eliminazione dell’uso di fertilizzanti chimici, sostituiti da quelli organici e biodegradabili come letame maturo e compost vegetale. Al posto di pesticidi di sintesi sono utilizzati preparati di origine naturale e altri metodi di difesa sostenibili come, ad esempio, la confusione sessuale contro la diffusione della Tignoletta della vite (o Lobesia botrana) Un’attenzione particolare è riservata però alla cura del terreno, che all’interno di questi approcci acquisisce un’importanza primaria. Il terreno permette di fare agricoltura e solo se le sue condizioni sono buone è possibile raggiungere risultati positivi tanto in campagna quanto in cantina. In particolare, la vitivinicoltura sostenibile punta all’aumento del livello della biodiversità, alla limitazione dell’erosione, dell’instabilità e della perdita di fertilità del suolo. Il vino è l’espressione di un terroir, e nel suo sapore si ritrovano i caratteri di una terra, e proprio questo fa della cura e del miglioramento del terreno l’obiettivo principale di queste forme di vitivinicoltura. Decenni d’inquinamento e sfruttamento intensivo hanno portato a un forte impoverimento delle terre coltivate, spesso ormai private delle caratteristiche adatte a produrre alimenti sani e nutrienti. Da qui l’adozione di tecniche sostenibili di recupero del terreno, come ad esempio l’inerbimento con graminacee e la conseguente eliminazione dell’uso di diserbanti, l’arieggiamento del terreno ed il sovescio, pratica che prevede la semina inter68

filare di piante – come le leguminose – in grado di migliorare la struttura del terreno. Queste soluzioni sono utili a garantirne l’umidità, l’ossigenazione, l’aumento della popolazione microbica e della sostanza organica e minerale, tutti componenti necessari affinché un terreno sia fertile e in grado di offrire alle piante le condizioni necessarie ad uno sviluppo vegetale e produttivo equilibrato. Sono tecniche praticate anche in passato, seppur per esigenze diverse: la coltura mista, per esempio, era il sistema comunemente usato nell’organizzazione dei campi, dove alla vite si alternavano cereali e colture foraggere. La tradizione agricola del passato offre quindi molti spunti all’agricoltura contemporanea e alla sua sostenibilità. Quello che ritorna non sono però tecniche e modalità di lavorazione ma soprattutto approcci culturali e concezioni. È infatti necessario sottolineare che non sempre, in un passato lontano, sono state compiute scelte ecologicamente sostenibili. L’evoluzione della conoscenza portata dalla modernità è mantenuta e considerata positiva dagli agricoltori intervistati, così come l’uso di macchinari e di altre soluzioni che possono facilitare e migliorare le condizioni dei lavoratori e della produzione vinicola. Ciò che invece viene rifiutato è l’atteggiamento di distacco e dominio che negli ultimi decenni ha caratterizzato la produzione agricola intensiva per scopi commerciali. Del passato si riscopre la capacità di conoscere, comprendere e quindi osservare l’ambiente nel quale si opera, in un connubio di innovazione e tradizione. L’ecosistema vigneto è concepito nel suo insieme, gli è riconosciuta un’identità, delle peculiarità e delle esigenze alle quali

è necessario guardare per operare in maniera rispettosa nei confronti dell’ambiente, del coltivatore che di esso è parte integrante e, di conseguenza, del consumatore. Relazionarsi in questo modo alla vitivinicoltura significa promuovere un approccio che, partendo dal terreno fino ad arrivare al clima, tiene in considerazione sistematicamente le numerose variabili che fanno del vigneto un luogo vivo in ogni stagione dell’anno. Un ambiente che richiede specifici e consapevoli interventi in grado di rispettare i tempi della natura e quei ritmi che in passato, senza la chimica e la meccanizzazione, era necessario conoscere alla perfezione. È un lavorare in simbiosi con la vigna, all’interno di una relazione dialettica. La vitivinicoltura sostenibile salvaguarda e valorizza le peculiarità di un territorio per poterle trasmettere, in un secondo momento, ai propri prodotti. In questo modo, coltivando la terra il contadino coltiva anche la propria identità e soprattutto l’identità del vino, sintesi perfetta della relazione fra se stesso e l’ambiente. Vignaioli, viti e vino in immagini Le immagini presentate in questa sezione tematica mirano a documentare il lavoro dell’uomo impegnato nella coltivazione del vigneto e nella produzione del vino. Una dimensione fondamentale, quella antropica, che assieme a quella territoriale forgiano paesaggi e identità nella zona a nord di Trento e a sud di Bolzano. Sono immagini che vogliono raccontare il presente e, soprattutto, coloro che conoscono, comprendono e vivono la campagna, sospesi tra tradizione e innovazione. Anche le cantine


trovano spazio in questa rassegna e sono colte nel loro fascino di luoghi della produzione ma anche della riflessione. Spazi scuri ed imperscrutabili dove con meticolosità si produce e conserva il vino. I fotografi fissano quella che è la vita faticosa e intensa del contadino e lo fanno con criteri ben definiti e ragionati. La fotografia, come ogni altra rappresentazione della realtà, è soggettiva. Chi sta dietro l’obiettivo sceglie cosa fotografare, in quale momento e con quali modalità. Come il vitivinicoltore, che trasmette attraverso il vino caratteristiche e peculiarità di se stesso, così il fotografo comunica attraverso le sue immagini la propria personalità e la percezione di ciò che osserva. Tuttavia è possibile affermare, come sostiene Pietro Nervi, che «la fotografia costituisce un mezzo intrinsecamente realista e referenziale, dal momento che per comunicare fa affidamento essenzialmente sul senso delle persone e degli oggetti che l’operatore riprende»2. Queste immagini, aldilà delle scelte arbitrarie dei fotografi, sono prima di tutto immagini che documentano la realtà vitivinicola del Trentino-Alto Adige, con chiarezza e profondità di espressione. Alle competenze dei fotografi si sommano quelle dei contadini, veri protagonisti di queste immagini. Esse fungono «da amplificatore, da strumento di dignificazione della razionalità contadina» che viene così «fissata, acquisita, elaborata e conservata»3. Mettono in luce e valorizzano i luoghi, le fasi di lavoro, gli oggetti ma soprattutto le persone e quello che vi sta dietro: storie di vita, emozioni, ricordi, identità, saperi, esperienze, tradizioni. Esse veicolano significati altri, raccontano di uomini e donne

quali elementi imprescindibili di un mondo che, quasi silenziosamente, continua a trasformarsi, ad innovarsi e a plasmare la vita di molti. Componenti che si fondono con il paesaggio diventando un tutt’uno con l’ambiente. Emblema di questa relazione sono le mani operose, vissute, solcate da linee che ricordano le nervature della foglia di vite e che si mescolano alla terra in una relazione reciproca che supera quel dualismo uomo/ natura che nella cultura occidentale ha troppo spesso preso il sopravvento sulla simbiosi uomo-ambiente. Queste immagini sono una riflessione intorno all’uomo e, in particolare, al mondo contadino. Un mondo che negli ultimi decenni è stato definito conservatore, tradizionalista e primitivo, talvolta nell’accezione negativa del termine, ma che invece, come illustrato fin qua, non ha mai ceduto il passo all’immobilismo e alla chiusura. È un mondo vivo e dinamico, ricco di potenzialità, fatto in primo luogo da persone, uomini e donne, capaci di reinventarsi giorno dopo giorno. Se è vero che «la crisi del mondo contadino è anche, e soprattutto, una crisi d’identità»4, è altrettanto vero che sono proprio i momenti di crisi quelli caratterizzati da grandi mutamenti e dall’emergere di nuove prospettive. La vitivinicoltura sostenibile è solo uno dei tanti esempi che si potrebbero fare. Esempio di cambiamento e di messa in discussione; esempio di ridefinizione ed affermazione, con passione e coraggio, di nuovi principi, valori, tecniche e azioni. E passione e coraggio, al pari della viticoltura nel territorio a nord di Trento e a sud di Bolzano, non vedono confini.

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Per approfondimenti vedi: Braccini P., R. Mazzilli, Manuale di viticoltura biologica, Firenze, ARSIA, 2010; Joly Nicolas, Il vino tra cielo e terra. La viticoltura in biodinamica, Roma, Porthos Edizioni, 2004. 2 In Faganello F., P. Nervi, Mondo contadino. Die Welt des Bauern. Trentino 1960-1990, Ivrea, Priuli & Verlucca editori, 1995. 3 Ibid. 4 Ibid.

Der Wein begleitet bereits seit Jahrtausenden das Leben des Menschen. Dieses symbolträchtige und für rituelle Zwecke vielseitig eingesetzte Getränk hat anregende, ergänzende und aufbauende Kräfte. Doch es wurde stets – sei es vom Volk, sei es von Weinkennern oder anspruchsvollen Kaisern – auch als Handelsware betrachtet. Der Wein ist auch heute noch Nahrungsmittel und wichtiges Element im Leben des Individuums. Dieses nunmehr jedem zur Verfügung stehende Getränk wird zu den unterschiedlichsten Anlässen aber auch an den verschiedensten Orten getrunken und gibt stets Anlass zu immer neuer Überlegungen. Der Wein ist eigentlich „nur“ das Endergebnis eines langen Werdegangs, der fast ein Jahr vor dem eigentlichen Keltern bereits mit dem winterlichen Rebschnitt beginnt und im Herbst mit der Weinlese endet. Bei einer anthropologischen Kurzanalyse der Weinbauernarbeit muss man heute ohne Zweifel vom Weinberg und den dort tätigen Personen ausgehen. Die Thematisierung des Weins erfordert gleichzeitig das Kennen der Grundlagen für seine Produktion und vor allem der Personen, die dahinter stehen. Wein ist nämlich nicht nur ein Nahrungsmittel, obwohl ihn Laien oft ohne jegliche Kenntnis des ihm zugrunde liegenden Produktionszyklus konsumieren, ohne jegliches Wissen über die umfassende Erfahrung, Techniken, Methoden und Mühen, die dieser erfordert. In der Geschichte des heutigen Gebiets von Trentino-Südtirol und insbesondere des Etschtals zwischen Trient und Bozen spielte der Weinbau seit jeher die Hauptrolle. Mit Ausnahme von Unterbrechungen oder Vernachlässigungen in Kriegszeiten oder wegen des Ausbruchs von Seuchen haben sich die Trentiner Bauern stets dem Weinbau gewidmet, oft auch nur für den Hausgebrauch. Die Pflege und die Geräte waren vor der Mechanisierung der Landwirtschaft in den 60er 69


Jahren im Vergleich zu heute ganz anders. Beim Rebschnitt im Winter und im Sommer sowie bei der Weinlese wurde das Rebmesser verwendet. Schwefel und Kupfer wurden gegen Schädlinge und Pilzkrankheiten verwendet und mittels Verstäubern oder Handspritzpumpen verteilt. Auch die Bodenbearbeitung, das Ausgeizen der Triebe, das Entblättern und alle anderen notwendigen Pflegemaßnahmen wurden von den Bauern ohne jegliche Maschinen verrichtet. Auch bei der Herstellung des Weins hatten die Bauern eine wichtige Rolle. Das Umladen der Trauben in den Maischebottich, das Keltern mit dem Moster, der Transport mit dem Kasteltwagen, das Umwälzen der Maische, der erste und der zweite Abstich erfolgten ausschließlich per Hand. Der Weinbauer wirkte also persönlich an jeder Arbeitsphase mit, weil jede seinen unmittelbaren Arbeitseinsatz erforderte. Heutzutage haben landwirtschaftliche Maschinen fast zur Gänze den körperlichen Arbeitseinsatz ersetzt und unter anderem dazu beigetragen, dass sich die Arbeitszeiten deutlich verkürzt haben, aber auch dass viel weniger Körperkraft für die Feldarbeit erforderlich ist. Mit der Zeit haben sich im Weinbau – im Weinberg wie im Keller – viele Aspekte grundlegend verändert, z. B. Geräte, Techniken, Strategien und Vorgehensweisen. Dasselbe gilt für das verwendete Material. Im Weinbau und in vielen anderen Bereichen des bäuerlichen Lebens spielte das Holz die Hauptrolle. Dieses wurde fast zur Gänze durch Plastik und Edelstahl ersetzt. Aus Holz waren Werkzeuge, Stützgerüste im Weinberg, sämtliche Behälter und hauptsächlich die Fässer, die mit großer Sorgfalt und handwerklichem Können von erfahrenen Fassbindern gefertigt wurden. Die Bauern mussten früher große Einschränkungen hinnehmen, an erster Stelle jene, die alle Alpengebiete gemeinsam haben. Die Tatsache, dass sie allein auf ihre Kräfte zählen konnten, zwang sie dazu, nach wohl durchdachten und vielseitig anwendbaren Lösungen zu suchen, und ermöglichte ihnen, dank der praktischen Arbeit in engem Kontakt zum Weinberg, Kenntnisse und Fähigkeiten zu entwickeln. Die Bauern verbrachten den ganzen Tag im Weinberg, dabei experimentierten sie, sammelten Erfahrungen und beobachteten aufmerksam ihre Umgebung, mit dem Ziel, diese immer besser zu verstehen und so gut wie möglich damit umzugehen. So hat sich die Kultur des Weinbaus – sei es in materieller, als auch in nicht materieller Hinsicht – entwickelt und einen wertvollen Wissensschatz weitergegeben. Der Anbau der Rebe und die Produktion von Wein setzten bis vor fünfzig Jahren innerhalb eines rein forst-, landund weidewirtschaftlichen auf Selbstversorgung ausgerichteten Systems bei Bedingungen, die mit den heutigen nicht vergleichbar sind, Arbeitweisen und Lebenseinstellungen voraus, die sich mit der Zeit verändert haben bzw. völlig verschwunden sind. In der Moderne ist es möglich, Ziele zu erreichen, die einst undenkbar waren, und stehen Instrumente zur Verfügung, 70

die die Kluft zwischen menschlichem Streben und seinen Produktionszielen stetig verringern. Die Beschleunigung der vergangenen Jahrzehnte hat gleichzeitig die Weinbauern gezwungen, traditionelle Anbaumethoden zu überdenken, um den neuen Bedürfnissen standzuhalten. Neue Versuchsanlagen, Techniken und Lösungen haben es ermöglicht, Spitzenergebnisse zu erzielen. Der Bereich der Weinwirtschaft ist der Landwirtschaftssektor, der die Veränderungen der Zeit am besten gemeistert und sich als Erfolg der dialektischen und dynamischen Wechselwirkung zwischen Tradition und Innovation etabliert hat. Neue Szenarien im Weinbau Die Veränderungen, die in den vergangenen Jahrzehnten im Weinbau sowohl in der Arbeitsweise als auch in seiner Begriffswelt stattgefunden haben, führten zur völligen Abkehr von der traditionellen Landwirtschaft und zum allmählichen Verlust jener symbiotischen Beziehung zwischen Mensch und Umgebung, die kennzeichnend für Epochen war, in denen das Leben durch die Naturgesetze und nicht die Gesetze der Marktwirtschaft bestimmt war. Diese von großen Umwälzungen geprägte Zeit ermöglichte allerdings auch die Entwicklung von Alternativen, die zwar noch eine Nische darstellen, sich aber hervortun und auf den Weinbau in TrentinoSüdtirol einen immer größeren kulturellen Einfluss haben werden. Gemeint sind jene landwirtschaftlichen Betriebe, die den Weg der Nachhaltigkeit eingeschlagen haben und eine integrierte, biologische oder biodynamische1 Anbauweise praktizieren, obwohl diese Begriffe für

sehr unterschiedliche Maßnahmen im Weinberg und im Keller stehen. All diesen Anbauweisen liegt eine ähnliche Auffassung zugrunde, nämlich dass der Bauer in erster Linie die Umwelt, die Landschaft und das Territorium schonen muss. Diese landwirtschaftlichen Methoden sehen neue Verfahren vor, und zwar im Allgemeinen den reduzierten Einsatz bzw. den Verzicht auf chemische Düngemittel, welche durch organische, biologisch abbaubare Dünger wie z. B. reifer Mist oder Pflanzenkompost ersetzt werden. An Stelle von synthetischen Pflanzenschutzmitteln werden natürliche Präparate und andere nachhaltige Schutzmaßnahmen eingesetzt, wie z. B. die Verwirrmethode gegen die Ausbreitung des Bekreuzten Traubenwicklers (Lobesia botrana). Besondere Aufmerksamkeit wird der Pflege des Bodens gewidmet, die bei diesen Anbaumethoden von primärer Bedeutung ist. Landwirtschaft kann nur ausgehend vom Boden betrieben werden, allein wenn die Voraussetzungen gut sind, können Erfolge sowohl auf dem Feld als auch im Keller eingefahren werden. Ziele des nachhaltigen Weinbaus sind insbesondere die Erhöhung der Biodiversität, das Verhindern von Erosion und Instabilität sowie einer Abnahme der Bodenfruchtbarkeit. Im Wein kommt das Terroir, auf dem die Rebe gedeiht, zum Ausdruck; die Eigenschaften des Bodens spielen hinsichtlich der Geschmacknoten des Weins eine wichtige Rolle, deshalb sind die Pflege und die Verbesserung des Boden die Hauptziele dieser Weinbaumethoden. Jahrzehnte der Umweltverschmutzung und der intensiven Nutzung haben eine Verarmung der landwirtschaftlich


genutzten Flächen bewirkt, die oft bar der erforderlichen Eigenschaften verblieben sind, um gesunde und nahrhafte Lebensmittel zu produzieren. Aus diesem Grund werden nachhaltige Anbaumethoden zur Wiederherstellung des Bodens angewandt, wie z. B. die Dauerbegrünung mit Gräsern und der Verzicht auf Herbizideinsatz, die Bodenbelüftung und die Gründüngung, welche vorsieht Pflanzen, wie z. B. Leguminosen, einzusäen, die in der Lage sind, die Bodenstruktur zu verbessern. Durch diese Vorkehrungen werden ausreichend Feuchtigkeit, Sauerstoff, die Zunahme der Mikroorganismen sowie der organischen und mineralischen Substanz im Boden gewährleistet. All diese Elemente sind für die Bodenfruchtbarkeit unerlässlich und bieten den Pflanzen die idealen Bedingungen für eine ausgeglichene pflanzliche und produktive Entwicklung. Solche Anbaumethoden wurden auch in Vergangenheit praktiziert, allerdings aus anderen Gründen: z. B. die Mischkultur war sehr verbreitet, wobei zwischen den Rebzeilen abwechselnd Getreide oder Futterpflanzen angebaut wurden. Aus den landwirtschaftlichen Traditionen der Vergangenheit können demnach Anregungen und Gedanken für die Landwirtschaft der Gegenwart und ihre Nachhaltigkeit gewonnen werden. Nicht so sehr die Techniken und Arbeitsverfahren werden wieder entdeckt, sondern eher die kulturelle und gedankliche Herangehensweise. Es darf nicht verschwiegen werden, dass vor nicht allzu vielen Jahren manchmal nicht ökologisch nachhaltige Entscheidungen getroffen wurden. Die befragten Weinbauern werten den Wissensvorsprung, den die

Moderne mit sich bringt, wie auch das Vorhandensein von Maschinen und anderen Vorrichtungen, die die Arbeitsbedingungen bei der Weinproduktion erleichtern und verbessern, als sehr positiv. Abgelehnt werden hingegen die Entfremdung und die Allmächtigkeitsansprüche, die in den letzten Jahrzehnten die landwirtschaftliche Intensivproduktion für Handelszwecke kennzeichnen. Zur Wiederentdeckung der Vergangenheit gehört auch die Fähigkeit, in einem Zusammenspiel von Innovation und Tradition die eigene Umwelt zu kennen und zu verstehen. Das Ökosystem im Weinberg wird als Ganzes betrachtet, als Einheit mit eigenen Besonderheiten und Bedürfnissen, denen man gerecht werden muss, um sowohl die Umwelt als auch die darin wirkenden Bauern und letztendlich die Verbraucher zu schützen. Das Erleben des Weinbaus in diesem Sinne erfordert das Mittragen von Denkansätzen, die von der Bodenpflege bis zum Klima alle verschiedenen Variablen beachten, welche dazu beitragen, dass der Weinberg zu jeder Jahreszeit ein lebendiger Ort ist. Ein Umfeld, das spezifisches und bewusstes Handeln im Rhythmus der Natur voraussetzt. Einst galt es, diesen Rhythmus – ohne Hilfe von Chemie und Maschinen – perfekt zu verinnerlichen. Bei der Arbeit muss die Harmonie mit dem Weinberg im Rahmen einer gegenseitigen Beziehung angestrebt werden. Der nachhaltige Weinbau gewährleistet Schutz und Aufwertung für die Besonderheiten eines Anbaugebietes, damit diese später auch in dessen Erzeugnissen wiederzufinden sind. Auf diese Weise pflegt der Bauer gleichzeitig mit den Feldern auch

seine Identität und vor allem die Identität des dort erzeugten Weines, als perfekte Synthese der Beziehung zwischen dem Menschen und seiner Umwelt. Weinbauern, Reben und Weine in Bildern Die Bilder dieses Themenbereichs sollen die Arbeit der Menschen zeigen, die sich mit der Pflege der Weinberge und der Weinerzeugung beschäftigen. Für die Landschaft und das Identitätsbewusstsein im Gebiet nördlich von Trient und südlich von Bozen ist die menschliche Komponente neben der territorialen ein prägender Faktor. Sie erzählen die Gegenwart, aber im Mittelpunkt steht der Mensch, der – in der Schwebe zwischen Tradition und Innovation – hier lebt, das Land kennt und versteht. Auch die Kellereien finden Einzug in diese Ausstellung und werden in ihrem Reiz als Produktionsstätten und gleichzeitig als Orte der Reflexion beleuchtet. Es sind dunkle, undurchschaubare Orte, an denen mit großer Sorgfalt der Wein hergestellt und aufbewahrt wird. Die Fotografen zeigen, wie mühsam und aufwendig das Leben der Bauern ist, und folgen dabei bestimmten Überlegungen. Das Fotografieren ist – wie jede Form der Darstellung der Realität – subjektiv. Wer hinter der Kamera steht, entscheidet was, wann und wie fotografiert wird. So wie sich im Wein die Charaktereigenschaften und Besonderheiten des Weinbauern widerspiegeln, so prägt auch der Fotograf seine Bilder durch seine Persönlichkeit und seine Beobachtungen. Man kann durchaus behaupten, um es mit Pietro Nervi zu sagen, dass die Fotografie ein durch und durch realistisches und referentielles Mittel darstellt, da sie sich im Grunde für die Kommunikation der Bedeutung der vom Fotografen abgelichteten Personen und Gegenstände bedient2. Diese Bilder dokumentieren in erster Linie deutlich und ausdrucksstark – unabhängig von den willkürlichen Entscheidungen des Fotografen – die Realität des Weinbaus in Trentino-Südtirol. Das Können der Fotografen summiert sich mit dem der Bauern, die eigentlichen Hauptdarsteller. Die Bilder dienen als Verstärker, als Mittel zur Würdigung der bäuerlichen Rationalität, die darauf festgehalten, aufgenommen, verarbeitet und aufbewahrt wird3. Es werden dort Orte, Arbeitsvorgänge, Gegenstände, und hauptsächlich Personen in den Mittelpunkt gestellt, mit all dem was dahintersteht: Lebensgeschichten, Gefühle, Erinnerungen, Identitätsbewusstsein, Wissen, Erfahrung und Traditionen. Die Bilder ermöglichen eine andere Lesart, sie beschreiben Männer und Frauen als unentbehrliche Akteure in einer Welt, die sich fast lautlos ständig verändert, erneuert und das Leben vieler Menschen prägt. All diese Bestandteile verschmelzen die mit der Landschaft und werden eins mit der Umgebung. 71


Sinnbild für diese Beziehung sind die arbeitenden, geschundenen Hände, zerfurcht wie ein Rebblatt. Sie gehen mit der Erde eine Wechselbeziehung ein, in der sich die Gegensätzlichkeit zwischen Mensch und Natur auflöst. Eine Gegensätzlichkeit, die in der westlichen Kultur allzu oft gegenüber der Symbiose zwischen Mensch und Natur überhand nimmt. Diese Bilder bieten eine Reflexion über den Menschen, insbesondere über die bäuerliche Welt. Eine Welt, die letzthin als konservativ, traditionsverwurzelt und primitiv bezeichnet wurde, wobei manchmal die negativen Aspekte dieser Begriffe gemeint waren, die jedoch – wie hier aufgezeigt wird – niemals dem Immobilismus und der Abschottung verfallen ist. Die bäuerliche Welt ist lebendig und dynamisch, steckt voller Potentialitäten. Sie ist in erster Linie aus Menschen, Frauen und Männern, gebildet, die imstande sind, sich Tag für Tag neu zu erfinden. Wenn die Behauptung stimmt, dass die Krise der bäuerlichen Welt, hauptsächlich eine Identitätskrise ist4, so stimmt es auch, dass gerade Krisenmomente, durch große Veränderungen und das Emporstreben neuer Perspektiven charakterisiert sind. Der nachhaltige Weinbau ist dabei nur ein Beispiel unter vielen. Er steht für Veränderung, das Infragestellen, die leidenschaftliche und mutige Behauptung neuer Prinzipien, Werte, Techniken und Aktionen. Wie der Weinbau nördlich von Trient und südlich von Bozen kennen Leidenschaft und Mut keine Grenzen.

1

Weiterführe nde Lektüren in: Braccini P., R. Mazzilli, Manuale di viticoltura biologica, Firenze, ARSIA, 2010; Joly Nicolas, Il vino tra cielo e terra. La viticoltura in biodinamica, Roma, Porthos Edizioni, 2004. 2 In Faganello F., P. Nervi, Mondo contadino. Die Welt des Bauern. Trentino 1960-1990, Ivrea, Priuli & Verlucca editori, 1995. 3 Ibid. 4 Ibid.

Tatiana Andreatta è dottoressa in antropologia culturale ed etnologia presso l'Università di Bologna Tatiana Andreatta ist Doktorin in Kulturanthrophologie und Ethnologie (Universität Bologna) 72

> Bodini, Cortaccia / Kurtatsch



> Stecher, Mezzocorona

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> Maione, Dintorni di Pressano / Umgebung von Pressano

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> Maione, Dintorni di Laives / Umgebung von Laives

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> Bodini, MagrĂŠ / Margreid

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> Stecher, Caldaro / Kaltern

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> Dalvit, Deposito attrezzi, S. Michele all’Adige / Geräteschuppen, S. Michele all’Adige

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> Bodini, Cortaccia / Kurtatsch > Stecher, Caldaro / Kaltern

> Stecher, Vendemmia Caldaro / Weinlese Kaltern > Dalvit, Vendemmia, Lavis / Weinlese, Lavis


> Dalvit, Vendemmia, Lavis / Weinlese, Lavis 81



> Dalvit, Conferimento / Anlieferung

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> Stecher, Caldaro / Kaltern


> Bodini, Lavorazione / Verarbeitung

> Dalvit, Lavorazione / Verarbeitung


> Stecher, Lavorazione / Verarbeitung

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> Stecher, Vinificazione / Weinbereitung

> Stecher, Vinificazione / Weinbereitung

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> Dalvit, Imbottigliamento / Abf端llung

> Dalvit, Confezionamento / Verpackung

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> Dalvit, Confezionamento / Verpackung

> Dalvit, Spillatura / Wein wird abgezapft

> Dalvit, In cantina / In der Kellerei 88


> Dalvit, In cantina / In der Kellerei

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LE TERRE ALTE NELLA CRISI / GEBIRGSREGIONEN IN DER WIRTSCHAFTSKRISE Aldo Bonomi

La crisi sistemica globale rappresenta una sorta di drammatica accelerazione della tettonica delle placche continentali, all’interno della quale sono in corso profondi fenomeni di redistribuzione delle opportunità di sviluppo. Negli ultimi vent’anni in Italia la leva del debito pubblico ha rappresentato il corrispettivo del processo di finanziarizzazione di matrice anglosassone: laddove in questi contesti si è puntato a produrre un ulteriore ciclo espansivo con la virtualità della sofisticata strumentazione tecnofinanziaria, l’Italia avrebbe privilegiato l’uso spregiudicato della spesa pubblica. Si parla di uso spregiudicato dal momento che si è trattato di una spesa pubblica ingente e al contempo improduttiva, non essendo riuscita né a porre le basi per un ciclo espansivo, né ad accompagnare la transizione dell’apparato produttivo, ma piuttosto avendone congelato i limiti strutturali lasciando allo spontaneismo e alla capacità adattiva dei singoli attori la determinazione del sentiero di sviluppo. Se ci spostiamo dal terreno della crisi di lungo periodo e dalla situazione che interessa i microcosmi alpini alla rappresentazione delle ricadute della crisi apertasi a fine 2008 è possibile comprendere, innanzitutto, perché in relazione all’evoluzione storica del modello trentino-südtirolese non sia applicabile lo stesso metro adottato per ragionare sulla parabola seguita dalle Alpi italiane prive di statuti di autonomia. E’ pur vero che per tutta la fase che ha preceduto l’introduzione dell’autonomia l’area ha seguito più o meno lo stesso sentiero di declino descritto sopra. Grazie alle misure adottate a partire dagli anni ’70 in tema di Statuto di autonomia si è però potuto invertire la rotta e risalire la china introducendo una serie di misure finalizzate non solo a contenere l’entropia del modello agro-silvo-pastorale ma anche a fornire un quadro di opportunità di sviluppo incommensurabilmente più ampie rispetto a quanto (non) sperimentato altrove nelle Alpi italiane prive di autonomia. La vasta maglia regolativa ha permesso di attutire, nel corso del tempo, l’impatto delle ondate di crisi che si sono succedute tra gli anni ’70 e ’00. Se è vero che la crisi impone di ripensare i fondamenti dell’organizzazione socioeconomica

e istituzionale per il Trentino-Alto Adige/ Südtirol ciò significa porre al centro della riflessione il pilastro dell’autonomia. Si fa largo una riflessione orientata a sottoporre a revisione critica una deriva eccessivamente istituzionale della pratica dell’autonomia, a scapito del protagonismo di un tessuto sociale ed economico scivolato talvolta in una condizione di subalternità.

so l’assetto istituzionale autonomo. D’altra parte così non può non essere, dal momento che le uniche terre alte italiane capaci di opporsi all’abbraccio mortale di quella che viene denominata “cultura della pianura” o “cultura della metropoli” sono proprio quelle a statuto autonomo, quelle cioè che hanno saputo o potuto salvaguardare una propria specifica cultura civica.

Comune agli attori territoriali della Piattaforma alpina, a prescindere dalla collocazione geografica, ovvero a prescindere dal fatto che tali territori godano o meno di uno statuto di autonomia, vi è l’idea che le diverse forme di autonomia che si sono costituite nelle Alpi abbiano implementato nel corso del tempo una rete locale capace di governarne le ricadute sul piano degli assetti produttivi e della coesione sociale.

Per il resto si tratta di una montagna che si è percepita ai margini dei processi di sviluppo che, più che una cultura dell’autonomia, ha storicamente assunto un’opposta cultura dello sviluppo indotto dall’esterno (sia dal punto di vista della provenienza dei capitali di investimento, sia dal punto di vista della regolazione istituzionale) in forma più o meno assistita. Anche per questo al di fuori delle aree in cui vigono statuti di autonomia la montagna appare sospesa tra abbandono senza ritorno e metropolizzazione.

Laddove non esiste una tradizione e una pratica moderna dell’autonomia il discorso relativo alle modalità di governo degli effetti della crisi, e ancor più quello relativo alle possibili vie di uscita, appare piuttosto povero e in relazione al tema dell’autonomia fatica enormemente ad andare oltre la dimensione dell’autonomia intesa in senso finanziario o impositivo. Del tutto ignorato, o quanto meno sottovalutato, è il complesso processo che sostanzia e alimenta dal bas-

Il tema di un’identità alpina e poi di una politica alpina non inchiodate al cordone ombelicale dello svantaggio o della difesa della tradizione, e dunque all’immagine delle Alpi prodotta nelle metropoli, è centrale e non è certo un tema neutro perché comporta importanti conseguenze in primo luogo sulle politiche pubbliche nazionali, europee e locali: se le Alpi non sono più solo margine 91

> Dalvit, In cantina / In der Kellerei


chi ha la titolarità per decidere tali politiche? In base a quali visioni del territorio alpino e dei suoi bisogni vengono elaborate? E in definitiva a quali interessi rispondono queste politiche? E’ soprattutto il rapporto tra autonomismo e crisi globale il nodo culturale al centro delle sfide che le élite e le forze politiche alpine hanno di fronte. Vale anche, se non soprattutto, per le (uniche) autonomie alpine concretamente operanti, Trento e Bolzano. Le quali oggi condividono insieme al resto della piattaforma alpina l’emergere di una triplice sfida al proprio spazio di posizione consolidatosi nella lunga stagione delle “terre alte” come margine dello stato-nazione: la sfida del centralismo tecnocratico, la sfida della divisione e dell’invidia territoriale tra territori alpini, la sfida di una macro-regione alpina comprendente anche le grandi aree metropolitane limitrofe. Per rispondere a questa triplice sfida esterna la vera battaglia da affrontare è l’autoriforma dello spazio di rappresentazione e delle basi culturali dell’autonomismo. Perché in caso contrario l’autonomia rischia di essere vittima del suo successo storico. La vera sfida per l’autonomia trentina e altoatesina e più in generale per l’autonomismo alpino è sopravvivere al proprio successo. Il riconoscimento del ruolo determinante svolto dal sistema politico dell’autonomia nell’accompagnare la società da condizioni di arretratezza e povertà diffuse ad una condizione di benessere e sviluppo culturale, sociale ed economico, è unanime. Anche da parte dei suoi critici. Vi è però il rischio che proprio questo successo eroda le basi culturali e politiche originarie dell’autonomia, portandone le strutture ad un livello di pervasività e di istituzionalizzazione tali da accentuarne i tratti di autoreferenzialità e ostruendo i canali di scambio e di apprendimento rispetto alle componenti sociali inglobate nella sua sfera d’azione. Questa involuzione dell’autonomia come sistema di governance rischierebbe di portare con sé una ulteriore conseguenza, ovvero il distacco tra sistema politico locale e i processi di innovazione sociale. C’è uno spettro ideologico che si aggira per l’arco alpino, che si chiama decrescita. La crisi globale in cui siamo immersi non è un fenomeno postideologico ma produce l’articolarsi di “pensieri” e culture. Una di queste è l’idea delle decrescita che sottolinea il ruolo del limite ambientale ai processi di crescita economica. Se il rapporto tra l’abitante delle “terre alte” e la natura è centrale nel forgiare la mentalità diffusa nelle “terre alte”, la decrescita è la radicalizzazione del concetto di sostenibilità che si produce dentro la crisi. La decrescita rappresenta un pensiero extra-sistemico che si pone come nodo importante per la riformulazione di un pensiero autonomista ai tempi della crisi. Emergono così due punti interessanti. Il primo riguarda la cultura dei beni comuni legati alla dotazione di risorse naturali come acqua, ambiente, territorio e alla loro tutela rispetto all’utilizzo e alla messa a valore da parte del capitalismo delle reti. Il secondo punto riguarda invece i tratti di neocomunitarismo, i meccanismi di prossimità e di cooperazione sociale che il pensiero della decrescita incorpora e che echeggiano molti temi del pensiero autonomista. In entrambi i casi, quello della tutela e della valorizzazione dei beni comuni e quello della costruzione di un neocomunitarismo, il ruolo della viticoltura e di coloro che vi si dedicano, quali interpreti e coltivatori del territorio, risulta fondamentale e strategico. 92

Die globale systemische Krise stellt eine Art dramatische Beschleunigung der Tektonik der Kontinentalplatten dar, in der tiefgründige Neuverteilungen der Entwicklungschancen vor sich gehen. In den vergangenen zwanzig Jahren stellte der Hebel der Staatsverschuldung in Italien den Finanzialisierungsprozess nach angelsächsischem Vorbild dar: Dort, wo innerhalb dieser Kontexte auf einen weiteren Expansionszyklus mit der Virtualität der ausgetüftelten technischen Finanzierungsmittel gezielt wurde, hätte Italien die skrupellose Verwendung der Staatsausgaben bevorzugt. Von skrupelloser Nutzung ist deshalb die Rede, weil es sich um öffentliche Ausgaben von beachtlicher Höhe handelte, die gleichzeitig unfruchtbar waren, da es ihnen weder gelungen ist, den Grundstein für einen Expansionszyklus zu legen, noch die Umstellung des Produktionsapparats zu begleiten. Sie haben eher dessen strukturelle Grenzen eingefroren und den Spontanhandlungen und der Anpassungsfähigkeit der einzelnen Marktbeteiligten die Bestimmung des Entwicklungsweges überlassen. Wenn wir uns von der langfristigen Wirtschaftskrise und der Situation der alpinen Mikrokosmen wegbegeben, um uns der Darstellung der Auswirkungen der Ende 2008 begonnenen Krise hinzuwenden, ist vor allen Dingen verständlich, warum in Beziehung auf die historische Entwicklung des Modells Trentino-Südtirol nicht derselbe Maßstab angelegt werden kann, der für die Überlegungen von den italienischen Alpenregionen ohne autonomes Statut gilt. Es stimmt zwar, dass das Gebiet vor der Einführung der Autonomie mehr oder weniger denselben Abstieg durchstanden hat, wie er oben beschrieben wurde. Dank der ab den 70er Jahren zum Thema Autonomiestatut getroffenen Maßnahmen konnte der Kurs aber gewechselt und ein erneuter Aufstieg bewirkt werden. Diese Maßnahmen zielten nicht nur auf die Beschränkung der Entropie des Land-/Forst-/Weidewirtschaftsmodells ab, sondern auch auf die Bereitstellung von unermesslich größeren Entwicklungschancen als es anderswo in den italienischen Alpengebieten ohne Autonomiestatus jemals experimentiert wurde. Die engmaschigen Regelungen haben es im Laufe der Jahre ermöglicht, die Wirtschaftskrisen der 70er und 80er Jahre aufzufangen. Wenn die Krise wirklich dazu zwingt, die Grundsteine der sozioökonomischen und institutionellen Organisation für die Region Trentino-Südtirol zu überdenken, bedeutet dies


auch, dass die Säule der Autonomie in den Mittelpunkt der Überlegungen gestellt werden muss. Es breitet sich eine daraufhin orientierte Reflexion aus, ein übertriebenes Abdriften der Ausübung dieser Autonomie durch die Institutionen auf Kosten der Geltung eines gesellschaftlichen und wirtschaftlichen Gewebes, das teils in eine Untergebenen-Bedingung abgerutscht ist, kritisch zu betrachten. Die territorialen Beteiligten der alpinen Plattform teilen - ganz abgesehen von ihrer geografischen Lage und von der Tatsache, ob ihre Gebiete einen Autonomiestatus besitzen oder nicht - die Idee, dass die in den Alpen entstandenen unterschiedlichen Formen von Autonomie im Laufe der Zeit ein lokales Netz implementiert haben, das dazu in der Lage ist, die Auswirkungen auf die Produktionsstrukturen und die soziale Kohäsion zu steuern. Dort, wo keine Tradition besteht und Autonomie modern umgesetzt wird, erscheint die Lenkung der Krisenauswirkungen und noch mehr das Thema der möglichen Auswege relativ bedürftig und man müht sich sehr, über die Dimension der finanziellen und steuerrechtlichen Autonomie hinauszublicken. Der komplexe Prozess, der den institutionellen, autonomen Aufbau von unten angefangen untermauert und versorgt, wird völlig ignoriert oder zumindest unterschätzt. Andererseits könnte es auch nicht anders sein, nachdem die einzigen italienischen Gebirgsregionen, die dazu fähig sind, sich gegen die tödliche Umarmung der so genannten „Kultur der Ebene“ oder „Kultur der Metropole“ zu wehren, eben die Regionen mit Autonomiestatut sind,

d. h. diejenigen, die ihre eigene, spezifische Volkskultur aufrechterhalten konnten. Im Übrigen handelt es sich um ein Gebirge, das am Rande der Entwicklungsprozesse wahrgenommen wurde, ein Gebirge, das mehr als eine Kultur der Autonomie immer schon eine zur von außen induzierten Entwicklung (sowohl hinsichtlich der Herkunft des Investitionskapitals als auch der institutionellen Regelung) in mehr oder weniger unterstützter Form gegenläufige Kultur gepflegt hat. Auch deshalb erscheint das Gebirge außerhalb der Gebiete mit Autonomiestatut zwischen einer Verwahrlosung ohne Rückkehrmöglichkeit und einer Metropolisierung zu hängen. Das Thema einer alpinen Identität und einer alpinen Politik, die nicht an die Nabelschnur der Benachteiligung oder an den Schutz der Tradition und demnach an das in den Metropolen entstehende Image der Alpen gefesselt ist, ist ein zentrales und keineswegs neutrales Thema, da es in erster Linie auf die nationale, europäische und lokale Politik bedeutende Auswirkungen hat: Wer ist für diese Politik zuständig, wenn die Alpen nicht mehr nur ein Randgebiet darstellen? Auf der Grundlage welcher Zukunftsvisionen des alpinen Gebiets und dessen Bedürfnisse wird diese Politik ausgearbeitet? Welchen Interessen entspricht diese Politik letztendlich? Insbesondere die Beziehung zwischen der Autonomiebewegung und der globalen Wirtschaftskrise stellt einen kulturellen Knotenpunkt der Herausforderungen dar, denen sich die Elite und politischen Kräfte des Alpenraums stellen müssen. Dies gilt auch – wenn auch nicht vorrangig – für die (einzigen) konkreten Autonomiegebiete

der Alpen, Trient und Bozen. Diese Gebiete teilen heute mit dem Rest der alpinen Plattform das Entstehen einer dreifachen Herausforderung für ihre Position, die sich in der langen Saison der „Gebirgsregionen“ als Randgebiet der Nation/des Staats konsolidiert hat: die Herausforderung des technokratischen Zentralismus, die Herausforderung der Trennung der Gebiete und des Gebietsneids zwischen alpinen Bereichen, die Herausforderung einer alpinen Makroregion, die auch die großen, angrenzenden metropolitanen Bereiche mit einschließt. Um diese dreifache, externe Herausforderung zu meistern, liegt der zentrale Kampf darin, sich mit der Selbstreform des Repräsentationsraums und den kulturellen Grundlagen der Selbstständigkeit auseinanderzusetzen. Denn im gegenteiligen Fall besteht das Risiko, dass die Autonomie zum Opfer ihres historischen Erfolgs wird. Die wahre Herausforderung für die Autonomie von Trentino und Südtirol und im Allgemeinen der Autonomiebewegung der Alpenländer liegt darin, ihren eigenen Erfolg zu überleben. Einstimmig wird die ausschlaggebende Rolle des politischen Systems der Autonomie in der Begleitung der Gesellschaft aus der Rückständigkeit und ausgedehnten Armut in einen Zustand des Wohlstands und der kulturellen, gesellschaftlichen und wirtschaftlichen Entwicklung anerkannt. Auch vonseiten der Kritiker dieses Systems. Es besteht jedoch das Risiko, dass eben dieser Erfolg die ursprünglichen kulturellen und politischen Grundlagen der Autonomie auswäscht und die Strukturen auf eine derartige Ebene der Durchdringung und Institutionalisierung bringt, dass die Wesenszüge des Selbstreferenzialismus hervorgehoben und die Austausch- und Lernkanäle im Hinblick auf die in ihrem Aktionsradius eingeleibten sozialen Komponenten versperrt werden. Diese Rückbildung der Autonomie als Regierungsform würde in der Folge das Risiko mit sich bringen, dass sich das örtliche politische System von den gesellschaftlichen Innovationsprozessen trennt. Im Alpenraum treibt sich ein ideologischer Geist namens „Wachstumsrücknahme“ herum. Die globale Wirtschaftskrise, in der wir uns befinden, ist keine postideologische Erscheinung, sondern sie erzeugt die Artikulation von „Gedanken“ und Kulturen. Eine davon ist die Idee der Wachstumsrücknahme, die die Rolle der umweltbedingten Grenzen in den wirtschaftlichen Wachstumsprozessen hervorhebt. Wenn die Beziehung zwischen dem Bewohner der „Gebirgsregionen“ und der Natur in der Entstehung der in den „Gebirgsregionen“ diffusen Mentalität einen Angelpunkt darstellt, stellt die Wachstumsrücknahme die Radikalisierung des Nachhaltigkeitskonzepts dar, das innerhalb einer Krise entsteht. Die Wachstumsrücknahme vertritt einen extrasystemischen Gedanken, der sich als wichtiger Knoten für die Neuformulierung eines Autonomiebewegungsgedankens in Krisenzeiten erweist. Es ergeben sich somit zwei interessante Punkte. Der erste Punkt bezieht sich auf die Kultur des öffentlichen Eigentums, bezogen auf die Anwesenheit von natürlichen Ressourcen, wie Wasser, Umwelt, Landschaft und deren Schutz in der Nutzung und deren 93


Wertung durch den Kapitalismus der Netze. Der zweite Punkt bezieht sich hingegen auf die Wesenszüge des Neo-Komunitarismus, die Mechanismen der sozialen Nähe und Kooperation, die der Gedanke der Wachstumsrücknahme verkörpert und die in vielen Themen des Autonomiebewegungsgedankens widerhallen. In beiden Fällen – sowohl im Schutz und in der Aufwertung des öffentlichen Eigentums als auch im Aufbau eines Neo-Komunitarismus – spielen der Weinbau und die Personen, die sich dem als Interpreten und Pfleger des Anbaugebiets hingeben, eine wesentliche und strategische Rolle.

Aldo Bonomi è sociologo, ha fondato e dirige l’istituto di ricerca AASTER ed è direttore della rivista “Communitas”. Attualmente cura la rubrica Microcosmi su “Il Sole 24 Ore”. Aldo Bonomi ist Soziologe, Gründer und Leiter des Forschungsinstituts AASTER sowie Direktor der Zeitschrift „Communitas“. Derzeit ist er für die Rubrik Microcosmi in der Zeitung „Il Sole 24 Ore“ verantwortlich.

> Maione, Dintorni di Laives / Umgebung von Laives 94



> Maione, Sulla strada del Vino, dintorni di Termeno / Auf der WeinstraĂ&#x;e bei Tramin



Il paesaggio, sosteneva Enrico Turri, “racconta in due modi diversi la storia degli uomini”. Da un lato il racconto “del vivere storico degli individui e dei gruppi sociali in un certo ambito territoriale, visto come paesaggio, trasformato in paesaggio”; dall’altro, il racconto della “sua formazione, del suo costituirsi attraverso il tempo”, intendendo in questo secondo caso il paesaggio come una “successione di momenti e modi diversi delle società umane di rapportarsi con il territorio che le ospita, di viverlo e trasformarlo secondo le proprie esigenze vitali”. Die Landschaft, behauptete Enrico Turri, erzählt die menschliche Geschichte auf zwei verschiedene Weisen: Zum einen widerspiegelt sie den Werdegang der Menschen und der Gesellschaft in einem bestimmten Gebiet, zum anderen veranschaulicht sie ihre eigene Entstehung und Entwicklung. In dieser Hinsicht zeigt die Landschaft als Aufeinanderfolge historischer Phasen den Umgang der menschlichen Gesellschaften mit dem eigenen Lebensraum, die Art, wie diese die Umwelt verwandeln und den eigenen Bedürfnissen anpassen.

Ambiente Trentino | Imperial Wines


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