n°06
Maggio 2014
Gruppo Eurosystem Sistemarca
L’ECONOMIA VERDE DELLA RIPRESA LA SFIDA PER UN NUOVO FUTURO ECONOMICAMENTE SOSTENIBILE
incontri con
scenari
stile libero
GIUSEPPE MUNDA POLITICHE GREEN PER UNA NUOVA ECONOMIA FEDERICO PEDROCCHI VIVERE IN UNA SMART CITY VALCUCINE RESPONSABILITÀ ED ETICA AL CENTRO DELL’IMPRESA GREEN
STEFANO MORIGGI COMINCIAMO A PENSARE CON LE MACCHINE! CULTURA&TECNOLOGIA MUSEO DELLA SCIENZA FIRMATO RENZO PIANO EUROSYSTEM IMPRESE A SCUOLA DI SICUREZZA
IL VIAGGIO VISITA ALLA CAPITALE GREEN D’EUROPA PERCORSI ALESSIA TROST: NUOVO MITO DELL’ATLETICA ITALIANA SPORT CURLING: TRA SPORT E SCIENZA
Il Firewall Check Point di nuova generazione ha il livello più alto di efficacia in termini di sicurezza della sua categoria NSS Labs
©2013 Che c k Point Softwa re Tec hnol ogi e s L td . Tu tti i d i r i tti r i se r va ti.
IL LEADER DEI FIREWALL DI NUOVA GENERAZIONE
editoriale
GIAN NELLO PICCOLI Gruppo Eurosystem Sistemarca
In questo numero di Logyn abbiamo deciso di parlare di “economia verde”, green jobs, tecnologia e anche cultura. Viviamo, infatti, in un momento di difficoltà complessiva – economica, culturale, valoriale – che ha messo in forte discussione il modello di vita dominante fino ad oggi, che risulta essere ormai inadeguato. Il dibattito sulla green economy ha modificato la visione della vita degli ultimi vent’anni, ponendola come nuovo modello produttivo e culturale in cui innovazione e ricerca giocano un ruolo fondamentale. Fino a influenzare anche la creazione di nuovi posti di lavoro, i cosiddetti green jobs. Oggi, nell’intera economia italiana si calcola che i “lavoratori verdi” siano quasi 3 milioni e 100mila, corrispondenti al 13,3% dell’occupazione complessiva nazionale (dati GreenItaly 2013). E la Commissione Europea parla di un’economia che “genera crescita, crea lavoro e sradica la povertà investendo e salvaguardando le risorse del capitale naturale da cui dipende la sopravvivenza del nostro pianeta”. L’economia sostenibile è quindi considerata dai professionisti del settore come l’unica carta da giocare per uscire dalla
crisi in atto, perché è l’unica soluzione che dimostra di tenere in questa fase difficile a livello globale e di avere capacità di crescita da un punto di vista strettamente economico, promettendo sviluppo e nuova occupazione. Ecco perché abbiamo voluto scandagliare il tema e offrire diversi contributi da parte di figure istituzionali e del mondo privato per raccontare qual è la vera rivoluzione che sta portando avanti la green economy. Una rivoluzione che sta investendo il mondo produttivo innanzitutto ma non solo, in generale il vivere sociale che ha bisogno senz’altro di nuovi stimoli e nuovi obiettivi da raggiungere. Gian Nello Piccoli 3
incontri con
GIUSEPPE MUNDA LE POLITICHE AMBIENTALI CHE FANNO BENE ALL’ECONOMIA
20 FEDERICO PEDROCCHI RIDISEGNARE LE CITTÀ CON CULTURA E TECNOLOGIA SMART
scenari
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STEFANO MORIGGI PENSARE CON LE MACCHINE! ECOLOGIA E TECNOLOGIA
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CULTURA&TECNOLOGIA A TRENTO IL NUOVO MUSEO DELLA SCIENZA FIRMATO RENZO PIANO
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stile libero
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IL VIAGGIO COPENAGHEN: LA PIÙ VERDE D’EUROPA
93 ALESSIA TROST PERCORSI GRINTA, FATICA E TANTA PASSIONE
SOMMARIO 3
editoriale
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L’economia verde della ripresa
di Gian Nello Piccoli
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incontri con GIUSEPPE MUNDA
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scenari STEFANO MORIGGI
PENSARE CON LE MACCHINE! Le politiche ambientali che fanno bene all’economia 38 Biopiscina: innovazione e territorio FEDERICO PEDROCCHI
Ridisegnare le città con cultura e tecnologia smart DANIELE PROSDOCIMO
Responsabilità ed etica al centro della vera “impresa green”
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FRANCO ZANATA
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PATRIZIO DEI TOS
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focus
41 Trento: Museo della Scienza firmato Renzo Piano
45 Storia e tecnologia 57 @EUROSYSTEM.IT
L’evoluzione dell’ERP: mai dividere ma integrare
s
60 tories 60 L’avanguardia IT: alta affidabilità e continuità operativa
s
52 pazio a y 52 Il gestionale a portata di mano 78 78
stile libero CONOSCIAMOCI
Lavorare con IT e ICT
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MEDICINA E LAVORO
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IL VIAGGIO
Agricoltura, tra uomo e ambiente La più verde d’Europa
Nella provincia più riciclona d’Italia 58 EMC: la nuova Data Protection 90 SPORT Curling:sport e scienza opera Contarina S.p.A. 64 Cybercrimine e Nordest produttivo Scegliere la sostenibilità ambientale come stile di vita ROBERTO MATTERAZZO
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69 Fiera 4 passi per un mondo migliore 70 48 ANDREA CORTELLAZZO Verso la gestione documentale nel 72 solo “formato nativo digitale” 74
@EUROSYSTEM.IT
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PERCORSI
Sicurezza e resilienza: un approcio olistico
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CUCINA
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UFFICIOVERDE
Green economy e (ri)occupazione Energia verde e fotovoltaico
Reati informatici dei collaboratori 101 Convivenza more uxorio
A.Trost: grinta, fatica e tanta passione L’acqua di mare & l’erba voglio Parlare con i fiori FUMETTI
La matita di Sue
MAGGIO 2014
LE POLITICHE AMBIENTALI CHE FANNO BENE ALL’ECONOMIA Intervista a Giuseppe Munda, Università Autonoma di Barcellona
“L’economia ambientale studia le relazioni tra il sistema socio-economico e l’ambiente circostante. Per esempio, quando decidiamo di usare un mezzo di trasporto come l’auto, dovremmo tenere conto di tutti gli impatti ambientali connessi alla costruzione, uso e dismissione della stessa”, a spiegarci il processo è Giuseppe Munda, professore di Economia Ambientale all’Università Autonoma di Barcellona.
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Cosa si intende per economia ambientale? Tradizionalmente, la scienza economica ha studiato il processo di formazione dei prezzi considerando l’economia come un sistema chiuso: le imprese vendono beni e servizi e quindi remunerano i fattori della produzione. Quello economico era considerato un processo lineare, dove dato un determinato flusso di risorse naturali, attraverso la produzione di beni e servizi si alimenta il consumo, cosi ‘creando utilità’. Negli anni settanta, si incominciò a riconoscere che l’economia non si può considerare un semplice processo tra produttori e consumatori, praticamente di durata infinita, ma bisogna valutare alcune leggi fisiche per comprendere come l’economia umana sia profondamente connessa al funzionamento degli ecosistemi. In sintesi, in diverse fasi del processo di produzione e consumo vengono prodotti rifiuti. Mentre i sistemi naturali tendono a reciclare i propri rifiuti, l’economia umana non ha tale tendenza, così gli ecosistemi spesso diventano il deposito ultimo di molti rifiuti. La termodinamica ci assicura che la quantità di risorse naturali utilizzata sarà uguale all’ammontare finale di rifiuti prodotti.
Incontri con
Questo cosa significa “calato nella realtà quotidianà”? L’economia ambientale studia le relazioni tra sistema socioeconomico e l’ambiente circostante. Per esempio, quando decidiamo di usare un mezzo di trasporto come l’auto, dovremmo tenere in conto tutti gli impatti ambientali connessi alla costruzione, uso e dismissione della stessa. In termini generali, tale visione del sistema economico implica una domanda immediata: é possibile la crescita indefinita in un pianeta finito? Per esempio, coerentemente con gli attuali valori sociali dei paesi occidentali, un’automobile per ogni due/tre persone potrebbe essere considerato un obiettivo ragionevole nei Paesi in via di sviluppo. Ciò implicherebbe un numero di automobili dieci volte più grande di quello esistente, con enormi conseguenze sull’aumento della temperatura terrestre, esaurimento del petrolio, perdita di terra per l’agricoltura, rumore e produzione di CO2 e NOx. Quali sono le prospettive a medio e lungo termine? Tradizionalmente, il prodotto nazionale lordo (PIL) è stato considerato il migliore indicatore per valutare il benessere di una nazione. È bene notare che le metodologie di contabilità nazionale attualmente utilizzate presentano le seguenti
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caratteristiche: la distruzione o degradazione dell’ambiente non viene considerata; le risorse naturali, in quanto tali, presentano un valore uguale a zero; le spese per rimediare a danni ambientali, poichè transitano per il mercato, sono considerate un contributo positivo al PIL! Per esempio, non c’é dubbio che il valore aggiunto del settore agricolo è molto aumentato negli ultimi decenni, ma si può facilmente vedere che l’agricoltura tradizionale è sempre stata fonte di energia, mentre adesso ciò non è più vero. L’agricoltura moderna, in effetti, non fa altro che trasformare energia fossile in cibo. L’alta intensità di utilizzazione dell’energia nell’agricoltura moderna deriva non solo dall’energia che necessitano le macchine agricole, ma anche dall’energia necessaria per produrre fertilizzanti, erbicidi e insetticidi. Quindi, in verità l’agricoltura moderna aumenta la produttività per addetto ma la diminuisce in termini di rapporto input/output di energia e conseguentemente si basa su energia prodotta con risorse naturali non rinnovabili. Dal punto di vista dell’economia ambientale, l’incremento di produttività dell’agricoltura moderna dipende quindi in maniera cruciale dalla sottovalutazione degli input energetici dei combustibili fossili, dal valore nullo o comunque molto scarso dato all’inquinamento causato dai pesticidi e fertilizzanti e infine dalla perdita di biodiversità. Per valutare correttamente l’impatto degli umani sul pianeta dobbiamo quindi prendere in considerazione tre variabili principali: la popolazione, il livello di vita e lo sviluppo tecnologico disponibile. Con riferimento
agli stili di vita precedentemente descritti, le aspettative assolutamente comprensibili dei Paesi in via di sviluppo sono prevalentemente di imitazione di quelli piú ricchi. Inutile dire che la naturale conseguenza di ció é l’aumento dei processi di estrazione delle risorse naturali ed energetiche e quindi delle emissioni contaminanti. Se prendiamo in considerazione l’effetto combinato dell’aumento della popolazione con la modifica degli stili di vita (pensiamo per un attimo ai cinesi che sostituiscono la bicicletta con l’automobile...) non é inverosimile prevedere che la qualitá della vita sul nostro pianeta potrebbe seriamente deteriorarsi. Le nuove tecnologie rappresentano un supporto sostanzioso alla materia? La risposta è, senza ombra di dubbio affermativa. Dobbiamo però distinguere due grandi categorie, cioé i miglioramenti tecnici dell’efficienza dell’uso delle risorse (e conseguente diminuizione della contaminazione) e i cambiamenti tecnologici profondi. I miglioramenti in efficienza riguardano la possibilitá di godere di una unitá di un determinato servizio (per esempio abbassamento/innalzamento di un grado della temperatura della propria abitazione) utilizzando meno risorse naturali (per esempio energia). Attualmente, vi sono diversi esempi in tal senso, pensiamo alle nuove automobili, impianti di aria condizionata, computer, ecc.). Esiste però un limite a tali processi di miglioramenti dell’efficienza, il cosiddetto paradosso
Giuseppe Munda Professore di Economia Ambientale all’Università Autonoma di Barcellona È professore di Economia delle Risorse Naturali e di Teoria delle Decisioni e già vice direttore dell’Istituto di Scienze Ambientali e Tecnologie all’Università Autonoma di Barcellona. Ha conseguito il PhD in Economia ed Econometria alla Libera Università di Amsterdam (1993). Ha tenuto corsi in numerose università internazionali (Université Panthéon - Sorbonne di Parigi, Università degli Studi di Napoli Federico II, Centre d`Economie et d’Ethique pour l’Environnement et le Dèveloppement, Universitè de Versailles Saint-Quentin-en-Yvelines, Università di Pisa, Politecnico di Bari, Politecnico di Torino, Università di Buenos Aires, FLACSO, sede di Quito in Ecuador, Centro “Bartolomè Las Casas” in Perù). Dal 2004 al 2008 è stato ricercatore senior per la Commissione europea, per il Centro Comune di Ricerca (CCR). Inoltre, è stato consulente all’InterAmerican Development Bank, all’OCSE, all’ European Commission DG XII, ed infine per l’European Environment Agency. Ha pubblicato più di 50 articoli e capitoli di libri in riviste scientifiche internazionali e ha scritto i libri “Social Multi-Criteria Evaluation for a Sustainable Economy” (2008), “Multicriteria Evaluation in a Fuzzy Environment - Theory and Applications in Ecological Economics” (1995). Ha organizzato e coordinato oltre 20 progetti di ricerca della UE. 8
incontri con di Jevons. In sintesi, i miglioramenti dell’efficienza si tramutano in risparmio economico e quindi alla fine dato che il prezzo al consumo diminuisce, la domanda del prodotto aumenta! Cosa diversa è il cambiamento tecnologico nel senso dell’introduzione di tecnologie completamente differenti. Un chiaro esempio é il passaggio dal trasporto, basato sugli animali, a quello basato sul motore a scoppio. All’inizio del secolo XX, il grande problema ambientale e sanitario di tutte le città era la presenza di enormi quantità di escrementi di animali. Tale problema fu definitivamente risolto dall’invenzione dell’automobile. Oggi il problema é senza dubbio come sostituiamo le automobili. Si parla tanto di green economy: è solo una moda, o sta cambiando realmente la cultura dei popoli a tal riguardo? Come dicevo prima, i cambiamenti nello stile di vita sarebbero altamente auspicabili (insieme ai cambiamenti tecnologici), temo però che non siano molto probabili. Una teoria interessante a tal riguardo é la cosiddetta coevoluzione. In biologia, il concetto di coevoluzione si riferisce alla traiettoria dei cambiamenti evolutivi di due specie che interagiscono strettamente, dove l’adattamento delle caratteristiche genetiche all’interno di ciascuna specie è profondamente governato dalle caratteristiche genetiche dominanti dell’altra. Storicamente, la sopravvivenza dei singoli è stata connessa alla loro appartenenza a gruppi. Il successo di un gruppo dipende dalla sua cultura, intesa come il sistema dei valori, credenze, opere e forme artistiche che sostengono una certa organizzazione sociale e ne razionalizzano le azioni. I valori e le credenze che meglio si adattano all’ecosistema sopravvivono e si moltiplicano. In tal modo le caratteristiche culturali sono selezionate in maniera simile alle caratteristiche genetiche. Contemporaneamente i valori culturali e le credenze influenzano il modo di interagire della gente con il proprio ecosistema e la conseguente pressione selettiva sulle specie animali. Così, in generale, si è avuta coevoluzione non solo tra le persone ed il loro ambiente, ma anche tra sistemi sociali e sistemi ambientali. L’economista americano Richard Norgaard ha provato a ripercorrere le tappe fondamentali della storia del genere umano utilizzando come paradigma interpretativo la coevoluzione. Quando si sviluppò l’agricoltura, la Terra era popolata da circa 5 milioni di persone. La popolazione mondiale raddoppiò circa otto volte raggiungendo 1,6 miliardi di individui alla metà del secolo
XIX (prima della rivoluzione industriale). Secondo Norgaard, tali raddoppi avvennero attraverso un’accumulazione della conoscenza, delle tecnologie e del cambiamento organizzativo. Il mondo antecedente alla rivoluzione industriale può essere concepito come un mosaico di sistemi ecologici e sociali in coevoluzione. La varietà dei settori di cui si componeva il mosaico garantiva la diversità culturale e biologica, nonchè la resilienza complessiva del mosaico. Lo sviluppo inteso come coevoluzione dei sistemi ecologici e dei sistemi sociali ammette una pluralità di modi di conoscere, di valori, di organizzazioni e di modi di produrre. Ciò significa che nessun modello di sviluppo può essere considerato a priori come il migliore possibile e che il rispetto delle diversità culturali è di importanza fondamentale. L’era degli idrocarburi ha generato un punto di discontinuità nella coevoluzione dei sistemi ecologici e sociali. I sistemi sociali si sono evoluti attorno ai mezzi per sfruttare gli idrocarburi e solo in un secondo tempo hanno adottato istituzioni mirate alla correzione dei danni che questo tipo di coevoluzione comportava all’ecosistema. Attraverso il processo di estrazione degli idrocarburi e il loro impiego quali fonti di energia, le società occidentali si sono svincolate da molte complessità derivanti dall’interazione con gli ambienti naturali. Il processo di trasformazione dei sistemi ecologici si è spostato dall’abile manipolazione intrapresa alla nascita dell’agricoltura, alla sottovalutazione delle funzioni degli ecosistemi attraverso l’importazione dell`energia nell’agricoltura che ha avuto luogo nel corso della sua modernizzazione. La transizione agli idrocarburi fossili ha consentito alle culture di arrestare il processo di coevoluzione attorno ai propri ambienti specifici e di adottare le credenze della modernità, la cui superiorità era avvalorata dall’incredibile aumento del benessere materiale. Gli idrocarburi hanno liberato la società dai vincoli ambientali immediati ma non dal vincolo ultimo dell’assorbimento dei gas da parte dell’atmosfera e degli oceani. Tale è lo scenario ambientale, caratterizzato da retroazioni coevolutive che irrigidiscono l’organizzazione sociale, tendono a distruggere il mosaico delle diversità culturali, generano le ingiustizie distributive.
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L’ECONOMIA VERDE DELLA RIPRESA La sfida per un nuovo futuro economicamente sostenibile
Fra i vocaboli creati dalla società contemporanea durante l’ultima rivoluzione socio-industriale il termine green economy è sicuramente uno di quelli che ha acquistato maggiore importanza e notorietà soprattutto grazie ad internet, canale di comunicazione mediatica per eccellenza di questo secolo. Ma cos’è esattamente l’ “economia verde”? Secondo l’UNEP (United Nations Environment Programme), la green economy è un’economia “che produce miglioramenti del benessere umano e dell’equità sociale, riducendo, nel contempo, i rischi ambientali ed ecologici”. L’economia mondiale sta lentamente uscendo dalla recente crisi finanziaria globale, anche per mezzo di questo nuovo slancio green. Tuttavia, la ripresa non è stata uguale per tutti.
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focus La crisi finanziaria americana del 2008 ha creato in molti Paesi e, in generale, nella loro cultura ecologista la consapevolezza che il modello di sviluppo economico corrente dovesse essere rivisto. Il primo a parlare e a investire nella green economy, infatti, è stato il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che già nel 2009, per far fronte al periodo di recessione dell’economia americana, sostenne una serie di misure anche imprenditoriali, pubbliche e private, per dare un forte impulso allo sviluppo della economia verde. Si trattava di lanciare un nuovo modello di sviluppo che contrastava l’imperante modello economico “nero” (black economy) basato sui combustibili fossili, come il carbone e il petrolio. Oggi lo sviluppo sostenibile non si presenta più come una delle scelte possibili per la tutela dell’ambiente e del rilancio economico: in realtà è “l’unico modello attuabile nel breve e lungo periodo”. L’economia sostenibile è considerata dagli esperti del settore come l’unica via percorribile per uscire dalla crisi che stiamo attraversando. L’Italia, anch’essa colpita dalla crisi congiunturale, sta vivendo in questi anni una fase di grandi trasformazioni e la green economy e i green jobs ci proiettano in un nuovo futuro. All’interno di tutto questo movimento che spinge verso l’economia verde, sostenuto anche da importanti istituzioni internazionali, l’Italia non è rimasta indietro rispetto agli altri. Anzi, nel nostro Paese il giro d’affari legato al settore del verde supera i 40 miliardi di euro: 33,5 dal settore delle green technologies (che ingloba sostanzialmente il settore delle rinnovabili e dell’efficienza energetica) e 9,5 dal settore del riciclo. In Italia si può parlare senz’altro di numeri positivi e incoraggianti: abbiamo già superato l’obiettivo europeo del 20% di consumo da fonti energetiche rinnovabili (attualmente siamo al 24,8%) secondo il rapporto Ires 2013) e siamo tra i leader mondiali assoluti nella produzione di inverter per pannelli. Negli ultimi due anni, non a caso, il nostro Paese ha cercato di accelerare le riforme strutturali, di mettere la finanza pubblica su un nuovo binario, di modernizzare la propria economia e di rilanciare lo sviluppo e la competitività. Infatti, in questo secolo le sfide future per l’Italia sono anche le opportunità offerte globalmente per la realizzazione di un sistema economico maggiormente sostenibile.
In particolare una serie di iniziative adottate negli ultimi anni in favore dell’ambiente hanno contribuito a ridurre l’uso dei materiali e dell’energia, a migliorare la qualità dell’aria e dell’acqua e in generale dell’ecosistema. Eppure questi miglioramenti non sono ancora del tutto sufficienti: secondo alcuni sondaggi nel nostro Paese la qualità ambientale è ancora poco soddisfacente rispetto al resto d’Europa. Anche se esistono delle differenziazioni regionali tipiche del nostro Paese e quindi sarebbe opportuno fare delle distinzioni. In generale, anche la politica ambientale italiana si evidenzia come priva di visione programmatica a lungo termine, anzi si presenta frammentaria e spesso determinata da misure di emergenza. Tutto questo, quindi, genera incertezza. Una nuova visione politica e nuove riforme sarebbero auspicabili e necessarie per rendere il sistema di gestione ambientale più coerente ed efficace, e soprattutto per cogliere le reali opportunità della green economy: tra queste una riforma fiscale ambientale globale. Ad ogni modo anche in Italia la costituzione di opportunità di green economy ha portato, come conseguenza, allo sviluppo e all’implementazione delle green technology, nata per dare un indirizzo dell’economia della conoscenza nella direzione della sostenibilità ecologica. Essa ha permesso notevoli progressi in diversi settori: dallo sviluppo della produzione di elettricità da fonti rinnovabili, alle innovazioni che consentono forti risparmi di energia nelle abitazioni e nell’industria, fino alla raggiunta capacità di riciclo di tutti i tipi di rifiuti. Quindi, anche in Italia si sta assistendo all’incremento di nuovi sistemi e, di conseguenza, strutture organizzative dedicati alla sostenibilità. Infine, forte è diventata anche l’implementazione alle best practice cosiddette green soprattutto da parte dell’impresa per rendere il tema un possibile punto di forza da spendere sul mercato.
«Gli strumenti per lo sviluppo della Green economy», di Edo Ronchi. «Lo stato della Green economy a fine 2013», introduzione di Simon Upton e Rapporto Green Economy 2013. Report Green Technology 2014. 11
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Scoppia il cosiddetto shock petrolifero in seguito alla guerra tra Israele e Paesi Arabi. La crisi petrolifera rappresentò per i paesi occidentali un’occasione per riflettere sull’uso delle fonti rinnovabili in alternativa ai combustibili fossili come il petrolio.
Lo sviluppo secondo il rapporto Brundtland, elaborato dalla Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo e che prende il nome dall’allora premier norvegese che presiedeva tale Commissione: “Lo sviluppo sostenibile, lungi dall’essere una definitiva condizione di armonia, è piuttosto un processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali”. Con questa affermazione Bruntland lancia un allarme relativo al consumo senza freni delle risorse.
Il concetto di “sostenibile” si è evoluto, mentre le energie rinnovabili hanno cominciato a fare capolino nel panorama energetico globale. Man mano si è giunti al concetto rivoluzionario di green economy, ovvero un’economia il cui impatto ambientale sia minimo. In questo nuovo contesto diventano allora primari l’innovazione tecnologica e le conoscenze scientifiche.
160 Paesi hanno aderito al cosiddetto Protocollo di Kyoto, che poneva l’obbligo ai Paesi sottoscrittori di ridurre le emissioni inquinanti del 5% rispetto ai livelli del 1990.
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Sorge un’idea matura di un’economia verde grazie alla stesura del Rapporto Stern, che propone un’analisi economica per valutare l’impatto ambientale e macroeconomico dei recenti cambiamenti climatici denunciandone il peso negativo sul PIL mondiale.
L’Unione Europea ha elaborato il piano 20-20-20. Il piano pone in capo ai Paesi membri dell’UE 3 obblighi da rispettare entro il 2020: ridurre le emissioni di gas serra del 20%, aumentare il risparmio energetico del 20% e portare il consumo energetico da fonti rinnovabili al 20%. Per i Paesi che non riusciranno a rientrare in questi rigidi paletti sono previste delle sanzioni economiche molto importanti. Per l’Italia questo ha rappresentato un incentivo idoneo a dare un forte impulso al settore “verde”.
Il presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, propone una serie di misure economiche e imprenditoriali, pubbliche e private per dare un netto impulso allo sviluppo della economia verde, come strategia per rilanciare l’economia americana in profonda recessione.
La Comunità Europea lancia il programma Horizon 2020. Si tratta di un contenitore di progetti rivolti alla ricerca e all’innovazione, soprattutto in termini green, finanziato con 72miliardi di euro. Si tratta principalmente di incentivi per rilanciare la competitività.
Gli eventi che hanno cambiato la storia dell’economia verde 13
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La copertina #00a896: eccolo il codice colore, in valore esadecimale, che abbiamo scelto per la copertina 06 di Logyn. Una sfumatura medio scuro di turchese composta per il 65.88% di verde e per il 58.82% di blu. Soprattutto verde e blu in questo nuovo numero, per richiamare i colori della nostra terra e ricordare che è in atto una “rivoluzione green” per la sua tutela. Un nuovo modello culturale, economico e produttivo (azienda green) si sta affermando con l’obiettivo di salvaguardare e risparmiare il capitale naturale da cui dipende la sopravvivenza del nostro pianeta (salvadanaio) e di creare nuovo sviluppo e occupazione (green jobs).
L’inchiostro I colori e le immagini scelti per Logyn non sono mai casuali. Pensieri e idee nuove prendono vita da sfumature e forme che parlano proprio ai nostri lettori. Perché questi messaggi arrivino vividi a tutti voi, utilizziamo solo tecniche di realizzazione e risorse di elevata qualità. Per questo Logyn è realizzato in quadricromia, ossia attraverso una tecnica di riproduzione fotomeccanica che consiste nel sovrapporre quattro colori, il nero e i tre colori fondamentali (giallo, rosso, azzurro) per ottenere maggiori dettagli nei particolari e un migliore contrasto dell’immagine. A valorizzare la varietà e intensità dei colori gli inchiostri da stampa di ultima generazione !NKREDIBLE, che combinano al meglio le caratteristiche di lucidità, assorbimento e resistenza allo sfregamento, assicurando la massima stabilità durante il processo. In particolare, gli inchiostri utilizzati sono il MAXXIMA e il QU!CKFAST. MAXXIMA è un inchiostro fresco in macchina che combina al meglio le caratteristiche di lucidità, assorbimento e resistenaza allo sfregamento, assicurando la massima stabilità di processo su supporti assorbenti. QU!CKFAST appartiene ad una serie speciale di inchiostri di quadricromia a essicazione rapida adatta all’uso su supporti critici: la soluzione ideale per una finitura post-stampa su carta usomano incredibilmente veloce! Grazie alla pigmentazione intensa e alla speciale applicazione di essicccanti, infatti, garantisce un’ossicazione ossidativa estremamente veloce e un’elevata intensità di colori. Grazie alla stabilità di processo garantita da questo famiglia di inchiostri, la realizzazione di Logyn avviene producendo pochissimi scarti durante gli avviamenti. Per essere anche noi co-protagonisti della rivoluzione green in atto. 14
MAGGIO 2014
PENSARE CON LE MACCHINE!
ECOLOGIA E TECNOLOGIA
STEFANO MORIGGI
Quando l’inquinamento linguistico è (anche) peggio di quello atmosferico...
“Purtroppo il problema ecologico, come tutti i problemi seri del nostro tempo, è uno di quelli che può essere e sarà sfruttato da persone più o meno prive di scrupoli” - così Karl Raimund Popper esordiva, il 5 novembre del 1991 nella Haus im Wald, di fronte alla platea dell’Unione Industria Automobilistica Tedesca (VDA). Era stato invitato dalla dottoressa Emmerich, presidente dell’Unione, a confrontarsi con un tema tanto attuale quanto scottante: Tecnologia ed etica. Ma quanti, udito tale incipit, si prefiguravano una vibrata riflessione “in salsa verde” contro un progresso invadente e irrispettoso degli equilibri della natura, dovette presto ricredersi. Ovviamente Popper non ignorava, né sottovalutava, i rischi locali e globali - di una mancata sensibilità ecologica - e tanto meno i danni irrimediabili a cui il pianeta tutto sarebbe andato in contro in conseguenza di scelte e condotte, politiche ed economiche, devastanti. E, forse anche per questi motivi, quella sera decise di spingere l’esercizio della critica là dove pochi avrebbero osato, scegliendo quale oggetto della sua prolusione un bersaglio inatteso e sorprendente per i suoi uditori. Chi poteva immaginare, infatti, che tra le “persone più o meno prive di scrupoli” avrebbe riservato un posto d’onore a certi “ecologisti militanti” ? Si sa, i pensatori spesso non sanno rinunciare al gusto del paradosso; ma a ben vedere questa volta l’epistemologo austriaco aveva preferito la via della provocazione. Provocazione, certo! Ma nel senso etimologico del pro-vocare. L’intenzione di Sir Karl era appunto quella di richiamare l’attenzione su un problema (solo apparentemente!) contraddittorio. Ovvero, voleva invitare a pensare in materia di ecologia al di là del “buon senso comune”, cercando di mostrare come una delle più pericolose insidie culturali a un ambientalismo critico e consapevole possa venire proprio da una diffusa e subdola ideologia della natura. Ma procediamo per gradi e cediamo nuovamente la parola al teorico della “società aperta”. “È inevitabile che sulla nostra Terra sovrappopolata noi facciamo permanentemente tutti gli errori ecologici possibili, ed è 16
innegabile che vigilare è necessario [...]. Ma è altrettanto chiaro che in questo campo non si ottiene nulla senza l’aiuto delle scienze naturali e della tecnica”. Popper intendeva polemicamente stanare l’inconsistenza delle tesi di tutti coloro per cui le condizioni presenti e le sorti future dell’ambiente andavano interpretate all’interno della contrapposizione (a loro giudizio) rovinosa: quella tra natura e tecnologia - tra l’ordine della prima e la trasgressione di quell’ordine (e dei valori a esso connessi) da parte della seconda. E Sir Karl fa nomi e cognomi dei “tecnofobi” che ha in mente: “perché - si chiede infatti - l’ostilità dei Verdi tedeschi alla
tecnica e alla scienza della natura è così grande, mentre in altri paesi ha un ruolo - quando lo ha - del tutto insignificante?”. E la risposta rasenta l’autocritica: “Perché i tedeschi si fanno impressionare dai loro filosofi anche quando dicono delle assurdità incomprensibili”. Ora, che il filosofi (e non solo quelli tedeschi) possano dire assurdità è una eventualità che non sorprende neppure il filosofo che firma questo articolo... Tuttavia, occorre andare in fondo a tale questione, apparentemente astratta e teorica, ma invece ben più profonda e concreta di quanto a prima vista non sembri. Seguiamo allora Popper ancora per un tratto nella sua invettiva contro l’inadeguatezza di alcuni pensatori... “I filosofi solitamente non capiscono nulla di tecnologia e di scienza della natura; e non è che in Inghilterra le cose vadano meglio che in Germania [...] Analogo è stato il disprezzo dei filosofi di Oxford per la tecnologia [...] Per loro tutto questo era ‘glorified plumping’, la ‘glorificazione dello stagnaio’. Così si poteva rimarcare la propria superiorità di fronte all’industria nascente, alla tecnologia e alla scienza naturale”. Alla amara diagnosi dell’epistemologo viennese potremmo aggiungere che in Italia le cose non vanno molto meglio - visto che, anche da noi, è piuttosto nutrita la pletora di pensatori e umanisti vari che, quanto meno sanno di scienza e tecnologia, tanto più le individuano come le matrici di ogni disastro naturale e morale. E il punto è proprio questo: cosa è - e cosa può diventare una filosofia incapace di dialogare alla pari con la scienza e la tecnologia? E a cosa può ridursi un esercizio del pensiero che non sappia calarsi (per ignoranza e incompetenza) nella pieghe di problemi e questioni emersi dall’evoluzione della scienza e dall’innovazione della tecnologia? Difficile immaginare qualcosa di più inconsistente rispetto ad astruse chiacchiere su principi e valori scollati da un mondo
scenari sempre più complesso e sfaccettato. Queste chiacchiere possono anche essere ben costruite e ancor meglio retoricamente confezionate. E possono persino funzionare come efficaci rassicurazioni per sublimare o esorcizzare i temi che scuotono più in profondità le nostre coscienze. Insomma, giochi di parole con funzione anestetica. Ma - come notava ancora Popper quella sera alla Haus im Wald - “l’inquinamento linguistico che ne nasce è perlomeno altrettanto grave quanto quello atmosferico”. A meno che anche le chiacchiere infondate di chi accusa scienza e tecnica senza conoscerla, trasformando così la “natura” in un feticcio culturale, non vengano esse stesse sottoposte alla pratica spregiudicata e severa di un pensiero davvero critico e competente. Qualcosa del genere cercò di fare già John Stuart Mill che - già nel XIX secolo - aveva intuito i rischi insiti in una ideologia della natura. Negli anni Cinquanta dell’Ottocento, infatti, scriveva: “Le parole Natura, naturale, e il gruppo di termini che ne derivano o che ne hanno affine l’etimologia, hanno sempre avuto in ogni epoca grande importanza per il pensiero, ed hanno esercitato una forte presa sui sentimenti dell’umanità”. Detto questo, il logico inglese aggiungeva: “Le parole ora dette si sono venute mescolando a sì numerose associazioni estranee, la maggior parte delle quali di un carattere assai forte e tenace, che hanno fatto sorgere - ed anzi ne sono diventati i simboli - dei sentimenti non giustificati in alcun modo dal significato originale dei termini”. E, non
Stefano Moriggi storico e filosofo della scienza Si occupa di teoria e modelli della razionalità, di fondamenti della probabilità, di pragmatismo americano con particolare attenzione al rapporto tra evoluzione culturale, semiotica e tecnologia. Già docente nelle università di Brescia, Parma, Milano e presso la European School of Molecular Medicine (SEMM), attualmente svolge attività di ricerca presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca e l’Università degli Studi di Bergamo. Esperto di comunicazione e didattica della scienza, è consulente scientifico Rai e su Rai 3 è uno dei volti della trasmissione “E se domani. Quando l’uomo immagina il futuro”. Tra le sue pubblicazioni si ricordano: “Le tre bocche di Cerbero. Il caso di Triora. Le streghe prima di Loudon e Salem” (Bompiani, 2004); (con E. Sindoni) “Perché esiste qualcosa anziché nulla? Vuoto, Nulla, Zero” (Itaca 2004); con P. Giaretta e G. Federspil ha curato “Filosofia della Medicina” (Raffaello Cortina, 2008). Più recentemente (con G. Nicoletti) ha pubblicato “Perché la tecnologia ci rende umani. La carne nelle sue riscritture sintetiche e digitali” (Sironi, 2009); (con A. Incorvaia) “School Rocks. La scuola spacca” (San Paolo, 2011); Connessi. Beati quelli che sapranno pensare con le macchine (San Paolo, 2014)
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bastasse, “questi sentimenti hanno trasformato il termine Natura in una delle fonti più copiose di cattivo gusto, di falsa filosofia, di falsa moralità, e perfino di cattive leggi”. Rieccoci dunque alla questione di fondo: quale “coscienza ecologica” potrebbe mai emergere da un vocabolario tanto corrotto? Quali riflessioni e provvedimenti potrebbero mai scaturire da dibattiti e confronti basati su termini e concetti tanto contaminati? È per ragioni come queste che - ieri come oggi - tra i compiti di un filosofo degno di questo nome continua a esserci quello di “bonificare” il linguaggio dai falsi miti e dalle vere superstizioni, anche grazie a un continuo e serrato dialogo con scienza e tecnologia. Senza una ecologia del linguaggio è difficile pensare a una cultura e a una sensibilità dell’ambiente davvero informate. E in questa direzione muoveva lo sforzo di Mill, quando provò a recuperare un “senso originario” del termine Natura. Uno sforzo che trovò nella logica e nella pratica scientifica non due antagoniste, ma le migliori alleate per venire a capo della questione. Vediamo come... Anzitutto, John iniziò azzardando una definizione: “Natura è la somma di tutti i fenomeni insieme con le cause che li producono, includendo non soltanto tutto ciò che accade, ma anche tutto ciò che è suscettibile di accadere”. Fatto ciò, da buon induttivista, indicò come procedere nella comprensione di tali fenomeni naturali facendo leva sul concetto di “regolarità” per giungere infine a quello di “legge”: “Essendosi trovato che tutti i fenomeni, sufficientemente esaminati, hanno luogo con regolarità [...], gli uomini sono stati in grado di accertare - sia mediante l’osservazione diretta, che mediante processi di ragionamento basati sull’osservazione - le condizioni del verificarsi di molti fenomeni. [...] Una volta scoperte, esse possono venir enunciate in proposizioni generali, che vengono chiamate leggi di quel particolare fenomeno, e anche, in modo più generale Leggi di Natura”. So far so good, potremmo dire... Ma il filosofo inglese ben sapeva che la comprensione della natura (e del sostantivo natura) sub specie logica non poteva bastare. Era, infatti, ben consapevole delle molte altre accezioni del termine, a prima vista, non contenibili nell’equazione: natura è tutto ciò che posso (o riesco) a esprimere nei termini di legge di natura. Per esempio, natura “nella comune forma di discorso viene contrapposta all’Arte”, così come “il naturale all’artificiale”. E, a ben vedere, è proprio in questa distinzione che certo ecologismo trova le premesse per contrapporre ambiente e tecno-scienza. Ma Mill smonta l’obiezione, inanellando una successione di efficaci esempi: “una nave sta a galla per le stesse leggi del peso specifico e dell’equilibrio che fanno galleggiare un albero sradicato dal vento e gettato nell’acqua. Il grano che gli uomini 18
coltivano per cibarsene, cresce e produce le spighe per le stesse leggi della vegetazione che fanno fiorire e fruttificare la fragola di montagna”. E così via... In altre parole, se le “leggi di natura” che spiegano ciò che è ritenuto naturale e ciò che invece viene classificato come artificiale sono le stesse, vuol dire che questa stessa distinzione è convenzionale, culturale. Ovvero, che non poggia su alcuna evidenza empirica o razionale. Anche perché - precisa il filosofo inglese - non dobbiamo dimenticare che “persino la volizione [umana] che progetta, l’intelligenza che organizza e la forza muscolare che esegue questi movimenti sono esse stesse poteri della Natura”. E aggiunge: “l’uomo non ha infatti altro potere che seguire le leggi di natura; tutte le sue azioni sono compiute o per mezzo, o in obbedienza, di una o di molte fra le leggi fisiche o mentali della natura”. Pertanto, se natura è tutto ciò che posso (o riesco) a esprimere nei termini di legge di natura, pare evidente che dietro ogni tentativo di innalzare una qualche idea di natura “a un banco di prova del giusto e dell’ingiusto” è un’operazione vuota, ingenua, quando non (appunto!) ideologica. Ed è proprio in quest’ottica - quella di Mill, articolata poi da Popper - che propongo un esercizio: immaginare un’ecologia che faccia a meno del termine natura. Anche la mia potrà sembrare ad alcuni una provocazione. Si tratta invece di un esercizio funzionale a ponderare in maniera analitica e critica le scelte e i provvedimenti che riguardano l’ambiente senza cadere (più o meno consapevolmente) in qualcuna delle insidiose incrostazioni semantiche che continuano a distorcere il concetto di natura. Tale esercizio, infatti, attraverso una auspicabile “bonifica” del proprio vocabolario, ci consegnerebbe, senza più alibi, il peso della nostra responsabilità. In questo modo, infatti, non ce la si potrebbe più cavare sostenendo una visione del mondo (in generale) - o prendendo una decisione (in particolare) - in virtù di una sua presunta “naturalità”. Al contrario, si dovrebbero soppesare, di volta in volta, rischi e opportunità per un ambiente di cui siamo parte integrante e in cui dobbiamo imparare a vivere con una consapevolezza critica che non non può esistere in assenza una preventiva ecologia delle parole. Ragion per cui - anche concentrandomi, più nello specifico, sulle posizioni radicali e dogmatiche di incerto ambientalismo radical chic made in Italy - sottoscrivo in pieno l’invito di Sir Karl Popper: “Vi prego di non credere che dietro all’attacco generale alla scienza e alla tecnica si nasconda qualcosa di serio o addirittura di filosoficamente profondo”.
scenari E vissero connessi e contenti L’ultimo libro di Moriggi: un viaggio per comprendere la filosofia delle nuove tecnologie ANDREA D’AGOSTINO
Siamo sempre più un popolo di interattivi. Dal tablet al pc passando per lo smartphone, chattiamo su skype, ci facciamo gli affari altrui spiando i profili dei nostri amici su Facebook, o leggendo cosa scrivono i colleghi su Twitter. Sempre pronti a postare l’ultimo scatto su Instagram (sotto sotto convinti che Robert Capa non avrebbe saputo fare di meglio). Insomma, per dirla in una parola: connessi. Si intitola così l’ultima fatica di Stefano Moriggi, filosofo della scienza che da tempo studia questi fenomeni: il risultato è un libricino piccolo come formato (poco meno di 60 pagine) ma denso di contenuti, dal sottotitolo accattivante: Beati quelli che sapranno pensare con le macchine. Il libro fa parte, infatti, della nuova collana della casa editrice San Paolo dedicata alle beatitudini laiche della cultura contemporanea, rilette da vari esperti: dalla libertà al governare, dall’informazione all’economia. A Moriggi è toccato il tema più appassionante, che riguarda, sintetizzando, la tecnologia. Ma non solo. Macchine, tanto per iniziare: la rivoluzione industriale ha visto infatti progredire l’esistenza dell’uomo grazie all’invenzione di alcuni strumenti per noi oggi imprescindibili: dalla lavatrice, che ha rivoluzionato la vita di milioni di donne, al telefono che ha abbattuto le distanze, per fare due esempi. Per arrivare al “calcolatore” del logico-matematico inglese Alan Turing, grazie al quale gli Alleati riuscirono a decifrare i messaggi in codice dei nazisti. Ma all’autore non interessa fare un mero elenco di quegli strumenti (Internet è solo l’ultimo in ordine di tempo) che ci hanno cambiato la vita: l’intento è controbattere a quei tanti «profeti di sventura che, dalla carta stampata agli schermi televisivi, dalle cattedre universitarie ai pulpiti», vedono i nuovi strumenti come pericolosi, soprattutto per le nuove generazioni, rimpiangendo ovviamente i bei tempi andati. Andando magari a cercare i “veri” valori lontano dal computer nell’autenticità della natura, o nei prodotti a chilometro zero, nel “naturale” a tutti i costi. Peccato, fa notare l’autore, che ci sia un grosso equivoco di fondo: “autentico” non è il contrario di “ipermoderno”, semmai è solo una delle sue facce. La spiegazione inizia subito dalle prime pagine: bisogna pensare “con” le macchine, non “contro” di loro. E in questa maniera si potrà scoprire che noi tutti siamo sempre stati «le continue creazioni e ricreazioni delle nostre stesse invenzioni» (la frase è del massmediologo Derrick de Kerckhove). In sintesi, aggiunge Moriggi, ciò significa che siamo «animali culturali: e la cultura (tecno-scienza compresa,
ovviamente!) incarna il più efficace e rapido complesso di strategie di adattamento all’ambiente». L’Homo informaticus, in definitiva, non deve spaventare. Si tratta di un discorso avvincente che l’autore aveva già affrontato in un altro libro il cui titolo è tutto un programma: Perché la tecnologia ci rende umani (scritto con il giornalista Gianluca Nicoletti) di cui Connessi può essere visto come lo sviluppo naturale. Dall’uscita del primo volume – era il 2009 – sono trascorsi infatti “solo” cinque anni, eppure il progresso di scienza e tecnica ha fatto nuovi passi da gigante, aprendo nuovi scenari: l’esplosione degli smartphone, il sempre maggior successo dei social network e l’iper-connettività che ormai caratterizza il loro uso. Gli ultimi capitoli sono quelli che affrontano i temi più caldi: l’uso delle nuove tecnologie a scuola, ripensando alla didattica senza rifiutare in toto e a priori le tante novità che le giovani generazioni sono in grado di maneggiare spesso meglio degli adulti. Facendo però capire a questi ultimi – e questo è un tema affrontato nel capitolo finale, La nostra non è un’epoca scientifica – «l’importanza della scienza come cultura». Il che, in un’epoca come questa dove le facoltà scientifiche degli atenei vedono molti meno iscritti rispetto a tante altre pseudo umanistiche che pretendono di sfornare nuovi tuttologi della comunicazioni, non è da poco. 19
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RIDISEGNARE LE CITTÀ CON CULTURA E TECNOLOGIA SMART Un nuovo concetto di “vivere urbano”
Le nuove sfide economiche e sociali partono anche dalla riqualificazione del territorio in termini green. Il dibattito sullo sviluppo della “città intelligente” inizia proprio dal presupposto che si deve ridisegnare, in termini di sostenibilità, la qualità della vita all’interno di una comunità urbana. Il giornalista di scienza e responsabile del progetto Smau Anci dedicato alle Smart City, Federico Pedrocchi, nell’intervista ci accompagna nel mondo delle smart city e della sviluppo green, facendo il punto della situazione con pregi e problematicità.
Cos’è la smart city? Requisiti necessari perché si possa parlare di smart city non ci sono, perché dal punto di vista della progettualità c’è davvero così tanto da fare, con molteplici opportunità, che l’apertura a progetti di smart city è massima. Il concetto di “città intelligente”, diventato di moda in questi anni, si è sviluppato in diverse parti del mondo, in particolare nei Paesi più industrialmente avanzati. Di fatto, si tratta di mettere insieme tante nuove direzioni di progetto - interessando 20
aree metropolitane, non solo le grandi città - che cercano di cambiare abbastanza in profondità il modus vivendi del territorio. Quindi l’attenzione è rivolta alla cultura del cittadino: come si producono servizi ai cittadini, come i cittadini costruiscono il proprio habitat fino ad istituire delle reti relazionali all’interno della città. Effettivamente abbiamo tecnologie che sono in grado di generare grandi cambiamenti e dall’altra parte c’è la grande sfida ambientale per aiutare i territori ad essere il più possibile sostenibili. Ci sono tanti modi che noi abbiamo per agire, per
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determinare un cambiamento e possiamo di fatto incorniciarli in una progettualità integrata per costruire città più intelligenti. In realtà, è un’operazione culturale per creare e promuovere nuove sinergie. In Italia quando si comincia a parlare di smart city? Nel nostro Paese solo da cinque anni si è cominciato ad avere una certa visione unitaria condivisa e una certa attività un po’ trasversale, non prima, grazie anche alla possibilità di accesso a finanziamenti europei. Certo è che nel nostro Paese c’è una difficoltà indubbia per quanto riguarda la progettazione della smart city che è segnata dal fatto che i nostri enti locali hanno grandi difficoltà a reperire risorse economiche da investire in progetti. Quindi, non esprimiamo appieno quella potenzialità che abbiamo in casa. Inoltre, l’imperante burocrazia crea delle difficoltà oggettive, allungando i tempi di realizzazione di un progetto. Ad ogni modo, ci sono tante best practice che direzionano in progetti smart quegli investimenti fisiologici
appartenenti ad ogni città: ad esempio un comune non può fare a meno di investire sulla mobilità, quindi lo si cerca di fare con nuova intelligenza e cultura maggiormente volta al sostenibile. Ciò che sta marcando la nascita delle smart city in Italia è l’abbinata comune–azienda, ovvero investimenti sia del pubblico che del privato. La speranza è che in futuro ci possa essere anche più denaro. Qual è la maggiore difficoltà che hanno gli enti pubblici ad intercettare i fondi della Comunità Europea? Horizon 20.20.20 porta con se un portafoglio economico di circa 72miliardi di euro da investire in Europa, con una sottolineatura forte per gli aspetti di innovazione e sostenibilità. È vero che presenta anche delle caselle specifiche per la progettazione smart city, ma è ancor più vero che la potenzialità maggiore è data dall’insieme delle proposte in generale che spesso possono comunque essere declinabili in termini di smart city. Infatti, l’orizzonte che abbraccia la “città intelligente” è molto ampio. In generale, in Italia, ad eccezione delle università, non riusciamo ad interpretare bene i progetti europei perché nel tempo non si è sviluppato un know how adeguato che ci permetta di poter interpretare i progetti della Comunità Europea e adattarli alle nostre necessità. Ad esempio, in voci dedicate all’ambiente, all’ agricoltura, etc, spesso ci sono fondi interessanti per interventi e progetti da gestire anche in progetti smart. A Smau Padova 2014 abbiamo appositamente organizzato degli appuntamenti mirati, soprattutto rivolti alle PA, per promuovere la conoscenza per l’appunto di Horizon 20.20.20. Quali indicazioni darebbe per avvicinarsi maggiormente alla progettualità europea?
Federico Pedrocchi Giornalista scientifico Giornalista con oltre 30 anni di esperienza all’interno di case editrici, giornali, radio, web. Dirige e conduce la trasmissione Moebius su Radio24 de il Sole 24 Ore. Fa parte del gruppo di coordinamento del progetto europeo Nanochannels, finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del Programma Quadro per lo sviluppo della ricerca scientifica. Insegna New Media al Master in Comunicazione scientifica e Innovazione dell’Università di Milano Bicocca. 22
Innanzitutto, è fondamentale costituire la migliore squadra di tecnici che si possa avere a disposizione con competenze nei settori di interesse. Quindi, creare una rete di lavoro con gli enti di ricerca e le università, quest’ultime da sempre abilissime a intercettare fondi europei. Inoltre, è fondamentale interessare anche il mondo del privato arrivando a realizzare un mix di pubblico e privato, così da poter avere più teste a disposizione. Spesso si fa lo sbaglio di procedere in ordine sparso, in tal caso il rischio è quello di perdere opportunità. Ci sono, inoltre, delle agenzie specializzate nella stesura dei progetti. Purtroppo, è anche vero che l’Italia non ha in Europa l’autorevolezza che dovrebbe avere e anche questo crea degli ostacoli. Eppure, il problema maggiore è che non maneggiamo sufficiente know how per intercettare quello che viene proposto e messo a disposizione dall’Europa.
incontri con
Noi stiamo investendo abbastanza in tecnologia a tal riguardo, che possa venirci a sostegno? In Italia a tal riguardo abbiamo uno scenario molto composito: nelle direzioni di banda larga e, quindi, di accesso consistente all’uso della rete siamo indubbiamente molto indietro. C’è un ritardo che stiamo cercando di recuperare, ma dovremmo farlo più velocemente e la cosa più preoccupante è anche la mancanza di cultura dell’innovazione. Per dare un esempio in Lombardia da alcuni mesi esiste la banda larga, eppure si è registrata comunque una partecipazione bassa (16-17%) da parte delle aziende. Il problema principalmente è il ritardo della cultura d’innovazione nelle stesse aziende anche nel capire che cosa può significare avere un dialogo con la rete utilizzando strumenti innovativi come la banda larga. In generale, nel nostro Paese c’è deficit di cultura dell’innovazione. Poi in altre cose vediamo, invece, che ci sono esperienze positive anche dal punto di vista tecnologico. A Torino, Genova, Cremona, Parma e anche in piccoli comuni sono partite esperienze importanti. Anche nel Veneto ci sono esempi significativi: Venezia ha messo in funzione un sistema integrato di informazione sul trasporto locale e non solo. Nel bellunese ci sono due piccoli comuni che hanno fatto dei catasti digitali estremamente interessanti: ci sono on line tutti gli edifici dei due comuni e quando si digita un indirizzo si ha anche la scheda energetica della struttura. Come giudica le politiche nazionali a favore dello sviluppo delle tecnologie? Le politiche nazionali si concentrano essenzialmente sull’agenda digitale, un strumento centrale politico - organizzativo, che sta dando delle indicazioni molto precise. Quello che però si chiede è che l’Agenda possa diventare realmente uno strumento di trait d’union tra la tante realtà decentrate e l’attività governativa. Siamo sulla via giusta se l’Agenda digitale diventa uno strumento che traccia l’orizzonte in cui muoversi per, poi, far muovere gli attori territoriali di conseguenza, ma se gli enti decentrati per ottenere l’appoggio centrale devono comunque vedersela da soli, questo crea una farraginosità. Deve diventare un luogo di governance. Io, però, vorrei sottolineare con forza che per l’Italia l’innovazione non può essere solo digitale: noi abbiamo delle grandi risorse economiche nel Paese come il design, il turismo, il settore dell’agrifood, il tessile, il manifatturiero. La nostra attenzione e i nostri sforzi vero l’innovazione dovrebbero andare anche incontro a questi settori. Dobbiamo senz’altro presidiare l’ICT, ma accanto a questo lavoro dobbiamo incentrare la nostra attività d’innovazione anche miratamente ai nostri asset strategici. Ecco che bisognerebbe direzionare anche le giovani start up verso le reali risorse del Paese.
EFFICIENZA ENERGETICA CON UN CLICK: IL WEB GIS DEL COMUNE DI TORRI DI QUARTESOLO E DI CARMIGNANO DI BRENTA
I Comuni di Torri di Quartesolo e di Carmignano di Brenta hanno messo a disposizione dei cittadini un’applicazione innovativa basata sui sistemi informativi geografici Web GIS. Molte persone, grazie alle detrazioni fiscali al 50% per gli interventi di ristrutturazione edilizia e al 65% per quelli di efficienza energetica, valide fino al 31.12.2014, sono stimolate a investire per migliorare ed efficientare le proprie abitazioni, diminuendo i consumi energetici e le bollette. Non è sempre facile, però, districarsi tra le numerose possibilità che offre il settore energetico: non risulta semplice capire quali interventi sia più opportuno eseguire e, soprattutto, quali siano i più convenienti. Per ovviare a questo problema, questi Comuni hanno realizzato un software open e gratuito al servizio dei propri cittadini, affinché chiunque possa essere guidato nella scelta dell’investimento migliore. L’applicazione si presenta come una mappa interattiva del territorio comunale, completamente navigabile tramite il software Google Earth. Nella visione aerea tutti gli edifici dei due comuni sono individuati con dei blocchi tridimensionali colorati (rosso, arancione, giallo, verde scuro e verde chiaro) classificati a seconda dei consumi energetici. Cliccando direttamente sul fabbricato di interesse, sarà possibile ottenere precise informazioni sui possibili interventi comportamentali e strutturali da mettere in atto al fine di ridurre i fabbisogni termici ed elettrici, in relazione sia alla tipologia di fabbricato (età, orientamento del tetto, ecc.) sia agli incentivi disponibili (ristrutturazioni edilizie, bonus energia, ecc.). In ogni zona individuata, da quella con i consumi più elevati a quella più economica, sono state poi effettuate delle simulazione d’intervento con l’obiettivo di evidenziare il vantaggio economico ed ambientale dell’investimento energetico. Le simulazioni sull’edificio ‘medio’ sono state molteplici e hanno riguardato la spesa per i fabbisogni termici ed elettrici. Le simulazioni effettuate hanno riguardato tutte le zone della città e hanno dato risultati differenti in funzione delle caratteristiche di ogni area. Per ogni intervento sono stati specificati tutti i parametri tecnici necessari (superficie e costi), in funzioni delle caratteristiche del singolo edificio. La mappa è di semplice consultazione: ogni cittadino può navigare, arrivare davanti al proprio edificio e consultare le tabelle esplicative proposte dai tecnici comunali. Il programma Web GIS è già pronto e perfettamente funzionante per tutti i cittadini residenti nei due comuni. (SMAU PADOVA 2014) 23
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RESPONSABILITÀ ED ETICA AL CENTRO DELLA VERA “IMPRESA GREEN” Valcucine S.p.A. ci racconta il suo viaggio verso l’innovazione verde
Un’industria responsabile nei confronti della società presente e futura è un’industria etica, che verrà giudicata non solo secondo criteri finanziari ma anche per quanto sa “rendere al bene comune” . Questa la visione di Valcucine S.p.A., azienda di Pordenone di arredo e design tra le più innovative e green oriented in Italia, che oggi lavora anche per aumentare la coscienza critica delle persone sulle questioni ambientali. Un terreno su cui si gioca il futuro delle imprese secondo Daniele Prosdocimo, responsabile comunicazione dell’azienda. 24
Design “made in Italy”, rispetto per l’ambiente e per le persone: come si arriva ad essere una tra le aziende più innovative del proprio settore? In Valcucine tutto ha avuto inizio più di 30 anni fa con la volontà di produrre in modo ecosostenibile. L’etica della responsabilità nei confronti dell’ambiente ha sempre determinato le nostre scelte come azienda e, prima, come persone che ne fanno parte. Perché prima di essere un patrimonio collettivo, l’ambiente riguarda ogni singola persona, appartiene ad ognuno di noi. Una scelta faticosa, che ha richiesto del tempo per generare i primi risultati, per far comprendere e condividere a tutte le persone in azienda questa cultura e questi obiettivi. Per trasferire loro questa coscienza in tutte le fasi del lavoro, ogni giorno. È stato proprio questo impegno che si è tradotto, attraverso la continua ricerca, nell’utilizzo di minor materia ed energia, nell’utilizzo di materiali sempre più riciclabili o addirittura riutilizzabili, nella riduzione delle emissioni tossiche e nella ricerca della lunga durata tecnica ed estetica del prodotto. Questo ci ha guidati e spinti sempre più verso l’innovazione. Quali sono i valori che stanno dietro all’etica aziendale? L’etica è il motore principale del nuovo Millennio, lo strumento per uno sviluppo equo e sostenibile del mondo e dei suoi abitanti. Valcucine esprime la sua volontà e mette a disposizione la sua
Incontri con cultura di impresa attenta alle dinamiche locali e universali per investire su questo fronte, per farsi carico delle problematiche ambientali che costituiscono una delle più forti questioni etiche perché sono parte della vita di ognuno di noi e influenzano, al tempo stesso, l’esistenza e il benessere delle generazioni future. L’attenzione all’ambiente non si limita, dunque, al rispetto delle leggi imposte ma nasce dalla presa di coscienza di una responsabilità che si manifesta nel momento in cui l’etica diventa un solido punto di riferimento. E questa consapevolezza si esprime nella responsabilità dell’industria nei confronti della società presente e futura e spinge l’azienda a diventare parte attiva nella promozione culturale. Valcucine, così, diventa promotrice e sostenitrice di eventi e manifestazioni, di dibattiti e confronti finalizzati a implementare la coscienza critica nel proprio network. In tutto questo che ruolo gioca l’innovazione tecnologica? È utopistico dire “fermiamo il mondo” o ritorniamo indietro per impattare di meno. Sicuramente è necessaria una ricerca di nuovi stili di vita, incentrati sulla sostenibilità, sui comportamenti virtuosi, sul risparmio energetico, sul riciclaggio o sul riutilizzo,
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sull’agricoltura biologica, sulle energie alternative. Quello che possiamo fare è pertanto sfruttare proprio l’innovazione tecnologica per impattare di meno e fare quel salto al di la del “burrone” che si sta prospettando. Esistono delle barriere o degli ostacoli (di natura economica, burocratica, culturale, ecc.) che un’impresa che voglia avere uno sviluppo etico può incontrare? Se sì, nel caso di Valcucine come li avete superati? Abbiamo a lungo riflettuto sul concetto di responsabilità. Nel nostro percorso abbiamo cercato di rispondere appieno all’impegno etico che ci sentivamo di assumere, non solo nei confronti dei nostri clienti ma di tutte le persone. Il termine latino “respondeo” significa “fare una promessa”, “assumersi un impegno”. E se guardiamo al verbo “responsare”, questo assume il significato di “essere capaci di andare controcorrente”. Dunque, se abbiamo fatto una promessa o se vogliamo rispondere alla voce della nostra coscienza, dobbiamo essere anche pronti a resistere alle difficoltà che ciò può implicare, cioè dobbiamo essere capaci di andare controcorrente. La fatica e i rischi sono molti, le barriere culturali e la diffidenza sono il limite principale. Ma la responsabilità ci impone di non fermarci ai primi riscontri positivi (o negativi) del mercato, di non farci ingabbiare dalla logica del profitto, e trovare altre strade. Queste scelte ci hanno obbligato a trovare sempre soluzioni nuove, all’avanguardia. Non è un cammino facile ma una sfida continua, che ci ha fatti crescere ed evolvere e, oggi, riconoscere come l’azienda più innovativa del nostro settore.
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Come vede la situazione delle imprese italiane al momento da questo punto di vista? Come in tutte le realtà il panorama Italiano è molto vario. Ci sono imprese ferme e radicate su concetti che forse non sono più attuali oggi ma ci sono anche moltissime piccole eccellenze, startup e realtà dinamiche, che rappresentano sia il presente che il futuro del made in Italy. Sicuramente la sensibilità è cresciuta e la maggior parte delle imprese oggi dichiara il proprio interesse ed impegno nei confronti della sostenibilità. Molte volte però non è l’intera struttura che se ne occupa e quindi non si ha un coinvolgimento totale, spesso l’impegno è portato avanti solamente da “piccoli pionieri” o demandata alla funzione marketing... L’assunzione di una responsabilità sociale nei confronti del territorio: come cambierà anche in futuro le aziende e il modo di proporsi all’interno del proprio mercato? Come ci insegna l’economia del bene comune “il successo delle aziende e organizzazioni non viene valutato (ndr. o non dovrebbe essere) soltanto secondo criteri finanziari ma anche secondo quello che rende per il bene comune”. È un processo partecipativo, aperto a ulteriori evoluzioni, alla ricerca di una sinergia con approcci affini come: l’economia solidale, l’économie sociale, il movimento dei beni di proprietà comuni, economia
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post-crescita o l’economia solidale. Sicuramente questa è la strada per una piena eticità d’impresa ma anche per esprimere se stessi attraverso le proprie azioni, incontrare il proprio network di riferimento, vivere un’esperienza insieme, comunicare i propri valori a chi li sa recepire. E se i prodotti rispecchiano i propri valori... perché no... incontrare potenziali clienti. La capacità di Valcucine di essere un’ “azienda green”e responsabile si declina in vari modi: ce li racconta? La vision aziendale di Valcucine “Abbiamo un sogno, un mondo senza rifiuti” si è tradotta nel rispetto dei principi cardine dell’ecocompatibilità: dematerializzare, riciclare e riutilizzare, ridurre le emissioni tossiche e garantire lunga durata tecnicoestetica del prodotto. Molti sono gli esempi di Valcucine per dimostrare che la ricerca per intensificare la sostenibilità è sempre stata promotrice di innovazione, quell’innovazione che è il riflesso di un miglioramento continuo. Si pensi per esempio ad Artematica che ha rivoluzionato il concetto di anta in cucina: la prima anta al mondo just in time con telaio in alluminio non visibile dall’esterno e con pannello estetico in laminato HPL stratificato da 5mm; la prima anta 100% riciclabile in vetro e alluminio senza telaio e cerniere a vista e la prima anta con un sistema per convogliare l’acqua senza che essa si bagni.
Artematica si è poi evoluta in un’anta ancora più sottile: Ricicla, un’anta a telaio in alluminio e pannello di solo 2mm di spessore, che nel corso del tempo si è evoluta poi ancora in Riciclantica, una nuova anta monomaterica, 100% in alluminio e pannello estetico di 2mm. Oggi innovare non significa solo coniugare funzionalità ed estetica, ma anche adottare un uso consapevole della materia: è così che si è arrivati all’elaborazione delle nuove basi in vetro riciclabili al 100%, Invitrum, che evitano completamente le emissioni di formaldeide, oltre a ridurre il raddoppio dei fianchi, basi che sono state inoltre progettate per essere facilmente disassemblate e riutilizzate o riciclate alla fine del ciclo di vita. Nella consapevolezza che una responsabile gestione delle riserve forestali sia fondamentale per la salvaguardia dell’ambiente, Valcucine introduce nelle proprie cucine componenti legnosi provenienti da foreste certificate FSC. Valcucine ha ottenuto la conformità allo standard FSCSTD-40-004 nel 2008, con l’obiettivo finale di produrre modelli di cucina in cui tutte le parti legnose siano di provenienza FSC. I fusti in truciolare Valcucine rispettano oggi in maniera rigorosa i valori limite stabiliti dalla più severa normativa al mondo, la giapponese F4stelle. È fondamentale capire quindi che la sostenibilità assoluta non esiste ma esiste invece un percorso profondo di ricerca e attenzione che porta a fare sempre un passo avanti, all’essere appunto innovativi.
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NELLA PROVINCIA PIÙ RICICLONA D’ITALIA OPERA CONTARINA S.P.A.
Il presidente Franco Zanata ci spiega come un’azienda pubblica può portare avanti sul territorio la cultura green, con efficienza e programmazione. “Perché quella ambientale è la questione chiave per definire il futuro dei nostri modelli economici e anche sociali”.
Filosofia e mission di Contarina… Contarina è una azienda pubblica che opera prevalentemente nel campo della raccolta e gestione del rifiuti urbani ma che più in generale si occupa e si interessa della promozione, nel territorio, di stili di vita e di modalità di sviluppo e di produzione che siano ecosostenibili. È un allargamento della prospettiva che viene naturale, dato che oggi la questione ambientale - e in questo senso la gestione dei rifiuti - è molto importante. È la questione chiave per definire il futuro dei nostri modelli economici e anche 28
sociali. Ad esempio l’idea di utilizzare lo scarto, attraverso il riciclo e quindi il riuso, per realizzare nuovo materiale, ovvero consumare minori risorse e minori energie, è un punto fondamentale per la sostenibilità ambientale in un contesto in cui, facendo diversamente, si rischia di peggiorare l’attuale situazione di fortissimo e crescente inquinamento. Questi nostri sforzi e questo nostro lavoro sono un impegno quotidiano che materialmente concretizziamo non solo con le attività tipiche di Contarina, ma anche con numerose collaborazioni con le
università italiane ed europee nel campo della ricerca e dello studio, oltre che investendo molto nell’educazione ambientale e nella comunicazione.
Incontri con
Cosa significa essere green nel 2014? Una volta essere green significava avere o sforzarsi di avere una coscienza ambientalista. Oggi invece è una necessità. L’eco-sostenibilità delle nostre attività e del nostro sviluppo è il fattore chiave per determinare il futuro. Oggi essere green è una strada obbligata, sia che riguardi il rapporto con i materiali di produzione, diminuendo gli scarti improduttivi, sia che riguardi la produzione di energia, da indirizzare con più forza e convinzione verso le fonti rinnovabili. Quali sono le direttive della Comunità Europea? Se parliamo di raccolta e gestione dei rifiuti, a livello europeo la strada tracciata dalla legislazione comunitaria punta chiaramente a mettere, come prioritaria, la scelta di ri-valorizzare i materiali attraverso la raccolta differenziata e il riciclo, preferendo questa metodologia alla costruzione degli impianti di termovalorizzazione e mettendo la discarica come ultima ratio. Questo significa anche che l’Europa ci chiede di ripensare i cicli e l’organizzazione della produzione, intervenendo a monte per fare in modo che i materiali siano il più riutilizzabili possibili.
Come si presenta il territorio su cui opera Contarina? Quali le eccellenze e quali i punti critici? Abbiamo un territorio per certi versi molto disomogeneo. Il frazionamento istituzionale infatti presenta una situazione in cui stanno insieme piccoli comuni e comuni medio grandi o grandi. La soluzione che abbiamo adottato è quella di lavorare per bacini e i risultati sono assolutamente positivi. L’eccellenza è rappresentata dall’alta percentuale di differenziazione e dal calo complessivo della quantità di rifiuti prodotta. Si tratta di risultati che sono stati ottenuti grazie ad un grande lavoro di sensibilizzazione delle comunità, attraverso l’educazione ambientale e alla consapevolezza dell’impatto che azioni quotidiane e stili di vita ecosostenibili hanno sia dal punto di vista della difesa dell’ambiente naturale che della
Quali sono gli obiettivi che Contarina si è posta? L’obiettivo di Contarina, da un punto di vista operativo, è quello di arrivare, attraverso la raccolta differenziata spinta, ai “rifiuti zero”. È un traguardo alla portata, se si considera che il livello di differenziazione a cui siamo già arrivati è pari all’84% e che contemporaneamente scende la percentuale di rifiuto non riciclabile e più in generale cala l’intera produzione di rifiuti. L’obiettivo rifiuti zero ha un valore di per sé per le comunità che serviamo ma è anche un obiettivo generale che vuole rappresentare una best practice globale: mostrare cioè, in maniera chiara, che il problema dei rifiuti può essere efficacemente risolto con le modalità di raccolta e gestione su cui Contarina si sta applicando da anni e che sono diventate un esempio a livello nazionale ed europeo. Sicuramente, da questo punto di vista, la legislazione nazionale è chiamata a fare di più su due fronti: il primo è intervenire sulla parte fiscale con meccanismi che premino i risultati, ad esempio assumendo come riferimento la tariffa puntuale, cioè il fatto di pagare solo in misura proporzionale al conferimento di rifiuti inquinanti perché non riciclabili; il secondo è sostanziare con azioni a monte per disincentivare la produzione di materiale non riciclabile, penso agli imballaggi, come già avviene in molti paesi dell’Europa. 29
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riduzione dei costi, dato che una buona differenziazione porta, come succede nei nostri bacini, ad un calo della tariffa, che per quanto ci riguarda è nettamente e significativamente inferiore alla media nazionale. Le criticità si riscontrano o nel momento in cui si avvia la raccolta differenziata porta a porta, ma si tratta di periodi brevi, legati al naturale aggiustamento delle abitudini dei cittadini. Qualche dato a supporto… Come dicevo prima, la percentuale di raccolta differenziata raggiunge, nei due bacini Priula e TV3, l’84%, dato che si somma al basso livello di rifiuto pro capite prodotto per anno, che è di 50 chili contro i quasi 300 della media nazionale. La gestione dei rifiuti in Italia: qual è la politica in atto? Ci si muove verso la raccolta differenziata, riconoscendo che si tratta della modalità più efficiente. Serve però prendere coscienza che lo scatto decisivo avviene istituendo la raccolta differenziata porta a porta, quella effettuata con i cosidetti cassonetti stradali non riesce a produrre gli stessi risultati. Talora però ci sono resistenze ad adottare la metodologia migliore: non da parte dei cittadini ma delle classi dirigenti locali, che temono, immotivatamente, uno stravolgimento delle abitudini che possa portare alla perdita di consenso politico.
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Come la tecnologia si inserisce nel lavoro dell’azienda? Siamo di fronte ad una svolta fondamentale. La tecnologia una volta riguardava le tecniche di smaltimento, oggi invece lo sviluppo e l’innovazione sono puntati sui progetti di valorizzazione e di utilizzo del rifiuto, sia quello riciclabile che quello residuo, ad esempio per ricavarne energia o usarlo per costruire nuovi materiali. Alcune esperienze con il mondo delle imprese ci dicono che il rifiuto non riciclabile può essere brillantemente usato per produrre altri beni e questo grazie ad una grande iniezione di innovazione tecnologica nei processi di trattamento. L’innovazione quanto è determinante in questo settore? È fondamentale la ricerca che conduce poi alla realizzazione pratica di processi di innovazione. È un campo su cui Contarina si sta applicando moltissimo, in collaborazione con diverse università italiane, e in cui registriamo un grande fermento e grande attenzione anche dal punto di vista degli investimenti. Il futuro dell’azienda… Contarina vuole essere concretamente un punto di riferimento per le buone pratiche ecosostenibili, anche con interventi specifici, ad esempio i processi di risanamento di discariche, di incentivazione all’utilizzo delle energie rinnovabili di innovazioni tecnico-scientifiche per la chiusura del ciclo dei rifiuti attraverso gli impianti di depurazione, di promozione di stili di vita ambientalmente virtuosi. E dimostrare che la gestione pubblica dei servizi al cittadino, come quello di igiene ambientale, può essere vantaggiosa e ispirata al criterio dell’efficacia e dell’efficienza e togliere dal mercato settori delicati che, come nel caso dei rifiuti, potrebbero divenire oggetto, se privati di un buon controllo pubblico, di pericolose contaminazioni esterne a livello criminale. Rivendicando anche il fatto che la gestione pubblica non mira a produrre utili come remunerazione del capitale di investimento, ma opera in un regime di piena copertura dei costi e che l’utilizzo di eventuali marginalità economiche, cioè di un bilancio pienamente in attivo come succede in Contarina, significa avere a disposizione risorse per fare ulteriori investimenti sulla qualità dei servizi che offriamo alla collettività.
incontri con
SCEGLIERE LA SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE COME STILE DI VITA Made in Italy e green: la scelta di Itlas
“Oggi purtroppo ‘essere green’ è una moda che molto spesso porta le aziende a tingersi di verde. Itlas, al contrario, ha scelto da anni di percorrere una strada seria, che è anche difficile per l’impegno economico e le risorse umane da mettere a disposizione per seguire progetti di certificazione e sostenibilità”, questo sostiene Patrizio Dei Tos, titolare dell’azienda veneta Itlas, che ha fatto una scelta di vita aziendale precisa, declinando con eccellenza i temi del made in Italy e della “cultura green”.
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Quando è nata l’azienda? Mission e obiettivi? Itlas è nata nel 1989 a Cordignano, in provincia di Treviso, come azienda che produce pavimenti prefiniti in legno a due e tre strati, ma avevo già iniziato a lavorare nel settore con mio padre, che mi ha trasmesso non solo la passione per questo mestiere ma anche l’amore per una materia prima viva e capace di creare emozioni. Nei primi anni Novanta il pavimento prefinito in legno costituiva un prodotto davvero innovativo per il mercato. Oggi ho quaranta dipendenti, una famiglia che lavora con me in azienda e un mercato che, nonostante il settore sia complessivamente in affanno, tiene. Fin dal primo giorno ho cercato di concentrare l’attenzione sulla creazione di prodotti di altissimo livello, ben identificabili e giustificabili nell’acquisto. Prodotti unici. Perché il mio chiodo fisso è da sempre cercare di anticipare i tempi, da una parte inventando progetti nuovi e innovativi, dall’altra scegliendo senza riserve di realizzare il tutto in Italia. Con tutti i costi che ne conseguono. La sua è un’azienda green: ci dice perché? Oggi purtroppo “essere green” è una moda che molto spesso porta le aziende a tingersi di verde. Itlas, al contrario, ha scelto da anni di percorrere una strada seria, che è anche difficile per l’impegno economico e le risorse umane da mettere a disposizione per seguire progetti di certificazione e di sostenibilità. Un cammino che è iniziato con la scelta di acquisto di una materia prima, il legno, proveniente da foreste gestite in maniera responsabile e programmata. Dopo aver ottenuto nel 2007 la Programme for Endorsement of Forest Certification (PEFC) e nel 2009 la Forest Stewardship Council (FSC), abbiamo voluto intraprendere un percorso di attenzione ancora più impegnativo nei confronti del prodotto, che per ora ci ha portati ad ottenere la certificazione del Sistema di Gestione Ambientale conforme alla UNI EN ISO 14001. Sono state ridotte le emissioni in atmosfera, cambiate le vernici, differenziati i rifiuti... E in ogni processo, tengo a sottolinearlo, sono stati coinvolti tutti i dipendenti e i collaboratori. Perché si tratta di una filosofia di lavoro che ha bisogno che tutti credano nei valori di ciò che si fa. I valori ambientali che stanno dietro alla filosofia della sua azienda? Abbiamo adottato una politica ambientale condivisa non solo con chi lavora all’interno dell’azienda, ma anche con i nostri fornitori. Una politica che guarda con attenzione all’ambiente, alla salute dei lavoratori e a quella del cliente finale. Non importiamo nulla di prefinito, perché Itlas ha una catena produttiva che parte dal tronco e arriva al prodotto finito. E il tronco lo vado a scegliere di persona in quelle foreste che sanno garantire una gestione 32
programmata delle risorse boschive. Ma la materia prima da sola non basta: le nostre caldaie sono alimentate utilizzando la segatura vergine di scarto, buona parte dell’energia per la fase produttiva ci viene data dall’impianto fotovoltaico che abbiamo installato sul tetto dell’ultimo capannone costruito, vendiamo a terzi la legna di scarto come legna da ardere, lavoriamo costantemente in sinergia con consulenti professionisti e laboratori accreditati per la riduzione dei composti organici volatili. Insomma, ho fondato questa azienda su dei valori ambientali che cerco di applicare a tutto tondo. L’importanza delle certificazioni... Se si vuole rimanere sul mercato e specialmente su quello europeo oggi, lo ripeto, non è più possibile improvvisare. Dopo aver scelto di utilizzare solo una materia prima di provenienza certificata per rispondere ai nostri criteri di sostenibilità, abbiamo capito che la strada da intraprendere doveva riguardare a tutto tondo azienda e prodotto. Certificare quello che siamo e quello che facciamo non è solo l’ottenimento di un bollino e di un pezzo di carta, ma un percorso spesso complicato e costoso che coinvolge tutto il sistema, dipendenti e collaboratori compresi. L’alta qualità e la coerenza di gestione sono a mio avviso le ricette da adottare per essere competitivi. Ci parla dei progetti speciali portati avanti dalla sua azienda? Nella storia di Itlas credo che il progetto più importante, anche sotto il profilo della nostra visibilità, sia Assi del Cansiglio. Nel 2009, grazie anche ai preziosi consigli dell’allora Ministro dell’agricoltura e delle foreste Luca Zaia, abbiamo stretto un accordo pubblico-privato con Veneto Agricoltura, l’agenzia regionale che sovrintende le nostre foreste. C’era un bosco storico da riportare agli antichi splendori, da rivalorizzare: la Foresta del Cansiglio, a 25 chilometri dalla nostra azienda, ha delle faggete preziose il cui legno, un tempo, veniva utilizzato per la costruzione dei remi delle galee della Repubblica di San Marco ma che con gli anni era diventato solo legna da ardere. Abbiamo provato a ridare vita a quel patrimonio boschivo, certificato PEFC e quindi gestito in maniera corretta e sostenibile, creando il primo pavimento certificato in legno italiano. Al contempo, grazie a una campagna di comunicazione di grande entità, abbiamo cercato di far parlare del Cansiglio e della sua foresta. Come si presenta il mercato di riferimento di Itlas? Quanto è cambiato negli ultimi anni? Il mercato di riferimento fino a prima della crisi economica era dettato principalmente dall’edilizia. Il settore oggi è in forte
incontri con difficoltà. Non solo. Penso sia apparentemente incapace di organizzarsi. Nonostante questo il nostro prodotto è riuscito a mantenere il mercato, coprendo il dieci per cento di quello nazionale. Per riuscirci abbiamo dovuto imparare a essere più bravi degli altri, a non fare impresa improvvisando giorno per giorno. Abbiamo iniziato a guardare con forza all’estero, soprattutto a quei mercati in grande evoluzione. Ma abbiamo anche diversificato gli interlocutori e l’offerta, con proposte mirate ai professionisti di settore, con collaborazioni importanti e con l’introduzione nuovi di prodotti, sempre legati al mondo del legno e in linea con la nostra filosofia ambientale, ma che non sono solamente pavimenti.
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In generale in Europa, ma soprattutto in Italia, in questo periodo di crisi sono in maggior sofferenza le PMI. L’innovazione è la carta fondamentale per farle crescere? Le piccole e medie imprese hanno nella manifattura il loro punto di forza e di debolezza. Non si può più pensare di competere con un gigante come la Cina, piuttosto che la Corea o il Vietnam che sono in grado di produrre milioni di pezzi in più ad un costo più che dimezzato. È quindi indispensabile puntare su beni di media-alta gamma, che possano giustificare il prezzo più alto con un valore aggiunto nettamente più elevato rispetto al prodotto di massa. Qui entrano in gioco l’innovazione, la creatività, l’abilità di portare sul mercato un unicum non replicabile. Cosa vuol dire “fare impresa” in questi anni? È molto difficile. E lo è soprattutto in Italia. Ci troviamo di fronte a una burocrazia che non ha i tempi dell’impresa e di chi a fine mese deve cercare di garantire il pane in tavola ai propri dipendenti. E di conseguenza è difficile competere a livello europeo e mondiale. Oggi non ci si può più improvvisare imprenditori. Devi essere tecnicamente forte, altrimenti il mercato ti massacra. Devi diventare necessariamente un’eccellenza, oppure non puoi reggere il confronto con gli altri Paesi. Il senso del made in Italy nella produzione di pavimenti di legno... Nei giorni scorsi il Parlamento europeo ha votato l’obbligatorietà del “made in” anche per tutti i prodotti non alimentari. Ritengo si tratti di un grandissimo passo in avanti nel riconoscimento di una battaglia che Itlas porta avanti da anni nella volontà, da una parte di trasparenza della provenienza del prodotto e, dall’altra, di tutela della nostra economia. Ci troviamo ancora troppo spesso a dover fare i conti con prodotti che di italiano hanno solamente il nome, senza considerare quanto possa essere importante e anche difficile scegliere di produrre davvero totalmente in Italia, tutelando un patrimonio non soltanto lavorativo ma anche di tradizioni e di cultura. La responsabilità sociale d’impresa nei confronti del territorio: come si declina in Itlas? Ho un legame molto forte con la mia terra. Ho cercato di mantenerlo e dimostrarlo attraverso i progetti lavorativi, in primis con Assi del Cansiglio. Ma Itlas è molto attiva nel sociale soprattutto nello sport, sostenendo a tappeto tutte le iniziative promosse nel territorio e le associazioni che ne fanno parte. Dal calcio al ciclismo alla maratona di Treviso fino al volley. 34
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scenari
FIERA QUATTRO PASSI PER UN MONDO MIGLIORE Il green: cultura prima ancora di economia
Il tema ideato per l’edizione del 2014 è l’innovazione: la scoperta cioè di nuove e innovative forme di economia solidale e sostenibile, di green economy, di economia civile, di volontariato, e di cooperazione internazionale. A maggio è tornata la Fiera internazionale “4 Passi”, alla sua nona edizione, dedicata al green e al sostenibile. Il presidente Roberto Matterazzo ha presentato il progetto italiano, sempre più internazionale. 35
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Quando nasce l’evento e con quali obiettivi? La Fiera Quattro Passi è nata nove anni fa, nel 2005, e inizialmente si svolgeva a Maserada sul Piave (Treviso): l’idea che ci spinse a realizzare la prima edizione fu quella di affiancare all’attività della Cooperativa Pace e Sviluppo, prima organizzazione di commercio equo e solidale in Veneto per attività, fatturato e numero di volontari e terza in Italia, un evento che fosse in grado di valorizzare e amplificare i temi di cui essa è portatrice e sostenitrice, a cominciare dal commercio equo e dal concetto di economia giusta. Come si svolge? A partire dalla seconda edizione abbiamo scelto di concentrarci, edizione dopo edizione, su un tema preciso, da sviluppare poi seguendo strade diverse e spesso originali. Ciò che da sempre contraddistingue la fiera è la capacità di offrire ai visitatori spunti concreti e facilmente applicabili per migliorare il proprio
approccio all’ambiente, alla spesa, all’economia, all’ambito sociale. Nel 2009 si è avuto il passaggio da Maserada a Treviso, negli spazi dell’ex Dogana: la manifestazione era cresciuta molto, oltre le nostre aspettative, e necessitava di spazi più grandi e di una maggiore centralità. Nel 2011 siamo infine approdati al Parco Sant’Artemio, sede della Provincia di Treviso, dove si è svolta anche la nona edizione 2014. Come ha risposto il territorio? La Fiera ha da subito riscosso grande interesse e partecipazione, ma il vero e proprio decollo si è avuto nel 2009, con una partecipazione record di oltre 30 mila visitatori. Da allora, ogni anno il pubblico è cresciuto per arrivare, nel 2013, alle 60 mila presenze. E quest’anno abbiamo puntato a crescere ancora, con un’offerta di espositori e proposte ancora più originali e brillanti. 36
Nella scorsa edizione avete toccato il tema dell’economia green... Nel 2013 ci siamo concentrati sulle tematiche dell’agricoltura, dell’artigianato e del commercio equo, proponendo oltre un centinaio di eccellenze nazionali per ripartire dal “saper fare” e dal “far sapere”. In un’epoca in cui l’economia è soprattutto finanziaria e speculativa, abbiamo intravisto come possibile percorso di uscita dalla crisi la capacità del nostro sistema economico di rispondere con alternative concrete fondate sulla produzione e sul lavoro, che perseguano il fine di creare un’economia più sostenibile. Ecco dunque che anche le proposte “green” hanno rappresentato un’alternativa eccellente in molti settori. Qual è la situazione italiana? Ha qualche dato a supporto? L’agricoltura è da tempo l’unico settore in crescita. L’ultimo rapporto Istat del primo trimestre 2013 sancisce il settore come unico in grado di segnare un aumento del valore aggiunto sia in
termini congiunturali (+4,7%) sia tendenziali (+0,1%), e questo nonostante il calo del 3,7% dei consumi alimentari. Secondo lo Short-Term Agricultural Outlook 2014, ovvero il rapporto sulle prospettive di breve termine, il raccolto di cereali italiani porterà le scorte a crescere a fine anno al 12,2%, rispetto al 10,3% del 2013. E l’export potrebbe raggiungere livelli record, 37 milioni di tonnellate. Anche la produzione di carne di manzo e maiale è prevista in rialzo nel 2014. Il settore lattiero-caseario è pure in crescita, ma il vero boom si attende per il 2015, quando finirà il sistema delle quote latte e si avranno nuove opportunità di esportazione nei mercati mondiali, in particolare per il latte in polvere e i formaggi.E una nota è di dovere per il settore del biologico: l’Italia registra un aumento dell’8,8% dei consumi di prodotti biologici, secondo i dati dell’Associazione italiana per l’agricoltura biologica (Aiab). Siamo primi in Europa
scenari per esportazioni, con quasi 50 mila operatori impegnati nella produzione, 1,2 milioni di ettari di terreno occupato e un giro di affari complessivo di oltre 3 miliardi di euro. Quante sono le aziende green che aderiscono all’evento, ogni anno? Può darci una fotografia dei settori più interessati? Effettuiamo una ricerca accurata e attenta di anno in anno, valorizzando esperienze nuove, ancora poco conosciute, di cui noi stessi andiamo alla ricerca. Diversamente da una fiera comune, la nostra si caratterizza perché è su invito: siamo noi ad effettuare una ricerca per rintracciare quelle esperienze, quei prodotti e quei progetti che riteniamo qualificanti per la manifestazione. Dall’arredamento ecologico ai pannelli solari, passando per le calzature realizzate con materiali naturali e la biocosmesi, fino alle realtà agricole e le proposte di mobilità sostenibile (motocicli elettrici, anche a misura di portatore di handicap). E ancora, pannolini lavabili e proposte che hanno a che vedere con il raggiungimento dell’obiettivo “rifiuto zero”. La fiera Quattro passi conta all’incirca 150 espositori, di questi solo alcuni sono habituée, per garantire al pubblico di visitatori un elemento di originalità ed innovazione costante. Qual è il tema della nona edizione? Il tema dell’edizione (Parco sant’Artemio – Treviso, 24 e 25 maggio e 31 maggio e 1 giugno 2014) è stato “Alla scoperta del nuovo mondo”. Due le direttrici sulla base delle quali le proposte sono selezionate e sviluppate: da un lato l’accezione geografica - quindi nuovo mondo come scoperta di altre culture con un focus prioritario sulla cooperazione internazionale e l’integrazione - dall’altro quella temporale, “nuovo mondo” nel senso di innovativo, individuando e selezionando alternative “capaci di futuro” nei diversi settori (tecnologia, energia, corretta gestione dei rifiuti, pratiche sostenibili in agricoltura nel sud del mondo come in Italia).
“Già oggi esiste un Paese che intreccia la forza del made in Italy con bellezza, territori, coesione sociale e green economy. Un’Italia che fa l’Italia. Migliorando così la competitività delle sue imprese e creando occupazione”, ha commentato in quest’occasione Ermete Realacci, presidente di Fondazione Symbola e della Commissione Ambiente della Camera dei Deputati. Può darci qualche esempio di idee innovative? Sono state davvero molte le esperienze interessanti della Fiera. Tra queste il progetto trevigiano Movete, per una mobilità urbana sostenibile declinata per ogni età, dai bambini agli anziani. E poi, ad esempio, anche gli artisti chiamati ad esibirsi hanno avuto un’attenzione particolare all’ambiente e alla sostenibilità: tra questi segnalo Paco Machine, che, oltre ad essere un eccellente attore, si sposta esclusivamente in bicicletta (e in due anni ha percorso più di 20 mila chilometri) e utilizza una cassa audio alimentata da un pannello solare. Progetti per il futuro e partnership importanti? Manterremo fede alla nostra mission iniziale, ovvero la proposta di un appuntamento che sia di riferimento nel territorio regionale, per aziende green e cittadini. Perché possano mettersi in relazione e innescare un circolo virtuoso di comportamenti responsabili, sia dal punto di vista della sostenibilità ambientale che dal punto di vista della sostenibilità sociale. La nostra è una cooperativa di commercio equo e solidale che ha come scopo sociale la sensibilizzazione e l’informazione su questi temi. La manifestazione Fiera Quattro Passi risponde esattamente a questa mission.
Innovazione e green: qual è la situazione italiana? In Veneto, nell’ultimo quadriennio, quasi un’impresa, industriale e del terziario, su quattro ha investito in tecnologie green a maggior risparmio energetico e a minor impatto ambientale. Con 30.670 imprese green, il 9,5% della imprese eco investitrici dell’intero Paese, il Veneto è al secondo posto in Italia per numero assoluto di imprese che hanno investito o investiranno quest’anno in tecnologie e prodotti verdi. A tracciare il quadro sono i dati del Rapporto GreenItaly, stilato da Symbola e Unioncamere, con un focus sul Veneto, presentati in occasione della giornata di studio sul nuovo sviluppo sostenibile del Paese organizzata da e Ambiente e Vega a inizio aprile. 37
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BIOPISCINA: QUANDO L’INNOVAZIONE INCONTRA IL TERRITORIO Intervista a Monica Bazzacco, consulente per la progettazione del verde
Spopola nel Nord Europa come evoluzione della piscina tradizionale. L’innovazione sta nel trattamento delle acque, tramite un processo naturale di depurazione, in cui vengono utilizzate le piante acquatiche. I bassi costi di manutenzione fanno sì che sia a tutti gli effetti una valida alternativa alle piscine tradizionali, eco-sostenibile, e addirittura migliore dal punto di vista estetico.
Laureata in Scienze Naturali presso L’Università di Padova nel 1996, Monica Bozzacco ha maturato la sua esperienza in uno studio di consulenze agronomico-forestali e progettazione del verde, come naturalista e botanico nel restauro di parchi storici e progettazione del verde pubblico e privato. Inoltre organizzatore e docente di formazione professionale del verde per enti di formazione e Istituti Professionali di Agraria nelle province di Treviso, Venezia, Vicenza e Belluno. Attualmente svolge l’attività di libera professione offrendo consulenza, 38
progettazione del verde, formazione professionale e collabora con diverse ditte del territorio per la progettazione di biopiscine. Progettazione di giardini e ambienti verdi: un’attività in cui tecnica e sensibilità alle tematiche ambientali e del territorio devono essere fortemente correlate. In che modo è cambiato questo rapporto negli ultimi anni? Personalmente ho sempre pensato che progettare un giardino significhi saperlo inserire nel suo contesto ambientale,
paesaggistico e storico, cosa che in passato è stata spesso dimenticata a favore del giardino a pronto effetto, ricco di piante esotiche, altamente farcito di elementi costruttivi e decorativi a forte impatto ambientale. Negli ultimi anni fortunatamente la sensibilità ambientale ha portato a pensare ad un giardino più eco-compatibile sia utilizzando le nuove tecnologie sia utilizzando le piante più appropriate. Penso che in fase progettuale il miglior punto di partenza ricada nella scelta delle specie da utilizzare. Scegliere piante adatte al clima e al terreno dove si andrà ad operare vuol dire non solo avere nel tempo piante forti, vigorose ed esteticamente belle ma risparmiare sugli apporti idrici e sulle concimazioni. Scegliere piante resistenti alle malattie significa evitare o diminuire i trattamenti con fitofarmaci. Importante è anche progettare un giardino a bassa manutenzione il che significa meno diserbi chimici e risparmio di energie. Sempre in fase progettuale va pensata la scelta dei sistemi e dei materiali costruttivi come ad esempio materiali naturali e biodegradabili. Come possono le tecnologie moderne supportare e facilitare il rispetto dell’ambiente circostante? Molte sono le nuove tecnologie usate nel verde mirate a rispettare l’ambiente, basti pensare ai nuovi sistemi di concimazione che rilasciano le sostanze nel tempo, alla lotta biologica integrata dove quindi non si utilizzano sostanze chimiche, all’utilizzo di pacciamature biodegradabili. Ci sono poi particolari tecnologie costruttive come le biopiscine, i tetti verdi e il verde verticale che rispettano l’ambiente nella logica del risparmio energetico, nella minor emissione di CO2, nel non utilizzo di sostanze chimiche, e che hanno il piacevole vantaggio di migliorare la qualità della vita. Parliamo di biopiscine, l’evoluzione della piscina tradizionale rivista in chiave naturale ed ecologica. Di che cosa si tratta? Quante tipologie ne esistono? La biopiscina è una piscina che funziona con un ecosistema naturale in cui l’acqua non deve essere depurata continuamente con agenti chimici e cambiata con regolarità come nelle piscine tradizionali. È costituita da una zona balenabile che resta pulita, cioè limpida, priva di alghe, di impurità e sedimenti, e da una zona di rigenerazione dove le piante palustri e acquatiche, accuratamente scelte, depurano l’acqua in modo naturale. Queste due zone sono fisicamente divise tra loro da una parete ma comunicanti attraverso un flusso d’acqua superficiale garantito da una pompa a circuito chiuso. Esistono diversi sistemi costruttivi, più o meno costosi, che vanno scelti in fase progettuale in base alla forma che si vuole dare alla biopiscina, naturale o geometrica, alle sue dimensioni,
alle dimensioni del giardino che andrà ad ospitarla. Il metodo costruttivo a terrapieno è il più semplice ed economico e adatta per biopiscine con forme naturali però necessita di spazi maggiori. La costruzione a muro si addice per vasche regolari. Il metodo di costruzione ad angoli, con elementi prefabbricati, offre ampia libertà di scelta nella forma della vasca ed ha il vantaggio di avere un semplice e veloce montaggio. Le biopiscine hanno un basso impatto ambientale e si sono per questo rivelate più ecocompatibili di quelle tradizionali. Quanta tecnologia e di che tipo c’è dietro un sistema come questo? Possiamo avere biopiscine senza tecnologia quindi un laghetto naturale senza ricircolo d’acqua, nessun costo di energia, dove però la limpidità dell’acqua è variabile, con deposito sul fondo e con la formazione di alghe. Biopiscine a bassa tecnologia cioè provviste di pompa e skimmer. Biopiscine ad alta 39
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tecnologia, le più complete e le più usate attualmente, dove oltre alla depurazione naturale svolta dalle piante abbiamo la depurazione fisico-chimica data dai seguenti elementi tecnici: pompa a immersione per il ricircolo e la movimentazione dell’acqua; skimmer a setaccio per l’eliminazione delle impurità superficiali; filtro per fosfati che lega il fosforo sciolto nell’acqua che è il responsabile della formazione di alghe; carbonatore per regolare il ph dell’acqua. Ad altissima tecnologia abbiamo la Living-pool, la più recente piscina biologica, nata da pochi anni, variante biologica della piscina tradizionale, dove la filtrazione biologica data dalle piante è stata completamente sostituita da filtri biologici. I progetti ad alta innovazione tecnologica sono spesso collegati a costi elevati? Questo vale anche per le biopiscine? Abbiamo visto che la biopiscina per funzionare bene, cioè con una qualità dell’acqua naturale, limpida e cristallina, deve essere provvista di un’alta tecnologia e questo comporta dei costi di costruzione piuttosto elevati, simili a quelli di una piscina tradizionale. Sono però molto minori i costi di gestione rispetto ad una piscina tradizionale, ricordiamo il non utilizzo di prodotti chimici, il minor utilizzo di acqua e il minor funzionamento della pompa. Non dimentichiamo che la biopiscina funziona nel massimo rispetto dell’ambiente e andando ad integrarsi armoniosamente con il paesaggio circostante
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A Trento il nuovo Museo della Scienza firmato Renzo Piano Visita, esplora, impara, partecipa
Il Muse è moderno, bello e omnicomprensivo: trovi gli scheletri di dinosauro, una serra tropicale, un ghiacciaio delle Alpi e anche un bosco interattivo. Uno spazio ampio, esempio di grande architettura, che parla di sviluppo, evoluzione e ambiente. Il Muse è soprattutto un museo a portata di bambino, che giocando impara a conoscere il proprio mondo.
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Il Muse è 500 mq di mostre temporanee, 600 mq di serra tropicale, 200 mq di area bimbi, 500 mq di aule e laboratori didattici, 800 mq di laboratori di ricerca. E altri spazi ancora, fra questi il FabLab (fabrication laboratory): una piccola officina aperta al pubblico che offre strumenti per la “personal digital fabrication” quali stampanti 3D, laser cutter, plotter vinilici, una batteria di processori Arduino. Si tratta di 12.000 mq, articolati su sei piani, dedicati alla scienza, alla natura, alla scoperta e all’evoluzione, in uno spazio ampio e peculiare con arredo semplice e moderno che narra singolarmente, ma con estrema verità scientifica le caratteristiche della Alpi, i ghiacciai, la fauna, la flora, la biodiversità al variare dell’altitudine, la nascita dell’uomo e la sua impronta nell’Universo. Non mancano spazi interattivi dedicati alla scoperta in prima persona della scienza, laboratori per la creazione di oggetti, un’area esclusiva dedicata ai
bambini da zero a cinque anni, e soprattutto la più grande mostra di dinosauri dell’arco alpino. È presente anche e una serra tropicale montana. Il nuovo museo coniuga i contenuti e il tradizionale approccio dei musei di storia naturale con i nuovi temi e le modalità di interazione con il visitatore dei più moderni science centre, dove si offre un innovativo modo di confrontarsi col pubblico mediante exhibit interattivi e installazioni multimediali, una grande attenzione all’interdisciplinarietà e la possibilità di sperimentare in prima persona nei laboratori aperti al pubblico. Ogni spazio, non a caso, è finalizzato a stimolare l’apprendimento ma ha anche momenti di relax, di gioco, di comunicazione e apprendimento informale. Il Muse, firmato Renzo Piano, nasce da un significativo recupero dell’ex area industriale Michelin, alle porte della città di Trento e sembra una montagna di vetro, al cui
interno si snoda il percorso espositivo. “Il punto di partenza è l’interazione”, spiega Michele Lanzinger, direttore del MUSE, “per cui l’esperienza vissuta in prima persona si trasforma in apprendimento. In più, dal punto di vista contenutistico, volevamo creare un percorso unitario che legasse l’evoluzione alla presenza dell’uomo sulla terra, fino ai temi, tanto urgenti quanto attuali, della compatibilità ambientale”. Le tecniche costruttive perseguono la sostenibilità ambientale e il risparmio energetico con un ampio e diversificato ricorso alle fonti rinnovabili e ai sistemi ad alta efficienza. Sono presenti pannelli fotovoltaici e sonde geotermiche che lavorano a supporto di un sistema di trigenerazione centralizzato per tutto il quartiere. Il sistema degli impianti per il funzionamento dell’edificio è centralizzato e meccanizzato. Il sistema energetico è accompagnato da un’attenta ricerca progettuale sulle stratigrafie, sullo spessore e la tipologia dei coibenti, sui 42
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serramenti e i sistemi di ombreggiatura, al fine di innalzare il più possibile le prestazioni energetiche dell’edificio. Un sofisticato sistema di brise soleil e di tende comandate da sensori di temperatura e di irraggiamento solare viene gestito in automatico per ridurre l’irraggiamento nelle giornate estive e facilitarlo durante quelle invernali. L’illuminazione e la ventilazione naturale, in alcuni spazi, permettono la riduzione dei consumi e la realizzazione di ambienti più confortevoli. Il sistema impiantistico fa inoltre uso di accorgimenti che aumentano le forme di risparmio energetico: ad esempio la cisterna per il recupero delle acque meteoriche che vengono utilizzate per i servizi igienici, per l’irrigazione della serra, per alimentare gli acquari e lo specchio d’acqua che circonda 44
l’edificio. Complessivamente il risparmio di acqua d’acquedotto è di circa il 50%. Inoltre, grazie alla collaborazione con il Distretto Tecnologico Trentino, il progetto dell’edificio è stato sottoposto alle procedure per il raggiungimento della certificazione LEED (Leadership in Energy and Environmental Design). Il museo, collocato nei pressi della ciclabile, può essere raggiunto agevolmente servendosi delle due ruote.
Per avere informazioni www.muse.it
Treviso, Fase finale della Prima Guerra Mondiale, soldati in trincea sulla linea del Piave, 24/11/1917. Fondo Giuseppe Mazzotti presso il FAST Foto Archivio Storico della Provincia di Treviso
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STORIA E TECNOLOGIA L’innovazione tecnologica negli arsenali militari della Grande Guerra UBALDINO SAMPAOLI
DOVEVA DURARE MENO DI SEI SETTIMANE, DURÒ PIÙ DI CINQUANTUNO MESI PROVOCANDO LA MOBILITAZIONE DI PIÙ DI 70 MILIONI DI UOMINI IN TUTTO IL MONDO E LA MORTE DI OLTRE 9 MILIONI DI ESSI. SI TRATTA DEL PIÙ SANGUINOSO CONFLITTO ARMATO MAI PRIMA COMBATTUTO: LA GRANDE GUERRA. CHE PORTÒ CON SÉ LA SCOPERTA E L’INVENZIONE DI NUOVE TECNOLOGIE DI DIFESA E ATTACCO.
Iniziata con la dichiarazione di guerra dell’Austria-Ungheria alla Serbia (28 luglio 1914) vide subito l’entrata in guerra della Germania i cui comandanti ne avevano previsto la fine “prima che fossero cadute le foglie dagli alberi”. Ai primi di settembre, francesi e inglesi fermarono i tedeschi a quaranta chilometri da Parigi. La battaglia della Marna segna la fine della guerra di movimento e l’inizio di una logorante guerra di trincea. Da qui in avanti, l’impegno di tutti gli eserciti sarà di perfezionare le armi già esistenti e di svilupparne di nuove per ottenere quella supremazia che la strategia militare, ferma alle battaglie ottocentesche, non riusciva ad ottenere. 45 45
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LE UNIFORMI Alcune innovazioni, per la verità, erano già state attuate negli anni precedenti. La più importante, l’adozione di uniformi pratiche e sobrie che, in qualche modo, precorrono le tute mimetiche delle successive battaglie. Già dal 1908 l’esercito italiano aveva iniziato a sostituire la tradizionale uniforme blu con quella grigioverde che prove sul campo avevano dimostrato essere meno visibile e che fu conservata fino alla Seconda Guerra Mondiale. Colori tenui, kaki o grigio, furono adottati anche dagli altri eserciti. Fece eccezione la Francia che mantenne la tradizionale divisa, giubba blu e calzoni rossi, fino allo scoppio della guerra, scelta che provocò un alto numero di perdite nelle prime fasi del conflitto. Poi l’esercito francese adottò una divisa azzurro chiaro.
GLI ELMETTI La prima innovazione introdotta dalla Grande Guerra nell’equipaggiamento dei soldati è stata l’elmetto. La maggiore potenza di fuoco delle armi, dovuta alla progressiva sostituzione della polvere nera con le polveri da sparo infumi evidenziò la necessità di dotare i soldati di maggiori mezzi di protezione passiva. Le polveri senza fumo sperimentate per prima dalla Francia nel 1885 avevano notevoli vantaggi sulla polvere nera. Non producevano fumi che accecavano i soldati e ne segnalavano la posizione ed essendo più potenti permettevano di ridurre il calibro delle armi consentendo ai soldati di portare con sé un maggior numero di munizioni. Inoltre le nuove polveri, a base di nitrocellulosa, lasciavano meno residui con una minore necessità di pulire l’arma in dotazione. Per i sistemi di protezione Soldati italiani presso un cannone, 1915-1918. Fondo Strina presso il FAST – Foto Archivio Storico della Provincia di Treviso
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si trattò, in qualche modo, di un ritorno al passato. Furono infatti sperimentati elmi, corazze, scudi, tutti progressivamente abbandonati, o utilizzati solo in particolati situazioni, in quanto l’ingombro che producevano era superiore alla protezione che offrivano. L’unico che si rivelò utile e pratico fu l’elmetto, che tuttora fa parte della dotazione delle truppe combattenti. Dopo avere sperimentato un elmetto, in due versioni, rivelatosi pesante e scomodo, l’esercito italiano adottò l’elmetto realizzato nel 1915 dal generale francese L.A. Adrian. I primi elmetti forniti dalla Francia erano di colore blu e recavano il monogramma della repubblica francese. L’elmetto Adrian era composto di quattro pezzi saldati che costituivano un oggettivo elemento di debolezza. Dal 1916 l’Adrian per l’esercito italiano fu prodotto in Italia riducendo i pezzi a due con una migliore protezione. L’elmetto più efficace della Grande Guerra è stato certamente quello tedesco, la cui forma è rimasta sostanzialmente inalterata nel tempo e oggi, a cent’anni di distanza, è rinnovata nei modelli in uso alle truppe Nato. Prodotto a partire dal 1916, in sostituzione del tradizionale ma inefficace elmo chiodato (pickelhaube) in cuoio, questo elmo fu adottato anche dagli alleati della Germania, con alcune modifiche. La più particolare, quella realizzata dall’esercito turco che aveva la visiera tagliata per permettere ai soldati di religione mussulmana di portare la fronte a terra durante le preghiere rituali.
LE ARMI Grandissima la varietà di armi utilizzate durante la Grande Guerra frutto dello sviluppo tecnologico e che da allora sono entrate stabilmente negli arsenali militari. Per quanto riguarda l’esercito basti pensare ai lanciafiamme, ai mortai, ai carri armati. Senza Postazione d’artiglieria in azione, 1915-1918. Fondo Strina presso il FAST – Foto Archivio Storico della Provincia di Treviso
scenari considerare i gas, e relative maschere antigas prodotte anche in versione per i cavalli, che furono poi banditi in forza di una convenzione internazionale. La battaglia sui mari ebbe un nuovo protagonista, il sommergibile, mentre l’aviazione, non ancora arma autonoma, ebbe notevoli sviluppi, considerato che il primo volo del più pesante dell’aria era avvenuto il 17 dicembre 1903, ma non ebbe una influenza determinante sulle sorti del conflitto. Per quanto riguarda le armi in dotazione ai soldati, due sono quelle che più hanno caratterizzato la Grande Guerra, con caratteristiche diametralmente opposte: le mitragliatrici e le bombe a mano. Le prime armi proprie di difesa, le seconde armi d’assalto. Entrambe già utilizzate in precedenza, furono perfezionate nel corso del conflitto e costituiscono tuttora strumenti basilari per qualsiasi guerra. All’inizio della Guerra le mitragliatrici pesavano circa 60 chili ed avevano necessità di almeno quattro soldati per il loro funzionamento. Alla fine del conflitto pesavano 9 chili e necessitavano di due soli soldati, uno per sparare ed uno per le munizioni. La loro potenza di fuoco equivaleva a quella di 100 fucili circa. Il problema principale che presentavano, e che presentano era quello del raffreddamento. Due i sistemi utilizzati, quello ad aria, ottenuto ampliando la superficie della canna che veniva anche sostituita dopo un certo numero di colpi, e quello ad acqua, alimentato da un apposito serbatoio. Questo sistema, anche se più efficace, aggiungendo un altro elemento, il serbatoio d’acqua, limitava però la maneggevolezza dell’arma. Non essendo l’acqua sempre disponibile in prima linea, era prassi usuale per i soldati urinare nel serbatoio per reintegrare il liquido evaporato. Un problema irrisolto, e sempre legato al funzionamento dell’arma, fu quello degli inceppamenti. Fu anche per questo che le mitragliatrici venivano posizionate in gruppi (nidi di mitragliatrici), in modo Caricamento di una bombarda da 400, 1915-1918. Fondo Gian Luca Badoglio presso il FAST – Foto Archivio Storico della Provincia di Treviso
da mantenere il più possibile costante il volume di fuoco. La mitragliatrice era anche l’unica arma fissa in dotazione agli aerei e maneggiata dal pilota che normalmente era anche l’unico membro dell’equipaggio. Il primo problema che si presentò fu di far sì che l’arma, montata davanti al pilota, non sparasse sull’elica dell’aereo. Le prime mitragliatrici furono quindi montate su specie di trespoli con notevoli difficoltà di gestione e pratica impossibilità di riarmare l’arma in caso di inceppamento. Fu un pilota francese, Roland Garros, a realizzare per primo un meccanismo di sincronizzazione tra sparo e rotazione dell’elica, copiato poi dai tedeschi, che permise di posizionare l’arma in modo più comodo per il pilota. La bomba a mano, o granata, è arma individuale di lunga storia. Nella Grande Guerra fu l’arma più impiegata negli assalti alle trincee nemiche e anche se l’espressione ‘assalto alla baionetta’ è divenuta quasi proverbiale, ben poco queste potevano fare contro una raffica di mitragliatrice. In buona sostanza l’uso della baionetta era relegato ad attività poco guerresche ma utili nella vita quotidiana dei soldati, quali aprire lattine e simili. Negli assalti erano certamente più efficaci le bombe a mano. Basti pensare che nel luglio 1916, a Pozières, in Francia, si calcola che australiani e inglesi abbiano lanciato in due giorni circa 30.000 bombe a mano. Le bombe a mano si suddividevano, e ancora si suddividono, in bombe a percussione e bombe a tempo. Le prime esplodevano per impatto, le seconde con una miccia temporizzata. I soldati preferivano nettamente le seconde che non correvano il rischio di esplodere per colpi accidentali, sempre possibili nella concitazione della battaglia.
Soldati italiani presso un cannone, 1915-1918. Fondo Strina presso il FAST – Foto Archivio Storico della Provincia di Treviso
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VERSO LA GESTIONE DOCUMENTALE NEL SOLO “FORMATO NATIVO DIGITALE” Intervista ad Andrea Cortellazzo, fondatore e promotore di Menocarta.net
Il 6 giugno è entrato in vigore l’obbligo di fatturazione elettronica verso la Pubblica Amministrazione e di conseguenza quello di sola conservazione sostitutiva a norma dei documenti contabili, amministrativi e fiscali relativi alle fatturazioni verso la PA. In questo scenario evolutivo attore protagonista è la rete di impresa Menocarta.net la cui mission è diffondere la cultura dei documenti informatici gestiti e conservati nel solo “formato nativo digitale”. Non produrre più tanti cartacei inutili, ma limitarsi a gestire e conservare i soli documenti informatici per ottimizzare il lavoro delle persone e favorire il rispetto dell’ambiente.
Di che cosa si occupa esattamente la rete Menocarta.net? Allo stato attuale i servizi organizzati da Menocarta.net interessano la formazione dei professionisti in tematiche afferenti la conservazione sostitutiva a norma e la fatturazione elettronica in primis, con cui si arriva a conseguire una “certificazione” che attesta le competenze maturate anche su un piano operativo: si tratta dell’unico progetto in Italia per cui, nel corso del periodo di formazione (3-4 mesi), il professionista avvia in modalità “controllata” la tenuta in conservazione sostitutiva a norma di 48
3 contabilità di aziende sue clienti. Inoltre, per i professionisti e per le aziende ed enti da questi supportate, Menocarta.net ha organizzato un completo servizio di outsourcing di processo e di conservazione sostitutiva a norma per quanto attiene tutta la documentazione amministrativa/contabile e fiscale: in particolare è articolata una completa proposta di supporto per quanto attiene la fatturazione elettronica obbligatoria verso la Pubblica Amministrazione e il correlato servizio di conservazione sostitutiva a norma.
incontri con Digitalizzare tutta la “carta business” è davvero possibile? Più che parlare in termini di digitalizzazione della carta il vero motivo d’essere di Menocarta.net è innestare rapidamente la cultura dei documenti informatici gestiti e conservati nel solo “formato nativo digitale”: si tratta quindi di non produrre più tanti cartacei inutili, ma di limitarsi a gestire e conservare i soli documenti informatici, così come l’avvento della fatturazione elettronica verso la Pubblica Amministrazione di fatto richiede obbligatoriamente. Quali sono i modelli innovativi che permettono di gestire questo processo?
Quali sono gli obblighi imposti a livello nazionale in ambito dematerializzazione e conservazione sostitutiva? Cosa è cambiato a partire dal 6 giugno? Fin dal 2004 ha piena validità la sola conservazione digitale dei documenti amministrativi/contabili e fiscali (al pari di altra documentazione rilevante sul piano civilistico), a patto sia instradata in un affidabile sistema di conservazione a norma rispondente a tutti i dettami normativi e tecnici che si sono articolati negli ultimi 15 anni. L’elemento di particolare valenza è ciò che si è avviato il 6 giugno 2014, data a partire dalla quale, in presenza di flussi di fatturazione verso la PA, questi ultimi devono essere obbligatoriamente digitali e di conseguenza anche la loro conservazione nel tempo deve essere obbligatoria a mezzo della sola conservazione sostitutiva a norma: in tal senso il 6 giugno dev’essere interpretato come la data in cui ha avuto effettivamente inizio l’obbligo della conservazione sostitutiva a norma, ancorché limitata alle fatturazioni verso il mondo della Pubblica Amministrazione.
Tutto il processo della gestione documentale in formato digitale e correlata conservazione sostitutiva a norma si regge su un sistematico e consolidato quadro normativo e tecnico, in cui gli aspetti tecnologici sono da tempo dettati e rispettati e disciplinano, ad esempio, le diverse forme di firme elettroniche, necessarie quale elemento di base per la validità dei documenti informatici rilevanti ai fini civilistici e fiscali. In realtà molto più importante dell’aspetto tecnologico è la necessaria affidabilità che l’intera tematica della gestione documentale digitale deve garantire, ciò esclusivamente attraverso una corretta condivisione e assunzione di responsabilità da parte di soggetti estremamente qualificati e competenti, tra cui la figura del responsabile della conservazione, che è la vera figura apicale: nel modello organizzato da Menocarta.net la responsabilità viene assunta da soggetti quali commercialisti competenti in tematiche digitali (nel
Andrea Cortellazzo Fondatore e promotore della rete d’impresa Menocarta.net
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ruolo di responsabili della conservazione) e competenze notarili (a supporto del sistema di conservazione in outsourcing erogato). Ci sono dei vantaggi in termini di risparmio? Da diversi anni la fonte di riferimento di analisi simili è indubbiamente il Politecnico di Milano con i suoi diversi osservatori (http://www.osservatori.net/home): si può sicuramente citare il grande risparmio collegato alla dematerializzazione dei flussi di fatturazione che da circa 60/70 euro di costo per singolo documento cartaceo indica l’obiettivo di costo del flusso digitale in 6/7 euro per documento gestito (le suddette stime tengono conto dei costi diretti e indiretti dei flussi di fatturazione attiva delle aziende analizzate). In ogni caso la vera valenza anche economica di questi progetti la si consolida negli anni e ha la sua massimizzazione nell’obiettivo di gestire come unica modalità di conservazione il solo formato digitale. Come viene recepita questa trasformazione dalle aziende e dagli enti a cui vi rivolgete? Fino ad oggi la percezione di questa inevitabile evoluzione è stata estremante positiva da parte di aziende di medio grandi dimensioni che hanno prima delle altre inseguito un continuo efficientamento dei processi amministrativi contabili e fiscali; in questi prossimi mesi, grazie all’obbligo introdotto per la
MENOCARTA.NET La rete Menocarta.net nasce a fine 2012 con il preciso obiettivo di anticipare il necessario cambiamento culturale dei professionisti, commercialisti in primis, per renderli progressivamente protagonisti nei servizi digitali contabili/ amministrativi e fiscali, nell’accompagnarli ad assumere il ruolo di Responsabile della “Conservazione documentale sostitutiva a norma”. Le attuali 8 aziende aderenti alla rete Menocarta.net sono state inizialmente selezionate dal gruppo dei promotori, con l’obiettivo di ricercare allo stesso tempo sia le necessarie competenze tecniche/operative (ad esempio la valenza notarile del servizio di Conservazione a norma proposto), sia un’adeguata distribuzione geografica a livello nazionale (3 aziende venete, 1 azienda lombarda, 1 azienda del Lazio e 3 aziende in Campania). Andrea Cortellazzo, Dottore Commercialista in Padova, è fondatore e promotore della rete di impresa Menocarta.net.
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fatturazione elettronica verso la Pubblica Amministrazione, ci si attende un interesse altrettanto positivo da parte di aziende ed enti di ogni dimensione, con la necessità di un rapido recupero da parte dei professionisti contabili che necessariamente dovranno evolvere nella direzione del solo digitale nativo per tutti i processi amministrativi contabili e fiscali da loro supportati. Esistono dei rischi legati alla sicurezza e come vengono gestiti? La parte di sicurezza informatica e di processo è inquadrata correttamente dal legislatore italiano nel ruolo del “responsabile della conservazione a norma” a cui si demanda la necessaria attività di impostazione e monitoraggio nel tempo dell’affidabilità dell’intero processo di conservazione: a valle del suddetto processo di conservazione vi è anche la sicurezza da un punto di vista informatico dei documenti digitali, a cui si deve rispondere con infrastrutture IT (datacenter) ad alta affidabilità secondo i più elevati standard internazionali. Menocarta.net come rete di impresa green… Partendo dallo spunto della rivoluzione in atto da parte della PA, indubbiamente tutti gli attori che agevoleranno il cambio culturale necessario per raggiungere gli obiettivi dell’agenda digitale europea (di cui la fatturazione elettronica è uno dei capisaldi) necessariamente conseguiranno anche l’obiettivo non secondario di aiutare l’ambiente con un minor aggravio di consumo di carta e di energia. Menocarta.net vuole essere uno egli attori più innovativi ed efficaci proprio a supporto della suddetta evoluzione culturale verso la sola gestione documentale in formato “nativo digitale”.
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IL GESTIONALE A PORTATA DI MANO Un software ERP in movimento grazie a smartphone e tablet ALBERTO TRONCHIN - RICCARDO LORENZON
redazione@logyn.it
Non rappresenta certo una novità affermare che smartphone e tablet hanno cambiato rapidamente il modo in cui le persone comunicano. Per verificarlo è sufficiente osservare le persone che incontriamo ogni giorno. La domanda che ci poniamo è: questa tendenza al mobile ha un impatto anche sulle aziende? Può cambiare o sta cambiando il modo di fare business da parte delle PMI in particolare?
All’inizio si chiamavano palmari o handheld Pc, ma erano dei dispositivi costosi e complicati e adatti solo a svolgere alcune attività. Erano pesanti e con poche modalità di connessione ai dati disponibili. Erano di fatto un’appendice di un PC al quale collegarli ogni tanto per sincronizzare i dati. Non parliamo 52
neppure della loro autonomia energetica. A questi si affiancavano i telefoni cellulari, anch’essi inizialmente scomodi e pesanti, ma con il tempo sempre più piccoli e maneggevoli. Con il cellulare si telefonava, con il palmare si lavorava o al più si annotavano degli appunti e si metteva in
spazio a y
soffitta la propria agenda di carta: due cose separate, due strumenti distinti.
Ma quali conseguenze ha determinato questa evoluzione nelle nostre aziende? Cambierà il modo di lavorare e di fare business?
I primi modelli denominati smartphone comparvero sul mercato a metà degli anni Novanta, ma il vero salto evolutivo avvenne con la presentazione da parte di Apple® di iPhone nel gennaio 2007: un unico dispositivo per comunicare, utilizzabile senza il pennino e dotato di un efficacissimo multitouch; un device molto potente e fornito di applicazioni (le cosiddette App) facili da usare, per ogni esigenza e spesso gratuite. Poi nel 2010 arrivò iPad, il primo tablet, che rappresentò il giusto compromesso tra uno smartphone e un notebook. Da quel giorno ad oggi, la storia la conosciamo tutti: un’offerta ampia di modelli, diversi sistemi operativi e una diffusione che ha dell’incredibile.
Esistono scenari tipici e consolidati nelle aziende dove da anni si usano dispositivi mobili. Basti pensare alle applicazioni di tentata vendita o di raccolta ordini. Qui l’esigenza è chiara, ovvero portare con sé le applicazioni e le informazioni poichè l’attività lavorativa si svolge prettamente sul territorio. Ma mobilità non è solo questo. Significa mantenere il contatto con la propria azienda, ovunque, indipendentemente dal dispositivo che si ha in quel momento e dal luogo in cui ci si trova. L’apporto che può fornire la sinergia tra mobile e software gestionale sta proprio nel rendere indipendente lo svolgimento delle proprie mansioni dal luogo in cui ci si trova o dal dispositivo mobile che in quel momento si ha a portata di mano. Quante volte nella nostra azienda abbiamo sentito un collega dire: “Ok, appena rientro in ufficio mi occupo di quella cosa”. Un’azienda che comprende questo è un’azienda che ha capito che il mobile non è una moda, ma può essere davvero un modo per liberarsi di alcuni vincoli o tabù e migliorare le performance aziendali nei confronti dei propri clienti e fornitori.
L’edizione 2013 dello studio Our mobile planet 1, commissionato da Google™ e realizzato da Ipsos MediaCt, ha evidenziato che dal 2012 al 2013, in Italia, la diffusione degli smartphone è passata dal 28% al 41% della popolazione, mentre quella dei tablet è aumentata dal 6% al 15%. Questa evoluzione è avvenuta principalmente nel cosiddetto mondo consumer, ovvero ha coinvolto le persone, i privati cittadini, per gli usi più tipici della vita quotidiana. Sempre la stessa indagine indica che il 97% dei possessori di smartphone lo utilizza anche nel luogo di lavoro.
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http://services.google.com/fh/files/misc/omp-2013-it-local.pdf
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VISION & RESEARCH
LIBERTÀ DI SVOLGERE LE PROPRIE ATTIVITÀ SCEGLIENDO IL DEVICE Il successo dei dispositivi mobili negli USA è stato certamente maggiore rispetto all’Italia. Sempre secondo la precedente indagine commissionata da Google™ nel 2013, l’uso di smartphone negli USA interessa il 56% della popolazione, contro il 41% dell’Italia. In particolare si sta affermando una tendenza, il BYOD (bring your own device): ovvero sta crescendo l’utilizzo di device personali in ambito lavorativo. Un fenomeno che porta con sé problematiche nuove ma allo stesso tempo apre delle prospettive anche per il software gestionale. Abbracciare il mobile non è quindi una scelta che l’azienda decide di compiere o no ma uno scenario che si presenta: si tratta di saper cogliere l’opportunità e cavalcare le potenzialità o subirne passivamente le complicazioni che comunque esso comporta. Ecco alcuni scenari di impiego di soluzioni mobile.
TASK DI APPROVAZIONE All’interno dei processi aziendali, qualora essi siano coordinati da sistemi di workflow, è frequente la presenza di task, suggeriti dal sistema, che riguardano attività di approvazione da parte di un utente e che sono propedeutici all’avanzamento del flusso stesso. Se il task potesse essere svolto dall’utente indipendentemente dalla sua presenza fisica in azienda e indipendentemente dal dispositivo mobile a portata di mano, si avrebbe certamente un vantaggio e un avanzamento più spedito del processo.
ATTIVITÀ DI CUSTOMER RELATIONSHIP MANAGEMENT Pensiamo all’attività di un agente di vendita sul territorio. La possibilità di accedere in tempo reale a tutte le informazioni del cliente che gli sta di fronte attraverso il proprio smartphone potrebbe consentirgli di gestire meglio la trattativa e, ad esempio, avere a disposizione le informazioni sul fatturato del cliente, eventuali insoluti o magari evidenziare un calo di ordinativi a cui potrebbe seguire una ricontrattazione dello sconto concesso in precedenza. 54
INTERVENTI TECNICI Un altro esempio è l’attività di manutenzione o riparazione onsite di macchinari o impianti: tale attività solitamente richiede di programmare gli interventi, rilasciare al cliente un report dettagliato dell’attività svolta, nonché sottoscrivere la chiusura della richiesta di assistenza. Il tecnico che si reca dal cliente necessita delle indicazioni stradali per raggiungere la sede dell’intervento, ma potrebbe essere utile tenere conto anche dei successivi interventi che egli deve svolgere nella stessa giornata per ottimizzare il percorso. In tutto questo sarebbe utilissima un’applicazione installata sul tablet (o un dispositivo rugged) che sappia integrarsi con il sistema informativo e con il sistema di geolocalizzazione. Per chi, come Eurosystem, vuole fornire ai propri clienti queste funzionalità esistono diversi problemi da risolvere, che richiedono progettazione e la scelta di tecnologie e piattaforme adatte. Esiste oggi una varietà di dispositivi che negli ultimi anni si è ampliata, sia dal punto di vista hardware, sia come sistemi operativi onboard. Una delle sfide da affrontare è riuscire ad offrire sostanzialmente la medesima applicazione, però ottimizzata per il tipo di dispositivo specifico. A questo si aggiungono le problematiche legate a distribuzione e aggiornamento delle applicazioni, operazioni che devono avvenire con la stessa facilità con cui tutti noi installiamo le App scaricate dai vari marketplace. Vanno però garantite la sicurezza e riservatezza nell’accesso poiché questo tipo di applicazioni sono spesso riservate ad una particolare realtà enterprise . Non ultimo, sussiste il problema dell’accesso ai dati e ai servizi di business. Se si vuole consentire all’utente di usare la stessa applicazione installata su dispositivi differenti c’è la necessità di collocare i dati e i servizi di business in un luogo virtuale facilmente raggiungibile da tutti i dispositivi: qui siamo nell’ambito del cosiddetto Cloud, ma sarà argomento questo di un successivo approfondimento.
spazio a y ARCHITECTURE & DESIGN
APPLICAZIONI NATIVE WEB E IBRIDE Il mercato delle mobile application (chiamate comunemente App) è giovane, ma già molto competitivo. Si identificano, tra le maggiori software house fornitrici di sistemi operativi, Apple® con iOS, Google™ con Android™, Microsoft® con Windows Phone® 8.1 e Windows® 8.1. Altri emergenti sono Firefox® OS di Mozilla, Ubuntu Touch e Tizen, sviluppato da una joint venture tra Intel e Samsung, questi ultimi rilasciati con licenza open. Google Android si conferma anche nel 2013 al primo posto con il 79% di mercato come il sistema operativo installato nella maggior parte di smartphone1. A seguire Apple® iOS (14,2%) con un calo del 4,6% e Microsoft® Windows Phone® con il 3,3% che vede un aumento dello 0,7% rispetto all’anno precedente. Il numero di utenti che utilizzano App è importante e in crescita. Nel 2013 ci sono stati, a livello mondiale, più di 102 miliardi di download totali (+40% rispetto al 2012)2. Gli utenti si stanno abituando a cercare nel marketplace la disponibilità di un app specifica per l’attività che desiderano svolgere. Hanno infatti imparato rapidamente che le app locali sono fluide, facili da usare e ben integrate con il dispositivo. Uno dei principali problemi da affrontare nella realizzazione di applicazioni mobile per le aziende è sviluppare applicazioni cross platform che possano essere utilizzate da un gruppo eterogeneo di utenti possessori di device diversi. È possibile sviluppare l’applicazione una sola volta e adeguarla facilmente ai vari scenari di impiego, con sistemi operativi differenti, dimensioni diverse di schermo, ma sfruttando comunque le specificità del dispositivo? Si possono indicare tre differenti approcci: lo sviluppo di app native, web e ibride. Il lavoro di ricerca e sperimentazione compiuto in Eurosystem, a questo proposito, riguarda lo sviluppo di applicazioni native utilizzando il framework Xamarin™3 e ibride utilizzando il prodotto IBM® Worklight4.
APP NATIVE Le app native, sviluppate utilizzando il software development kit e l’ambiente di sviluppo dedicato ad ogni sistema operativo, sono molto performanti, sia dal punto di vista di User eXperience (UX) sia per l’interoperabilità con le features native del dispositivo quali per esempio la fotocamera, la geolocalizzazione, lo storage. Il loro vantaggio principale risiede nel fatto che essendo sviluppate ad hoc per uno specifico sistema operativo possono massimizzare la fruibilità delle caratteristiche del dispositivo. Lo svantaggio è nella non portabilità dell’applicazione; infatti da un’applicazione sviluppata per un determinato sistema operativo non è possibile recuperare sue parti per poterle riutilizzare negli altri dispositivi. Un cenno particolare merita, a questo proposito, Xamarin, ovvero un framework che consente di sviluppare applicazioni native principalmente destinate a dispositivi Windows Phone® ma in parte riusabili in altri ambienti grazie al linguaggio C# e al framework Mono™ (porting di MSicrosoft® .NET) disponibili anche per Android™ e iOS. Xamarin™, a differenza delle altre tecnologie per lo sviluppo di app native, consente di realizzare un livello di applicazione comune per i diversi sistemi operativi (tipicamente accesso ai dati e regole di business). L’interfaccia utente, invece, va implementata in modo specifico a seconda del sistema operativo di destinazione.
WEB APP Diverso approccio invece per quanto riguarda le web app. Queste non sono delle vere e proprie applicazioni ma un insieme di pagine web pubblicate da un website. Esse non vengono fisicamente installate nel dispositivo ma eseguite mediante l’utilizzo di un browser web. Attraverso la tecnologia HTML5, CSS3 e Javascript è possibile strutturare l’interfaccia utente di un pagina web in modo tale che l’aspetto e l’interazione dell’utente siano comparabili a quelli di un’app nativa. Questo approccio permette di sviluppare efficientemente un prodotto cross platform indipendente sia dal sistema operativo che dal dispositivo. Inoltre la distribuzione non è 55
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soggetta ai processi di approvazione dei fornitori del sistema operativo. Questa soluzione tuttavia comporta diversi svantaggi: la necessità di una connessione internet permanente durante l’uso dell’applicazione e la difficoltà di integrarsi con le caratteristiche specifiche del dispositivo (non tutte disponibili), soprattutto per quanto riguarda lo storage.
APP IBRIDE Le app ibride, invece, sono in parte native, in parte web. Esse sono create con tecnologia HTML5, CSS3 e Javascript. Come per le app native, vengono scaricate ed installate mediante gli store e possono sfruttare delle features messe a disposizione del sistema operativo. Come per le web application, però, essere possono essere sviluppate in modo indipendente dal sistema operativo di destinazione perché il loro funzionamento è consentito da un motore di rendering HTML5/CSS/JS incorporato direttamente all’interno dell’applicazione. Seguendo questo approccio, definito write-once-run-everywhere e dotandosi necessariamente di uno strumento di building e packaging quale per esempio Phonegap o Titanium è possibile beneficiare dei vantaggi legati alle app native e web. Tra le piattaforme di sviluppo utilizzabili una citazione viene fatta per Worklight di IBM. Worklight è una struttura completa di sviluppo basata su PhoneGap™ composta da cinque parti fondamentali tra cui IBM® Worklight Studio, IBM® Worklight Server e IBM® Worklight Application Center. Il primo consiste in un ambiente ottimizzato per la creazione di app cross platform basate su HTML5. IBM® Worklight Server invece fornisce alcuni servizi utilizzabili dall’applicazione. Per ultimo IBM® Worklight Application Center offre un sistema di deployment e aggiornamento delle app indipendente dai marketplace pubblici. È proprio quest’ultimo il problema che più interessa lo sviluppo e la distribuzione di applicazioni in ambito enterprise: esse non hanno la necessità di essere pubblicate su un marketplace pubblico, ma essere distribuite all’interno di una intranet riservata all’azienda cliente per la quale l’applicazione è stata pensata. In abbinamento con IBM® Worklight Console è possibile ottenere anche un monitoraggio e un’amministrazione remota dei vari dispositivi.
http://www.gartner.com/newsroom/id/2573415 http://www.gartner.com/newsroom/id/2592315 3 https://xamarin.com/ 4 http://www-03.ibm.com/software/products/it/worklight/ 1 2
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@EUROSYSTEM.IT: DIALOGARE CON IT E ICT
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L’evoluzione dell’ERP: mai dividere ma integrare Ma una soluzione a misura di utente esiste…
STEFANO BIRAL redazione@logyn.it
Il problema dell’utente Il responsabile della pianificazione di qualsiasi azienda desidera poter monitorare i carichi di lavoro per tipologia di risorsa, sia essa un centro di lavoro piuttosto che un terzista, un reparto, una singola persona. Molte volte si adottano strumenti esterni al sistema gestionale che comportano utilizzi molto personali delle informazioni. In un’azienda è indispensabile che le informazioni siano fruibili in modo semplice, strutturato e soprattutto integrato all’interno del gestionale. Come un ERP può evitare di dividere ma integrare e risolvere il problema?
Il contesto dell’offerta Spesso l’utente cerca di risolvere le problematiche di pianificazione tramite software di produttività individuale, portando fuori dal sistema gestionale le informazioni da elaborare e generando quindi immediatamente un problema di congruità tra le informazioni presenti nell’ERP (in continua evoluzione) e quelle presenti nel personal computer dell’utente (sostanzialmente statiche e non attive). Molti sistemi gestionali non hanno applicazioni adatte a pianificare le attività, siano esse produttive o progettuali o preventive, così si agevolano la dispersione e la divisione delle informazioni aziendali anziché la loro centralizzazione.
Freeway® Skyline con il suo schedulatore mette a disposizione dell’utente uno strumento che consente di pianificare le attività agevolmente, siano esse ordini di produzione, di conto lavoro esterno o attività progettuali: per alcune di queste operazioni si possono definire vincoli vari di non sovrapposizione, tempi di setup, etc. Lo schedulatore diventa insomma un cruscotto di lavoro che mostra le singole attività nell’ordine di tempo e il carico delle risorse segnalando laddove si sta superando il 100% del fattibile. Questo cruscotto aiuta a monitorare le risorse e le attività aziendali, solitamente di tipo produttivo, offrendo la possibilità di spostarle sia nell’arco temporale sia nel centro di lavoro più idoneo e disponibile con pochi click, di vedere l’impatto o eventuali sovrapposizioni prima del salvataggio definitivo nel sistema ERP, il quale a sua volta potrà avviare ulteriori automatismi e aggiornamenti. La pianificazione e la schedulazione di attività, risorse e centri di lavoro possono essere inoltre ottimizzate in funzione di molteplici caratteristiche di business, con la possibilità di avere delle segnalazioni ad hoc per monitorare particolari casistiche o sovrapposizioni. Grazie allo schedulatore a capacità finita dei centri di lavoro interni e delle unità esterne/terzisti, la pianificazione di tipo produttivo può essere gestita al più tardi, per saturare le risorse, ridurre il WIP (Work In Progress) oltre che il magazzino e produrre just in time. Inoltre grazie ai tools grafici presenti, tutte le situazioni più rilevanti vengono evidenziate, ad esempio riportando con un colore particolare un lancio di produzione in ritardo che rende critico il rispetto di una data di consegna di un ordine cliente. Sono inoltre presenti oggetti (i cosidetti “tooltip”) predisposti per riportare un gran numero di informazioni specifiche relative al business aziendale nonché dei link di collegamento fra attività dipendenti l’una dall’altra. Freeway® Skyline, attraverso il modulo dello schedulatore, aiuta l’utente a gestire la pianificazione delle attività in modo integrato all’ERP condividendo in tempo reale con tutta l’azienda l’assegnazione delle attività e soprattutto le date previste per il completamento delle stesse. 57
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EMC: LA NUOVA DATA PROTECTION La parola al sales manager Michele Santulin
Michele Santulin, sales manager della divisione Data Protection & Availability di EMC, ci parla di Data Protection e delle nuove tecnologie EMC che mirano a rendere sempre più autonomo l’utente nella gestione delle informazioni. Tutto queste grazie alla filosofia ‘as a service’ che permette di configurare in autonomia l’infrastruttura IT di cui si ha bisogno.
Soprattutto ultimamente si parla tanto di Data Protection: cosa significa? Quando si parla di Data Protection, strettamente collegata all’infrastruttura IT, ci si riferisce a un mondo, quello del data center, e a tutto ciò che afferisce alla protezione del dato. Per intenderci: in azienda si ha tendenzialmente almeno una copia dei dati che di solito si trova all’interno dello storage primario; successivamente si arriva a realizzare la vera e propria protezione del dato con sistemi che consentano di effettuare anche una seconda copia da utilizzare nel caso la prima fosse lesa. Altra cosa è la Security, una disciplina che invece tende a proteggere l’accessibilità del dato dall’esterno per evitare che lo stesso venga corrotto oppure sottratto. 58
A quali problematiche aziendali si riferisce? Le problematiche che la Data Protection risolve sono quelle derivate dall’evoluzione del nostro mercato: se, infatti, prima alle informazioni di un’azienda accedeva solo personale qualificato e ristretto, oggigiorno le necessità sono mutate e le aziende diffondono maggiormente tra i diversi fruitori le informazioni legate al loro business, anche attraverso applicazioni specifiche utilizzabili dai nuovi device mobili. Le aziende stanno, insomma, massimizzando le potenzialità dell’IT per erogare nuovi servizi che possono portare valore aggiunto all’impresa, anche in termine d’immagine, dotandosi ad esempio di molte delle app che vediamo visibili in smartphone o tablet.
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Cosa comporta questo per chi gestisce l’IT? Per chi gestisce l’IT, questo insieme è un aggravio di complessità non indifferente perché la mole di dati cresce esponenzialmente e alle informazioni conservate nel data center accedono milioni di persone, magari non più dall’ufficio legato al server aziendale ma mentre sono in mobilità e in autonomia. Per questo le aziende iniziano a considerare le applicazioni come software di valore per il business e per l’IT, e diventa necessario che la loro disponibilità sia sempre più immediata ed efficiente. Infatti, se prima si considerava ammissibile da parte di chi gestiva i servizi IT una sorta di ritardo legato al fattore umano, oggi questi servizi sono sostituiti da applicazioni informatiche dalle quali si esige immediatezza ed efficienza. Insomma, prima si concedeva che ci volessero anche delle ore per accedere a dei dati corrotti sul server primario, ora non si accetta il disservizio nemmeno di un minuto. Quindi, il tema della Data Protection diventa sempre più sentito per due motivi: perché la disponibilità del dato deve essere continua, e perché si deve poter ricorrere a soluzioni di repository secondario se il primario è danneggiato. Per dirla con una metafora: nel mondo dell’IT, se la macchina principale è ferma per manutenzione, è indispensabile poter avere accesso immediato ad un’auto sostitutiva e di appoggio. Quali sono le esigenze più frequenti che manifestano le aziende? Data questa nuova complessità, la mole di dati all’interno dell’infrastruttura è in continua espansione, così come l’esigenza di proteggerli. Per questo la richiesta più comune è far sì che i costi legati all’infrastruttura e alla sua gestione non lievitino oltre modo. In particolare, l’obiettivo di EMC come vendor è operare in maniera tale che il crescere delle informazioni e delle infrastrutture non corrisponda all’aumento della complessità di gestione dei sistemi per gli utenti.
di personale specifico che gestisca l’IT aziendale, EMC si appoggia ai partner di canale nelle diverse aree geografiche, come lo stesso Gruppo Eurosystem Sistemarca per quanto riguarda il Triveneto e gran parte del Nord Italia. Quali sono i vostri futuri traguardi? Siamo stati i primi a credere nell’integrazione tra software di backup e dispositivi di storage e gli ultimi rilasci effettuati in questo ambito sono una ulteriore concretizzazione di questa nostra vision. Nel futuro EMC mira a portare sempre più automazione nel data center attraverso prodotti hardware e software pensati per le aziende che vogliono dotarsi di soluzioni di Data Protection integrate, e porsi nelle condizioni di affrontare le sfide che si preannunciano, come ad esempio l’esplosione dei big data. Guardando a questo obiettivo, oggi EMC aiuta i clienti a definire una strategia di Data Protection efficace attraverso un nuovo software-defined data center che permette di massimizzare i costi e i vantaggi operativi. Con le nuove soluzioni rilasciate EMC aggiunge nuove integrazioni alle piattaforme primarie e di protezione dello storage, a hypervisor e alle applicazioni enterprise, estendendo al contempo il supporto rivolto agli ambienti cloud oltre a fornire nuove tecnologie che rendono possibile l’erogazione di servizi di data protection-as-a-service. Tra le innovazioni in materia di protezione e disponibilità segnaliamo i significativi miglioramenti di EMC Data Protection Suite, i nuovi EMC Data Domain® Operating System e il rilascio di nuove versioni di EMC VPLEX® ed EMC RecoverPoint®.
Qual è la politica che EMC adotta per raggiungere questo obiettivo? La politica di EMC è quella di trasformare il data center in una infrastruttura sempre più “as a service”. L’utenza, che è abituata a usufruire dei servizi in tempi ristretti (nel caso delle aziende per limitare i tempi del “go to market” di un prodotto o di un servizio), punta a configurare quei servizi in autonomia in base alle principali esigenze, per l’appunto “as a service”. EMC, anche per quanto riguarda i servizi di Data Protection, offre un’infrastruttura innovativa tale che sia possibile accedere alla stessa e configurarla in base ai bisogni in modo del tutto automatico. Questa disponibilità limita i costi e si presenta come immediata. Laddove, invece, le aziende non siano dotate
Michele Santulin Sales manager Data Protection & Availability Division
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L’AVANGUARDIA IT: ALTA AFFIDABILITÀ E CONTINUITÀ OPERATIVA Taghleef si affida a EMC e Sistemarca per la Business Continuity
Il Gruppo Taghleef Industries, con headquarter a Dubai, è uno dei principali produttori al mondo di film BoPP, CPP e BoPLA, con una capacità produttiva di oltre 385,000 tonnellate tra film standard e speciali. La mission aziendale: prodotti e servizi eccellenti con soluzioni competitive, innovative e sostenibili.
Nel corso degli anni il Gruppo ha consolidato la sua presenza investendo in nuove acquisizioni ed espandendosi in tutto il mondo. Attualmente, presente in 5 continenti con 3 stabilimenti produttivi in Medio Oriente, 2 in Europa, 1 in Australia, 1 negli USA e 1 in Canada, oltre che un centro di distribuzione in Germania e un ufficio commerciale in Cina. I siti produttivi sono tutti certificati ISO e i film prodotti rispondono ai più alti standard di igiene e sicurezza secondo gli standard HACCP, AiB e BRC. La Taghleef produce una vasta gamma di film biorientati di polipropilene per i settori alimentare, delle etichette, dei nastri adesivi ed altre applicazioni. Inoltre, offre una nuova gamma di prodotti bio-based, compostabili e biodegradabili BoPLA (Bi-OrientedPolyLacticAcid) e commercializzati con il brand NATIVIA™. Il Gruppo è fortemente focalizzato nella realizzazione di soluzioni d’imballo alternative che possano contribuire a una migliore sostenibilità dei moderni sistemi di imballaggio. 60
In un’azienda così strutturata, con standard qualitativi e di servizio molto elevati, un fermo dei sistemi informativi può causare ingenti danni economici, pertanto Taghleef Industries ha deciso di proteggersi da questo rischio scegliendo un progetto di ‘Alta Affidabilità’ targato EMC e Sistemarca. La mission aziendale è perseguita fornendo prodotti e servizi eccellenti capaci di realizzare soluzioni competitive, innovative e sostenibili nel settore merceologico dell’imballo. L’ambizione all’eccellenza e alla realizzazione di progetti ad alto contenuto tecnologico caratterizzano l’intera azienda, compreso il Centro Elaborazione Dati della sede italiana, che da sempre è stato dotato di un sistema informativo basato sulle migliori soluzioni e tecnologie di mercato, implementate con il supporto dei più qualificati partner. Storica è la collaborazione con il Gruppo Eurosystem Sistemarca che accompagna l’azienda dal 2001 seguendone le fasi evolutive e supportandola nella scelta di progetti IT e soluzioni di livello enterprise. Tale collaborazione
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si è rinnovata anche in occasione dell’ultima revisione dell’infrastruttura dislocata presso il sito italiano di San Giorgio di Nogaro (UD), particolarmente importante per il fatto che eroga servizi a tutto il Gruppo. In particolare, il sito italiano eroga in outsourcing alle sedi estere di Germania, Ungheria ed Egitto il sistema ERP (SAP), il gestionale proprietario (RAD) basato su database Oracle ed il sistema di avanzamento della produzione (MES-FASI). “La decisione di rinnovare il parco storage con una nuova infrastruttura - spiega Fulvio Massarutto, responsabile dell’infrastruttura IT - è conseguente alla necessità di adottare una soluzione di Business Continuity capace di rispondere alle nuove richieste dell’azienda in termini di sicurezza e continuità operativa del business, sia nell’ambito della produzione sia in quello dei servizi applicativi in caso di fermo dei sistemi per eventi incidentali o guasti. Oltre al già citato outsourcing dei principali software gestionali, la sede di San Giorgio di Nogaro eroga molteplici servizi a tutto il Gruppo, tra essi il sito internet, il portale intranet, Microsoft Lync per il VoIP e l’infrastruttura Active Directory Root Domain. Per tali motivi abbiamo dovuto acquisire i requisiti necessari per gestire la continuità operativa del business in caso di fermo dei sistemi dovuto ad eventi incidentali o guasti. Era, inoltre, necessario fronteggiare la costante necessità di maggiore spazio storage e avere supporti evoluti per il tiering dei dati.”
“Gli obiettivi di Ti - aggiunge Gianfranco Casu, responsabile tecnico del progetto affidato a Gruppo Eurosystem Sistemarca - erano chiari e precisi. Il cliente, sulla scia di un consolidato rapporto di fiducia reciproca e proficua collaborazione, ha chiesto la nostra consulenza per poter evolvere il vecchio assetto della SAN da Disaster Recovery a Business Continuity e passare così da un RPO (Recovery Point Objective) ed RTO (Recovery Time Objective) maggiori di zero ad un RPO ed RTO praticamente nulli. Ci veniva, inoltre, chiesto di aumentare contestualmente la disponibilità di risorse storage in relazione alle cresciute esigenze dell’azienda e di proporre un’infrastruttura molto più dinamica e scalabile, in grado di adattarsi rapidamente ai cambiamenti in atto, sia in termini di provisioning delle risorse che di livelli di servizio”. A seguito di una complessa analisi, condotta con il supporto e la consulenza degli specialisti del Gruppo Eurosystem Sistemarca, si è optato per una soluzione EMC, a ulteriore conferma della leadership tecnologica del vendor in questo ambito. La vecchia infrastruttura SAN, in Disater Recovery, basata su una coppia di storage EMC_CX4-240 dislocati a distanza di 61
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campus ed in replica sincrona con MirrorView/S, ha lasciato il posto ad una nuova, basata su una coppia di storage VNX5400_Unified, connessi in dual-fabric Fiber_8Gb, ed in assetto di Business Continuity grazie alla tecnologia EMC_ VPLEX_Metro implementata in single-engine. Grazie alla soluzione EMC VPLEX Metro, oggi i server che erogano servizi applicativi e servizi per l’area produttiva non accedono più direttamente alla coppia di storage VNX, in replica sincrona tra loro, ma alla cache distribuita, fornita dai director VPLEX che rappresentano la virtualizzazione dei VNX. Per questo motivo, in caso di fault di uno degli storage, VPLEX Metro consente di mantenere l’esposizione dei dati agli host consentendo la continuità operativa del business. In questo modo, server virtuali e fisici rimangono sempre disponibili in virtù della virtualizzazione degli storage. L’adozione delle tecnologie EMC_FAST_Cache ed EMC_ FAST_VP, in dotazione ai VNX5400, ha inoltre contribuito ad aumentare notevolmente le performance generali del sistema consentendo, da un lato, la gestione efficace dei picchi di richiesta da parte delle applicazioni e, dall’altro, il tiering dinamico dei dati su differenti livelli di tecnologia-disco (FLASH, SAS, NL-SAS). 62
La parte Fabric (SAN-Network) è stata completamente rinnovata e adeguata con l’adozione di 4 switch, 2 per CED, al fine di garantire gli opportuni requisiti di ridondanza all’intera infrastruttura e di bilanciamento di tutto l’ I/O a livello SAN. “Prima di implementare il progetto di Business Continuity – conclude Massarutto - il ripristino di tutte le risorse SAN, a seguito di un eventuale blocco dei sistemi, avrebbe richiesto una gestione manuale, con notevoli perdite economiche causate dalla mancata erogazione dei servizi e probabile fermo produttivo. Un analogo evento, oggi non avrebbe alcuna conseguenza: gli utenti non se ne accorgerebbero nemmeno, in quanto, grazie appunto alla tecnologia VPLEX, gli host rimangono nativamente connessi alle risorse presentate continuamente dallo storage virtualizzato. Questo significa che in situazioni di fermo incidentale, non subiremmo alcun fermo produttivo. Una garanzia di affidabilità fondamentale, non solo per la nostra azienda, ma anche per tutti i nostri clienti”.
BUSINESS
PARTNER
SPEDIZIONI INTERNAZIONALI
GUARDATE PURE LONTANO NOI LO RENDEREMO VICINO La volontà di superare sempre nuovi confini, sia geografici che professionali, è la vera forza del gruppo Cesped. In questi 30 anni e più di presenza sul mercato, abbiamo consolidato un’esperienza su tutte le attività che compongono la filiera del trasporto, collocandoci, per valore aggiunto, tra le prime 10 aziende private italiane del settore. Ciò che ci contraddistingue è l’innata capacità decisionale intervenendo con immediatezza in ambito organizzativo, innovativo e produttivo. Un team di professionisti esperti e fortemente motivati che, coadiuvato dalle più avanzate tecnologie, è pronto ad offrire alla clientela risposte tempestive ed assistenza costante per ogni problema di trasporto, spedizione, logistica e operazioni doganali.
www.cesped.it
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CYBERCRIMINE NEL NORDEST PRODUTTIVO Le aziende a lezione di sicurezza con Eurosystem
Nella splendida cornice dell’Hotel Filanda a Cittadella il 10 aprile il Gruppo Eurosystem Sistemarca ha parlato di sicurezza e cybercrimine alle aziende del Nordest nell’evento “Sicurezza informatica: non solo tecnologie per difendersi dal cybercrimine!”. Ospite d’eccezione Umberto Rapetto, l’ex generale di brigata della Guardia di Finanza che alla guida del GAT (Gruppo Anticrimine Tecnologico della GdF), nel 2001 ha diretto le indagini che hanno portato alla condanna in via definitiva degli hacker protagonisti di attacchi via web al Pentagono e alla NASA e quelle delegate dalla Corte dei Conti sullo scandalo delle slot machine non collegate in rete all’Anagrafe Tributaria.
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“Chi è sicuro di essere sicuro?”, così introduce il suo intervento l’ex generale di brigata della GdF, Umberto Rapetto, nell’incontro con imprenditori organizzato da Gruppo Eurosystem Sistemarca srl. “In Italia si è smesso di parlare di cybercrime come se il fenomeno non esistesse. Manca un serio e articolato monitoraggio dei fenomeni emergenti ed anche di quelli consolidati. Quello che preoccupa è la totale assenza di parametri e di un metodo nella ricognizione e nella acquisizione dei dati per la successiva elaborazione, indispensabile per adottare le più idonee contromisure. Tra i tanti casi nel Veneto ne porto ad esempio due. La prima: un’azienda del trevigiano di oltre 50 dipendenti ed un altissimo livello di automazionen che ha visto il proprio sistema informatico paralizzato per alcuni giorni da un attacco DDOS (Ditributed Denial Of Service) che ha saturato le connessioni impedendo le comunicazioni con la clientela. La seconda: un’azienda nel basso Veneto, di prodotti e servizi, che ha visto pregiudicare l’esito di un’ambiziosa fornitura per un’inspiegabile fuga di notizie riguardante le pretese economiche nell’ambito della gara. In quest’ultimo caso si è poi scoperto che la falla era un Rat (Remote access trojan) che aveva rubato il controllo di uno smartphone di un funzionario commerciale. Qualcuno aveva così potuto leggere i prezzi di fornitura e praticare sconti di pochi centesimi sufficienti ad ottenere l’aggiudicazione. Il Veneto costituisce una preda ambita per i malintenzionati. Il patrimonio di idee e progetti, custodito nei sistemi informatici delle aziende venete, è potenziale bersaglio per chi intende guadagnare indebitamente un vantaggio competitivo”.
scenari “Abbiamo organizzato l’incontro di approfondimento, anche con Umberto Rapetto, perché mai quanto in questo periodo le aziende sono preoccupate del cybercrime. Solo nella giornata in cui è scoppiato il problema dell’open SSL nella nostra azienda sono arrivate diverse decine di mail di aziende preoccupate - spiega Gian Nello Piccoli, titolare del Gruppo Eurosystem Sistemarca srl - Siamo felici per l’esito dell’evento. Infatti, sono intervenute quasi una cinquantina di imprese del Triveneto. Un combinazione di aziende di produzione, di design e arredo, ed anche alcuni enti pubblici. Diverse sono le aziende che a un certo punto richiedono la nostra consulenza per una verifica sullo stato dei sistemi di sicurezza. Le richieste che ci vengono fatte sono indirizzate a verificare il livello di protezione della rete, della posta elettronica, come il funzionamento di antivirus, firewall e web filter. Per portare un esempio specifico posso ricordare che da un recente assessment ai sistemi di sicurezza di una nostra azienda cliente abbiamo riscontrato dei risultati che sono rappresentativi delle principali minacce esistenti oggi: l’azienda aveva subito, nel corso dei 30 giorni di analisi e senza rendersene conto, ben 4.060 eventi che hanno messo le applicazioni in una condizione di alto rsichio, 89 intrusioni esterne, 9 infiltrazioni di virus e ben 14.013 di bot, ossia malware che consentono a un aggressore esterno di assumere il controllo di un computer colpito. Oggigiorno si deve assolutamente essere coscienti della situazione non affatto rosea in cui ci troviamo: il gap tra il livello di protezione delle aziende e l’evoluzione delle nuove minacce è in
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continua crescita. I tempi di progettazione, approvvigionamento, configurazione e messa in esercizio finiscono spesso per arrivare fuori tempo massimo rispetto alla minaccia. Nel caso delle piccole e medie aziende, si deve definire da subito il livello di sicurezza che si intende raggiungere e valutare di conseguenza le soluzioni tecnologiche più adeguate. Con un atteggiamento sempre attento e proattivo rispetto alla formazione delle persone, dalle quali dipende ‘in primis’ la sicurezza di un’azienda”. A intervenire alla tavola rotonda, insieme a Umberto Rapetto e Attilio Cuccato, responsabile area tecnica di Gruppo Eurosystem Sistemarca srl, anche esperti di brand nazionali e internazionali di sicurezza tra cui Check Point Italia, leader nel Magic Quadrant Report 2013 di Gartner per la Mobile Data Protection, l’azienda italiana Libra ESVA da più anni sul podio nella classifica del prestigioso Virus Bullettin e Kpmg network internazionale di riferimento per servizi di Risk Consulting e IT Transformation. Durante l’evento il Gruppo Eurosystem Sistemarca srl ha sottolineato più volte come spesso le maggiori minacce ai sistemi di sicurezza aziendali derivino dal fatto che, anche le migliori tecnologie, non vengono correttamente gestite e aggiornate. Per questo a volte delle semplici attività preventive di manutenzione 66
e aggiornamento possono aiutare a evitare l’indebolimento del sistema di protezione di un’azienda. Affiancando alle tecnologie anche 3 fattori imprescindibili per mantenere alto il livello di sicurezza di un sistema come un’attenta gestione, la formazione delle persone e gli accertamenti per verificare eventuali falle e correzioni. In generale, in Italia gli attacchi informatici rispetto al 2011 sono aumentati di circa il 258%, si fanno strada fenomeni relativamente nuovi come hacktivismo (+22,5%) e spionaggio informatico/telematico (+131%). La crescita degli attacchi gravi è stata del 245%, tra il 2011 e il 2013. Il principale veicolo dell’attacco sono i social network (Report Clusit 2014). Partendo da questi dati Umberto Rapetto, ex generale di brigata della Guardia di Finanza e fondatore del GAT (Gruppo Anticrimine Tecnologico della GdF), ha presentato ad un pubblico di imprenditori lo scenario attuale italiano e, nello specifico, del Nordest produttivo. L’appuntamento si inserisce in un carnet di incontri di informazione e formazione destinati alle imprese relativamente a tematiche di grande attualità sempre nell’ambito dell’information technology.
@EUROSYSTEM.IT: DIALOGARE CON IT E ICT
scenari
Sicurezza e resilienza: un approccio olistico la migliore tecnologia risulterà poco efficace se non si porrà attenzione ad altri tre fattori che insieme ad essa aumenteranno il livello di resilienza del mio sistema di sicurezza: la GESTIONE, la FORMAZIONE e gli ACCERTAMENTI. ATTILIO CUCCATO redazione@logyn.it
Cosa c’entra la resilienza con l’IT? Se in fisica la resilienza è la capacità di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi e in ecologia quella di ritrovare l’equilibrio dopo uno shock esterno, in psicologia si parlerà di un più alto livello di resilienza quanto più positivamente l’individuo saprà riorganizzare la propria vita di fronte alle difficoltà. Una persona avrà una buona resilienza se si farà coinvolgere nelle attività e non abbandonerà facilmente quanto sta facendo, se si impegnerà e sarà pronta ai cambiamenti. La resilienza non è una caratteristica già presente in un individuo, essa presuppone comportamenti, pensieri e azioni che possono essere appresi da tutti. Nell’information e communication technology il termine “resilienza” viene tipicamente associato alla business continuity e al disaster recovery: l’obiettivo è avere alta affidabilità puntando al famoso paradigma dei five 9s (99,999% di disponibilità). La componente tecnologica è un elemento fondamentale per avere infrastrutture con alti livelli di resilienza anche se ad essa dovrò comunque affiancare attività di controllo, manutenzione e aggiornamento da parte degli specialisti. Diverso, a mio avviso, l’approccio per quanto riguarda la sicurezza ICT.
Come rendere un sistema di sicurezza resiliente… Firewall, antispam, antivirus multilivello, filtri per la navigazione internet e la posta elettronica, NAC, sistemi DLP e di gestione dei device abbondano spesso nelle nostre aziende. Tuttavia,
Per GESTIONE intendo, oltre che un controllo competente e attento ai limiti che ne derivano, vedi legge sulla Privacy e Statuto dei Lavoratori, anche lo stabilire politiche aziendali chiare per tutti. Stabilite le regole, dovrò formare e informare tutte le persone dell’azienda e allo stesso tempo concordare queste politiche con i consulenti esterni e gli outsourcer. FORMAZIONE e regole devono essere ben definite dalla direzione che ne dovrà periodicamente verificare l’attuazione. Quarto fattore gli ACCERTAMENTI, che dovranno essere periodicamente ripetuti attraverso azioni di vulnerability assessment, penetration test e social engineering, e che ci permetteranno di individuare le possibili falle e le correzioni necessarie, minimizzando così i rischi di intrusioni e le perdite di dati. In conclusione, resto personalmente convinto che saranno sempre e comunque le persone, con i loro comportamenti, le loro abitudini, la loro quotidianità, la loro adattabilità al cambiamento, a determinare significativamente la qualità della sicurezza. Diffondiamo il concetto di resilienza e sollecitiamo comportamenti resilienti da parte di tutte le nostre persone, non solo per ciò che riguarda l’IT. Se ci abituiamo alla riservatezza delle password e a bloccare il computer quando ci allontaniamo dalla postazione di lavoro, molto probabilmente saremo anche attenti alla chiusura delle finestre e delle porte dell’azienda quando usciamo. E se in una hall d’albergo stessimo leggendo una mail molto riservata sul nostro tablet, sono certo che faremmo sicuramente attenzione che alle nostre spalle non ci sia qualcuno a guardarla insieme a noi. Tailgating e shoulder surfing sono solo alcune delle tecniche comunemente usate dagli hacker non tecnologici, persone non necessariamente esperte di informatica... ma questa è un’altra storia.
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Green economy Un semino per coltivare la (ri)occupazione RICCARDO GIROTTO
scenari
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Esiste un’economia che persegue l’ambizioso obiettivo di smuovere lo stallo occupazionale del nostro Paese: è la green economy, che accende l’interesse verso nuovi mercati “sostenibili”, a cavallo della quale sono nate nuove aziende e figure professionali che offrono sbocchi operativi accattivanti. Convertire il modo di lavorare di un’azienda o di un lavoratore è più oneroso e impegnativo rispetto ad avviare una start up o formare ex novo professionisti. La situazione economica attuale obbliga però i Paesi sviluppati, ove la manodopera non può essere competitiva, se fine a se stessa, a ricercare nuove soluzioni per affrontare il mercato. Oltre alle iniziative imprenditoriali, risulta necessario spendere qualcosa in più in termini di tempo e denaro per riconvertire le vecchie attività e modificare gli skills di chi opera in percorsi produttivi obsoleti. La sopravvivenza delle aziende e il loro sviluppo passano da un maggior rispetto del territorio e dei vincoli che il legislatore impone. Queste esigenze hanno partorito nuove figure professionali che pian piano sono diventate ricercatissime. Gli head hunter notano infatti un interesse crescente per biotecnologi, amministratori del territorio, legali esperti di green law, paesaggisti, tour operator specializzati nei viaggi sostenibili ecc. Tutte queste posizioni potranno essere ricoperte da giovani professionisti formati ad hoc, ma anche da personale che pensa a riciclarsi tramite precipuo percorso ri-formativo. La green economy, quindi, non fa bene solo all’ambiente, ma anche all’occupazione. È indubbio infatti che la
soluzione al problema occupazionale passi per 2 tipologie di interventi, da avviarsi congiuntamente: la creazione delle condizioni tali perché le imprese possano lavorare e quindi assumere; la previsione di specifiche agevolazioni finalizzate ad alleggerire il costo del lavoro. Se la prima condizione trova sicuramente conforto - leggi e pensiero sostenibile spingono la tendenza ambientalista - le riduzioni del costo del lavoro si sono arenate nel pensiero del legislatore senza trovare traduzione operativa. Tale comportamento obbliga le aziende a ricercare i diversi incentivi polverizzati in ambito territoriale - soprattutto le Regioni si dimostrano sensibili al tema - oltre a sfruttare le agevolazioni vigenti per le assunzioni comuni applicabili a tutti i lavoratori, indipendentemente dal settore di appartenenza. A tal proposito segnaliamo che la Regione Veneto con DGR 875 del 4 giugno 2013 ha finanziato 4 specifici progetti di mobilità in collaborazione con alcuni istituti scolastici, finalizzati all’avviamento di tirocini della durata di 3 mesi legati ad attività di green economy, sostenibilità e turismo culturale. Iniziative lodevoli, anche se isolate, che hanno permesso la definizione di 5 contratti oltre confine per altrettanti giovani connazionali.
Molto spesso le persone che si avvicinano ai settori green sono proprio i giovani che, oltre a rappresentare un’ampia fetta dei disoccupati del nostro Paese, conservano ancora il tempo utile per completare le proprie competenze. Come impiegare quindi questi lavoratori agevolandone l’ingresso pur in assenza di interventi mirati? L’attenzione deve necessariamente spostarsi sui contratti agevolati in genere. Sarà possibile inserire nella green economy giovani tramite lo stage o tramite contratti di apprendistato o con le nuove attenzioni rivolte dal Job act al contratto a tempo determinato. Qualora l’azienda interessata dovesse rientrare nel concetto di start-up, qualificazione possibile anche nei settori sostenibili, fruirebbe di specifiche agevolazioni legate al mondo dell’occupazione. Volendo tirare le somme, possiamo affermare che il verde continua a rappresentare la speranza, anche con riferimento alla risoluzione del cronico problema del lavoro. Un cenno concreto da parte del legislatore conferirebbe infine linfa al pensare positivo, permettendo al verde dell’economia di mutare...da speranza a certezza. 69
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Energia verde I vantaggi del fotovoltaico per privati e imprese ELENA GIOCO - RUGGERO PAOLO ORTICA
info@studioassociatopiana.it
Il fotovoltaico continua ad essere appetibile, nonostante la riduzione degli incentivi statali, per le notevoli possibilità economiche derivanti dalle detrazioni fiscali e la salvaguardia ambientale che garantisce anche in prospettiva futura. Di seguito qualche interessante informazione che potrà esser utile per un approccio all’investimento, sia da parte dei privati che da parte delle imprese. Tipologie d’impianti Gli impianti fotovoltaici si dividono in tre tipologie: 1. impianti fotovoltaici, a loro volta distinti fra a) impianti fotovoltaici “su edifici” e b) “altri impianti fotovoltaici”, ovvero tutti gli impianti fotovoltaici che non ricadono nella precedente tipologia, inclusi gli impianti a terra; 2. impianti fotovoltaici integrati con caratteristiche innovative, ovvero impianti di potenza non inferiore a 1 kW e non superiore a 5 MW che utilizzino moduli non convenzionali e componenti speciali, sviluppati specificatamente per integrarsi e sostituire elementi architettonici di edifici; 3. impianti fotovoltaici a concentrazione, ovvero impianti di potenza non inferiore a 1 kW e non superiore a 5 MW con fattore di concentrazione, inteso come valore minimo fra il fattore di concentrazione geometrico e quello energetico, non inferiore a tre “soli”. Incentivi GSE e beneficiari Il meccanismo d’incentivazione dedicato agli impianti solari fotovoltaici 70
si chiama Conto Energia che, nella sostanza, remunera con una tariffa omnicomprensiva la quota di energia netta immessa in rete e con una tariffa premio la quota di energia netta consumata in sito. Possono beneficiare del Conto Energia le persone fisiche, le persone giuridiche, i soggetti pubblici, gli enti non commerciali e i condomini di unità abitative e/o di edifici.
Iva
Detrazioni fiscali
L’Agenzia delle Entrate con circolare interamente dedicata agli impianti fotovoltaici ha fatto il punto sul trattamento di tali interventi sia sul piano fiscale che catastale. In primo luogo viene delineata la distinzione fra impianti qualificabili come beni mobili e beni immobili ed il relativo trattamento che ne deriva in termini di imposte dirette, Iva e registro. Nello specifico si considerano beni immobili quando costituiscono una centrale di produzione di energia elettrica che può essere autonomamente censita nella categoria catastale D/1 “opifici” oppure D/10 “fabbricati per funzioni produttive connesse ad attività agricole”, nel caso in cui abbiano i requisiti di ruralità. Gli impianti fotovoltaici sono inoltre considerati immobili quando sono posizionati sulle pareti di un immobile o su
È riservata una detrazione Irpef, come per le ristrutturazioni edilizie, all’installazione del fotovoltaico domestico, cioè posto al servizio dell’abitazione e comunque fino ad un massimo di 20 kW di potenza. Il fotovoltaico rientra, dunque, tra gli interventi detraibili al 50%. E sarà così fino a fine 2014, data oltre la quale la detrazione non scomparirà, ma avrà decurtazioni progressive. PERIODO
DETRAZIONE
FINO AL 31.12.2014
50%
FINO AL 31.12.2015
40%
DAL 2016 IN POI
36%
Oltre alla possibilità di detrarre la metà del costo dell’impianto ai fini Irpef, ricordiamo che vi è un altro beneficio fiscale non indifferente per le famiglie e per ogni altro utilizzatore finale: l’IVA al 10% anziché al 22%. Le novità della Circolare 36/E del 19/12/2013
un tetto e per essi sussiste l’obbligo della dichiarazione di variazione catastale. A questo proposito, il documento precisa che la dichiarazione di variazione catastale è necessaria quando l’impianto fotovoltaico integrato su un immobile ne incrementa il valore capitale (o la redditività ordinaria) di almeno il 15%. In questo caso, infatti, l’impianto non è accatastato autonomamente, ma aumenta la rendita catastale dell’immobile principale, senza mutarne la classificazione. Sono, invece, classificabili come beni mobili quando non è necessario dichiararli al Catasto né autonomamente né come variazione dell’unità immobiliare di cui fanno parte perché rispettano specifici requisiti in termini di potenza e dimensioni. Resta inteso, pertanto, che una volta definita l’appartenenza di un impianto fotovoltaico alla categoria di bene immobile o di bene mobile, diverso sarà il trattamento fiscale da applicare, sia ai fini dell’assoggettamento all’IMU sia, nel caso di impianti posseduti da soggetti titolari di reddito di impresa o lavoro autonomo, ai fini dell’ammortamento: l’Agenzia delle Entrate ha infatti definito nella medesima circolare l’aliquota di ammortamento del 4% da applicare agli impianti classificabili come beni immobili, in luogo dell’aliquota del 9% riservata agli impianti assimilabili a beni mobili. Altro chiarimento riguarda il trattamento fiscale di tariffa premio e tariffa omnicomprensiva. La tariffa premio, assoggettata a ritenuta alla fonte del 4%, risulta esclusa dal campo di applicazione dell’Iva in quanto assimilabile ad un contributo a fondo perduto mentre è imponibile ai fini delle imposte dirette e dell’Irap se percepita nell’ambito di un’attività commerciale. La tariffa omnicomprensiva, trattandosi di una sorta di corrispettivo erogato dal GSE a fronte dell’immissione di energia in rete è rilevante sia ai fini delle imposte dirette e Irap che dell’Iva.
scenari
Finanziamenti per investimenti in fotovoltaico Ad avere la meglio sugli altri competitor sono le banche, le quali con sistemi di finanziamento personali e agevolazioni riescono a tagliarsi una grande fetta di mercato e posizionarsi come i migliori offerenti per coloro che vogliono investire nel settore del fotovoltaico. Tra le varie banche ci permettiamo di segnalare le ottime condizioni di Banca Etica; Internet offre comunque sempre un buon aggiornamento delle condizioni di finanziamento da parte dei vari istituti di credito.
ERRATA CORRIGE In relazione all’articolo comparso su Logyn n.05 (febbraio 2014) dal titolo “Scambio di partecipazioni mediante conferimento” riportiamo la seguente rettifica relativa alla rappresentazione grafica. All’interno del grafico “Situazione dopo il conferimento” vengono erroneamente collocate la SOCIETÀ A nel riquadro in alto e la SOCIETÀ B in quello in basso. La corretta rappresentazione prevede, al contrario, che nel riquadro in alto venga collocata la SOCIETÀ B e in quello in basso la SOCIETÀ A come da spiegazione interna all’articolo sullo scambio di partecipazioni mediante conferimento secondo cui “questo consiste in generale nell’operazione per la quale i soci di una società A conferiscono le proprie partecipazioni in altra società B la quale, per effetto di tale conferimento, aumenta il proprio capitale, ed i soci conferenti sostituiscono le partecipazioni in A con quelle in B”. 71
MAGGIO 2014
Reati informatici commessi da collaboratori Come tutelare azienda e lavoratori LUCIA BRESSAN
lbressan@studio-bressan.com
L’abuso di strumenti informatici sul lavoro comporta rischi di reato. Per questo le società devono effettuare regolari controlli tecnici e giuridici, preoccupandosi al contempo di salvaguardare i diritti dei lavoratori tutelandone la privacy e l’attività lavorativa. Alle società, in caso di reati da parte dei lavoratori, può essere riconosciuta l’esimente della responsabilità amministrativa dimostrando di aver adottato le misure penal-preventive necessarie. Computer crimes e D.Lgs. n. 231/2001. Il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 ha introdotto la responsabilità da reato gravante sulle persone giuridiche, società ed associazioni anche prive di personalità giuridica (genericamente “ente”) per quei reati commessi da parte delle persone fisiche (apicali o sottoposti) che agiscono per conto dell’ente medesimo, nello svolgimento dell’attività imprenditoriale. L’imputazione del reato all’ente avviene in tutte le ipotesi in cui i) vi sia commissione consapevole del fatto criminoso da parte di sottoposti ovvero ii) la pacifica tolleranza. In alternativa l’imputazione iii) poggia sulla mancata o inidonea attuazione di un sistema di vigilanza e controllo preventivo da parte dell’ente rispetto alle condotte dei singoli, teso a prevenire la commissione dei reati. Il decreto esclude la colpevolezza, e quindi la responsabilità dell’ente, solo nell’ipotesi in cui la società si sia dotata di un modello contenente regole di comportamento in funzione preventiva 72
del rischio reato (MOG – Modello Organizzativo, Gestionale e di Controllo per la prevenzione dei reati). Il tema è diventato particolarmente spinoso nel 2008 con l’introduzione dei reatipresupposto, riconducibili alla generica definizione di reati informatici (computer crimes). Cosa si intende per reati informatici, di cui al D.Lgs. n. 231/2001? I reati informatici si concretizzano in condotte finalizzate, i) al danneggiamento di hardware, software o di dati in generale, ii) alla detenzione e alla diffusione di software e/o di attrezzature informatiche atte a consentire la commissione dei reati di cui alla lettera precedente, ed infine, iii) alla violazione dell’integrità dei documenti informatici e della loro gestione attraverso la falsificazione di firma digitale elettronica. Casi di reati informatici sono, ad esempio, la falsità in un documento informatico pubblico o avente efficacia probatoria, l’accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, la detenzione e diffusione
abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici, la diffusione di apparecchiature, dispositivi o programmi informatici diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico o telematico, la intercettazione, l’impedimento o la interruzione illecita di comunicazioni informatiche o telematiche, l’installazione di apparecchiature atte ad intercettare, impedire o interrompere comunicazioni informatiche o telematiche, il danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici utilizzati dallo Stato e da altro ente pubblico o comunque di pubblica utilità, il danneggiamento di sistemi informatici o telematici, il danneggiamento di sistemi informatici o telematici di pubblica utilità e la frode informatica del certificatore di firma elettronica. Come prevenire tali reati? Il problema dei controlli. Il tema interessa tutte le realtà economiche, indipendentemente dalla dimensione e dalla tipologia di attività, perché la prevenzione dei reati informatici
è particolarmente difficile e complessa. L’attività, infatti, implica l’adozione di misure di controllo e di prevenzione che finiscono per toccare i diritti delle persone in generale, e quindi anche dei lavoratori dipendenti o collaboratori. In particolare sono chiamati in causa il diritto alla privacy, al corretto trattamento dei dati dei lavoratori ed il diritto di quest’ultimi di non subire forme di controllo inopportune ed abusive da parte del datore di lavoro. Quali sono i limiti definiti dalla legge in tema di controllo sui lavoratori? In materia di controlli a distanza e di navigazione in Internet non esiste una disciplina specifica che circoscriva i poteri di controllo in capo ai datori di lavoro. L’unica disciplina, contenuta nel Codice della Privacy e nello Statuto dei Lavoratori, riguarda gli impianti audiovisivi ed il divieto di indagini sulle opinioni dei lavoratori. In questo contesto, quindi, fungono da guida i provvedimenti mirati e le specifiche pronunce del Garante per la protezione dei dati personali - in particolare con le “Linee guida per posta elettronica e internet” - e le pronunce giurisprudenziali sui “controlli difensivi” che in varie sentenze ne hanno dichiarato la legittimità, anche in assenza di accordi sindacali, laddove tali controlli, anche a distanza, siano realizzati per accertare condotte illecite di lavoratori, a condizione che non comportino la raccolta di informazioni sull’attività lavorativa.
facilmente all’utente. Tali controlli, finalizzati in primis a tutelare l’azienda ed il suo patrimonio, potrebbero ledere primari diritti degli utenti.
scenari
Conclusione La società, con l’introduzione dei reati informatici, quali nuovi reati-presupposto di cui al D.Lgs. n. 231/2001, sarà ritenuta responsabile - e quindi pesantemente sanzionata - nell’ipotesi in cui non abbia adottato le più opportune misure penal-preventive, e quindi è chiamata ad effettuare severi controlli finalizzati a prevenire atti penalmente rilevanti. Prima di attivare qualunque forma di controllo, tuttavia, è necessario conoscere se tali controlli siano legittimi ed eseguibili e verificare i limiti ed i vincoli posti dalla normativa (privacy e statuto dei lavori) e dagli orientamenti giurisprudenziali più recenti.
Quali sono i controlli “a rischio”? Sovente, per evitare il verificarsi di condotte illecite e la commissione di reati informatici, la società sistematicamente controlla tutte le attività svolte dagli utenti, impiega software di monitoraggio del traffico telematico, gli accessi a Internet, i tempi di collegamento, i siti web visitati, i messaggi di posta elettronica ricevuti e inviati, i tempi di lavorazione sui file, registra le attività di modifica, creazione, cancellazione e trasmissione di documenti, il tutto risalendo 73
MAGGIO 2014
Convivenza more uxorio Il diritto si adegua alla morale sociale ANDREA MANUEL
Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sez. prima 22.01.2014 n. 1277) compie un significativo riconoscimento delle coppie di fatto e, in particolare, sottolinea la scarsa sensibilità che i Giudici del Merito dei precedenti gradi del giudizio avevano avuto rispetto al crescente riconoscimento attribuito alle coppie di fatto e, in generale, alle famiglie in senso ampio, non solo a quella fondata sul matrimonio.
La vicenda giudiziaria, portata all’attenzione della Corte di Cassazione, ha inizio quando, terminata una relazione di convivenza durata circa 5 anni (dalla quale era anche nato un figlio) un uomo aveva richiesto alla convivente la restituzione di circa € 120.000,00 depositati mediante versamenti periodici sul conto corrente della donna. Per legittimare la domanda il ricorrente aveva affermato di aver depositato il denaro al solo scopo di far amministrare i risparmi alla compagna e quindi le somme dovevano essere restituite per estinzione del mandato o, in alternativa, per gestione degli affari altrui, o per arricchimento senza causa. La compagna sosteneva, invece, che quelle somme erano state versate in adempimento di un’obbligazione naturale (secondo il Codice Civile “non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali...”. In tal caso la Legge “non accorda azione ma esclude la ripetizione”. Trattasi della c.d. “soluti 74
retentio”) nell’ambito della convivenza more uxorio e relativa, in particolare, alla creazione di una disponibilità finanziaria anche per compensare la perdita del reddito a cui la stessa aveva rinunciato per seguire il compagno. È interessante notare come nei precedenti gradi del giudizio (prima il Tribunale e poi anche la Corte d’Appello di Torino) avevano dato ragione al compagno. La donna, pertanto, era stata condannata a restituire le somme percepite durante la convivenza e i giudici avevano affermato che il dovere di solidarietà e contribuzione risultava assolto solo per aver l’uomo provveduto a vitto, alloggio e mantenimento della compagna durante la convivenza. Non si poteva - poi - nemmeno parlare di una sorta di “indennizzo” per la rinuncia alla carriera (tale scelta non era stata suggerita o richiesta dal compagno) nè poteva affermarsi che le somme versate costituivano un’integrazione di quanto versato per il mantenimento durante la convivenza (i versamenti non avevano cadenza periodica). Tale decisione altro non era che la
“logica” conclusione nell’ipotesi in cui la convivenza more uxorio non venga considerata quale fonte di diritti o di doveri. Dopo due gradi di giudizio la vicenda approda in Cassazione e i giudici non solo ribaltano completamente la sentenza (dando ragione alla donna) ma anche (e questo è l’aspetto più interessante) sottolineano la scarsa sensibilità dei Giudici del Merito rispetto al crescente riconoscimento attribuito alle coppie di fatto e in generale alla famiglia in senso ampio, non solo a quella fondata sul matrimonio. Giova riportare un significativo passo della Corte di Cassazione: “non può omettersi di considerare come le unioni di fatto nelle quali alla presenza di significative analogie con la famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale, si associa l’assenza di una completa e specifica regolamentazione giuridica, cui solo l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, ovvero una legislazione frammentaria talora sopperiscono, costituiscono un terreno fecondo sul quale possono germogliare e svilupparsi quei doveri dettati dalla morale sociale, dalla cui inosservanza discende un giudizio di riprovazione ed al cui spontaneo adempimento consegue l’effetto della <soluti retentio>”. La Corte, nella motivazione della sentenza, compie un’ampia panoramica su come sia a livello nazionale che internazionale venga attribuito sempre maggior rilievo e tutela alle coppie di fatto: basta pensare all’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo in cui si parla di diritto alla vita famigliare con riferimento non solo alla famiglia fondata sul matrimonio. Nella fattispecie concreta, esaminata dalla Corte, i versamenti effettuati (che oggettivamente non avevano specifica causale) vengono considerati, dalla Cassazione, alla stregua
scenari di “adempimenti che la coscienza sociale ritiene doverosi nell’ambito di un consolidato rapporto affettivo” che include forme di collaborazione e di assistenza morale e materiale, per questo motivo “infelice e mortificante” si legge - testualmente - nella sentenza è il riferimento del Giudice d’appello al fatto che la contribuzione si esaurisca nella corrisponsione del vitto e alloggio da parte del compagno: unico titolare di reddito lavorativo della coppia. Come pure è irrilevante il fatto che la scelta di “avere anteposto l’amore alla carriera” sia da imputare a una decisione libera e consapevole della donna. In definitiva, pertanto, la Cassazione dimostra come il diritto non sia un qualcosa di immutabile ma che, invece, deve tener conto della coscienza sociale che ritiene, nell’ambito di un consolidato rapporto affettivo, doverosi, gli adempimenti tra i conviventi. E così, come si evolve la coscienza sociale e muta la percezione di taluni comportamenti, si evolve altresì l’interpretazione da parte della Giurisprudenza ed il diritto si adegua alla morale sociale. Studio Legale Nordio-Manuel
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CHECK POINT PRESENTA UN MODELLO RIVOLUZIONARIO DI SECURITY BASATO SULL’INTELLIGENZA COLLABORATIVA Costruita su tre livelli di sicurezza, è la nuova Software-defined Protection
Il business attuale è “trainato” da informazioni a flusso libero: i dati di un’azienda viaggiano attraverso cloud e dispositivi mobili trasmettendo idee e messaggi alle reti sociali. BYOD, mobilità e cloud computing hanno rivoluzionato gli statici ambienti dell’IT, ingenerando la necessità di reti e infrastrutture dinamiche. Ma se da un lato l’ambiente IT è cambiato in modo rapido, il panorama delle minacce si è modificato ancora più velocemente. Sofisticatezza e rapidità di questa evoluzione stanno crescendo in maniera esponenziale, scatenando spesso nuovi tipi di attacco, mescolando minacce note con sconosciute, sfruttando le vulnerabilità “zero-day“ e utilizzando i malware nascosti all’interno di documenti, siti web, host e reti. In un mondo in cui infrastrutture e reti IT sono sempre più sofisticate, i confini non sono più ben definiti e le minacce si fanno ogni giorno più smart, occorre individuare il modo più idoneo per proteggere le aziende in questo scenario in continua evoluzione. Vi è un’ampia proliferazione di prodotti security point, tuttavia questi ultimi tendono ad essere reattivi e tattici più in natura che per le architetture. Le aziende di oggi necessitano di una infrastruttura unica che combini dispositivi di sicurezza di rete ad alte prestazioni con protezioni proattive real-time. Si è reso assolutamente necessario un nuovo paradigma che protegga le organizzazioni in modo proattivo. Per questo, una rivoluzionaria architettura di sicurezza è stata pensata da Check Point per proteggere le organizzazioni in uno scenario IT e delle minacce in continua evoluzione: si chiama Software-defined Protection (SDP) e offre oggi una moderna security in grado di proteggere efficacemente anche verso le minacce di domani, grazie ad un modello modulare, agile, e soprattutto sicuro.
La protezione Software-defined La protezione software-defined è una nuova architettura e metodologia di sicurezza pragmatica, basata su un’infrastruttura modulare, agile e soprattutto sicura. Tale architettura deve proteggere le organizzazioni di tutte le dimensioni e in qualsiasi luogo mettendo in sicurezza le reti di uffici e filiali, nonché roaming per smartphone, dispositivi mobili o ambienti cloud. Le protezioni dovrebbero adattarsi automaticamente al panorama delle minacce senza la necessità per gli amministratori di sicurezza di provvedere manualmente a inoltrare migliaia di avvisi e raccomandazioni. Queste protezioni devono integrarsi perfettamente nel più ampio ambiente IT e l’architettura deve fornire un assetto difensivo, che sfrutti in modo collaborativo entrambe le fonti intelligenti, interne ed esterne. La Software Defined Protection (SDP) suddivide l’architettura dell’infrastruttura di sicurezza in tre strati interconnessi: •
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Enforcement Layer - basato su enforcement point di sicurezza fisici, virtuali e host-based - che segmenta la rete realizzando al contempo protezione logica in ambienti particolarmente problematici. Control Layer, che analizza le diverse fonti di informazioni sulle minacce e genera protezioni e policy che devono essere eseguite dall’Enforcement Layer. Management Layer, che orchestra l’infrastruttura e porta il più alto grado di agilità all’intera architettura.
Questo framework distingue il control layer dall’enforcement layer, permettendo di realizzare punti di applicazione solidi ed assolutamente affidabili che ricevono in tempo reale aggiornamenti sulle protezioni da un control layer basato su software. L’architettura SDP trasforma la threat intelligence in protezioni immediate, e viene gestita da una struttura di gestione aperta e modulare. Se il panorama delle minacce è diventato molto più sofisticato, mentre gli ambienti IT enterprise sono cresciuti in complessità, le aziende sono alla ricerca di indicazioni su come possono diventare più sicure, ma in modo gestibile e semplice da usare. SDP rappresenta già oggi l’architettura di sicurezza per le minacce di domani: è semplice, flessibile e può trasformare la threat intelligence in protezioni in real-time.
Un solido modello di progettazione della sicurezza La nuova Software-defined Protection di Check Point rappresenta un solido modello di progettazione della sicurezza, che si rivela particolarmente pratico e concreto: gli attacchi di sicurezza sono cambiati in modo radicale nel corso del tempo, e SDP rappresenta un deciso passo avanti verso la protezione di organizzazioni di tutte le dimensioni con un approccio pragmatico, modulare e sicuro. Offrendo un’architettura di security basata su funzioni, minacce e necessità, il modello architetturale Software-defined Protection di Check Point può aiutare l’IT a ridisegnare la propria rete di sicurezza in modo migliore, per adattarsi sia all’attuale ambiente IT privo di confini che al panorama dinamico delle minacce. Sono numerosi i prodotti puntuali di sicurezza che sono per loro natura reattivi e tattici, piuttosto che orientati a un’architettura. La Software-defined Protection è stata progettata per rispondere a questa necessità e per dare alle organizzazioni un’infrastruttura di sicurezza agile e sicura. Combinando le caratteristiche “high performance” di Enforcement Layer con il Control Layer dinamico, fast-evolving e software-based, l’architettura SDP non solo offre resilienza operativa, ma anche prevenzione proattiva degli incidenti, in un panorama di minacce in continua trasformazione.
Progettata con un occhio al futuro, l’architettura SDP supporta sia elementi tradizionali, quali sicurezza di rete e requisiti di policy per il controllo degli accessi, sia la prevenzione delle minacce necessaria alle aziende moderne dotate di nuove tecnologie come mobile computing e reti software-defined (SDN). Il report completo sull’architettura di sicurezza Software-defined Protection di Check Point è disponibile qui:
www.checkpoint.com/sdp/check_point_spd_white_paper.pdf
Per ulteriori informazioni: www.checkpoint.com www.opsec.com
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LAVORARE CON IT E ICT Intervista al reparto Ricerca e Ingegnerizzazione La ricerca richiede investimenti molto rilevanti, soprattutto in termini di risorse umane, e porta benefici solo nel lungo termine. Eppure è indispensabile per un’azienda che si propone di realizzare un software ERP di qualità. Con un investimento del 7% del fatturato aziendale annuo e diversi fronti di lavoro aperti, Gruppo Eurosystem Sistemarca presenta la divisione Ricerca e Ingegnerizzazione. Dove nasce l’intuizione, quella giusta, destinata a trasformarsi in vera innovazione.
Perché è importante in un’azienda di produzione software avere un reparto di Ricerca e Ingegnerizzazione? A.Tronchin: «Di solito le aziende di produzione software che realizzano soluzioni su commessa investono un po’ nell’ingegnerizzazione del prodotto, ma molto raramente fanno vera ricerca. Si avvalgono di volta in volta di tecnologie adatte a soddisfare un requisito specifico e per una breve durata. In Eurosystem sviluppiamo un software gestionale che deve essere in grado di accompagnare e supportare le imprese per decenni, evolversi nel tempo ed essere utilizzato in realtà con mercati e modelli produttivi anche molto diversi tra loro. Per arrivare a tale livello di solidità occorrono risorse umane preparate, abituate a “concepire” soluzioni e a suggerire prospettive ambiziose. E lunghi periodi di studio durante i quali non si raggiungono risultati tangibili o in grado di generare un profitto diretto. Per le aziende che fanno ricerca in modo sistematico si tratta di investire continuamente scommettendo su idee e persone. E non tutte ci riescono». Di che cosa si occupa esattamente il reparto? A. Voltarel: «Cerchiamo di risolvere problematiche conosciute o inedite legate al software gestionale Freeway® Skyline immaginando soluzioni e mettendo a punto componenti di supporto alla divisione Sviluppo per la realizzazione del prodotto finale. Chi si dedica alla ricerca ha come obiettivo costruire prototipi; mentre chi si occupa di ingegnerizzazione deve 78
predisporre le strutture di base affinchè quei prototipi possano trasformarsi, in fase di sviluppo, in prodotti commercializzabili e riutilizzabili in vari casi d’uso dagli sviluppatori. In fase di ricerca, inoltre, alla valutazione di sistemi, tecnologie o pattern da ripercorrere per arrivare ad un nuovo prototipo, affianchiamo lo studio delle metodologie da adottare per l’analisi e la progettazione del software». Da dove si inizia a fare ricerca? A. Voltarel: «Tutto ha inizio da richieste dei clienti. Indicazioni che a prima vista possono sembrare banali ma che in realtà nascondono questioni ben più complesse.» D. Tosato: «Altre volte si tratta di avere un’intuizione su una situazione o su un problema, pratico o teorico, e di scommetterci su provando a ipotizzare nuovi scenari applicativi per il futuro. Uno dei prinicipi più importanti alla base della ricerca e che la nutre è, infatti, il trasferimento della conoscenza: di fatto si prende un modello che funziona in un settore scientifico e si prova ad adottarlo in un altro ambito per vedere se può essere altrettanto utile. Portando avanti un’attività di ricerca applicata, possiamo affermare di non inventare nulla ma di sfruttare le idee e le tecnologie più all’avanguardia. È la parte più creativa e divertente del nostro lavoro ma richiede un buon bagaglio di conoscenze e una forma mentis preparata ad affrontare le problematiche con il giusto grado di apertura».
conosciamoci STILE LIBERO
Che differenza c’è tra la ricerca universitaria e quella aziendale? D. Tosato: «La differenza principale sta nell’obiettivo finale. La ricerca in azienda rappresenta solo la prima fase di un affascinante e articolato processo che genera un prodotto testato e commercializzabile; quella universitaria arriva nella maggior parte dei casi alla presentazione di prototipi funzionali. Di conseguenza, chi lavora nel primo ambito ha a disposizione tempi di prototipazione molto più brevi e deve rispettare vincoli maggiori di chi lavora nel secondo. Eppure c’è un aspetto profondamente gratificante per chi opera come ricercatore in un’azienda di tecnologie, ed è la possibilità di assistere a tutto il processo di produzione e di vedere la propria idea trasformarsi in una soluzione funzionante che migliora la vita e il lavoro delle persone». Come si passa da questa intuizione al prodotto e sottoprodotto ingegnerizzato? A. Voltarel: «Pensando, ad esempio, a come abbiamo realizzato SENSE (nome in codice del nuovo modulo integrato in Freeway® Skyline per la ricerca intelligente), siamo partiti
Gli intervistati: da sinistra, Alberto Tronchin e Alessio Voltarel, team Ricerca e Ingegnerizzazione; Stefano Bacci, responsabile divisione Ricerca, Ingegnerizzazione e Sviluppo; Diego Tosato, team Ricerca e Ingegnerizzazione. 79
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dall’idea di investire sul fronte User eXperience (UX) con lo scopo di migliorare l’interfaccia utente e l’interazione utente-sistema per arrivare a scoprire che le conoscenze e le tecnologie (machine learning, in particolare) si adattavano perfettamente anche al campo dei motori di ricerca». D. Tosato: «Il punto di partenza è una lunga fase di studio. Quando si iniziano grandi e ambiziosi progetti è necessario predisporre un tempo per ricercare le fonti, approfondirle, confrontarsi sulle varie direzioni per mettere in comune le conoscenze emerse. Al termine di questa fase si realizza un prototipo e, quando ci si accorge di aver ottenuto quello che si cercava, inizia il lavoro di ingegnerizzazione. Un prototipo, infatti, altro non è che una sorta di “prova giocattolo” a dimostrazione del fatto che l’intuizione iniziale del ricercatore era corretta. Oltre a rappresentare il primo momento in cui la Direzione verifica concretamente se tale intuizione si sposi con l’obiettivo commerciale, segnando così il confine tra il lavoro di ricerca e quello di ingegnerizzazione». E nella fase di ingegnerizzazione cosa succede? A. Voltarel: «Subentrano le valutazioni legate alla scelta delle architetture del software, delle svariate tecnologie da utilizzare nel dettaglio come librerie, framework, ambienti, e si comincia a riorganizzare tutte le componenti per costruire un edificio che si riveli solido nel tempo ma anche in grado di crescere e arricchirsi. L’obiettivo finale è un software che dovrà essere sufficientemente generalista da potersi adattare alle diverse declinazioni di problematiche che sono le stesse ma che, a seconda delle aziende, vanno risolte in modo diverso. È in questo momento che si decide non solo quali tecnologie utilizzare ma anche come mantenerle e eventualmente sostituirle». Le tecnologie: come le cercate e come le scegliete? Quali aspetti dovete tenere presente? A. Tronchin: «Le scegliamo dopo attento studio. Come le cerchiamo? Se non ci fosse internet saremmo spacciati! Potrebbe sembrare una battuta ma non lo è. La ricerca nasce dalla condivisione di idee e su internet si trovano articoli e software dimostrativi. Spesso, specialmente in ambito open source, non si ha la necessità di nascondere o difendere le proprie intuizioni, perché la condizione alla base dell’evoluzione stessa è la condivisione della conoscenza. Non tutto però è già pronto all’uso. Servono fantasia e intuizione. Ritornando, ad esempio, a SENSE, in quel caso nella fase di ricerca un passo determinante è stato l’individuazione di una pubblicazione scientifica nel web che ci ha suggerito un modo originale per affrontare il progetto: un’idea di pubblico dominio ma che bisognava saper cogliere e contestualizzare». 80
S. Bacci: «Tra gli aspetti più importanti che dobbiamo tenere presenti nella scelta c’è senz’altro quello dell’integrazione tra tecnologie che possono essere molto diverse tra loro, oltre che appartenenti a periodi storici distanti. Il compito del team di Ingegnerizzazione a questo proposito è proprio quello di plasmare tali tecnologie e uniformarle al fine di avere un prodotto coerente». Tecnologia standard e open source: vengono utilizzate entrambe? Quali i vantaggi e i limiti? A. Tronchin: «Abbiamo iniziato a far riferimento al mondo open source all’incirca nel 2001, quando, con l’avvento di Microsoft. NET, sono comparsi framework e librerie che potevano essere sfruttate anche nello sviluppo dei nostri prodotti. Oggi, laddove possiamo, sposiamo le soluzioni open source soprattutto per due motivi: sono sinonimo di qualità dato che l’unico motivo per cui una tecnologia di questo tipo si afferma è che la comunità informatica la apprezza e premia perché funziona meglio; sono caratterizzate da sorgenti aperti per cui se si ha bisogno di apportare correzioni o introdure estensioni, compatibilmente con il licensing si può operare direttamente sul codice. Infine, il fatto che siano tecnologie gratuite non guasta. Esiste purtroppo poca documentazione ufficiale perché si presuppone che chi ha bisogno di usare queste tecnologie abbia delle competenze tali da confrontarsi con il codice, leggerlo e capirlo. A differenza, con l’utilizzo di soluzioni di brand internazionali, si ha garanzia di poter ricevere supporto e assistenza ma a volte le politiche di evoluzione di questi prodotti non si sposano con la roadmap del proprio». Dove sta andando la ricerca di Eurosystem? S. Bacci: «Attualmente abbiamo aperti diversi fronti di ricerca e ingegnerizzazione. Possiamo dire di lavorare su tanti ambiti, su alcuni di questi lo facciamo per essere competitivi rispetto alle richieste di mercato, in altri ci imbattiamo scommettendo unicamente sulle nostre idee e con l’ambizione di essere precursori rispetto alle esigenze dello stesso. Tra questi sicuramente gli ambiti della User eXperience Computazionale. Stiamo iniziando a muovere primi timidi passi su tematiche di automazione dei processi decisionali (ADM), della pianificazione e dell’assegnamento di risorse tramite tecniche di ottimizzazione allo stato dell’arte. In questo ramo della ricerca in questo momento ci troviamo davvero ai primi chiarori dell’alba rispetto all’individuazione di soluzioni possibili, ma il nostro reparto esiste proprio per questo: per ricercare, analizzare, studiare nuove possibili strade che qualche volta si dimostrano dei vicoli ciechi, altre volte danno quel valore aggiunto al nostro prodotto che ci permette di essere dei pionieri nelle proposte ai clienti e permette a quest’ultimi di migliorare i propri processi, basandosi proprio su queste nuove tecnologie».
Nel corso di questi difficili anni Unindustria Treviso è stata protagonista di una grande trasformazione che ha seguito due grandi direttici: la ricerca di una sempre maggior capacità di comprensione delle esigenze espresse dalle imprese e la messa a punto di una nuova generazione di servizi. Per sottolineare questo impegno nasce il marchio “Unindustria c’è”. Non si tratta di una semplice campagna di comunicazione, ma di un impegno morale e operativo che l’Associazione assume nei confronti di ciascuna impresa associata. “Unindustria c’è” è anche lo slogan e il segno grafico attraverso il quale verranno identificate le iniziative di promozione e di informazione riferite ai nuovi servizi. In un momento storico, in un mercato e in una società segnati dalle incertezze, come anche dalle opportunità, Unindustria c’è! Gli imprenditori trevigiani ci possono contare.
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medicina e lavoro STILE LIBERO
AGRICOLTURA, TRA UOMO E AMBIENTE In collaborazione con il Centro di Medicina LUCIANO SALVADORI
Il lavoro agricolo, soprattutto dal punto di vista infortunistico, ma anche per alcune patologie correlate alla professione, è considerato tra i lavori più rischiosi per quanto riguarda la sicurezza degli operatori. Tuttavia, ancor oggi la salute dei lavoratori agricoli non è sempre tutelata in modo soddisfacente.
In agricoltura è difficilmente praticabile il tradizionale approccio dell’igiene industriale alla valutazione dei rischi a cui sono esposti i lavoratori. Questo fattore è dovuto soprattutto alla caratteristica di forte variabilità del settore. Inoltre, la maggior parte della forza lavoro agricola è rappresentata per lo più da lavoratori autonomi e dai loro collaboratori familiari o da lavoratori stagionali, e questi sono destinatari delle misure di tutela solo parzialmente e con normative non del tutto chiare (Dlgs 81/08 art.21, Dlgs 106/09, DM 27/3/2013) come purtroppo spesso succede nel nostro Paese.
Il lavoro agricolo, inoltre, ha una sua peculiarità: le attività svolte sono indirizzate alla produzione di alimenti attraverso l’uso di risorse ambientali. La tutela della sicurezza dei lavoratori diventa quindi, a maggior ragione, un dovere politico, etico e sociale, oltre che professionale in carico ai soggetti responsabili della prevenzione nei luoghi di lavoro. Quali sono i fattori di rischio per la salute dei lavoratori del comparto? 83
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Gli infortuni, spesso anche mortali, rappresentano la maggiore preoccupazione. I rischi per la salute sono costituiti da: rischio chimico che interessa gli antiparassitari, i fertilizzanti, gli oli e i carburanti per le macchine, gli antibiotici addizionati ai mangimi, i gas di origine biologica. Questi prodotti possono causare un’intossicazione acuta oppure degli effetti nocivi cronici e per alcuni è sospettato anche un effetto cancerogeno; rischio rumore perché quando è superiore a 85 dB(A) induce sordità e anche disturbi extrauditivi come ipertensione e tensione psichica; rischio vibrazioni meccaniche trasmesse al sistema mano-braccio o al corpo intero da motoseghe, motocoltivatori, decespugliatori, trattori, possono comportare disturbi osteoarticolari, muscolari e vascolari; rischio movimentazione manuale carichi; rischio movimenti ripetitivi degli arti superiori; rischio biologico, in relazione o meno a contatti con animali, di contrarre una malattia infettiva come tetano, borelliosi (da zecche), brucellosi, dermatomicosi, leptospirosi, tubercolosi, ma anche allergie da allergeni animali o da piante, cereali o fieno essicati; rischio da condizioni climatiche sfavorevoli per caldo, freddo e umidità e da radiazioni solari ultraviolette che possono causare per un’esposizione cronica anche tumori cutanei.
Luciano Salvadori Medico del lavoro
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Attualmente si parla sempre di più di “sostenibilità” di un determinato processo o di un sistema, con il significato di “equilibrio fra il soddisfacimento delle esigenze presenti senza compromettere la possibilità per le future generazioni di sopperire alle proprie”. L’agricoltura ha il ruolo chiave in questo processo e un impatto determinante sull’ecosistema. Soprattutto nella viticoltura si è cercato di mantenere la sostenibilità di tutta la filiera intervenendo su diversi aspetti del lavoro, e in particolare sulla meccanizzazione delle varie operazioni richieste per la coltivazione ma anche sull’abbattimento del rischio chimico legato all’impiego di prodotti fitosanitari. La medicina del lavoro ha un ruolo importante in questo processo perchè si occupa degli aspetti della sicurezza e dell’igiene sui posti di lavoro, strettamente correlati alle problematiche ambientali. Ed è proprio qui che l’attività del medico del lavoro può dare un buon contributo a chi si occupa della salute pubblica e dell’ambiente. Un buon esempio di lavoro di collaborazione tra soggetti pubblici diversamente interessati al problema, ma con l’obiettivo comune di capire gli eventuali aspetti critici e trovarne la soluzione, è lo studio di monitoraggio biologico eseguito dal Dipartimento di Prevenzione dell’ULSS 7 di Pieve di Soligo/Conegliano assieme ai Comuni interessati alla viticoltura del Prosecco e all’Università di Padova. Lo scopo dello studio era di documentare una eventuale esposizione ad alcuni prodotti fitosanitari tra i residenti nelle zone confinanti con le aree viticole del prosecco di Conegliano, attraverso il dosaggio nelle urine di un prodotto del metabolismo dei fungicidi comunemente utilizzati nei vigneti. Lo studio ha evidenziato che sostanzialmente nei soggetti abitanti a ridosso dei vigneti non ci sono valori di etilentiourea superiori a quelli della popolazione generale non esposta e che solo nel 5% dei casi i valori sono leggermente superiori al valore considerato come limite superiore di riferimento. Questo vuol dire che in quelle zone non sono stati riscontrati rischi significativi di esposizione ad anti parassitari, sia negli adulti che nei bambini. Infine, quando si parla di sicurezza nell’agricoltura si pone sempre molta attenzione ai problemi derivanti dall’impiego di antiparassitari a causa degli effetti nocivi che tali sostanze possono determinare sulla salute dell’uomo, sia per gli agricoltori che per i consumatori, e dell’ambiente; questo ha determinato negli anni recenti la produzione di norme e codici di autodisciplina molto più restrittivi che in passato, soprattutto là dove questi regolamenti possono convergere nel determinare effetti positivi sulla salute ma anche sulla qualità del prodotto.
Un intermediario storico per le compravendite ed affittanze di immobili nelle splendide spiagge di Bibione, Caorle e Jesolo L’Agenzia Lampo è un’azienda a carattere familiare nata oltre 60 anni fa per iniziativa ed intuizione del Sig. Giovanni Mazzarotto e poi cresciuta negli anni fino a trasformarsi in una delle aziende leader nel settore della compravendita e degli affitti di abitazioni per le spiagge del Veneto, grazie all’opera e all’impegno dei figli e oggi anche dei nipoti del fondatore. Nazzareno Mazzarotto (Presidente CdA)
Giovanni Mazzarotto (Fondatore)
Scelte decisionali importanti, caparbietà e fermezza hanno contribuito a creare un’immagine di azienda strutturata e articolata e a trasmettere al pubblico sicurezza ed affidabilità nel mercato turistico e immobiliare. Da sempre la “Mission” dell’Agenzia Lampo è stata la capacità di proporsi al servizio del cliente, con proposte di qualità molte delle quali nate in seno all’impresa costruttrice di famiglia, offrendo a chi investe i propri risparmi non solo l’acquisto di una casa al mare ma un pacchetto composito di servizi in grado di accompagnare il cliente anche nei momenti successivi alla compravendita, sia con il settore delle amministrazioni condominiali per una gestione accurata dell’immobile, sia con lo studio tecnico per stime, aggiornamenti e pratiche catastali e anche con la sfera delle affittanze, che assicura un ottimo reddito per chi desidera l’acquisto finalizzato all’investimento. Agenzia Lampo è lieta di presentare un’importante iniziativa turistica sorta negli ultimi anni a pochi chilometri da Caorle: “LIDO ALTANEA” un’oasi di relax e quiete a contatto con la natura e affacciata sul mare, dove vivere una vacanza di emozioni in un contesto straordinario di villaggi immersi in ampi spazi verdi minuziosamente curati. Scarica la brochure dal nostro sito o richiedici una copia, saremo lieti di inviartela.
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COPENAGHEN
La più verde d’Europa Piste ciclabili, cucina a Km 0 e hotel certificati
È una tra le città più ecologiche al mondo. Copenaghen, nominata dalla Commissione Europea la Capitale Verde d’Europa per il 2014, è da sempre all’avanguardia in fatto di ambiente ed eco-sostenibilità, a partire dall’ambito importante della pianificazione della città.
Acque di balneazione limpide e pulite, numerosi parchi naturali e riserve, giardini urbani che contribuiscono a creare una città verde attraente e vivibile: in sostanza una città a misura d’uomo. Questa è Copenaghen, dove oggi la maggior parte dei suoi abitanti può raggiungere a piedi, in meno di 15 minuti, una 86
grande area verde o blu, e dove si sta seguendo un preciso progetto di restauro naturale. L’anno verde è stato inaugurato il 22 gennaio con una cerimonia al Municipio e durante l’anno ci saranno eventi e incontri per sottolineare le soluzioni sostenibili della capitale,
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che possono essere utilizzate anche altrove. Tra gli eventi segnaliamo il Festival del raccolto ad agosto, quando i giardini comuni della città, i produttori alimentari locali, i proprietari di giardini e gli agricoltori urbani invitano tutti i residenti e visitatori a una festa gigantesca del raccolto nel cuore di Copenaghen. Recentemente Copenaghen ha anche ricevuto l’“INDEX: Award 2013”, il premio internazionale più importante in tema di design, che si è aggiudicata grazie a un piano di soluzioni di design ecosostenibili. La capitale danese è inoltre la favorita a diventare la prima città al mondo “carbon free” entro il 2015, avendo sviluppato un lifestyle incentrato su modi di pensare e di vivere ecosostenibili. Verde, a cominciare dalla terra La Danimarca è sempre stata all’avanguardia per quanto riguarda la preservazione dell’ambiente, e nel 1973 fu il
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primo Paese al mondo a implementare una legge ambientale. Da sempre l’ambiente ha giocato un ruolo importante nella pianificazione della città. La città blu e verde Acque di balneazione pulite, parchi e riserve naturali rendono le città più attraenti e migliori per vivere. Una città verde è anche più resiliente ai cambiamenti climatici. Oggi è possibile immergersi nel porto di Copenaghen, il 96% degli abitanti della capitale danese può raggiungere a piedi una grande area verde o blu in meno di 15 minuti, e nuovi giardini urbani stanno invadendo la città. Copenaghen ha appena lanciato un grande progetto di restauro naturale e sono in programma altre spiagge. La cultura della bicicletta Recentemente Copenaghen è anche stata dichiarata la “città ufficiale della bici”: sono stati contati fino a 40.000 ciclisti al giorno e gli oltre 160 km di piste ciclabili, spingono quotidianamente il 55% degli abitanti a muoversi sulle due ruote. Anche i turisti possono saltare in sella a una bici e scoprire la città seguendo i diversi tour organizzati, come i Bike Mike Tours, Cycling Copenhagen, e le escursioni con gps con Bike the City. La rinomata cucina a km 0 Con più del 60% del territorio danese riservato all’agricoltura, il cibo locale rappresenta la seconda natura per i Danesi, e un pilastro portante della cucina per una vasta gamma di ristoranti della città, tra i quali gli stellati Noma e Geranium, i 88
pionieri del movimento della Nuova Cucina Nordica, basata su ingredienti locali e di stagione. Altri luoghi gastronomici come ad esempio BioM si assicurano che tutto sia curato nel rispetto dell’ambiente, dalle sedie in plastica riciclata alla pittura e alle candele ecologiche, mentre lo stand di hot dog Døp serve salsicce biologiche... un fast food di qualità! Hotel certificati Green a partire dagli hotel: più della metà delle strutture ha adottato un piano ambientale che riguarda acqua, lavanderia, pulizie, rifiuti, consumo di energia, cibo, fumo e riscaldamento. Infatti, il 63% delle camere d’hotel a Copenaghen sono certificate dal punto di vista ecologico. L’hotel simbolo di questa tendenza di alloggi green a Copenaghen è il Crowne Plaza Copenhagen Towers, con ben 25 piani lussuosi ed ecosostenibili. L’Hotel Guldsmeden è un gruppo di hotel certificato Green Globe che impegna sforzi ecosostenibili in ogni aspetto del vivere quotidiano, inoltre tutti gli hotel Guldsmeden a Copenaghen sono stati premiati con l’etichetta ufficiale Golden Ø, in quanto garantiscono più del 90% di cibo biologico. Esiste un’etichetta ecologica che è anche un ottimo sistema che indica quanto l’eco sostenibilità venga seriamente considerata. Capitale di meeting sostenibili La città è nota come “Capitale di meeting sostenibili” anche per il profilo green. Il più grande centro congressi in Danimarca, Bella Center, ha recentemente investito in misure di risparmio energetico e all’esterno ha una grossa turbina a vento, come per ricordare che l’energia eolica è la più importante risorsa energetica per la Danimarca. Il centro
il viaggio congressi ha inoltre alcune aree verdi protette appena fuori l’ingresso ed è certificato Green Key, un’etichetta riconosciuta a livello internazionale, che è nata in Danimarca e che richiede alle organizzazioni turistiche determinati standard e requisiti ambientali per quanto riguarda politica, educazione, comunicazione e piani di azione. Voli verdi Esistono modi sostenibili di mangiare, bere, dormire, giocare, ma anche muoversi: Scandinavian Airlines ha fatto passi importanti in termini di pulizia ed efficienza degli aerei. La compagnia aspira a diminuire le emissioni del 20% entro il 2020 ed è una delle prime compagnie aeree ad aver introdotto un approccio “verde”, riducendo il consumo di carburante dopo l’atterraggio. Oltre all’impegno responsabile della riduzione dell’impatto ambientale, SAS offre ai propri passeggeri un calcolatore di CO2 per misurare quanta CO2 genera quel volo, con la possibilità di compensare le emissioni. Per raggiungere l’obiettivo delle emissioni pari a 0, SAS sta pianificando di prendere ulteriori misure, compreso l’uso delle ultime tecnologie per aeromobili e motori, e di introdurre carburanti alternativi per promuovere una crescita responsabile e sostenibile e ridurre l’impatto ambientale.
Per avere maggiori informazioni http://www.sharingcopenhagen.dk/
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Il curling: non solo sport, ma anche scienza! Intervista al campione italiano Joël Thierry Retornaz È stato uno degli sport più seguiti e apprezzati dagli spettatori delle Olimpiadi invernali di Sochi 2014: non si tratta di solo “sport”, ma anche di tecnica e calcolo. “Sì, ogni lancio viene eseguito dalla squadra al completo”, ce ne parla il campione italiano Joël Thierry Retornaz.
La storia del curling nel mondo... Le sue origini si perdono in secoli lontani, ma la certezza della sua esistenza si ebbe nel 1511 grazie ad un’incisione trovata in Scozia e in seguito diventata famosa come la Stirling Stone. All’incirca nello stesso periodo, questo sport apparve nei 90
quadri dei pittori fiamminghi Pieter Bruegel e Jacob Grimmer. Dal 1775 cominciarono a diffondersi pietre circolari con impugnatura di metallo e nel 1838, con la nascita del Royal Caledonian Club, si giunse alla definitiva standardizzazione della grandezza e della forma delle pietre di granito.
Il primo curling club fu fondato nel 1716 nello Stirlingshire (Scozia) e chiamato Curling di Kilstyth. Dal 1775 si iniziò a definire regole e tecniche e, nel 1838, venne redatto il primo regolamento dal Caledonian Curling Club.
sport
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Quando arriva questo sport in Italia? In Italia la FISG (Federazione Italiana Sport del Ghiaccio) riconosce il curling come attività sportiva nel 1953. Eppure solo nel 1973 ci fu l’annessione del curling italiano alla fondazione W.C.F. (World Curling Federation). Oggigiorno si svolgono regolarmente campionati Assoluti, Europei, e Mondiali, e nel 1922 la W.C.F. è stata ammessa ai giochi Olimpici con la prima apparizione a Nagano in Giappone nel 1998. La prima apparizione Italiana è stata durante le Olimpiadi Invernali di Torino 2006. Qual è l’essenza del curling, la sua caratteristica più importante e coinvolgente? Le peculiarità di questa disciplina: grande capacità di concentrarsi al massimo, conoscenza e controllo del proprio corpo e quel tocco in più che ti permette di sentire il tiro mentre lo stai eseguendo. La combinazione di queste tre cose è ciò che rende un buon giocatore un campione.
Per la strategia e la tattica applicata questo sport è soprannominato “scacchi sul ghiaccio”... Esatto! È una sorta di scacchi sul ghiaccio perché la componente tattico-strategica è fondamentale. L’unica diversità, non di poco conto, è che a differenza degli scacchi, nel curling le “pedine” vanno lanciate su una superficie ghiacciata da 46 metri di distanza, quindi non è detto che arrivino esattamente nel punto desiderato. Per questo motivo la strategia può subire variazioni in corsa. Quanto conta la componente tecnologica in questa disciplina sportiva? È uno sport con origini antiche e la tecnologia ad oggi non ha influito molto.
Strategia e gioco di squadra determinano il percorso ideale e il posizionamento della pietra in ogni lancio... Sì, ogni lancio viene eseguito dalla squadra al completo. Se vogliamo fare le percentuali: il 60% di responsabilità è del lanciatore, il 30% degli scopatori e il 10% dello skip che guarda la direzione e chiama la scopata.
Joël Thierry Retornaz Nasce il 20 settembre 1983 a Ginevra in Svizzera. Diplomatosi al Liceo Giuridico Economico Aziendale di Trento con specializzazione in lingue straniere, inizia giovanissimo la sua professione di imprenditore nel settore della ristorazione. La predisposizione al sacrificio e al duro lavoro lo hanno fatto emergere anche nel campo sportivo. Da molti anni atleta di punta della Nazionale Italiana di Curling, ha capitanato la Squadra Azzurra in molte competizioni internazionali di rilievo tra cui i Campionati del Mondo nel 2005 e 2010, passando dai XX Giochi Olimpici Invernali di Torino 2006. Oggi è allenatore del Team del Trentino Curling. 91
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Cosa servirebbe per promuovere maggiormente questo sport in Italia? Maggior sostegno da parte delle Federazioni, maggior interesse da parte di sponsor e la possibilità di poter avere atleti nei gruppi sportivi militari. Voi agonisti di oggi siete praticamente i pionieri del curling in Italia: che riscontro d’interesse avete sul territorio? Oscillante, tanto interesse dopo ogni edizione delle Olimpiadi che va poi a calare dopo poco tempo. Cosa è cambiato per questo sport dopo le Olimpiadi? Non molto a livello di numeri di praticanti, sicuramente molto più interesse. Oggi per lo meno se si parla di curling la gente sa cos’è.
4 PAROLE CON LO SKIP DELLA NAZIONALE ITALIANA, AMOS MOSANER Lui è il giovane skip che ha condotto la nazionale italiana nelle Olimpiadi di Sochi, Amos Mosaner. Cosa significa essere skip della nazionale? Tanta responsabilità, ma anche tanta gratificazione. Non è un ruolo facile da ricoprire ma cerco di farlo al meglio sapendo che tutta la mia squadra è con me e mi segue in ogni situazione. La fiducia della propria squadra è fondamentale. Quanto impegna costa questo sport? Moltissimo se lo si vuole fare ad alti livelli come lo faccio io. Tante sessioni su ghiaccio ogni settimana (4/5 giorni a settimana), più tutta la parte di preparazione atletica. Purtroppo non lo facciamo a tempo pieno perché non esiste il professionismo in Italia. Qual è il livello della squadra italiana rispetto ad altri team nel mondo? Direi che l’Italia sta nei primi posti delle squadre di seconda fascia. Tolte le nazionali per eccellenza in questo sport che partecipano ogni anno ai mondiali (circa 10), direi che subito dopo si può mettere l’Italia Con l’augurio di poter migliorare questo ranking. 92 92
Quali sono i progetti futuri? Cercare di confermare la leadership della società Trentino Curling sul piano nazionale e provare ad affermarsi anche a livello internazionale.
percorsi
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IL PERSONAGGIO: ALESSIA TROST
Grinta, fatica e tanta passione Qualche parola con la promessa dell’atletica leggera italiana
Alessia Trost, classe ’93, è il nuovo mito dell’atletica italiana nella specialità salto in alto. Ha dimostrato un talento molto precoce, già a 11 anni saltava 1,55 m. Grazie anche alla sua peculiare struttura fisica (a 16 anni è già alta 188 cm), viene paragonata alla campionessa croata Blanka Vlašic.
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Il 10 luglio 2009 Alessia Trost ha ottenuto un risultato storico per l’atletica leggera italiana: la prima medaglia d’oro per l’Italia ai Campionati del mondo allievi di atletica leggera organizzati dalla IAAF a Bressanone. Nel 2012 si è laureata campionessa del mondo juniores a Barcellona con la misura di 1,91 m. Il 28 gennaio 2013, al meeting internazionale di Trinec, in Repubblica Ceca, Alessia è riuscita a saltare 2,00 m. In seguito, ha ottenuto diversi risultati come il titolo di campionessa italiana indoor di salto in alto nel 2013 e nello stesso anno a Tampere la medaglia d’oro. Sempre lo scorso anno, a Milano, si laurea campionessa italiana ai Campionati assoluti outdoor saltando 1.90 m. Alessia racconta con disinvoltura quando e come è iniziata la sua carriera in questa disciplina sportiva...“ho iniziato andando a correre con papà, che ora allena una squadra giovanile di atletica, la stessa nella quale sono cresciuta. Una serie di coincidenze mi ha portato al salto in alto, tra queste la presenza del mio attuale allenatore, Gianfranco Chessa, al campo di Pordenone”. Alla domanda su quanto sacrificio comporta questa disciplina, soprattutto nella conciliazione tra agonismo e vita privata, l’atleta commenta “sento molto spesso parlare di sacrifici nello sport, secondo me quando una persona ha l’opportunità di trasformare la propria passione in lavoro non si può parlare di sacrificio, ma anzi di fortuna. Il sacrificio è quello di alzarsi alle 5 di mattina per andare a lavorare in fabbrica! Certo, il fatto stesso che sia una passione comporta un maggiore impegno, ma questo fa parte del gioco. La mia vita e quella di una normale ventenne, magari non rientro alle 4 ogni fine settimana, ci vuole serietà nello sport, ma alle amicizie tengo”. Diventata ben presto icona dell’atletica italiana: “La prima manifestazione importante alla quale ho partecipato sono stati i Campionati Europei indoor a Goteborg nel 2013. Emotivamente sono stati una bomba atomica, ma credo siano molto serviti”. Tanti successi in pochi anni, che l’hanno portata a far parte del ristretto club dei 2metri, che rappresenta l’élite mondiale... “Aver saltato due metri ha portato con sé una certa dose di positività e fiducia, più del risultato conta aver messo dentro la consapevolezza della possibilità di poter fare, per provare a saltarli di nuovo e con maggiore costanza”. Alessia Trost ci tiene a condividere il momento più significativo della sua ancora giovane carriera, ricordando come uno dei più belli “il Campionato del Mondo di Barcellona nel 2012, ero ancora parte della categoria Junior e la squadra italiana era molto affiatata. Durante la finale guardarsi indietro e trovare una macchia bianco azzurra dà sicurezza, quella che è servita 94
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a rimettere le carte in tavola durante una gara della quale stavo perdendo il controllo”. Come si sviluppa la preparazione dell’atleta: “l’allenamento si suddivide in più periodi: la preparazione invernale è quella più intensa, mentre più ci si avvicina alle gare più diminuiscono i carichi e aumenta la qualità. L’innovazione conta molto soprattutto nel lungo periodo, fare gli stessi esercizi per 10 anni è controproducente”. Quale la colonna sonora ideale per darti la carica prima di una competizione...“la hit del momento! Banale, ma quasi sempre funziona”. E se non avesse fatto la sportiva, Alessia avrebbe fatto “la studentessa in bilico tra presente e futuro”, ora nel futuro comunque c’è “saltare alto quando conta”, seguendo l’ispirazione di un’atleta che l’affascina come “la russa Anna Chicherova. Una saltatrice fantastica”. Infine, un consiglio ai tanti ragazzi che la seguono e vorrebbero seguire le sue orme: “non inseguire il risultato, ma piuttosto di cercare di fare bene, con precisione, quello che si sta facendo. Quando ti senti bene mentre salti, allora vuoi semplicemente saltare e alzare l’asticella, a quel punto, diventa semplice”.
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L’acqua di mare & l’erba voglio La cucina a modo mio: cucina trendy, facile o un po’ elaborata, ma alla portata di tutti e di tutte le situazioni. di Luisa Giacomini cuoca per passione luisagiacomini.com
C’era una volta: l’affettatrice a volano e la creatività in cucina! C’era una volta... l’affettatrice a volano, la storica rossa Berkel. Ora l’industria delle affettatrici propone per il mercato casalingo eccellenti macchine, capaci e competitive, come le professionali con dimensioni “mini”, modelli accattivanti e dal design così curato da essere esposte con orgoglio anche nei piani di lavoro delle cucine attuali e di tendenza.
Il segreto? Non tutti sanno che pesce e carne leggermente congelati si affettano finemente alla perfezione. In caso di bisogno, se ci si aiuta con una pagnottina rafferma, non si corre il pericolo di tagliarsi le mani con pezzature di prodotto sottile. Ad esempio, nel caso delle seppie, il pane trattiene premuto il filetto di pesce alla lama circolare nel movimento di affettare.
Ora che la cucina tradizionale si sta evolvendo sempre più in cucina creativa, l’affettatrice rientra a gran diritto negli elettrodomestici di uso comune, non solo per affettare finemente salumi e arrosti ma anche per carpacci di carni, verdure, frutta e nel nostro caso per i carpacci di pesce. Il pesce sarà opportunamente pulito, sfilettato, saranno tolte le eventuali spine e sarà congelato. Meglio se surgelato, per chi possiede l’abbattitore di temperatura, per un minimo di 24 ore a meno 20°C: per un corretto consumo del pesce crudo il metodo assicura l’eliminazione di tutti gli eventuali batteri parassiti mantendo il prodotto sano e appetibile (lo spieghiamo anche in Logyn n° 3).
Risultato? Fettine sottili come chiffon di seta.
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Quando è nata l’affettatrice? Per anni il giovane macellaio olandese Wilhelmus Adrianus Van Berkel cerca di coniugare il suo mestiere di macellaio e la sua passione per la meccanica. Finalmente, dopo lunghi tentativi, mette insieme due idee semplici, ma geniali: una lama concava, che riproduce con precisione il movimento mano/coltello, e un piatto mobile che scorre verso la lama. È nata l’affettatrice. Il 12 ottobre 1898, Van Berkel fonda a Rotterdam la prima fabbrica di affettatrici del mondo.
Cru do p ia di , va e g nig er li d’a spa mog l a i rag i di Bad verd i oer e sep
cucina
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Una ricetta a km zero dai profumi afrodisiaci
Vino da abbinare: Moscato giallo dell’Alto Adige o Colli orientali del Friuli Ribolla Gialla o Riesling della Mosella
Ingredienti
x 4 persone
• 4 seppie nostrane (pulite, aperte senza testa ne tentacoli) • 15 punte asparagi verdi (in alternativa asparagi bianchi di Badoere TV o i bianchi di Cimadolmo TV) • 100 g di pomodorini (40 secondi in acqua bollente, poi scolati e spellati) • 50 g di misticanze: rucoletta, valeriana, spinacetti, insalatina • 30 g di piselli primavera • 2 zucchine piccole • 2/3 steli di timo limone (si trova dai vivaisti) • 2 peperoni gialli (carnosi) • 1 frutto della passione o maracuja • 1 bacca di vaniglia • 1 confezione di uova di lompo per decoro • 1 noce di burro • 1 rosellina non trattata, colore rosa (petali di rosa edibili) • Sale fino di Cervia qb. o sale marino • Pepe nero al mulinello facoltativo • Olio extra vergine d’oliva Cru di S. Martino Riva di Poet 2011 dei Fratelli Botter (Asolo, TV) qb. • Oppure olio extra vergine oliva dei colli trevigiani Cooperativa Tapa olearia qb. • Oppure olio evo della Valpolicella (Garda, VR) qb.
esecuzione • Aprire la bacca di vaniglia, estrarre i semini e porli in una ciotola con la stessa bacca, aggiungere olio evo in quantità da permettere la marinatura del carpaccio di seppia affettato sottile, coprire e far riposare nel frigorifero per 4 ore. • Stufare i peperoni a pezzettoni con il burro e gli steli di timo limone a fuoco dolcissimo, far sudare (non devono assolutamente rosolare), usare il coperchio e se necessario aggiungere poca acqua calda. Cuocerli lentamente fino a che saranno
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L’abbinamento e gli incontri di prodotti gastronomici a km zero con altri di natura esotica regalano al piatto tutta la bontà del gusto avvolgendolo di fascino e di un fresco profumo inebriante e afrodisiaco. Le seppie nostrane, gli straordinari asparagi igp vanto della Marca Trevigiana, l’olio extra vergine dei colli Asolani aromatizzato con una sensuale nota di bacca di vaniglia, la fresca ed esotica maracuja o frutto della passione... suadenti ricordi di viaggi ai tropici. La cornice del territorio per questa fresca insalata di seppia nasce non solo dalla fantasia di prodotti e ortaggi di fine primavera, ma seguendo le linee di base permette di optare di volta in volta per tutte le svariate proposte estive del mare e dell’orto.
morbidissimi. Eliminare gli steli di timo, setacciare i peperoni con un passino morbido per eliminare le bucce indigeste, passare la salsa al miniper con un filo d’olio a crudo e aggiustare di sale. Sbollentare in acqua salata i piselli al dente, scolarli in acqua ghiacciata e ghiaccio. Condirli con un pò d’olio e sale. Prendere le punte degli asparagi e dividerli longitudinalmente in 2 o 3 secondo la grossezza, passarli al vapore, cuocere al dente. Tagliare la parte esterna verde delle zucchine, ricavare dei bastoncini e tagliarli a cubettini. Tagliare i pomodorini in due ed eliminare i semi, ridurre in cubetti integri. Tagliare in due il frutto della passione, in una ciotola mettere i semi ed il liquido del frutto, aggiungere poco pepe macinato fresco, olio evo. Mescolare e far riposare. Sgocciolare il carpaccio di seppia e recuperare l’olio, buono e meraviglioso per altre preparazioni a breve scadenza.
presentazione Impiattare il crudo di seppia ispirandosi ad una tela astratta, l’idea di degustare un Kandinskji o un surrealista Mirò appaga prima gli occhi, poi il cuore e infine i sensi. Disporre su piatti individuali poche foglie alterne di misticanza appena condite. Mettere sopra le fettine del carpaccio di seppia, creare piccole macchie di salsa di peperone, disporre in disegno a piacere gli asparagi, creare piccoli mucchietti separati di piselli verdi a ridosso delle macchie gialle in armonia. Distribuire le zucchine e i pomodorini in base all’aspetto cromatico. Ancora qualche fogliolina di misticanza e petali di rosa. Infine qualche mucchietto di uova di lompo per far risaltare i colori. Condire con gocce ai frutti della passione, un pizzico di sale e servire. 97
Parlare con i fiori
Dalla natura colori e profumi per comunicare messaggi speciali CARLA SBICEGO
ufficioverde STILE LIBERO
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La simbologia legata al mondo dei fiori è affascinante e variegata. Per non incorrere in spiacevoli equivoci e saper accostare ad ogni nostro sentimento il bocciolo più adatto, una mini guida su come “parlare con i fiori”, anche in ufficio! Anche nell’ambiente di lavoro può capitare di regalare dei fiori, per esempio per un compleanno o magari a chi si sposa. Oppure li riceviamo da chi cambia lavoro, a dimostrazione di stima e amicizia dopo tanti anni trascorsi fianco a fianco. A volte li regaliamo in situazioni più difficili, per chiedere scusa o a chi è ammalato, o semplicemente come gesto di amicizia e di affetto. Normalmente ci affidiamo al fioraio ma se vogliamo manifestare dei sentimenti stiamo delegando ad un estraneo (anche se competente) un compito importante, con il rischio che il messaggio dato possa essere sbagliato o fuorviante. Perché i fiori parlano di noi e sono anche dei gran chiacchieroni. Già nel passato, soprattutto nell’Ottocento, l’uomo affidava ai fiori messaggi difficili da esprimere a parole. Con il tempo ce ne siamo dimenticati ma qualcosa è rimasto nel pensiero comune ed è bene conoscerlo per non compiere errori quando vogliamo fare un regalo speciale. Faccio degli esempi con le rose: ROSE ROSSE: il significato è risaputo, perciò non sono da donare alla collega con cui esiste una storia appassionata, troppo appariscente. Meglio l’acacia, che significa amore segreto, oppure dei tulipani rossi o iris gialli. Oppure l’insospettabile cactus. ROSE GIALLE: sembra facile: gelosia! Non è così semplice, significano anche amicizia oppure la fine di un amore, o addirittura vergogna. Ma sono così belle. Magari uniamole al glicine che simboleggia l’amicizia e fa anche un bel contrasto di colore. ROSE BIANCHE: purezza, innocenza, umiltà, silenzio, castità. È un significato difficile nell’ambiente di lavoro, chi le riceve può prenderlo come un invito alla modestia. Se vogliamo comunicare amicizia o solidarietà possiamo scegliere una tonalità crema o unirle a delle fresie colorate.
Ho predisposto un breve elenco delle situazioni tipo che possono crearsi nell’ambiente di lavoro ed ho cercato di abbinare il fiore adatto. Il linguaggio dei fiori non è una scienza esatta ma proprio per questo, per noi educati a pane e computer, acquista un particolare fascino. Amicizia: glicine, fiore del pero, amaranto, gardenie, rose rosa, dalie (che significano anche eleganza, dignità), bergenie, margherite, fresie. Chiedere perdono: giacinto porpora, calendula, gardenia, garofano bianco, margherita. O una bella orchidea. Le orchidee hanno molteplici significati a seconda della specie e del colore, ma sono una comoda scelta un po’ per tutto. Dichiarazione d’amore, passione: rosa rossa, cactus, garofano rosa, non ti scordar di me, tulipano rosso. E poi viola del pensiero, fiori di pesco... Augurio per una pronta guarigione: rose arancioni, girasoli, iris, bambù, tronchetto della felicità. Gratitudine, riconoscenza: la dalia è perfetta, in più significa eleganza e femminilità. Oppure agrimonia, magnolia. Aumento di stipendio / carriera: azalea, amarillis, bignonia, giglio. Cambio di lavoro: per un bel “in bocca al lupo” andrebbe bene l’aglio, ma è meglio optare per primule, ninfee, iris, clematidi. Se vogliamo comunicare sentimenti negativi quale sdegno, malevolenza, rifiuto: achillea, aloe, calendula, petunia, garofano bianco o rigato, bocca di leone, lobelia, anemone. Addirittura l’apparentemente innocuo (e buonissimo) basilico significa odio. Ma non facciamolo dire ai fiori, è meglio una bella e costruttiva discussione, no? 99
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