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n°14/2017

#14 Periodico di Eurosystem SpA

LA COMUNICAZIONE MULTITASKING UNA COMPLESSITÀ TUTTA DA GESTIRE


Noi pensiamo IT perchĂŠ voi non abbiate pensieri solo risultati

www.nordestservizi.it


EDITORIALE Gian Nello Piccoli “Il fallimento di una relazione è quasi sempre un fallimento di comunicazione”, scriveva Zygmunt Bauman. E per noi le relazioni sono importanti. Pertanto, abbiamo scelto la comunicazione come tema di questo numero, perché mai come ora, nell’era della trasformazione digitale, rappresenta un aspetto multi sfaccettato, complesso e ricco di opportunità. Costruire la relazione col cliente può sembrare per certi versi più facile grazie ai nuovi media, ma allo stesso tempo richiede più attenzione e pianificazione, se pensiamo all’enorme eco che questi strumenti hanno. Diverse sono le voci presenti in questo numero con l’obiettivo di evidenziare nuovi canali e opportunità presenti sul mercato, e come le aziende li usano per proporre il proprio marchio, in un’epoca di grandi cambiamenti. Quando ho iniziato a fare i primi passi per promuovere la mia azienda, e vi parlo di molti anni fa, la pubblicità sulle testate giornalistiche era uno degli strumenti privilegiati in uso, con pochi altri. Se penso ad ora, ammetto di confondermi tra il ventaglio di proposte che ci sono sul mercato.

GIAN NELLO PICCOLI Eurosystem S.p.A.

Il confronto con altri imprenditori in questo settore ha fatto emergere forte e chiaro come ogni canale abbia una sua potenzialità comunicativa e i mezzi tradizionali non scompaiano, ma vadano rivisti alla luce dei nuovi. È vero che è aumentata la complessità, ma l’azienda, stando anche alle ultime statistiche, oggi è assolutamente propensa a sperimentare. Il mondo dei social network e del web in generale è quello che incuriosisce maggiormente. Come imprenditore, apprezzo molto la parte quantitativa di questi strumenti, poiché si riescono a misurare i ritorni pubblicitari con tanto di numeri e, se non funziona, si può cambiare direzione strada facendo: questo permette di rendere gli investimenti molto più efficienti. Per noi imprenditori è un vantaggio non da poco. “La comunicazione – infine - avviene quando, oltre al messaggio, passa anche un supplemento di anima.” È una citazione di Henri Bergson che esprime molto bene dove oggi sia la chiave di successo di un messaggio sulla rete: l’anima, il tono di voce, la coerenza di un marchio e dei valori che rappresenta in tutto quello che fa e nei modi in cui si comunica. Se investiamo in questo non dobbiamo temere che le nostre azioni possano minare la nostra reputazione, nemmeno sul web. Gian Nello Piccoli 3


il personaggio

6

ALBERTO CONTRI L’ERA DELLA COSTANTE ATTENZIONE PARZIALE

18

FEDERICO BADALONI LA USER EXPERIENCE ATTRAVERSO L’ARCHITETTURA DELLA COMUNICAZIONE

SOMMARIO

30

DANIELE CHIEFFI IL GIORNALISMO TRADIZIONALE NON È MORTO, ANZI

92

YOU ARE MY GUIDE IL VIAGGIO IN VACANZA CON LA GUIDA SU MISURA

89

FEDERICO BUFFA SPORT MISE EN SCÈNE DI UNA STORIA: PASSIONE E GIOCO DI SQUADRA, GLI INGREDIENTI PERFETTI

stile libero


incontri con

60 stories 60 Consorzio Colibrì: quando l’unione fa la forza

68

ASS n.5 Friuli Occidentale: Service Desk per la Sanità

63 spazio a y 63 @EUROSYSTEM.IT

Cercare dati e documenti in un Erp

64 71

51

30

6 il personaggio

36

di Gian Nello Piccoli

ALBERTO CONTRI

La comunicazione multitasking

14 pensare con le

macchine!

La user experience attraverso l’architettura della comunicazione

22

OGILVY & MATHER ITALIA

26

LUISA CARRADA

L’evoluzione del concetto di agenzia pubblicitaria La leggibilità passa attraverso la chiarezza, il significato e l’emozione

DANIELE CHIEFFI

Il giornalismo tradizionale non è morto, anzi LUCA LA MESA

Social network, vita morte e miracoli

39

CERES

42

ANDREA BARCHESI

Unconventional per stupire Web reputation: se nessuno parla di te non esisti

45

STANNAH

48

ANDREA SALETTI

STEFANO MORIGGI

18 incontri con 18 FEDERICO BADALONI

Come cambia il Customer Care

La gestione del Libro Unico

3 editoriale

10 focus

@EUROSYSTEM.IT

73 stile libero 73 LAVORO

SWATCH LA PROVOCAZIONE COME CHIAVE DEL SUCCESSO

L’era della costante attenzione parziale

Alla mia azienda serve una soluzione di Business Intelligence?

51

Al di là di un montascale Neuromarketing: passioni ed emozioni per ricordare un brand

74

PRIVACY

76

FISCO

78

AZIENDA SICURA

80

PAROLA ALL’AVVOCATO

82

BENESSERE SUL LAVORO

85

NATUROPATA

86

ARTE E TECNOLOGIA

89

SPORT

SWATCH

La provocazione come chiave del successo

92

56 academit 56 Da IT manager a manager dell’IT 94 58 MAURO DE BONA Adattabilità, prima regola dello 97 Smart Project Management

Monitoraggio degli strumenti di lavoro Il commercialista... digitale! Diffamazione e altri reati sui social network La degenerazione della comunicazione Il Buddhismo ed Internet Sovrappeso e obesità L’arte e i new media: quando l’imperativo è comunicare. F. Buffa: mise en scène di una storia: passione e gioco di squadra, gli ingredienti perfetti IL VIAGGIO

You Are My Guide: in vacanza con la guida su misura CUCINA

L’acqua di mare & l’erba voglio FUMETTI

La matita di Sue


numero 14 14 numero

ALBERTO CONTRI L’era della costante attenzione parziale Dora Carapellese

Davvero McLuhan non abita più qui? 6


IL PERSONAGGIO Alberto Contri Le sei braccia di Kalì rappresentano perfettamente la società odierna impegnata in mille azioni che inevitabilmente frammentano la nostra attenzione ad un livello sempre più parziale. Il paradosso di oggi spiega Alberto Contri, copywriter e direttore creativo, è che da un lato aumentano le opzioni informative, dall’altro diminuisce il tempo per selezionarle. Contri, autore del libro “McLuhan non abita più qui? I nuovi scenari della comunicazione nell’era della costante attenzione parziale”, ci spiega come il noto aforisma di McLuhan “il medium è il messaggio” oggi vada modificato in “la gente è il messaggio”.

de Kerchove, che di McLuhan è stato allievo ed oggi possiamo considerarlo come il principale erede, sostiene che McLuhan è ancora qui perché molte delle sue predizioni si stanno avverando, pur in presenza di media diversi. Così ho aggiunto un punto di domanda al titolo. Chi vive senz’altro ancora qui è un altro pensatore degli anni ‘60, lo psicologo americano Abraham Maslow, che in quel periodo aveva coniato la sua famosa piramide dei bisogni. Accanto ai bisogni primari aveva posto il bisogno di essere stimati, apprezzati, di avere un ruolo nella propria comunità. Esattamente ciò che si cerca oggi su Facebook.

Il web ha fatto irruzione nella nostra vita con gli effetti di un Big Bang, riconfigurando il nostro modo di informarci, divertirci, consumare, entrare in relazione con il prossimo. Cos’è cambiato dal punto di vista antropologico?

Cosa rappresentano i new media in questa era?

Il gesuita John Culkin, professore di Comunicazione alla Fordham University di New York, amico e ispiratore di McLuhan, in un articolo sulla «Saturday Review» del 18 marzo 1967, coniò un aforisma spesso erroneamente attribuito allo stesso McLuhan: «Noi plasmiamo i nostri strumenti e quindi i nostri strumenti plasmano noi». In una corrispondenza con Nietzsche, il musicista Koselitz notava un cambiamento nella scrittura del suo amico da quando aveva cominciato ad usare la macchina da scrivere: “Forse attraverso questo strumento finirai per darti un nuovo idioma” scriveva. Citando la sua personale esperienza aggiungeva: “i miei pensieri in musica e in lingua spesso dipendono dalla qualità della penna e della carta”. “Hai ragione” - replicò Nietzsche - “i nostri strumenti di scrittura hanno un ruolo nella formazione dei nostri pensieri». È di tutta evidenza che la struttura del cervello e le relazioni tra gli uomini sono mutate e mutano a seconda dei mezzi di comunicazione a loro disposizione. Culkin e Koselitz non hanno fatto altro che sottolinearlo. Noi siamo molto più veloci, ma stiamo perdendo la capacità di riflettere e ricordare in cambio della velocità.

La frase “Il medium è il messaggio” formulata mezzo secolo fa come si riconfigura oggi? Marshall McLuhan non abita davvero più qui? Il titolo del libro è volutamente provocatorio, e vuole far riflettere sul fatto che semmai il famoso aforisma “il medium è il messaggio” va modificato in “la gente è il messaggio”. Ma nella prefazione al saggio Derrick

L’avvento del web può essere considerato uno dei pochi grandi breaktrough della storia della comunicazione: circa 50.000 anni fa si assiste alla nascita del linguaggio. Intorno al 1500 a.C. alla nascita della scrittura. Nel 1455 viene inventata la stampa a caratteri mobili fusi in piombo. Dai primi dell’800 ai giorni nostri si sono poi susseguite una serie di invenzioni e innovazioni straordinarie, come fotografia, cinema, telefonia, telegrafia, televisione, informatica, per giungere al Big Bang della nascita del web negli anni ‘90, che costituisce una nuova rottura evolutiva di enorme importanza.

L’ipervirtualità può portare all’assottigliamento tra finzione e realtà? Qual è il rischio per un’azienda? Chi è nato come me quando non c’era ancora la tv ha visto lo sviluppo di tutti i media, e – fortunatamente, sostengo io – ha ancora un approccio analogico a tutti i mezzi di comunicazione che consente di distinguere le applicazioni digitali dalla realtà. Le generazioni più recenti come i millennials sono nate con una sorta di sesto dito incorporato (il mouse) per cui sono velocissime nel maneggiare le applicazioni digitali, ma rischiano spesso di essere risucchiate in un mondo virtuale. Per non parlare dell’Internet Addiction Syndrome: si rischia di stare sempre più spesso incollati a uno schermo di un pc o di uno smartphone, pronti a rispondere compulsivamente a un bip o a una vibrazione. Il fenomeno è talmente diffuso che molte aziende stanno proponendo ai dipendenti corsi di digital detox o spengono addirittura i server di posta alla sera per farli “staccare” qualche ora, evitando che vengano disturbati fuori dall’orario di ufficio da mail che arrivano da colleghi che vivono in paesi con fuso orario diverso… quindi anche in piena notte. 7


numero 14

Alberto Contri Copywriter, direttore creativo e managing director presso la multinazionale della comunicazione McCann Erikson È stato l’unico italiano che sia stato mai cooptato nel board della European Association of Advertising Agencies, è stato presidente dell’Associazione Italiana Agenzie di Pubblicità (1993-98), consigliere della RAI (1998-2002), amministratore delegato e direttore editoriale di RAINet (2003-08) e presidente e direttore generale della Lombardia Film Commission (2009-15). Presiede da diciassette anni Pubblicità Progresso, trasformata in Fondazione nel 2004. Ha insegnato Comunicazione sociale presso l’Università La Sapienza di Roma e l’Università VitaSalute San Raffaele di Milano. Attualmente insegna la stessa disciplina presso la IULM di Milano, che nel 2010 lo ha insignito della laurea honoris causa in Relazioni pubbliche delle imprese e delle istituzioni.

L’information overload a cui sono sottoposte le persone ha in qualche modo cambiato i cardini sui cui si basa la pubblicità oggi? Oggi viviamo immersi in un grande paradosso: da un lato aumentano le opzioni informative, dall’altro diminuisce il tempo per selezionarle. Come si spiega allora che i portali dei grandi quotidiani hanno degli scroll di ben più di un metro lineare, che al solo vederli ti prende lo sconforto di come fare per stabilire delle priorità di lettura? Inoltre c’è un ulteriore problema, illustrato sulla copertina del 8

Più il pubblico si segmenta e si frammenta, più si entra nell’economia della costante attenzione parziale, più è necessario ritornare ai vecchi sani principi e alle grandi intuizioni dei grandi pubblicitari di un tempo.


IL PERSONAGGIO saggio, dove campeggia una foto di una giovane signora che – grazie a photoshop – è dotata di sei braccia come la famosa dea Kalì, che impiega tutte nello stesso momento per usare il telecomando della tv, muovere il mouse, controllare un tablet, usare lo smartphone, ecc. Ho ritenuto giusto definire questo modo di vivere come “era della costante attenzione parziale”. Questo atteggiamento ha grandi riflessi sulle persone, ma anche su chiunque distribuisca o proponga informazione e comunicazione. Sollecitare l’attenzione di una persona occupata a fare sei cose diverse nello stesso momento è un’impresa di non poca difficoltà: l’unica possibilità che abbiamo è quella di interessarla talmente alla nostra proposta da ottenere almeno per un po’ una completa concentrazione su quanto le stiamo proponendo.

Tutto questo cambiamento, in che modo ha influenzato il processo creativo? Inizialmente ha creato molti problemi, perché in troppi hanno creduto che l’innovazione tecnologica bastasse di per sé ad attirare l’attenzione dei consumatori. Ma dato che la tecnologia possono utilizzarla tutti, si è presto rivelata una mera commodity. Più il pubblico si segmenta e si frammenta, più si entra nell’economia della costante attenzione parziale, più è necessario ritornare ai vecchi sani principi e alle grandi intuizioni dei grandi pubblicitari di un tempo: il grande Bill Bernbach, con grande anticipo sui tempi, ricordava ai suoi colleghi che la tecnologia è sempre al servizio della creatività e mai il contrario. Bill Gates ci ha ricordato che “The contest (la tecnologia) is queen, but the content is king”. Per questo, proprio nell’era della velocità, occorre saper rallentare per esercitarci in una riflessione in grado di portarci a individuare un insight unico e sorprendente, che poi andrà comunicato in tutte le modalità offerte da media tradizionali e nuovi. Proprio in questo contesto ci tornano utili le grandi intuizione del passato, come la Unique Selling Proposition, ad esempio. Un bell’esempio lo ha fornito Google con l’idea di Project Re:Brief. Sono andati a ripescare i creativi che negli anni Sessanta avevano fatto le storiche campagne della Coca Cola, della Volkswagen, dell’Avis (oggi ottanta-novantenni), hanno messo loro in mano smartphone e I-Pad, e gli hanno chiesto di studiare una campagna coerente con questi mezzi. Rimessisi al lavoro con i loro vecchi metodi, hanno prodotto campagne capaci di attirare l’attenzione proprio grazie ai nuovi device. È una fantastica ed inoppugnabile dimostrazione che il pensiero è e rimane analogico, mentre digitali sono le applicazioni.

Un’impresa su quali elementi deve puntare per comunicare il proprio brand oggi? Innanzitutto deve tener conto che la sua reputazione dipende dai suoi comportamenti complessivi, ma anche – e sempre di più – da ciò che si dice di lei sulla rete. Ecco perché oggi, quella comunicazione integrata capace di maneggiare tutti i media, che un tempo era considerata un’opzione, è diventata un obbligo. È sintomatico che Marc Pritchard, Global Brand Manager di Procter & Gamble (il più grande investitore pubblicitario del mondo) - ora anche chairman dell’ANA, l’Upa americana - stia tornando con insistenza a chiedere alle agenzie di offrire quel “servizio completo” per cui sono nate. Altro punto che dovrebbero tenere presente è che è finito il tempo delle divisioni tra Above e Below the line: oggi, a seconda del contesto, del pubblico e dei valori da promuovere, qualunque elemento del communication-mix può essere il primum movens di una campagna di successo. Nel saggio ci sono case history che dimostrano come una grande idea può fare strada con grandi investimenti, ma che è pure capace di muoversi con le proprie gambe diventando virale, anche con investimenti minimi: purchè si basi su un concetto e su un insight molto forte. Da ultimo, ricorderei una delle lezioni del grande Steve Jobs: “marketing is about values”. Così si spiega il fenomeno di grandi brand globali, P&G in testa, che stanno usando come valori carrier i valori sociali per promuovere le proprie marche.

Alberto Contri, McLuhan non abita più qui? I nuovi scenari della comunicazione nell’era della costante attenzione parziale, Bollati Boringhieri, 2017. 9


numero 14

LA COMUNICAZIONE MULTITASKING Una complessità tutta da gestire La complessità della comunicazione, nell’era della trasformazione digitale, impone la conoscenza per evitare di essere travolti. Una nuova architettura comunicativa cambia il nostro modo di approcciarci alle persone e di conseguenza le aziende si adeguano per entrare in empatia con il proprio pubblico. Tecniche e strategie, nuove e vecchie, adattate alla rete per “ingaggiare” il cliente. Si sfornano libri su libri legati ai social media, al web e al come utilizzarli nel business, ma ciò che è stato pubblicato oggi domani è già vecchio. Tutto è in divenire, non ci resta che vivere giorno per giorno la strategia che più si adatta alla nostra azienda, nella consapevolezza che domani può già essere diverso.

«Noi plasmiamo i nostri strumenti e quindi i nostri strumenti plasmano noi» scrive John Culkin, professore di Comunicazione alla Fordham University di New York, amico e ispiratore di McLuhan. Si tratta di un’affermazione che nel 1967 aveva una sua verità tutt’ora valida. Siamo nell’era della rete che ha plasmato la nostra cultura e le nostre modalità di comunicazione. Questo sistema è un “ecosistema” proprio perché - in analogia con il suo corrispondente biologico - garantisce un continuo ricircolo di informazione e trova il suo equilibrio in un costante cambiamento. Federico Badaloni lo spiega molto bene nella presentazione del suo libro in cui analizza l’architettura della comunicazione oggi e ci spiega come questa abbia cambiato il modo di mettere in relazione le informazioni, non più su un unico asse ma in una struttura reticolare.

Siamo nell’era della rete che ha plasmato la nostra cultura e le nostre modalità di comunicazione. Questo sistema è un ecosistema proprio perché - in analogia con il suo corrispondente biologico garantisce un continuo ricircolo di informazione e trova il suo equilibrio in un costante cambiamento. 10


FOCUS La comunicazione multitasking

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numero14 14 numero

La copertina La giocoleria è l’arte (praticata dal giocoliere) di manipolare con destrezza uno o più oggetti. Essa è parte di un insieme più grande di arti (arti circensi) ed è basata sul lancio o sulla manipolazione di oggetti… (fonte: Wikipedia). Come un giocoliere, oggi l’imprenditore si destreggia tra nuovi mezzi, canali, e modalità di comunicazione. Tecniche e regole del gioco sono cambiati, gli strumenti si sono evoluti, e il web ha rivoluzionato l’area di gioco modificandone la struttura. Ma conoscenza, competenza e capacità di sperimentazione sembrano essere i giusti ingredienti per rimanere in equilibrio e vincere anche la partita della comunicazione multitasking.

Una struttura reticolare che vede nello strumento del web un elemento propagatore. Lo hanno capito le aziende che, dal 2015 al 2016, hanno aumentato del 7,5% gli investimenti pubblicitari sul web, principalmente search e social (*Fonte: ricerca Nielsen). Calano alcuni canali tradizionali, come quotidiani e periodici (-6,7% e -4%), mentre altri avanzano, cinema e radio (+6,9% e +15%). “Emerge un maggior investimento medio su tutti i mezzi – commenta Alberto Dal Sasso, TAM e AIS Managing Director Nielsen – da parte di un numero minore di aziende rispetto al 2015”, che però probabilmente sono le aziende che sono state sempre abituate a comunicare e che, con i necessari adattamenti, continueranno a farlo. Imprese che sperimentano e analizzano, alla ricerca del mezzo, dello stile e del registro che più si adatta loro. E, a proposito di registro, quanto il digitale ha influenzato il modo di scrivere? Abbiamo dovuto accettare il conflitto tra la carta e il digitale, grandi cambiamenti sono avvenuti ma tendenzialmente siamo più sul fronte del conservare che dello stravolgere. Eppure un marchio oggi può raccontarsi solo adottando il linguaggio più adeguato alla piattaforma che sta utilizzando. Sicuramente l’online ha avuto anche l’effetto di abbattere drasticamente le gerarchie e le distanze fra le persone, quindi l’azienda ha cambiato il proprio tono di voce. Per farsi riconoscere dal suo pubblico deve farsi percepire più vicino. Non solo, l’emozione rimane tra le leve principali di una comunicazione efficace. Ce lo dice la disciplina del neuromarketing, che fonda le sue regole sullo studio scientifico di come il cervello umano reagisce agli stimoli di marketing. Lavorare sull’emozione è uno dei segreti per farsi ricordare. Lo sanno bene Ceres e Swatch che hanno fatto della loro comunicazione unconventional la loro soundtrack. Ma come analizzare l’impatto dell’emozione che abbiamo scatenato? L’ingegneria reputazionale aiuta le aziende ad individuare e orientare in modo positivo la propria web reputation. Il segreto è sempre lo stesso: mai contenuti casuali ma ben governati a seconda del proprio obiettivo di comunicazione. Con una panoramica di canali a disposizione, le imprese oggi sono difronte ad un bivio importante: affrontare il gap, sperimentare, imparare e adattare, o perdersi nel mare di un’overload informativa indifferenziata. Ricordando che la reputazione e la coerenza delle scelte, anche comunicative, rispetto ai valori di cui un marchio si nutre, che viaggino online oppure off, rimangono il principale cavallo di battaglia delle imprese che si distinguono sul mercato, come modelli economici e non solo.

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FOCUS

IL PUNTO SU...

La comunicazione multitasking Il mercato degli investimenti pubblicitari Fonti:

http://www.nielsen.com/it/it/press-room/2017/the-advertising-market-in-italy-in-2016.html

+

2,3%

7,5%

6,9%

3,4%

Radio

Web Advertising

Cinema

Go TV

6,7%

4,3%

4,0%

Quotidiani

Outdoor

Periodici

-

Andamento degli investimenti per settori merceologici Edilizia Tempo libero Distribuzione Farmaceutici/sanitari Abitazione Automobile Telecomunicazioni

14% 5,9%

Finanza Abbigliamento

+

-

crescita totale

La comunicazione istituzionale digitale nelle aziende Fonti:

38,4% 16,9% 11,2% 7,7% 6,3% 5,9% 4,8%

+ 1,7%

ricerca Doxa 2015 per iCorporate

100%

66%

utilizza canali digitali per gestire la comunicazione

ha aperto presidi sui social media

3,1%

66%

numero medio di strumenti digitali utilizzati

pensa che la comunicazione corporate digitale riesca ad influenzare i comportamenti 13 d’acquisto


numero 14

STEFANO MORIGGI

QUANDO IL MONDO TORNÒ “PIATTO” LE NUOVE LOGICHE DELLA COOPERAZIONE DIGITALMENTE AUMENTATA.

Da quando, anche in Italia nel 2003, si è appresa la teoria delle “3 T” di Richard Florida, il dibattito sulle abilità su cui investire al fine di stimolare e agevolare l’ascesa di una “nuova classe creativa” pareva essersi arricchito, appunto, di tre nuove e imprescindibili parole d’ordine: Tecnologia, Talento e Tolleranza. L’economista di Newark (New Jersey) già all’alba del nuovo millennio era infatti convinto che “il fattore chiave nella competizione globale non fossero più beni, servizi o flussi di capitale, ma la competizione per le persone”. Più nel dettaglio, si tratterebbe di comprendere che, sempre di più, la disponibilità di un capitale umano portatore di idee efficaci ed innovative, condivise, perfezionate e rese operative anche grazie alla duttilità dei nuovi supporti tecnologici avrebbe garantito quel valore aggiunto senza del quale sarebbe ormai impossibile rendersi competitivi nell’epoca della globalizzazione. Il che, come non pochi hanno osservato, sembrerebbe restituire centralità all’essere umano e alle sue “skills” proprio in un tempo in cui le macchine parrebbero aver preso, e da più punti di vista, il sopravvento. Sintetizzando, quanto Florida è andato “predicando” in più di un volume - “La classe creativa spicca il volo” (Mondadori) è solo uno dei suoi testi dedicati al tema - è la necessità di scommettere su una combinazione opportunamente calibrata di talenti in grado di cooperare, confrontandosi criticamente e valorizzando le proprie diversità e differenze. Ovviamente, avvalendosi del potenziamento strumentale, sempre più performativo, offerto dalle piattaforme tecnologiche funzionali a costituire, sostenere e (almeno potenzialmente) far evolvere team, équipe e gruppi di lavoro per cui i tradizionali vincoli spaziotemporali vanno relativizzandosi. 14

Ora, che la diversità (di opinioni, di temperamento, di formazione, di cultura, di provenienza, ecc.) rappresenti, se debitamente gestita, una ricchezza all’interno di un qualsivoglia progetto cooperativo è cosa assodata da tempo; che la tecnologia, proprio per il fatto stesso di consentire (anche) collaborazioni a distanza, possa favorire la composizione di “formazioni” eterogenee, è un’esperienza ormai quotidiana; che, infine, la tolleranza sia un terreno fertile su cui far crescere e prosperare “classi creative” sul modello definito da Florida o che, quanto meno, costituisca il minimo comune denominatore utile per superare costruttivamente i conflitti e le divergenze che ogni autentica diversità inevitabilmente porta con sé, è evidenza non meno metabolizzata, quanto meno a parole… Tuttavia, come sempre quando si ha a che fare con la tecnologia, bisogna fare attenzione a non ridurre il contributo delle “macchine” all’interno di un qualsivoglia progetto (o idea) - nella fattispecie si tenga pur conto del modello delle 3 T di Florida - alla sua dimensione puramente strumentale. Mi è capitato più volte in questo senso, anche dalle pagine di Logyn, di raccomandare la necessità di “pensare con le macchine”. Ovvero, di sottolineare l’importanza e l’urgenza di approfondire la natura e le dinamiche della nostra interazione con le tecnologie indagando, tra l’altro, come la mediazione col mondo “fuori di noi” consentita e filtrata da dispositivi diversi tenda a rimodellare stili di vita, di relazione e di apprendimento. Non fa eccezione il tema della cooperazione così come fin qui è stata tematizzato e auspicato. Sarebbe infatti ingenuo dare per scontato che le logiche cooperative di gruppi,


PENSARE con le macchine!

15


numero 14

più o meno eterogenei, che si generano quando si lavora faccia a faccia, siano del tutto identiche che a quelle che si innescano quando, invece, ci si trova a operare on line. Ci si limiterà in questa sede - salvo magari tornare sul tema nei numeri successivi del presente periodico - a prendere in esame alcuni aspetti tutt’altro che trascurabili per chiunque volesse cimentarsi nell’impresa tanto complessa quanto meritevole di creare gruppi di lavoro eterogeneo in grado di lavorare in modo creativo e costruttivo (anche) avvalendosi di ambienti virtuali. Ogni discussione è tale se i partecipanti, magari non tutti, dimostrano di avere opinioni diverse, se non addirittura divergenti, sul tema in questione. In un gruppo di lavoro, proprio facendo tesoro dell’attrito tra le varie “diversità”, si dovrebbe giungere a una qualche conclusione che - per lo meno teoricamente - sia migliore di quelle a cui sarebbero pervenuti i vari individui singolarmente. Al di là del fatto che non sempre, effettivamente, gli auspici teorici si traducono in pratica, la domanda che qui occorre farsi è la seguente: le dinamiche che si innescano nella discussione di un team che lavora in presenza sono del tutto analoghe rispetto a quelle che caratterizzerebbero un gruppo on line? Una delle prime autorevoli ricerche, svolta per altro in un contesto manageriale, che ha cercato di dar risposta a tale quesito ha infatti mostrato che esistono sensibili discrepanze tra équipe che lavorano in presenza e altre che cooperano on line (si veda in proposito: Hightower, R. T., & Sayeed, L. (1995) The impact of computer mediated communication systems on biased group discussion. Computers in Human Behavior, 11(1), 33-44; ma anche Merrill E. Warkentin, Lutfus Sayeed, Ross Hightower (1997) Virtual Teams versus Face-to-Face Teams: An Exploratory Study of a Web-based Conference System. Decision Sciences, 28(4), 975-996). Più nello specifico, i ricercatori hanno osservato come 16

dei gruppi di lavoro (alcuni in presenza altri on line) si comportavano nella selezione di personale da assumere. Utilizzando il paradigma dei profili nascosti, ai soggetti sottoposti all’esperimento veniva chiesto di valutare i curricula di diversi candidati per una posizione di marketing manager. I curricula erano stati modificati in modo che uno solo dei candidati corrispondesse al profilo richiesto e a ciascuno dei componenti dei diversi gruppi venivano fornite solo una porzione dei curricula in questione. Un primo risultato degno di nota è stato che nessun gruppo (né quelli in presenza, né quelli on line) sia riuscito a identificare il candidato “migliore”. Evidentemente, come ha successivamente commentato Patricia Wallace - psicologa del Maryland University College - “lo scambio di informazioni [all’interno dei gruppi] non era stato sufficientemente ampio da consentire di prendere una decisione obiettiva e basata sul quadro completo della situazione”. Ma se l’opportuna osservazione di Wallace ribadisce, ancorché in sintesi, come un “lavoro di gruppo” di per sé non equivalga a una cooperazione razionale, una seconda rilevazione della ricerca contribuiva a individuare una importante specificità dei gruppi on line. Nelle discussioni on line, infatti, era sensibilmente superiore il numero di preconcetti che viziavano i criteri oggettivi di selezione. Osservando quanta parte delle informazioni a disposizione dei singoli individui veniva condivisa nel dibattito, i ricercatori riuscivano a monitorare - e questo, appunto, avveniva molto più frequentemente on line - una tendenza interessante. Se da un lato, infatti, i membri dei gruppi tendevano a condividere informazioni positive sui loro candidati preferiti e informazioni negative su quelli che meno catturavano le loro simpatie; dall’altro, l’evoluzione della discussione tendeva a privilegiare il candidato sostenuto dalla maggioranza. Si andava progressivamente consolidando un consenso acritico, venendo meno le voci di contrasto. E questa inclinazione era circa di due volte superiore nei gruppi on line rispetto a quelli in presenza. Il che, a ben vedere, non deve in alcun modo screditare


PENSARE CON LE MACCHINE tale modalità (co)operativa, ma piuttosto dovrebbe rendere ulteriormente consapevoli che la compresenza delle 3 T di Florida non possa in alcun caso essere intesa come una ingenua giustapposizione di Tecnologia, Talento e Tolleranza; ma vada piuttosto progettata all’interno di una attenta comprensione delle dinamiche culturali e psicologiche che l’interazione con certi supporti e dispositivi possono innescare. Ancora a proposito della “Tolleranza” come minimo comune denominatore utile a ottimizzare il fattore-diversità, si potrebbe aggiungere qualche breve osservazione sul fenomeno del Ingrooup e Outgroup on line. In sintesi, si tratta del costituirsi di un “noi” contrapposto a “gli altri”. In contesti di cooperazione e collaborazione virtuali le differenze culturali, di fuso orario, i diversi ritmi di vita, le barriere linguistiche, usi e costumi dissimili in diversi studi hanno mostrato di avere un impatto potenzialmente ancor più forte che nei gruppi in presenza. Come ha notato ancora Patricia Wallace nel suo recente “Psicologia di Internet” (Raffaello Cortina, 2017): “I team composti da membri geograficamente disomogenei mostrano spesso maggiori conflitti e problemi di coordinamento, e una più

debole identificazione dei singoli con il gruppo. Il problemi - prosegue Wallace - risultano particolarmente pronunciati quando il team è sbilanciato e la parte minoritaria finisce per sentirsi esclusa”. Pertanto, se - come ebbe a sottolineare (2005) Thomas Lauren Friedman nel suo “Il mondo è piatto. Breve storia del Ventunesimo secolo” (Mondadori), la tecnologia (in particolare Internet) ha contribuito a smantellare barriere culturali, temporali e logistiche; d’altra parte, occorre non farsi prendere da un ingenuo ottimismo. La tecnologia che ha reso il mondo (di nuovo) “piatto”, ci impone ora di pensare come questa inedita “flatlandia” - molto diversa da quella immaginata nel 1884 dal fantasioso teologo Edwin A. Abbott - stia riscrivendo, ci piaccia o meno, la grammatica e la sintassi delle nostre relazioni personali e professionali. L’alternativa è lasciare che le 3 T di Florida rimangano (o diventino) un vacuo wishful thinking concettualmente incapace però di dare concretezza alle belle intenzioni di cui è foriero.

Stefano Moriggi Storico e filosofo della scienza Si occupa di teoria e modelli della razionalità, di fondamenti della probabilità, di pragmatismo americano con particolare attenzione al rapporto tra evoluzione culturale, semiotica e tecnologia. Già docente nelle università di Brescia, Parma, Milano e presso la European School of Molecular Medicine (SEMM), attualmente svolge attività di ricerca presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca e l’Università degli Studi di Bergamo. Esperto di comunicazione e didattica della scienza, è consulente scientifico Rai, e su Rai 3 è uno dei volti della trasmissione “E se domani. Quando l’uomo immagina il futuro”. Tra le sue pubblicazioni si ricordano: “Le tre bocche di Cerbero. Il caso di Triora. Le streghe prima di Loudon e Salem” (Bompiani, 2004); (con E. Sindoni) “Perché esiste qualcosa anziché nulla? Vuoto, Nulla, Zero” (Itaca 2004); con P. Giaretta e G. Federspil ha curato “Filosofia della Medicina” (Raffaello Cortina, 2008). Più recentemente (con G. Nicoletti) ha pubblicato “Perché la tecnologia ci rende umani. La carne nelle sue riscritture sintetiche e digitali” (Sironi, 2009); (con A. Incorvaia) “School Rocks. La scuola spacca” (San Paolo, 2011); “Connessi. Beati quelli che sapranno pensare con le macchine” (San Paolo, 2014). 17


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FEDERICO BADALONI La user experience attraverso l’architettura della comunicazione Il nuovo ecosistema dell’informazione nel libro del responsabile Architettura dell’Informazione della Divisione Digitale di Gruppo Editoriale l’Espresso 18


INCONTRI CON Federico Badaloni Segmentare il processo di comunicazione per comprendere meglio i meccanismi che la governano, alla luce delle grandi evoluzioni comunicative in atto negli ultimi vent’anni. Federico Badaloni, architetto dell’informazione e giornalista, ci presenta il suo ultimo libro “Architettura della comunicazione. Progettare i nuovi ecosistemi dell’informazione”, un manuale per chi vuole costruire l’esperienza dell’utente on line il più vicina possibile alle sue esigenze. Da dove nasce questo libro? Per quanto possa sembrare difficile da comprendere ad uno sguardo superficiale, l’intero ambiente che veicola il modo in cui comunichiamo è cambiato. Sono cambiate le strutture che lo regolano e dunque sono profondamente diverse oggi le dinamiche di generazione, scoperta e propagazione di un contenuto. È cambiato il modo in cui scegliamo di informarci ed è cambiato il modo in cui consideriamo un autore degno della nostra fiducia. La qualità della nostra vita dipende dalla qualità delle informazioni che riceviamo. Tuttavia sono proprio i professionisti della comunicazione quelli più resistenti al cambiamento imposto da questo nuovo stato di cose e molti di loro continuano a comunicare attraverso tecniche e strategie del “vecchio mondo”. Il successo dei corsi e dei seminari sulla comunicazione digitale, che sono sempre più spesso chiamato a tenere, mi ha spinto a scrivere una sorta di saggio-manuale che illustri i principi fondamentali di questo nuovo mondo della comunicazione con un linguaggio piano, non tecnico, che consentisse a tutti i partecipanti di approfondire, ripassare, dirimere eventuali dubbi e magari anche di spiegare a propria volta ad amici e colleghi le cose imparate.

Cosa è un ecosistema dell’informazione? Spesso noi architetti dell’informazione ci riferiamo al contesto in cui comunichiamo come un “ambiente”: il web, una app, ma anche un videogioco sono esempi di questi ambienti. In senso un po’ più tecnico, questi ambienti sono “sistemi”. Un sistema è un ambiente che svolge una funzione principale. Ad esempio WordPress è un sistema per pubblicare facilmente un proprio blog o un sito. I biologi chiamano “ecosistema” un sistema la cui funzione principale è garantire un continuo scambio di energia e che trova il suo equilibrio in questo incessante dinamismo.

Oggi i diversi sistemi della comunicazione ai quali eravamo abituati sono confluiti in un unico immenso sistema, che chiamiamo “rete”. Questo sistema è un “ecosistema” proprio perché - in analogia con il suo corrispondente biologico - garantisce un continuo ricircolo di informazione e trova il suo equilibrio in un costante cambiamento.

Quello che è cambiato è il modo di mettere in relazione le informazioni.

Come è cambiata l’architettura della comunicazione da quando è arrivata la rete? In estrema sintesi, quello che è cambiato è il modo di mettere in relazione le informazioni. Prima eravamo abituati a metterle in relazione disponendole lungo un asse, cioè seguendo una direzione prestabilita, come accadeva in un giornale, ma anche in un telegiornale, in una trasmissione radiofonica, in un film. Oggi la struttura portante non è più lineare, ma reticolare. Questo significa, ad esempio, che non è possibile prevedere i percorsi che gli utenti seguiranno all’interno di un sito e quindi l’ordine secondo il quale conosceranno i contenuti che abbiamo prodotto per loro. Per esprimere, ad esempio, il proprio giudizio sulla rilevanza di diversi contenuti, un giornalista dovrà dunque utilizzare delle tecniche differenti dal passato.

Parla di rete come un “grafo”: qual è l’implicazione pratica? Il grafo è un concetto preso in prestito ai matematici. Si tratta di un modello formale in cui esistono “nodi” e “archi” che li collegano. Abbiamo scoperto che le caratteristiche e le dinamiche che regolano i percorsi all’interno di un grafo ci aiutano a comprendere con grande immediatezza il modo in cui comunicare in maniera efficace, organizzare il lavoro di chi produce e cura contenuti, comprendere il modo in cui le persone ridistribuiscono ciò che è stato comunicato loro. 19


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È possibile definire un nuovo modello, un criterio che ci consenta di continuare a comunicare ciò che riteniamo rilevante in questo nuovo ambiente? La risposta a questa domanda è il cuore del libro che ho scritto. Io credo che sia possibile definire un modello e che il segreto stia nella capacità di comunicare modulando opportunamente l’intensità degli archi che conducono le persone da un nodo ad un altro. Quando navighiamo in un sito, ad esempio, percepiamo alcune informazioni come più fortemente collegate di altre e attribuiamo lo stesso giudizio alle diverse pagine che man mano scopriamo nel corso della nostra esperienza di navigazione. Oggi un professionista della comunicazione deve essere in grado di progettare questo tipo di esperienza con grande perizia, perché è da essa che un utente trae il senso complessivo di una comunicazione, così come in passato traeva questo senso nel mettere in relazione le diverse informazioni che si susseguivano nello sfoglio di un giornale o lungo la scaletta di un telegiornale.

Lei parla di funzioni, intese come formule: funzione che definisce il prodotto, il suo significato, il giudizio sullo stesso. Cosa intende e come interviene in un processo comunicativo destinato a vendere in rete? La funzione è il modo in cui un sistema ci conduce alla soluzione di un bisogno. Pensiamo ad esempio ad Airbnb. Si tratta di uno dei sistemi più estesi ed efficienti per trovare alloggio, eppure Airbnb non possiede nessuno degli alloggi utilizzati nel sistema. Oggi molti business che sono sorti in rete hanno avuto successo proprio perché si sono concentrati sui bisogni delle persone e sulla funzione che avrebbero potuto svolgere per soddisfarli. Ragionare in termini funzionali è la chiave per liberare la creatività e inventare nuove forme di business. Ad un particolare metodo di progettazione, che ho chiamato “progettazione funzionale” è dedicato l’ultimo capitolo del libro.

Cosa è necessario oggi per comprendere il significato di un messaggio? Quali sono i percorsi possibili? Comprendere è porre in relazione le informazioni che raggiungono i nostri sensi in un certo ambiente con quelle che abbiamo appreso in passato. Mettere assieme queste informazioni è come assemblare un puzzle. Riusciamo nell’impresa attraverso un processo di tentativi ed errori, spesso molto rapido. Risolvere questo puzzle si configura nella nostra memoria come “un’esperienza”. Il nostro giudizio sul valore di questa esperienza è ciò che chiamiamo “il senso”, cioè il significato di un insieme di informazioni. Ci sono casi in cui tutto questo processo avviene con un solo colpo d’occhio, come quando ci troviamo di fronte alla pagina di un giornale. Altre volte dobbiamo percorrere degli ambienti informativi più complessi, come un sito web, un’applicazione o un ambiente sia fisico che digitale, come un aeroporto o uno spazio espositivo. L’architettura dell’informazione, lo user experience design servono proprio a definire quale sarà il migliore percorso possibile da far compiere alle persone per capire il senso del messaggio che vogliamo lanciare loro.

Federico Badaloni, The Architecture of Communication Designing the new information ecosystems.

“L’utente medio è morto, ma gli altri stanno benone” recita il titolo di un paragrafo. Chi sono i due e che valore hanno sul web? Quando gli utenti di un prodotto del mondo della comunicazione broadcast aumentano di numero, essi convergono verso una sorta di media. Tutte le tecniche di ricerca di mercato che mirano a definire le caratteristiche

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INCONTRI CON

Quando mancano ibridazioni culturali, manca la possibilità di evolvere una cultura, il che significa anche un mercato. di questo utente medio hanno senso in questo contesto perché ci aiutano a migliorare la nostra offerta. In un ambiente reticolare avviene che quando un prodotto o un servizio hanno successo, gli utenti di questo prodotto o di questo servizio tendono a radunarsi in polarità spesso anche molto differenti fra loro. Pochi utenti generano un grande valore su Wikipedia, ad esempio, e molti utenti non ne generano alcuno, ma fruiscono semplicemente del servizio. Si tratta di un fenomeno che segue un andamento definito “distribuzione a legge di potenza”. Tenerne conto nella progettazione degli ambienti informativi e nella gestione quotidiana è essenziale.

La rete è sì un mare indistinto di informazioni, ma si riesce ad essere anche molto consonanti: da un punto di vista di marketing questa consonanza tra informazione e utente è un bene, ma lei non sembra essere d’accordo con questa tesi. Perché? Nella rete che conosciamo oggi, è molto più probabile essere raggiunti da informazioni che confermano ciò che

già pensiamo, piuttosto che da informazioni contrarie. Questo fenomeno, sul quale è uscito recentemente un bel libro di Walter Quattrociocchi intitolato “Misinformation”, limita molto la nostra possibilità di scoperta, di apertura, di evoluzione del pensiero. Chiaramente sono preoccupato dei riflessi che tutto questo ha a livello politico e sociale e francamente dubito, che questa sia una situazione che possa andar bene a chi si occupa di marketing. Quando mancano ibridazioni culturali, manca la possibilità di evolvere una cultura, il che significa anche un mercato.

Ha qualche case study che rispecchia l’architettura della comunicazione di cui lei parla? L’ultima cosa alla quale ho lavorato è stata la homepage di Repubblica.it, ma sono decine i progetti editoriali più o meno grandi che ci vedono occupati ogni mese. Da qualche anno a questa parte, il metodo di lavoro si è consolidato: partiamo dall’individuazione dei bisogni delle persone. Poi analizziamo lo stato delle cose che già esistono, conduciamo un’analisi dei bisogni e degli obiettivi interni (di business, ad esempio, ma anche più genericamente di comunicazione) e chiudiamo questa prima fase con una lista dei constraints, cioè dei vincoli che abbiamo da un punto di vista tecnologico, finanziario, temporale, redazionale. Finita questa fase passiamo a definire il progetto vero e proprio, che è poi una sintesi di tutto questo, cioè il tentativo di rispondere nel migliore dei modi ai bisogni esterni e interni tenendo conto dei nostri vincoli.

Federico Badaloni Architetto dell’informazione e giornalista

Federico Badaloni è responsabile dell’area di Architettura dell’Informazione, User Experience Design e Grafica della Divisione Digitale del Gruppo Editoriale l’Espresso; ha fondato il master in IA e UXD presso l’università IULM di Milano e ne coordina la didattica. Ha pubblicato di recente “Architettura della Comunicazione. Progettare i nuovi ecosistemi dell’informazione”. È autore di numerosi articoli e saggi e collabora regolarmente con diverse riviste. Ha approfondito la metodologia Agile e ha ottenuto la certificazione come Scrum Master presso la Scrum Alliance. È stato presidente di Architecta, la società italiana di architettura dell’informazione, nel biennio 2013/2014.

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OGILVY & MATHER ITALIA L’evoluzione del concetto di agenzia pubblicitaria Intervista a Paolo Iabichino e Giuseppe Mastromatteo, Chief Creative Officer del gruppo Ogilvy & Mather Italia Consulenti di business per un cliente che ha bisogno di essere affiancato, oppure partner per un percorso strategico nel lungo periodo: questa è l’evoluzione dell’agenzia di pubblicità, che si muove come succede all’interno di un organismo vivente. Se cambiano i contesti, le specie animali si adattano alle nuove condizioni. Maggiore complessità ma più opportunità per il cliente, questo un must da cui non si può più prescindere. L’intervista di punta di questo numero è ai due direttori creativi di una delle agenzie di advertising più rinomate nel panorama italiano e internazionale: Ogilvy & Mather Italia. Nel 2006 Ogilvy & Mather Italia decise di puntare sul social media marketing aprendo in Italia 360° Digital Influence. Cosa voleva dire occuparsi di social media marketing nel 2006? Significò guardare con un certo anticipo la straordinaria evoluzione che ci stava venendo incontro. Nel 2006 qualcuno di noi aveva cominciato a intravedere l’ascendente di forum, newsgroup e blog nel condizionare le scelte d’acquisto. I social network cominciavano a fare capolino e sentivamo la necessità prima di tutto di conoscere da vicino queste nuove dinamiche di comunicazione. Non sapevamo ancora cosa sarebbe successo, eravamo ancora lontani dall’uso (e dall’abuso) 22

che verrà fatto più tardi di queste piattaforme, ma sentivamo che le nostre attività di comunicazione avrebbero dovuto tenere in grande considerazione questi nuovi protagonisti. Il primo approccio è stato di studio, di conoscenza e avvicinamento. Quando abbiamo maturato la sensibilità giusta per attivare la conversazione, siamo stati protagonisti delle prime iniziative su questi canali, coinvolgendo clienti come Cisco, per esempio, per un reality ante-litteram che ha coinvolto migliaia di persone in rete per il lancio della campagna Human Network.

Come è cambiato il modo di realizzare campagne pubblicitarie nell’era della comunicazione digitale? È diventato infinitamente più complesso. Le regole della buona pubblicità non sono cambiate, ma stiamo imparando a modulare i nostri messaggi su piattaforme diverse, interpretando la grammatica del canale in base ai comportamenti degli utenti. Una volta agenzie come la nostra si limitavano a declinare il messaggio di marca nei diversi touch point a disposizione, parlavamo a 360° di Big Idea e convergenza dei media. Oggi siamo costretti a strutturare le nostre campagne in maniera molto più articolata: per molti dei nostri clienti le idee hanno lasciato il posto agli ideali e le prese di posizione sono state sostituite dai posizionamenti. Siamo di fatto molto più vicini alle persone interessate dalle nostre comunicazioni,


INCONTRI CON Ogilvy & Mather Italia

La creazione di un annuncio pubblicitario è determinata dalla capacità di trovare la chiave narrativa per far risuonare il messaggio di marca all’interno della vita delle persone. di quanto lo fossimo qualche anno fa. Gli utili dei nostri clienti si basano sul presupposto necessario oggi di essere utili nella vita della persona, per farsi scegliere e non solo comprare.

Trasformare una grande idea in una campagna di comunicazione integrata internazionale. Come avviene questo processo? Con un grande sforzo nel coinvolgimento di un network sano e attivo e sforzandosi di comprendere realmente la portata di rilevanza di un messaggio di marca che deve saper coinvolgere a tutte le latitudini. SanPellegrino, Acqua Panna, Nutella, Merck sono solo alcune delle marche che dall’Italia gestiamo per l’intero panorama internazionale usando Internet o i media tradizionali con lo stesso atteggiamento e la stessa disciplina per ideare, pianificare e misurare i risultati del nostro lavoro.

Cos’ha più valore oggi, il testo o il visual? Come chiedere ai bambini se vogliono più bene alla mamma o al papà. Non si fa. Ci sono piattaforme che privilegiano il contenuto scritto e i long format; altri spazi mettono al centro un utilizzo sapiente e carismatico di foto, illustrazioni, video, animazioni. Altre ancora possono essere giocate attraverso la spettacolarizzazione della tipografia che riesce a coniugare il verbale con l’immaginario.

Nella creazione di un annuncio pubblicitario quanto influisce il genio dell’advertising man e quanto le tecniche di vendita? Le tecniche di vendita non influiscono nella creazione di un annuncio pubblicitario. Condizionano una call to action, una strategia media o altre attività più vicine all’area business to business. La creazione di un annuncio 23


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Se cambiano i contesti le specie animali si adattano alle nuove condizioni. Le competenze professionali evolvono, appunto, naturalmente. pubblicitario è determinata dalla capacità di trovare la chiave narrativa per far risuonare il messaggio di marca all’interno della vita delle persone. Avere un’idea in pubblicità significa vestire i panni dei nostri interlocutori per sorprenderli con una comunicazione che abbiano voglia di vedere, di commentare, di condividere all’interno dei propri network.

Quanto le regole (neuromarketing, SEO, etc.) incidono sulla creatività? Se non vengono usate come esche possono essere un supporto valido al nostro lavoro. Abbiamo aperto Ogilvy Change proprio per capire come le scienze comportamentali potessero aiutarci nella creazione di messaggi sempre più efficaci. Lavoriamo con psicologi ed esperti di questo campo per impattare positivamente nella vita delle persone seguendo i paradigmi del nudging. Il seo è uno strumento per l’indicizzazione e diventare primi nei motori nei motori di ricerca non significa essere primi nel cuore dei consumatori.

In che modo si integrano gli strumenti tradizionali con quelli tecnologici? Da qualche anno lavoriamo per favorire questa integrazione ed è ormai una consuetudine progettuale. È parte della nostra organizzazione. Non sappiamo più lavorare diversamente e il merito è solo delle persone che in Ogilvy hanno saputo reagire al cambiamento adattandosi e uscendo dalle zone di comfort. Non è un fatto di strumenti, ma di sensibilità e conoscenza.

Come si sono evolute le competenze professionali all’interno della vostra azienda? Muovendosi come succede all’interno di un organismo vivente. Se cambiano i contesti le specie animali si adattano alle nuove condizioni. Le competenze professionali evolvono, appunto, naturalmente. Le basi di conoscenza vengono arricchite da nuovi stimoli, nascono nuove competenze che devono essere velocemente integrate e l’organizzazione deve sapersi adattare al mutamento delle condizioni generali. I creativi imparano a confrontarsi con figure nuove che vengono da altri mondi, i nostri clienti scoprono una ricchezza inedita che rende più efficace il loro stare sul mercato.

Come si è evoluto il vostro cliente e le sue richieste? Cosa vi chiedono di diverso rispetto al passato “offline”? Per molti dei nostri clienti siamo diventati dei veri e propri consulenti di business. In un momento di grande trasformazione come quello che stiamo attraversando,

Paolo Iabichino Chief Creative Officer di Ogilvy & Mather Italia

In pubblicità dal 1990, ha inventato e declinato il concetto di Invertising (diventato anche un libro nel 2010) per interagire con un messaggio pubblicitario rinnovato. Insegna in diverse università, scrive su Wired.it e tiene corsi e seminari sulle trasformazioni in atto nel mondo della comunicazione. Nel 2014 ha pubblicato Existential marketing. I consumatori comprano, gli individui scelgono.

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INCONTRI CON l’agenzia deve saper affiancare il cliente nella revisione della propria organizzazione, nel cambiamento necessario per integrare il digitale come asset e non come canale di comunicazione. Alcuni ci chiedono di identificare nuovi modelli di business: per i clienti più illuminati l’agenzia diventa un vero e proprio partner di riferimento per un percorso strategico nel lungo periodo.

Avete vinto diversi premi tra i quali il secondo posto come Best Digital Agency agli NC Digital Awards 2016, per Wind, quali sono le regole dei contenuti digitali che rendono una campagna sul web efficace? La rilevanza. La credibilità. La coerenza della costruzione narrativa nel tempo. I premi sono solo la punta dell’iceberg di un lavoro più profondo che teatralizza il DNA della marca e lo rende visibile agli occhi delle persone. La rete premia quasi sempre l’intelligenza. E questa è l’unica regola oggi per fare dei contenuti che vengano condivisi per la qualità del racconto e per la portata del messaggio che portano in dote.

Quali sono state le case history più importanti per voi in questi 10 anni? Sicuramente Wind e Nutella sono le marche che ci hanno dato enormi soddisfazioni in termini di visibilità e riconoscimenti. Il riposizionamento di Levissima che ha impattato su tutte le piattaforme della marca, costruendo un nuovo racconto, il progetto di riposizionamento

della marca e digital transformation per BPER, Galbani, con cui nel tempo abbiamo costruito una piattaforma di comunicazione per creare vicinanza con i suoi consumatori, mentre ora siamo alla fase evolutiva, che comprende progetti focalizzati sui valori della marca e del suo impegno sociale. Merck con i quali abbiamo iniziato uno straordinario lavoro di comunicazione, diventando hub internazionale dall’Italia nel mondo. Ma ci piace ricordare il lancio di Wired in Italia che è diventato riferimento e oggetto di letteratura in più di un’occasione. La piattaforma Fine Dining Lovers ideata in tempi non sospetti per portare i contenuti di qualità nel brand system di SanPellegrino e Acqua Panna in tutto il mondo. E ancora, il recentissimo lavoro per il rilancio di 3, l’annuncio della nascita di Paramount Channel che anche grazie alla nostra campagna ha superato qualsiasi aspettativa di ascolto in Italia. Negli ultimi dieci anni abbiamo visto marche come IBM e American Express trasformarsi insieme a noi, abbiamo accompagnato gli esordi nei social media delle più importanti industrie italiane, Bulgari per esempio. Abbiamo aperto l’e-commerce The Luxer del Gruppo Della Valle e firmato attivazioni digitali per Armani. Sono davvero tantissimi i progetti che ci hanno impegnato nel processo di brand transformation e start up. Per la maggior parte delle volte i risultati ci hanno dato ragione e quando abbiamo sbagliato qualcosa, abbiamo usato gli errori per comprendere meglio il cambiamento.

Giuseppe Mastromatteo Chief Creative Officer di Ogilvy & Mather Italia

Dal 1996 lavora nelle più grandi agenzie pubblicitarie nazionali e internazionali. Nel 2009, chiamato da EuroRSCG, parte per New York dove per 4 anni ricopre il ruolo di Worldwide Creative Director. Appassionato di fotografia, nel 2005 inizia anche la carriera di artista: le sue opere sono rappresentate da gallerie d’arte contemporanea in Italia, in Francia, Turchia, Belgio e Stati Uniti. Nel suo portfolio ci sono premi nazionali e internazionali, tra cui Epica, Eurobest, D&AD, New York Festival e 3 Grand Prix ADCI.

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LUISA CARRADA La leggibilità passa attraverso la chiarezza, il significato e l’emozione La potenza del racconto sta nell’iniziare dal dettaglio

Luisa Carrada, una sCultrice delle parole, in questa intervista e con le sue parole ci spiega la diatriba tra le parole della carta e quelle del digitale, cosa rimane del linguaggio istituzionale e come oggi un brand deve raccontarsi per avvicinarsi al suo pubblico. 26

Luisa, sei un’esperta di business writing, quand’è che le aziende hanno iniziato a riconoscere il valore delle parole nel racconto che facevano di sé? Alcune – poche – lo hanno sempre saputo, ma la consapevolezza diffusa che le parole sono decisive per la percezione di un’azienda è davvero degli ultimissimi


INCONTRI CON Luisa Carrada anni, cioè da quando i canali digitali si sono moltiplicati e i social sono diventati i luoghi delle conversazioni e della relazione tra aziende e clienti. Le aziende si sono trovate a pubblicare moltissimi testi, anche in tempi molto brevi, per i quali però lo stile istituzionale e il tono di voce ingessato e anche un po’ – diciamolo – paternalistico e presuntuosetto non reggeva proprio più.

Come si entra nella voce di un’azienda e, quando serve, come le si dà nuova forma? Da dove si parte? Si parte dalla riflessione su quello che l’azienda è, sul suo carattere e la sua natura, come se fosse una persona. Anche un’azienda può essere discreta, riservata, estroversa, allegra, ironica, servizievole, di buon senso, un po’ irriverente... La riflessione investe naturalmente le persone cui l’azienda si rivolge e la relazione che si desidera avere con loro, come anche il linguaggio che i dipendenti già usano all’interno, su quello che si raccontano e come lo raccontano. Il tono di voce si elabora quindi prima riflettendo e ascoltando, e coinvolgendo più persone possibili perché lo condividano e lo facciano proprio. Poi naturalmente esistono gli strumenti che aiutano a mantenerlo, a consolidarlo e ad affinarlo come le brand guide e le guide di stile, ma arrivano dopo, non prima. La voce che si sprigiona dai

Si parte dalla riflessione su quello che l’azienda è, sul suo carattere e la sua natura, come se fosse una persona. Anche un’azienda può essere discreta, riservata, estroversa, allegra, ironica, servizievole, di buon senso, un po’ irriverente...

testi di un’azienda è fatta di tante scelte minute, che chi legge non percepisce una per una. Impara solo a riconoscere quella voce quando la incontra. Chi scrive, invece, le compie tutte queste scelte a ragion veduta. Sono sintattiche, lessicali, di ritmo, di pronomi personali che stabiliscono con il cliente la distanza desiderata, di basica semplicità o di leggera ricercatezza linguistica. Un’azienda di articoli sportivi difficilmente opterà per una sintassi morbida e avvolgente, ne preferirà una più ritmata, che ricorda lo scatto prima della corsa, fatta di frasi più brevi e di slanci improvvisi. Un’agenzia di viaggi o un hotel faranno bene ad attingere a un vocabolario ricco, che faccia immaginare i luoghi prima ancora di partire invece di ricorrere ai soliti aggettivi stereotipati come prestigioso o esclusivo. Diciamo che avere un tono di voce originale e riconoscibile significa prima di tutto non scrivere o eliminare tutto quello che avrebbe potuto scrivere qualcun altro.

Hai iniziato lavorando per una società di tecnologia e oggi ti intervistiamo per una rivista edita da un’azienda dello stesso ambito: i settori tecnici hanno più o meno bisogno di un uso sapiente delle parole? Farmi le ossa in un grande gruppo IT è stata una vera scuola, perché mi ha obbligata a mettermi dalla parte di chi quelle tecnologie le avrebbe usate per fare qualcosa di importante nella professione o nella vita. Il comunicatore tecnico è prima di tutto un traduttore e il suo obiettivo è la chiarezza. Oggi si parla molto di emozioni ed è giusto perché sono quelle che ci muovono all’azione, all’acquisto. Ma in ogni comunicazione scritta c’è una scala che parte dalla leggibilità, passa dalla chiarezza, dal significato e culmina con l’emozione. I suoi gradini bisogna percorrerli tutti, anche i più bassi. Per questo sì, i settori tecnici hanno bisogno di un uso sapientissimo delle parole e di un enorme rispetto del cliente, che non ha l’obbligo di conoscere il gergo dei tecnici. Siamo noi che dobbiamo andare da lui, non viceversa.

Parliamo di piramide rovesciata, un modello testuale tradizionale ma adottato con successo anche nei canali web: quanto è cambiato l’uso degli schemi utilizzati nella scrittura offline con l’evoluzione di internet e delle piattaforme digitali di comunicazione? 27


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Non sono mai stata una fanatica della piramide rovesciata a tutti i costi, però è vero che sui canali digitali mettere la cosa più importante al primo posto è fondamentale. Pochissimi sono disposti a seguirci fino alla fine e se non li acchiappiamo subito se ne vanno per non tornare mai più. Però la cosa più importante, quasi sempre, non è la caratteristica innovativa del nostro prodotto ma il bisogno, il problema del cliente. È da lì che bisogna partire, “insinuandosi con delicatezza nella sua conversazione mentale” per usare un’espressione che mi piace molto.

L’online ha avuto anche un altro effetto: abbattere drasticamente le gerarchie e le distanze fra le persone. Questo come ha influito sulla scelta del tono di voce da usare nelle imprese? Ha influito moltissimo nella ridefinizione dei confini tra scritto e parlato, nel senso che oggi l’aspirazione delle aziende è di scrivere facendo percepire al cliente la vicinanza e il senso di parità proprio di una conversazione. Sembra facile, ma è difficilissimo perché è il contrario della spontaneità e della ridondanza del

parlato. Non è nemmeno la mera semplicità. Io la chiamo “naturalezza”, che si traduce in una lettura che non inciampa mai sulle parole, non le vede quasi, ma ci fa ascoltare una voce che ci parla e ci fa andare sempre avanti perché il testo è chiaro e fluido.

Parole e immagini, incroci deliziosi: Paolo Schianchi, che insegna Creatività allo IUSVE, nell’ultimo numero di Logyn scrive che “un’immagine, costruita in modo corretto, oggi, è molto ricca, piena di significati quanto lo era una volta il libro scritto” ed evidenzia che, al contrario, la parola viene utilizzata sempre di più per evocare immagini. Come si sta trasformando la relazione tra queste due entità? Anche per me la nuova relazione tra parola e immagine è uno degli elementi di maggior fascino delle scritture digitali. Spesso l’immagine traina e il testo accompagna: pensiamo al catalogo prodotti di un’azienda o a un post su Facebook. In questi casi bisogna cercare l’integrazione: se l’immagine descrive, il testo può aggiungere, completare, contestualizzare, emozionare. O il contrario. Bisogna riscoprire l’arte della didascalia, che

Luisa Carrada

Esperta di scrittura professionale

Luisa Carrada è autrice del blog Il Mestiere di Scriere (blog.mestierediscrivere.com) e di due libri in cui ha raccontato le sue avventure di editor aziendale sempre in bilico tra carta e digitale: “Il mestiere di scrivere” (Apogeo 2008), “Lavoro, dunque scrivo!” (Zanichelli 2012), “Studio, dunque scrivo” (Zanichelli 2012). Quando non scrive, insegna alle aziende a ideare, smontare e rimontare testi, e a trovare il loro unico e inconfondibile tono di voce. Il suo sito è www.luisacarrada.it

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INCONTRI CON

Io la chiamo “naturalezza”, che si traduce in una lettura che non inciampa mai sulle parole, non le vede quasi, ma ci fa ascoltare una voce che ci parla e ci fa andare sempre avanti perché il testo è chiaro e fluido.

online si usa pochissimo e che invece accresce il potere delle immagini. Scrivere per raccontare, una tecnica di comunicazione che molte aziende usano: quali sono le regole di base che un racconto deve avere per catturare l’attenzione del pubblico? Questa è la formula magica che tutti vorrebbero avere, ma così bella e pronta non esiste. O almeno io non la conosco. È toccare l’altro nel profondo e le vie – non le regole, altrimenti le applicheremmo tutti – possono essere molteplici. Posso però dire qual è una delle mie vie preferite: giocare sul dettaglio, su una cosa piccola e partire da lì. Può essere un’immagine vivida, parte di un quadro più vasto, una breve storia, ma anche un’espressione originale, una ricercatezza linguistica. Di solito non comincio dal generale, quasi sempre dal particolare. Perché la nostra mente che legge vuole sempre colmare il “curiosity gap”: sapere cosa viene dopo, come va a finire, che c’entra quel particolare con il tutto.

“Tiriamo le fila”: tra i lettori di Logyn ci sono moltissimi imprenditori e titolari di aziende, se

le chiedessimo 5 suggerimenti da dare loro per rivedere e migliorare le parole della propria impresa, cosa risponderebbe? 1. Partire sempre dal bisogno del cliente, non dall’antica storia dell’azienda o dal fantastico prodotto di punta 2. Rinunciare a tutte le espressioni e le frasi fatte che si è abituati a leggere in altri siti 3. Non aver paura di scrivere poco: scrivere meno, ma scrivere molto meglio 4. Curare e “lucidare” tutti i microtesti: titoli e sottotitoli, didascalie delle immagini, pagina non trovata, iscrizione alla newsletter... 5. Rileggere e far rileggere tutto ad alta voce: solo così ci accorgeremo se il testo è leggero e fluido, se la sua voce è davvero la nostra. E anche se c’è un errore (che non deve assolutamente esserci, nemmeno un refusino).

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DANIELE CHIEFFI Il giornalismo tradizionale non è morto, anzi Viviamo in una situazione di cross medialità e multicanalità molto spinta, in cui i media si influenzano Gestire i media tradizionali in maniera integrata, come parti di un nuovo ecosistema è il pensiero di Daniele Chieffi, capo ufficio stampa digitale e social media manager di Eni. Il giornalismo o meglio le tecniche giornalistiche esistono perché sono

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alla base della comunicazione digitale. Pensare ai media (tv, stampa, etc.) in modo tradizionale li rende obsoleti, bisogna ripensarli con un nuovo posizionamento, poiché oggi ogni media è una risposta ad un’esigenza informativa diversa.


INCONTRI CON Daniele Chieffi Delle tecniche di giornalismo tradizionale (quelle usate sul cartaceo) quanto è rimasto con l’avvento dei social network? I social network sono una forma di comunicazione disintermediata, che mette in comunicazione il produttore dell’informazione con il pubblico. Sono media come i giornali e la televisione, con l’aggiunta, non da poco, che gli utenti possono interagire direttamente. Perché si riesca a interpretare i bisogni informativi del pubblico e soddisfarli con i giusti contenuti è necessario utilizzare le tecniche giornalistiche. Pertanto ribalto la tua domanda e dico che le tecniche giornalistiche non solo sono sopravvissute, ma sono diventate protagoniste del nuovo ecosistema digitale. I comunicatori sono diventati molto più giornalisti di quanto non fossero prima e i giornalisti hanno dovuto affinare le loro tecniche. Infatti i social network richiedono una comunicazione molto più raffinata di quanto non fosse accaduto prima su nessun tipo di medium anche e soprattutto perché sui social si gestisce l’interazione diretta con gli utenti.

Le tecniche giornalistiche non solo sono sopravvissute ma sono diventate protagoniste del nuovo ecosistema digitale.

Con il mondo on line siamo diventati tutti produttori di contenuti, molte aziende hanno le loro newsletter, un blog, un canale social. Quali sono i criteri per gestire al meglio l’informazione che si va a dare? Dal punto di vista delle aziende, il criterio di base è l’ascolto, nel senso che dobbiamo partire dal presupposto che nei social network, le aziende non hanno una cittadinanza immediata, ma devono entrare in una comunità che le deve accettare, perché le community esistono e pre-esistono indipendentemente dalle aziende. Farsi accettare implica per le aziende la necessità di comprendere di che cosa abbia bisogno quel pubblico ed è l’unico modo per entrare in relazione con esso. Per la prima volta il potenziale cliente ha potere di feedback: può giudicare pubblicamente la soddisfazione dei suoi bisogni nei confronti di quella data azienda. Quindi deve esserci l’ascolto prima di tutto, per capire che cosa dare al pubblico. A monte dell’ascolto c’è un bagno di umiltà da parte delle aziende, che devono costruire la loro comunicazione non più solo su quello che loro reputano importante, ma soprattutto su quello che il pubblico richiede.

Come cambia il peso della verità di un’informazione data online rispetto a un’informazione data offline? Il digitale ha un potere che l’offline non ha: quest’ultimo, infatti, è limitato al singolo media, che ha una capacità di presa limitata. Il digitale tecnicamente non ha confini geografici. Comunicare sul digitale significa assumersi una responsabilità maggiore, perché si comunica con un numero di persone molto più alto. Inoltre se sei un’azienda o comunque un soggetto considerato più affidabile dei media stessi, la responsabilità è maggiore. Per prima cosa, per una questione di etica, non bisogna tradire la fiducia riposta in te. In seconda istanza, un’azienda deve farsi accettare dalla comunità, quindi ha una responsabilità deontologica: deve costruire la migliore informazione possibile perché è suo interesse che questa sia realistica, affinchè possa creare un rapporto con il suo interlocutore.

Per la corretta gestione di un canale social qual è la strategia di base da utilizzare? Ascoltare e pensare sempre che non si è unici, ma parte di una comunità, quindi una strategia è quella di costruire contenuti di valore per la stessa comunità. La terza cosa fondamentale è rispondere in modo attento e umile nei 31


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confronti di tutti. Ogni persona che chiede qualcosa ha una necessità che l’azienda è tenuta a risolvergli se si è all’interno di questo ecosistema. Essere social vuol dire dialogare, non parlare e tradire una promessa.

L’importanza del video in una strategia di comunicazione on line? Negli ultimi due anni, e nei prossimi, il video sarà protagonista. Sul web non si legge più, il testo è un orpello di un oggetto visuale: la colpa di questo è il device che ha uno schermo piccolo e rende difficile una lettura attenta. La scelta aziendale nei prossimi anni sarà orientata sempre di più sul video storytelling.

Cosa sono le media relations per un’azienda oggi? È un concetto che si è allargato notevolmente. Se prima le media relations erano, per un’azienda, costruire una rete di relazione con i giornalisti, oggi sono la capacità dell’azienda di costruire una relazione con tutti i soggetti che sono in grado di influenzare il proprio pubblico di riferimento: giornalisti, influencer, blogger, opinion leader

sulla rete, ovvero tutta quella gamma di interlocutori che il digitale ha creato o al quale ha dato capacità di voce, e con i quali va costruita una rete di relazione molto forte. In sintesi, se prima era più facile costruire un rapporto con il giornalista perché era un rapporto tra professionisti, (giornalista vs professionista, giornalista vs comunicatore), nel mondo del web si ha che fare con non professionisti che seguono regole libere, o comunque tipiche del digitale, pertanto si è costretti a reinventare una professione e soprattutto ad entrare in relazione con questi soggetti in modo completamente diverso.

Il web 3.0 ha portato con sé la possibilità di interagire con il proprio target: che da una parte è un bene perché ha annullato lo spazio fisico, dall’altra invece l’azienda è più vulnerabile agli attacchi mediatici. Come si può gestire una situazione di crisi che nasce dai social? Le crisi per definizione si possono solo contenere. Se scoppia una crisi sui social, il massimo che puoi fare è pareggiare, perché spesso e volentieri vieni sconfitto nel senso che subisci un danno reputazionale. L’ideale sarebbe

Daniele Chieffi

Capo ufficio stampa digitale e social media manager Eni Daniele Chieffi, giornalista professionista, si occupa da sempre di comunicazione digitale. Attualmente è il responsabile dell’ufficio stampa Web, del social media management e del reputation monitoring di Eni. Dirige Neo, la prima collana di saggista crossmediale, edita da Franco Angeli, che racconta l’innovazione digitale. Per oltre 15 anni ha lavorato a Repubblica prima di andare a dirigere la start up di Vivacity.it, catena di portali locali del Gruppo Espresso. Viene poi chiamato a fondare e gestire le relazioni del Gruppo UniCredit con i media on line. Ha pubblicato cinque libri per il Sole24Ore, Franco Angeli e Apogeo e insegna presso l’Università Cattolica di Milano, La Sapienza di Roma, il Cuoa di Vicenza e la Business School del Sole24Ore. Ha fondato e gestisce la community professionale www.olmr.it.

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INCONTRI CON

I comunicatori sono diventati molto più giornalisti di quanto non fossero prima e i giornalisti hanno dovuto affinare le loro tecniche perché i social network richiedono una comunicazione molto più raffinata di quanto non fosse accaduto prima [...] non far scoppiare la crisi e prevedere tutte le situazioni critiche possibili, ma non è semplice. Nel momento in cui ci si trova in una situazione del genere i consigli che mi sento di dare sono tre:

• capire quali sono le richieste che le persone stanno

facendo rispetto alla discussione. Identificare questo primo trend e costruire in tempo reale delle risposte entrando in rapporto empatico con gli stakeholder;

• gestire il più possibile i flussi di informazione che

creano malintesi, controbattere con un’informazione corretta prendendo una posizione ufficiale;

• non aver paura: entrare nei social significa essere

esposti agli attacchi. Questi ultimi non sono negativi, diventa negativa l’incapacità di gestire le due cose di cui sopra. Se si riescono a governare questi due aspetti gli attacchi non sono lesivi.

In merito allo scontro tra ENI e Report avvenuto a dicembre 2015, si è parlato di una vera e propria rivoluzione dei rapporti tra diversi mezzi di comunicazione, ovvero tra TV e social. Pensate di aver contribuito significativamente a far comunicare in tal senso i due differenti canali? Ci siamo presi un diritto di replica che un format televisivo non garantiva. Tecnicamente abbiamo pensato di entrare in un flusso narrativo dicendo la nostra. Abbiamo voluto contribuire alla completezza dell’informazione e non certo per mettere in discussione una trasmissione come Report. Mi sento di dire, però, che abbiamo contribuito

a far comunicare i due canali e a mettere in crisi un’idea di format televisivo che pensa a se stesso e al medium televisivo come un silos isolato. Non c’è più un media isolato dall’altro. Viviamo in una situazione di cross medialità e multicanalità molto spinta, in cui si influenzano. Ciò che abbiamo contribuito a fare è stato ampliare un approccio cross mediale che già si è sviluppato sulla televisione di intrattenimento come Sanremo, per esempio, che ha una parte social molto spinta e noi in questo caso lo abbiamo fatto esplodere anche nella parte del giornalismo investigativo.

Il destino dei media tradizionali: convivenza con i canali digitali oppure finiranno nel dimenticatoio? Non ci saranno media che finiranno nel dimenticatoio, perché ogni media è una risposta ad un’esigenza informativa. Il pubblico è portatore di un’esigenza informativa che contiene in sé lo strumento con cui questa esigenza deve essere soddisfatta. I media tradizionali continueranno nei media mix generali a cui noi ci rivolgiamo per essere informati. La carta stampata, come anche la televisione generalista, probabilmente diventerà meno centrale rispetto alla rete informativa. Ci rivolgeremo a ciascun media per un tipo di informazione diversa. Il problema non sarà la sopravvivenza in sé concettualmente parlando, quanto la loro sostenibilità economica; bisognerà cambiare le modalità di business che dovranno essere adattate a queste nuove piattaforme, che non credo scompariranno, ma cambieranno il loro posizionamento. 33


informazione pubblicitaria

Oggi la forza lavoro sta cambiando e la mobility del business è una delle principali sfide per i dipartimenti IT delle aziende, a prescindere dalle loro dimensioni. Sono finiti i giorni in cui i dipendenti lavoravano esclusivamente dall’ufficio su un unico dispositivo aziendale. Oggi le persone lavorano e si connettono da luoghi diversi (sedi dei clienti, azienda, camere di hotel o propria abitazione), e utilizzano, in media, almeno tre dispositivi differenti nello svolgimento delle loro mansioni. Gli analisti prevedono che nei prossimi due anni la metà dei datori di lavoro permetterà ai dipendenti di usare i propri dispositivi personali (computer portatili, smartphone e tablet) anche per lavoro e ciò significa che il numero dispositivi BYO aumenterà esponenzialmente.

Dal Bring Your Own Device al workspace

Applicazioni, dati e desktop ovunque e su qualsiasi dispositivo, in tutta sicurezza

Tuttavia, i dispositivi BYO rappresentano solo l'inizio di un processo molto più complesso. Mentre la mobility si impone sempre di più, le aziende hanno faticato a tenere il passo con le esigenze degli utenti riguardo l'accesso alle applicazioni o all'uso di dati aziendali su qualsiasi dispositivo e da qualsiasi luogo. Quello che hanno fatto, invece, è stato l'acquisto di tecnologie per affrontare i propri punti deboli dal punto di vista tattico – applicazioni in modalità hosted per l'accesso remoto, desktop virtuali per i collaboratori esterni o gestione dei dispositivi mobile per i dispositivi mobile aziendali – e hanno ampliato la distribuzione di questa tecnologia nella misura in cui sono cresciuti i relativi casi d'uso e le esigenze degli utenti. Ora le stesse aziende si trovano ad affrontare il peso di molteplici infrastrutture estremamente costose, ognuna delle quali richiede gestione, assistenza e capacità specifiche. È quindi giunta l'ora di di ripensare al modo in cui le organizzazioni forniscono servizi per desktop, mobile, applicazioni e dati con una soluzione capace di integrare applicazioni, desktop, dati e servizi in modo ottimizzato e sicuro, per fornire un accesso semplice e sicuro ovunque. La soluzione ideale è quindi un mobile workspace in grado di seguire un dipendente a prescindere da dove vada o dal dispositivo che scelga e dalla rete che si trovi a utilizzare. È qui che entra in gioco Citrix Workspace Suite, la soluzione leader di mercato per il mobile workspace che soddisfa tutti questi requisiti di variabilità, consentendo al reparto IT di distribuire in sicurezza tutte le applicazioni – Windows, web, SaaS e mobile – i dati e i servizi su qualsiasi dispositivo, e su qualsiasi rete.


Citrix Workspace Suite

Accesso self-service a tutte le applicazioni

Con questa soluzione i lavoratori possono accedere a tutte le loro applicazioni e dati, perfino ai loro desktop personalizzati, da qualsiasi dispositivo aziendale o BYO, compresi tablet, smartphone, PC, Mac o thin client. Allo stesso tempo, il reparto IT può personalizzare il giusto set di applicazioni, desktop e dati, ottimizzando i contenuti per soddisfare i requisiti di sicurezza, prestazioni, personalizzazione e mobility di ogni singolo lavoratore.

Citrix Workspace Suite offre un app store unificato in grado di riunire applicazioni Windows, web, SaaS e mobili, affinché sia possibile distribuirle a qualsiasi dispositivo. L'app store permette al reparto IT di ospitare tutti i servizi aziendali in un unico luogo, al quale i lavoratori possono accedere in modo self-service in tutta sicurezza. Include inoltre applicazioni mobile native e sicure per e-mail, calendari e per navigare sul web, al fine di massimizzare produttività e sicurezza.

Un'esperienza per l'utente dalle prestazioni elevate Utilizzando un client universale disponibile su tutti i tablet, smartphone, PC, Mac o thin client, l'IT può erogare contenuti Windows ad alte prestazioni su WAN con scarsa larghezza di banda e ad alta latenza, o su reti cellulari 3G/4G altamente variabili, allo stesso modo di una LAN aziendale pienamente affidabile.

Secure by design I lavoratori possono accedere e sincronizzare tutti i loro dati da qualsiasi dispositivo e condividerli in sicurezza con le persone sia all'interno che all'esterno dell'organizzazione. Allo stesso tempo, il reparto IT dispone della flessibilità necessaria per gestire tali dati on-premise, sul cloud o utilizzando un mix di entrambe le tecnologie per ottimizzare i costi. Le organizzazioni possono infine minimizzare la perdita di proprietà intellettuale e informazioni private sensibili attraverso la centralizzazione delle applicazioni e dei desktop, mantenendo tutti i dati nel datacenter.

Una soluzione singola e flessibile Con la gestione centralizzata e la distribuzione on-demand di immagini standard, il reparto IT può migliorare il tasso di successo degli aggiornamenti dell'immagine contenente applicazioni e desktop, e fornire la gestione basata su ruoli, la configurazione, la sicurezza e il supporto necessari per i dispositivi aziendali e di proprietà dei dipendenti.

Per maggiori informazioni:

www.citrix.it


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LUCA LA MESA Social network, vita morte e miracoli Qualità e quantità, due variabili imprescindibili

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Un presente pregnante di social media lascia presagire un futuro in cui inevitabilmente si perderà qualcuno strada facendo. Chi riuscirà a sopravvivere? Chi riuscirà a mantenere sempre più alto il valore aggiunto verso gli utenti e i minuti che si passano

dentro la piattaforma. E l’azienda? I brand dovranno pubblicare meno spesso ma contenuti di qualità. Un viaggio con Luca La Mesa, Social media manager che ha fatto dei social media la sua professione.

Da specialista della comunicazione e di social network, qual è stato il tuo percorso di evoluzione?

Il mio percorso è stato particolare. Ho iniziato lavorando nel Marketing di Procter&Gamble e Unilever per poi specializzarmi sui nuovi media. Proprio mentre lavoravo


INCONTRI CON Luca La Mesa sul brand Dove in Unilever compresi che i social media avrebbero cambiato il mondo delle agenzie di comunicazione. I social sono in continua evoluzione e sono convinto che i risultati migliori si possano ottenere solamente impegnandosi ad aggiornarsi in maniera continuativa. Decisi dunque di uscire da Unilever per aprire un’agenzia specializzata principalmente in gestione di strategie avanzate di social media.

I social riescono indubbiamente ad amplificare la risonanza di eventi, prodotti e aziende. Usarli tutti è una strategia doverosa per l’azienda? Quale consiglio vuoi dare per un uso consapevole ed efficace dei social media? Assolutamente no. Non bisogna tassativamente essere su tutti i social network. Questo approccio spesso induce ad impostare degli automatismi di auto-pubblicazione su più canali che possono generare seri danni. Ciascun social è come se fosse una “lingua” diversa e bisogna presidiare solo quelli che ci danno, numeri alla mano, i migliori risultati nel dialogare con il nostro target. Spesso è meglio essere presenti su un numero inferiore di canali, ma con una presenza di qualità maggiore.

Come faccio a sapere se la mia strategia funziona? È la domanda che tutti dovrebbero porsi, ma alla quale non sempre si è in grado di rispondere. I social media hanno due grandi vantaggi rispetto ai media tradizionali. Una barriera all’ingresso molto bassa per sperimentare le prime campagne a pagamento e una grandissima capacità di profilazione del target. Queste due caratteristiche ci permettono di fare molti esperimenti anche con budget

ridotti e raccogliere un gran numero di dati e metriche da poter analizzare. Una frase che ripeto spesso ai miei studenti è “Non c’è niente di migliorabile se non è misurabile”. Se la strategia funziona devono dircelo i numeri. Spesso si fa l’errore di impostare degli indicatori KPI (Key Performance Indicator) che vengono definiti “Vanity Metrics”. Sono delle metriche che servono semplicemente a “farci belli”, ma che non rappresentano realmente se una strategia sta funzionando. L’errore classico è quello di dare troppo peso al “numero di fan” su Facebook. I fan sono importanti, ma chiunque opera su questo canale sa bene che, pur avendo molti fan, solo una piccola percentuale di essi vedrà organicamente (gratis) i nostri contenuti. Dire dunque che nello scorso trimestre la strategia ha funzionato perché sono cresciuti del 30% i fan probabilmente è segnale di un problema di comprensione del mezzo. Appena uscito dall’Università ero convinto che il marketing fosse “creatività”, che avremmo dovuto ideare nuove campagne sempre più creative. Dopo pochi giorni in P&G notai come la maggior parte dei Brand Manager fossero in realtà ingegneri che passavano buona parte del loro tempo a interpretare dati per valutare le performance delle loro strategie.

La viralità è una delle parole più ambite in questo momento: per un’azienda è meglio la viralità o un contenuto di valore? I due aspetti sono fortemente legati. I social sono ormai diventati dei “paid media”, cioè dei canali a pagamento. Si possono fare moltissime attività gratis, ma il vero vantaggio lo si ha quando si attiva la parte pubblicitaria. Bisogna dunque educare i clienti ad avere sempre due budget distinti. Il primo budget lo definisco la “qualità”, ed è quello che ci permette di studiare le migliori strategie e i migliori contenuti. Il secondo budget lo chiamo la “quantità” e risponde alla domanda “quanto vuoi che i tuoi contenuti vengano visti?”. Se si investe tutto in qualità è come se avessimo una bellissima rivista ma senza nessuna copia stampata. Se investissimo tutto in “quantità” rischieremmo di far arrivare a decine di migliaia di persone un messaggio di scarsa qualità. L’equilibrio come sempre è al centro e se puntiamo alla viralità sicuramente dobbiamo avere un’idea originale, un contenuto di qualità ma anche una capacità iniziale di “accendere la miccia” per farle fare velocemente i primi passi sulle bacheche degli utenti in target. Saranno poi loro a condividerlo molte volte per renderlo virale. 37


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All’interno di un oceano di contenuti qual è il modo migliore per farsi pescare? Nel futuro sono convinto che i brand dovranno pubblicare meno spesso, ma contenuti di qualità maggiore. La vera difficoltà è ottenere “attenzione” in un mondo pieno di stimoli. Ogni due giorni stiamo creando tanti contenuti quanti ne ha creati l’uomo dall’origine dei tempi al 2003 (5 Exabites di contenuti ogni 48h). Questo, come potete immaginare, ha due implicazioni. La prima è che è molto più difficile anche solo apparire organicamente (gratuitamente) sul newsfeed degli utenti Facebook data la grande competizione di contenuti a disposizione. La seconda è che, al crescere dei contenuti che tutti noi creiamo, sta calando la qualità degli stessi. Per emergere in questo oceano di contenuti la strategia migliore è dunque puntare su contenuti di qualità maggiore e impostare una minore frequenza di pubblicazione. In questo modo quando avremo l’attenzione dell’utente lui sarà molto più interessato a noi e non vedrà l’ora di vedere i nostri futuri contenuti o andrà nella nostra pagina per vedere quelli passati.

Quali sono i social media che secondo te sono destinati a “morire” e quali quelli che invece hanno un futuro prospero? Da cosa dipende ciò? Quando andavo all’università ci dicevamo che per avere successo avremmo dovuto avere un’idea. Avremmo dovuto inventare, ad esempio, il nuovo sito per raccogliere i video (YouTube) o per affittare la propria

casa (Airbnb). Oggi non siamo più nell’era delle idee, ma dell’Execution. Le idee non bastano ma il mercato prende il primo che le realizza su grande scala. Ciò ha un enorme impatto sul futuro dei social media e di molte app. In pochi sanno che anni fa Facebook stava per essere acquistato da Yahoo. Proprio all’ultimo Mark si tirò indietro e nel tempo Yahoo ha iniziato a calare di valore. In quella storia Mark ha imparato qualcosa di importante. Non importante quanto tu sia grande, prima o poi potresti calare rapidamente e anche chiudere. La tecnologia ci dà moltissimi esempi in questa direzione. Quello che Facebook sta facendo per “non morire” è una strategia molto ben studiata. Sapendo che il futuro potrebbe non essere “facebook come lo conosciamo oggi” ha deciso di acquistare tutti i futuri trend. Dal 2004 al 2014 ha speso in acquisizioni una cifra paragonabile al PIL dell’Uganda (22 miliardi di dollari). Ha comprato prima Instagram, poi WhatsApp, poi Oculus e decine di altre società. Quelle che non è riuscita a comprare, come ad esempio Snapchat, le sta provando ad imitare (ad esempio con le Instagram Stories e le Facebook Stories) proprio sfruttando ciò che dicevamo sopra, che in alcuni ambiti non contano le idee ma chi le realizza su grande scala. Proprio in questi giorni una startup italiana ha vinto un primo round legale dimostrando che Facebook abbia quanto meno preso spunto da un’idea che loro gli avevano proposto e che aveva rifiutato, salvo poi lanciare pochi mesi dopo qualcosa di simile. Rimarranno dunque i social che riusciranno a mantenere sempre più alto il valore aggiunto verso gli utenti e i minuti che essi passano dentro la piattaforma.

Luca La Mesa

Esperto di marketing e innovazione Dopo aver lavorato nel Marketing di Unilever e Procter&Gamble, si è specializzato sullo studio delle strategie avanzate di Social Media Marketing e su tecniche di innovazione. Ad oggi si divide tra la consulenza verso i top brand (Fendi, Pirelli, CONI, Olimpiadi di Rio 2016 - #ItaliaTeam, Internazionali BNL d’Italia, ecc..) e la formazione in ambito Universitario. In questi anni ha insegnato in HEC Paris, Sapienza, John Cabot University ed è il 1°Top Teacher in Italia di Ninja Academy. È il Presidente di Procter&Gamble Alumni Italia. Nel 2015 ha studiato tecnologie esponenziali nel centro di ricerca della NASA in America (Singularity UniversityNASA Research Park) e al suo rientro in Italia è stato nominato Chapter Ambassador con la responsabilità di aprire e gestire il chapter di Roma: SingularityU Rome. Nel suo ruolo di mentor ha vinto per due anni consecutivi (2015 e 2016) la competizione nazionale di Wind: “Wind Startup Award”. 38


INCONTRI CON Ceres

CERES Unconventional per stupire “Una comunicazione social che non osa non porta al risultato”, parola di Simonluca Scravaglieri, Brand Manager con focus sul canale Fuori Casa e della comunicazione Digital Ceres Ceres ha costruito un tono di voce e un set valoriale coerente negli anni e questo ha permesso di essere riconoscibile sia come brand che come “personaggio”. Messaggi pubblicitari mainstream che si adattano ad ogni canale. Sui social in particolare adottano una campagna che tiene sotto controllo gli hot topics su cui costruire i messaggi, frutto di un lavoro di squadra tra l’agenzia e l’azienda. La tempestività è l’unico modello che si adotta. Come è stato l’impatto con la comunicazione digitale? Passaggio immediato o graduale? Ci sono elementi comuni tra le due realtà? La comunicazione digitale è diventata un must have nel momento in cui Internet, e nello specifico i social, sono diventati un touch point stabile con il consumatore, soprattutto con i nativi digitali. Il passaggio è stato ovviamente graduale, come graduale è stato l’approccio del consumatore alle differenti realtà digitali con le quali può entrare in contatto. La grande differenza rispetto ai grandi mezzi di comunicazione (Radio e TV) è strettamente legata alla velocità d’evoluzione dei mezzi digitali. Le meccaniche di engagement su Facebook negli ultimi 6 anni hanno subito variazioni massicce che hanno portato Ceres a modificare il suo metodo comunicativo nei confronti del consumatore, sempre mantenendo però alla base i suoi valori e il suo tono di voce.

Cosa significa comunicare oggi per un’azienda come Ceres rispetto a dieci anni fa? Ci sono diverse modalità. Quando siamo partiti con il go live finale dell’app, un venditore ha postato la sua 39


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esperienza, dicendo di essere stato in un certo punto vendita e aver posizionato il pitone (il tubo che collega la spina al barilotto di birra) in un certo modo. La proponeva come best practice, ma era l’opposto della procedura proposta qualche settimana prima, che probabilmente non è arrivata, attraverso i canali ufficiali. Il direttore vendite era presente, così in trenta secondi è stata individuata una situazione che magari non sarebbe saltata all’occhio per mesi. Il venditore ha commesso quell’errore in buona fede ed è stato possibile evitarne molti altri. Una seconda possibilità è legata al sistema di Governance. Rispetto agli argomenti vengono nominati dei knowledge-owner esperti. Quest’estate un venditore voleva organizzare una festa in spiaggia e aveva il problema di tenere in fresco

la birra. Hanno risposto in molti, poi è intervenuto il knowledge-owner responsabile, dicendo che si faceva in un certo modo: quella è diventata la procedura da usare ogni volta che un venditore vuole organizzare una festa in spiaggia.

Quali sono gli ingredienti che hanno portato Ceres ad assumere lo status di icona del social media marketing? La forza di Ceres è proprio quella di aver lavorato in modo egregio negli anni precedenti. La costruzione di un tono di voce unconventional e di un set valoriale ben definito le ha permesso di poter diventare “personaggio” oltre che brand, di poter costruire e creare storie oltre che messaggi pubblicitari mainstream. C’è poi tanto coraggio da parte dell’azienda e audacia da parte dell’agenzia di comunicazione. Una comunicazione social che non osa non porta al risultato, perché non stupisce, non si distingue dal resto della competition e non esce dalle timeline degli smartphone degli utenti. Ultimo punto fondamentale è la velocità di esecuzione tanto della creatività quanto delle approvazioni. Un’azienda che si muove velocemente si adatta al meglio all’interno del mondo dei social networks che vanno a velocità tripla rispetto al resto del mondo della comunicazione.

Come ci spiegate la scelta del vostro linguaggio comunicativo? Quanto è difficile rimanere coerenti?

Simonluca Scravaglieri

Brand Manager con focus sul canale Fuori Casa e della comunicazione Digital Ceres In Ceres dal 2014, come brand Manager con focus sul canale Fuori Casa e della comunicazione Digital, dopo un’esperienza di tre anni in Bolton Alimentari dove ha ricoperto diverse funzioni dal Trade Marketing al Marketing passando per un’esperienza nel reparto Sales. 40

La scelta dipende dalla tipologia di prodotto, dal posizionamento di brand e dal mercato di riferimento. Ceres Strong Ale è una birra doppio malto ad alta gradazione dal gusto differente rispetto alle lager classiche, più Strong. Alla prima bevuta è un prodotto che stupisce, segmenta. Il posizionamento del brand ha ripreso pienamente queste caratteristiche di prodotto rendendolo assolutamente unconventional e al di sopra delle righe degli stilemi comunicativi del mercato birre, un mercato in cui la bassa gradazione detiene la maggior parte delle quote e in cui un prodotto e una comunicazione differenti spiccano e permettono una visibilità maggiore. Il tono di voce di Ceres discende da questo quadro molto chiaro ed è uno dei punti di forza del brand. La difficoltà nel rimanere coerenti non è alta, perché tutta l’azienda, dal reparto marketing fino all’amministrazione, respirano questo posizionamento “differente” rispetto al mercato, è molto più alta, invece, l’attenzione che ognuno in azienda e in agenzia presta a garantire che ogni messaggio


INCONTRI CON

di comunicazione sia in linea con gli elementi che compongono un DNA chiaro e differenziante.

Siete in presa diretta su tantissimi fatti quotidiani. Che modello adottate internamente per la vostra strategia di real time marketing? Non ci sono modelli precostituiti, ma sicuramente una buona organizzazione di squadra, tra azienda e agenzia. I temi del giorno “trattabili” e “non trattabili” sono molti. L’approccio di Ceres è lo stesso con tutti in termini di primo filtraggio. Nel caso in cui qualche tema sia più rilevante di altri una parte propone all’altra la possibilità di lavorare a una creatività. Non ci sono regole per cui un tema possa essere proposto dall’agenzia piuttosto che dall’azienda. Le due entità nell’analisi dei trend o hot topics del giorno lavorano insieme, in squadra. L’agenzia poi si occupa della creatività e l’azienda di approvarla o rigettarla. Il vero modello che si adotta, l’unico, è la tempestività, che non si tramuta mai in fretta. Perché il rischio di trasformare un post in un epic fail è sempre dietro l’angolo.

I social media influiscono sul rapporto con il cliente? In che modo? Il cliente, il consumatore e il non consumatore che entrano in contatto con i social network di Ceres sanno con chi parlano e chi hanno di fronte, sanno cosa stanno bevendo e sanno perché la bevono e perché non la bevono. La bottiglia di Ceres fa parlare di sé e il tono di voce dato attraverso i social rafforza questo legame tra la voce del brand e il prodotto per i consumatori.

Oltre a fare branding con i social media, li usate per altri fini? (esempio: assistenza al cliente) Al momento l’obiettivo principale è branding più recruitment. L’assistenza al cliente è un fatto implicito dei social networks. Difficilmente arriveremo ad avere un meccanismo di social caring come Trenitalia o Alitalia. Sicuramente però attraverso i social rispondiamo a necessità o bisogni dei nostri consumatori. Difficilmente, infatti, queste richieste arrivano ormai via fax o attraverso il sito del brand.

A differenza di molti altri brand voi avete scelto un tipo di comunicazione “local”, targhetizzata in base al territorio. Quali sono le differenze tra la comunicazione in Danimarca e in Italia? È un punto legato alla distribuzione di Ceres Strong Ale in Europa. Il prodotto così come lo conosciamo in Italia è presente solo in Italia e solo in Italia è conosciuto con queste meccaniche di branding.

Quali sono i 3 post più riusciti o di cui siete particolarmente soddisfatti? Il post sulla Barcaccia, perché ha dato il via a un filone. Il post sul Pirellone, perché ha toccato un insight che riteniamo particolarmente importante per Ceres e per i consumatori. Il post del Fertility Day, per il punto valoriale fatto e per la forte presa di posizione ben decodificata dagli utenti. 41


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ANDREA BARCHIESI Web reputation: se nessuno parla di te non esisti L’ingegneria reputazionale per progettare la propria identità digitale Andrea Barchiesi, CEO e fondatore di Reputation Manager, ci spiega come il mondo digitale influenza la possibilità di fare business. Essere discreti in rete significa essere ignorati dalla società. La web reputation è la somma della tua comunicazione e quello che la società dice di te. In una marea di dati è facile perdersi e l’ingegneria reputazionale aiuta a governare le informazioni. Negli ultimi dieci anni, grazie alla trasformazione digitale e alle nuove dinamiche di interazione tra gli utenti, è nato il concetto di “Io digitale”. Di cosa si tratta? L’Io digitale è l’insieme dei contenuti che dei soggetti esterni possono trovare sul web su un marchio, una persona, un prodotto, su di noi. Non è il nostro gemello, sono dei contenuti che ci rappresentano. L’Io digitale è spesso fuori controllo. È caratterizzato soprattutto da quello che gli altri dicono di te, quando esci dalla stanza. Se ho un’ottima reputazione significa che un mio eventuale nuovo rapporto di lavoro avrà più probabilità di avere una buona riuscita! La reputazione anticipa e prevede l’esito del mio rapporto.

Com’è cambiato, quindi, il concetto di reputazione nel passaggio al digitale? Il meccanismo alla base è sempre lo stesso, ma prima avveniva con il passaparola. Se sento parlare di un commerciante particolarmente caro, di sicuro minimizzo 42

il rischio ed evito di frequentarlo. La differenza è nella quantità di contenuti: il passaparola si limita solo ad un numero ridotto di persone. Nel digitale cambia radicalmente il meccanismo, perché non ho più bisogno del contatto fisico. Mentre prima l’onda reputazionale partiva da un soggetto e arrivava ad altri soggetti toccandoli, adesso è il soggetto interessato che arriva con un clic direttamente da dovunque in tutto il mondo. La quantità di informazioni collegate ad ognuno di noi è enorme e direttamente proporzionale al grado di interesse che la società ha verso di noi. Non sei più tu il soggetto che ha l’onere della comunicazione ma è la somma della tua comunicazione con quello che la società dice di te.

Cos’è l’ingegneria reputazionale e come la utilizzate con i vostri clienti? Oggi, l’Io digitale è fondamentale e non si muove lentamente come le onde reputazionali del passaparola, ma arriva istantaneamente al portatore d’interesse perché è una forza invisibile che cerca e trova informazioni. Dato che è una grandezza importante va governata. I comunicati stampa di sicuro non bastano! Non funziona più così! Mancava una disciplina come l’Ingegneria Reputazionale (IR) in grado di colmare questo gap. L’IR praticamente tende a plasmare con dei criteri quasi fisici e con delle regole strutturate l’identità digitale. Nella pratica si rifà a dei precetti, il primo dei quali è mai mentire. Inserendo una notizia falsa, la rete ha un meccanismo di reazione davvero devastante: mentire significa distruggere la propria credibilità ma pubblicare


INCONTRI CON Andrea Barchiesi

Mentre prima l’onda reputazionale partiva da un soggetto e arrivava ad altri soggetti toccandoli, adesso è il soggetto interessato che arriva con un clic direttamente da dovunque in tutto il mondo. sempre la verità non significa scrivere tutto anche le sciocchezze. La reputazione è la vera moneta. Nessuno si avvale di una persona poco credibile e il patto sociale si basa sull’affidabilità e la fiducia, dove la reputazione è un oggetto fondante della fiducia.

Il secondo principio dell’ingegneria reputazionale è “mai usarla in modo negativo” usandola per costruire e non per distruggere. Distruggere è più facile che costruire. Quindi la web reputation è una scienza misurabile. Qual è la sua unità di misura? È misurabile e la sua unità di misura è R. Noi partiamo dal singolo contenuto. Su 540 contenuti non tutti hanno

lo stesso peso per estensione, marginalità, uno per uno avranno un valore in R. Il tweet di una persona che ha 10 follower fatto di giorno vale un millesimo di R. Di conseguenza noi siamo in grado sotto R di equiparare cose nettamente diverse: un contenuto su Wikipedia può valere anche 7 R, è come se valesse 7 mila tweet di un soggetto che ha 10 follower. Il problema è che abbiamo oggetti molto diversi, noi dobbiamo misurare pere, mele, arance, questo esercizio viene fatto matematicamente. Ogni canale ha un suo coefficiente e ogni singolo contenuto ha un suo valore in R, è misurabile non solo la reputazione ma il singolo contenuto. Questo ci permette di affermare quali sono i contenuti più pregnanti per la reputazione di un’azienda, per esempio. Praticamente progettiamo l’identità digitale. 43


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Quali sono gli step da attivare se voglio misurare la web reputation della mia azienda? Innanzitutto bisogna capire cos’è l’azienda, questa la prima fase. Prendiamo Ferrari come esempio. Prima della misurazione della web reputation è necessario fare un diagramma su tutti i settori Ferrari: quello sportivo, di prodotto, capacità industriale, auto d’epoca, etc. Il diagramma serve prima di una qualsiasi rappresentazione in termini reputazionali. Molti pensano che la reputazione di Ferrari sia una semplice ricerca su un database, invece è molto di più; il database è solo un aspetto, pertanto molto limitativo. Per ogni cosa l’ecosistema ha bisogno di una Modellizzazione, ovvero capire cosa rappresenta l’etica Ferrari e in base a questo costruire un modello di analisi. La seconda fase è la Declinazione di questo modello in un linguaggio tecnico nostro. In un modello raccogliendo più livelli con i vari settori di Ferrari. L’Implementazione permette di trasformare in codice macchina tutti questi dati, che diventano bit quindi digitale. La quarta fase è l’Elaborazione Tecnologica: la macchina ha capito di cosa stiamo parlando e comincia a cercare freneticamente migliaia di cose diverse. La quinta fase è la Riverifica dei risultati ovvero la macchina offre dei campioni da verificare e questa operazione viene fatta con l’interazione umana. La ricostruzione del campione è un’operazione scientifica realizzata utilizzando gli stessi teoremi del campionamento. L’ultima fase è la Produzione dei risultati.

Come si costruisce una buona web reputation? Una volta prodotti dei risultati bisogna capire se questi valori rispecchiano quello che l’azienda vuole comunicare. Si procede con l’analisi, prima, e la correzione, dopo, dello scostamento di valore tra quello che l’azienda ritiene e quello che in realtà viene percepito dalla rete. Prendiamo sempre Ferrari come esempio e supponiamo che dall’analisi emerga che Ferrari abbia una R settore sport del 12% e una R sulla capacità industriale dell’8%. L’azienda, però, ritiene che la capacità industriale sia troppo bassa. Allora interveniamo per correggere lo scostamento, immettendo nella rete contenuti relativi al settore carente, facendo in modo che appaia organicamente sul web, e questo lo si fa anche attraverso la tecnologia. Da sottolineare che analizziamo anche la parte off line per costruire la web reputation.

Come si fa a rimediare ad una crisi? L’IR lavora ed è efficace soprattutto sul lungo periodo e non sull’emergenza, elemento che permette di costruire una buona reputation. Quindi, vuol dire pubblicare contenuti premianti che facciano scalare i risultati negativi sempre più in basso. È un intervento molto difficile da attivare, ma è un’operazione che va fatta nel lungo periodo per permettere la sedimentazione dei dati. Le crisi sono letali, e si dice che rimangono per sempre. Basta che si verifichi un caso simile che inevitabilmente viene fuori il parallelo al caso successo.

Andrea Barchiesi

CEO e fondatore di Reputation Manager È uno dei massimi esperti in Italia di web intelligence applicata al marketing e alla comunicazione. CEO e fondatore di Reputation Manager, realtà che gestisce l’analisi e l’intervento on line per top brand, ha vinto nel 2011 il Premio Nazionale dell’innovazione conferito dal Presidente della Repubblica. Ha definito il concetto di ingegneria reputazionale utilizzando metodologie interdisciplinari che trasformano la (inter)relazione digitale in una scienza misurabile. Collabora con varie testate giornalistiche nazionali (Gruppo Sole24 ore, Class Editori, Gruppo l’Espresso) dove opera per la diffusione della cultura digitale e per la promozione della ricerca e sviluppo come asset chiave per le aziende. Attivo all’interno di programmi di formazione e divulgazione delle nuove metodologie di analisi e interazione all’interno del panorama web 2.0, insegna come docente in master e corsi universitari. 44


INCONTRI CON Stannah

STANNAH Al di là di un montascale Lo storytelling per raccontare i clienti Un’azienda che ha saputo capitalizzare i propri clienti andando al di là della vendita di un prodotto. Ascoltare le loro storie per capire fino in fondo i loro bisogni funzionali ma anche, da un punto di vista umano, farsi raccontare come sono arrivati ad oggi, i loro sogni, le loro emozioni: tutto questo è stato tradotto in un libro e presto avrà la sua declinazione anche social. Sentiamo cosa ha da dirci Flavio Ranieri, Responsabile Marketing di Stannah. Come nasce il progetto Stannahracconta? Il progetto Stannahracconta nasce parallelamente alla decisione di raccogliere le storie dei nostri clienti “straordinariamente ordinari” in un libro, “Su e giù per la vita”. Scritto con entusiasmo da Marco David Benadì, che è nostro consulente in ambito pubblicitario (è il direttore generale della Dolci Advertising), l’idea del libro ha cominciato a prendere forma nel 2015. L’amministratore delegato di Stannah Montascale, Giovanni Messina, che ha guidato l’azienda dal 1995 (anno della sua fondazione), confrontandosi con i suoi più stretti collaboratori, ha cominciato a immaginare un modo per valorizzare le numerose storie di tutte le 170 mila famiglie italiane incontrate in vent’anni di attività. L’amore per il proprio lavoro e l’entusiasmo di intraprendere una nuova strada nel mondo cangiante della comunicazione hanno fatto il resto. Così, dopo una lunga e accurata selezione delle persone che maggiormente avrebbero incarnato lo spirito vitale di Stannah, nel 2016 Marco Benadì è partito – affiancato dal suo fido scudiero e fotografo Alessandro Pession – per un lungo viaggio attraverso l’Italia. Ne sono nate nove storie, straordinariamente ordinarie come si legge anche sulla copertina del libro. Il progetto ha interessato una casa editrice come Baldini e Castoldi e così, il 17 novembre 45


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2016, il libro era pronto per essere consegnato alle librerie. In un’epoca come la nostra, naturalmente, non si poteva immaginare di limitare un simile lavoro al mondo della carta. E così è nato anche il blog, Stannahracconta.it, che raccoglie tutta la parte multimediale del viaggio (video e foto con i nove protagonisti), e soprattutto oggi ci consente di guardare avanti.

Dapprima un libro, poi un blog, i social network, quali sono le diverse forme che assume la campagna su ogni mezzo utilizzato: blog, Fb, Twitter e YouTube?

Flavio Ranieri Responsabile Marketing Stannah Lavora in Stannah Montascale da ottobre del 2014. Precedentemente ha maturato esperienza nel campo delle tlc in Omnitel e H3G, nel settore bancario (Barclays) e nel settore energia. Per Stannah gestisce il budget marketing e copre tutto l’ambito del marketing e della comunicazione. Laureato in Bocconi in Business Administration, ha una bambina di 7 anni e una passione per le moto e la fotografia.

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Storytelling e blogging: chi l’ha detto che “non è cosa da persone mature”? Stannah sicuramente no. Infatti, al compimento dei suoi 150 anni dedicati a rendere più semplice la vita delle persone con problemi di mobilità attraverso i suoi montascale, si è resa conto che, come tutte le “signore di una certa età”, di storie da raccontare ne ha moltissime. Molte di più (e probabilmente anche più originali) di quelle dei cosiddetti “millennials”. Le storie di Stannahracconta saranno rese ancora più dialettiche attraverso l’integrazione del blog con i canali Facebook e YouTube. E poi si arricchiranno dell’autenticità della realtà fisica. Stannahracconta, infatti, si mette di nuovo in viaggio, “Su e giù per l’Italia”. Giovanni Messina, AD di Stannah, e Marco Benadì nel 2017 ritorneranno nei luoghi dove tutto ha avuto inizio: Calliano (Asti), Firenze, Pistoia, Venezia, Bassano del Grappa (Vicenza), Giffoni Valle Piana (Salerno), Rionero Sannitico (Isernia), Sabaudia e Giarratana (Ragusa). Per incontrare nuovamente i protagonisti del libro e ampliarne le loro storie parlando con chi queste persone le incontra ogni giorno e le conosce da una vita.

Avendo un target di terza età e considerando che i social sono poco presidiati da questa fascia, su quale canale ha funzionato o funziona maggiormente questa campagna? Sicuramente Facebook è il canale più diffuso nel pubblico senior. Anche YouTube, grazie all’intermediazione dei nipoti e in generale delle generazioni più giovani che affiancano gli over 65, ha un suo pubblico. Certo bisogna considerare alcuni dati che l’Istat ha messo a disposizione: nel 2016 un italiano su cinque aveva più di 65 anni. Di questi dodici milioni circa di uomini e donne senior, l’86% vede la tv tutti i giorni, il 25% legge i giornali tutti i giorni, ma soltanto il 10% va su Internet tutti i giorni. C’è una fascia enorme, pari al 72%, che addirittura non utilizza mai Internet. Noi sappiamo che con il passare degli anni le proporzioni


INCONTRI CON

Noi, con la nostra attività, entriamo nelle case delle persone, le ascoltiamo, le conosciamo. E non è solo per ‘imperativo commerciale’, ma è anche per stabilire un contatto autentico andranno modificandosi, però non si può negare che sia un territorio tutto da scoprire e tutto da conquistare.

Come ha influito sulla brand awareness di Stannah questo tipo di campagna? Possiamo dire, senza paura di mancare di modestia, che noi, per nostra natura, abbiamo sempre messo al centro la cura del cliente, prima di tutto. Dunque il nostro marchio è da sempre sinonimo di affidabilità, qualità e professionalità. Il mercato dei montascale è un mercato molto vario, pieno di piccoli e grandi produttori. Nessuno, come Stannah, può garantire qualità ed eccellenza. L’obiettivo di Stannahracconta, dopo anni di profilo schivo, è stato proprio di mostrare un aspetto dell’azienda che pochi conoscono. Noi, con la nostra attività, entriamo nelle case delle persone, le ascoltiamo, le conosciamo. E non è solo per “imperativo commerciale”, ma è anche per stabilire un contatto autentico. Noi vogliamo che ogni nostro montascale non sia semplicemente un supporto meccanico, ma - soprattutto - la soluzione più efficace per liberare la vita delle persone dai vincoli di una ridotta capacità motoria. Ed è ora che questo lato di Stannah venga mostrato.

Lo storytelling per raccontare la vita vera delle persone: come hanno reagito i protagonisti? Grazie per questa domanda, perché è proprio la reazione dei nostri protagonisti ad averci convinto di essere sulla strada giusta. Nessuno dei clienti contattati per essere intervistati ha rifiutato la proposta. Non solo, ci hanno aperto le loro case con entusiasmo e fiducia, a dimostrazione del buon nome che hanno i nostri collaboratori sul territorio. Loro stessi hanno anche accettato, ed in alcuni casi proposto, di essere protagonisti di un tour editoriale per presentare il libro nei loro comuni.

150 anni sul mercato, come è cambiata la vostra comunicazione? Nel corso del tempo abbiamo modificato profondamente il nostro stile di comunicazione. Nei primi anni eravamo concentrati sugli aspetti funzionali del prodotto e sul suo utilizzo, dovuto soprattutto ad una scarsa conoscenza nel mercato italiano di cosa fosse un montascale. In questo il nostro paese è molto diverso dai paesi anglosassoni dove la sua conoscenza è molto diffusa. Nel corso del tempo, abbiamo capito che ciò che ci chiedevano i nostri clienti non era solo salire e scendere da una rampa di scale, ma ciò che andava al di là di questi aspetti. Quello per cui un montascale era importante era la libertà di muoversi, di continuare a fare senza fatica le attività quotidiane e riappropriarsi del proprio tempo, per dedicarlo agli amici, alla famiglia e agli interessi che a volte venivano tralasciati solo per un ostacolo architettonico. Nel 2014 è stato introdotto, anche grazie all’aiuto ricevuto da Dolci Advertising, il filone del “Segreto di Peppino” che gioca proprio sugli aspetti di amicizia e amore, nonché di vita, vissuta da 4 persone che hanno deciso di superare le barriere per continuare a vivere liberamente.

Oltre lo storytelling, quali altre tecniche di comunicazione adottate? Il budget di Stannah dedicato alla comunicazione è superiore ai 2 milioni di Euro e, di questo, circa il 30% verrà dedicato all’online (SEM, ADV e social network). I social anche per Stannah stanno ricoprendo un ruolo sempre più importante, soprattutto per far emergere quel valore aggiunto che offriamo in termini di attenzione e servizio al cliente, ben definito all’interno della nostra mission. Solo attraverso questi canali si riesce a focalizzare quanto sia importante capire i bisogni del cliente finale e quanto sia importante andare oltre gli aspetti puramente funzionali del prodotto. Per questo sui nostri social trattiamo argomenti vari sempre con un riferimento alla terza età. Altro pilastro della nostra comunicazione sono le inserzioni pubblicitarie. La televisione sul nostro target rappresenta sempre un punto di riferimento, anche con il cambiamento radicale che è avvenuto negli ultimi anni con l’avvento dell’online. I dati ci dimostrano che esiste una netta correlazione tra gli investimenti pubblicitari televisivi e il ritorno su Internet. 47


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ANDREA SALETTI Neuromarketing: passioni ed emozioni per ricordare un brand Far emergere ciò che è già presente nel nostro subconscio per convincere Con l’overdose di informazioni a cui siamo sottoposti, il neuromaketing gioca un ruolo essenziale nella vendita, poiché è attestato che, agendo su degli specifici stimoli celebrali, si ottengono delle reazioni prevedibili. Un vantaggio non da poco se pensiamo che viene utilizzato dalla maggior parte dei grandi brand presenti sul mercato. In questo marasma di dati rimane principalmente più impressa quell’informazione che più riesce a coinvolgere emotivamente. 48

Neuromarketing: di cosa stiamo parlando? Il neuromarketing è una disciplina affascinante, che fonda le sue regole sullo studio scientifico di come il cervello umano reagisce agli stimoli di marketing. Il termine è stato coniato nel 2002 da Ale Smidts, professore di marketing alla School of Management di Rotterdam. Il suo obiettivo era di riunire in un’unica parola il concetto di neuroscienze applicate alle strategie di vendita. Il neuromarketing oggi è impiegato in svariati ambiti


INCONTRI CON Andrea Saletti incrociando esperienze sensoriali diverse, nel web (neuro web marketing) l’attenzione è principalmente posta sull’aspetto visivo della comunicazione, dove viene analizzato nel dettaglio come particolari stimoli siano in grado di influenzare ampiamente le azioni di un utente durante la navigazione di un sito.

Siamo nell’era dell’ iper informazione: cosa resta in mente dopo continui bombardamenti pubblicitari? L’effetto è lo stesso se siamo on oppure off line? Online oppure off line cambia poco. Da un recente studio del Centro Nazionale di Informazione Biotecnologica USA è emerso che la capacità di attenzione media umana è scesa a 8 secondi… 1 secondo in meno di quella di un pesce rosso! Questo a causa della frequenza di interruzioni a cui siamo sottoposti durante l’arco della giornata (notifiche digitali, pubblicità, rumore visivo e uditivo), interruzioni che costringono la nostra memoria a un costante lavoro di filtro dell’inutile. Considera che non siamo stati “preparati” per gestire correttamente questa situazione, e, infatti, non sempre i meccanismi cognitivi reagiscono in maniera prevedibile. Possiamo però dire che ciò che rimane in mente dopo un’overdose informativa di tale portata è principalmente ciò che più riesce a stimolarci emotivamente, in relazione a passioni e desideri che siano però già esistenti nel nostro subconscio. Il marketing emozionale (e il neuromarketing) hanno quindi lo scopo di far emergere ciò che esiste già dentro di noi e di proiettare questo stato d’animo sul prodotto o servizio che viene promosso.

Da un recente studio del Centro Nazionale di Informazione Biotecnologica USA è emerso che la capacità di attenzione media umana è scesa a 8 secondi… 1 secondo in meno di quella di un pesce rosso!

Quali sono gli strumenti e le strategie di neuromarketing applicate sul web? Gli strumenti utilizzati per misurare le risposte agli stimoli di marketing (ti parlo del web che è il mio principale campo esperienziale) sono solitamente l’elettroencefalogramma (EEG) combinato con l’eye tracking (software che registra i punti di focalizzazione dell’utente mentre guarda un contenuto digitale), in alcuni casi l’analisi delle espressioni facciali e del battito cardiaco, ma diciamo che questi ultimi due sono opzionali rispetto ai precedenti. Se ci pensi, solo qualche tempo fa per arrivare a certe conclusioni eravamo costretti ad incrociare dati di navigazione, di analisi comportamentale, registrazioni di sessioni, a fare supposizioni per poi inventarci un possibile tracciamento a verifica delle stesse. Processi vincolati a tempi molto lunghi di implementazione. Ora con gli strumenti giusti, a costi finalmente accessibili, si possono ottenere le stesse informazioni (o comunque confermarle in modo complementare) in tempi brevissimi.

Quali sono le leve che spingono i consumatori a ricordarsi di un brand e ad associarlo a qualcosa di piacevole, di positivo, che crea soddisfazione? Viviamo in un’epoca dove i brand sono esperienziali. È impossibile se ci pensi scindere la percezione del marchio di un prodotto, che magari stai indossando in questo momento, dalle situazioni esperienziali che hai vissuto attorno ad esso prima e dopo l’acquisto (il negozio dove l’hai comprato, la pubblicità che hai visto, il packaging che hai scartato, come ti senti ad indossarlo, etc…). La somma delle sensazioni che hai provato ha generato in te una chiara emozione, che inconsciamente continuerai ad associare al brand. Nel digitale funziona più o meno allo stesso modo: memoria, emozioni, desiderio, vengono influenzati dalla user experience. Sia al di fuori che all’interno del tuo sito web.

Esiste un follow up quando si applica il neuromarketing ad un prodotto o un servizio? Ogni strategia volta al miglioramento delle conversioni di un sito web è sempre parte di un processo senza termine. Dopo aver fatto un’analisi si formulano delle ipotesi, si testano e una volta appurata la loro efficacia vengono applicate ufficialmente. Poi il processo riparte: nuove analisi, nuove ipotesi, nuovi test, etc… il web e la comunicazione sono in costante cambiamento, allo 49


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stesso modo deve essere la nostra ottimizzazione delle conversioni.

Quali sono gli elementi di neuromarketing da cui un sito internet non può prescindere? Beh diciamo che per rispondere a questa domanda ho dovuto scriverci un libro sopra! A parte gli scherzi, quella che ritengo sia la strategia vincente è investire più tempo possibile nel comprendere e segmentare le tipologie di utenti con cui andremo a comunicare. A quel punto è necessario fornire loro 3 ingredienti indispensabili: un ambiente conosciuto (stravolgere le convenzioni a cui siamo abituati significa fare uno sforzo di adattamento che difficilmente decidiamo di intraprendere), una proiezione emozionale proiettata sul prodotto/servizio (cosa proverai, come ti sentirai quando finalmente otterrai ciò che desideri?) e infine uno o più dettagli che superino il “già visto” (le piccole novità che non ci aspettiamo aumentano il flusso dopaminergico, desiderio e memoria a medio lungo termine).

È impossibile scindere la percezione del marchio di un prodotto, che magari stai indossando in questo momento, dalle situazioni esperienziali che hai vissuto attorno ad esso prima e dopo l’acquisto.

Si può applicare il neuromarketing ai social? In che modo? Il limite dei social è che costringono a comunicare in ambienti con poco margine di libertà in termini di dimensioni, forme, colori, disposizione degli elementi. Quello che si può fare sui social è lavorare tantissimo sul copy e sui contenuti media utilizzati, partendo dal modificare la comunicazione da autoreferenziale a rivolta verso i benefici per l’utente: mai dire “noi facciamo questo”, ma variare l’intento in “grazie a noi tu potrai finalmente ottenere questo risultato”.

Le aziende credono nelle strategie di neuromarketing? Sto notando, specialmente nell’ultimo anno, un forte interesse all’argomento. Esistono sul territorio diverse realtà che finalmente hanno esteso le proprie competenze a questa disciplina, così come agenzie specializzate in grado di fare analisi molto approfondite su caratteristiche ed efficacia di prodotti/servizi/ambienti di vendita. So che addirittura un’importante casa editrice italiana ha un’area interna dedicata all’individuazione dei perfetti titoli delle sue pubblicazioni: la scelta delle giuste parole e delle giuste frasi, infatti, è in grado di evocare stati d’animo ed emozioni altamente motivanti. 50

Andrea Saletti Web Marketing Manager - CRO and Neuromarketing Specialist di Pronesis Srl

Andrea Saletti è Web marketing manager di Pronesis srl, agenzia specializzata nello sviluppo e promozione di e-commerce e siti web orientati alla vendita. Ha un’esperienza decennale come consulente e formatore di strategie digitali, neuromarketing e scienza della persuasione applicate al web per importanti realtà italiane. Autore del libro “Neuromarketing e scienze cognitive per vendere di più sul web”, è relatore in noti eventi di settore sul tema della psicologia digitale.


INCONTRI CON Swatch

SWATCH La provocazione come chiave del successo Reinterpretare la tradizione per recuperare una specializzazione nazionale Carlo Giordanetti, direttore creativo di Swatch, ci accompagna in un percorso che evidenzia come l’innovazione del prodotto sia stata sempre in linea con una comunicazione diretta a rompere gli schemi per provocare, sorprendere ed emozionare. Abbracciare canali distributivi insoliti come il fruttivendolo o vendere su una strada in coda sono esempi di coerenza di un marchio che da più di trent’anni ha saputo “reinventare” l’industria dell’orologio diventando protagonista del rilancio e del recupero di una specializzazione nazionale. Quanto la comunicazione ha inciso sulla capacità di tenere vivo un mercato svizzero in crisi negli anni ‘80? Sicuramente il mix del momento in cui Swatch è arrivato sul mercato è stato l’elemento scatenante. Non c’era solo un prodotto ma un oggetto rivoluzionario e provocatorio che andava a rompere gli schemi di un settore “nobile” come quello dell’orologio, svizzero per giunta, utilizzando un materiale povero come la plastica. Si trattava di un brand che si poteva vivere in tanti modi diversi, sì attraverso la comunicazione tradizionale ma anche con la capacità di sorprendere e stravolgere. Ad esempio, siamo stati uno dei primi marchi ad integrare l’evento all’interno di un piano di comunicazione, un linguaggio assolutamente di rottura, anche la provocazione visiva ha fatto parte di Swatch pur rimanendo in questa “svizzeritudine” come mi piace definirla. 51


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Avete saputo reinventare l’industria dell’orologio, qual è stata la leva che ha inciso maggiormente in questo rilancio? Direi sicuramente aver capito che il rilancio dell’industria svizzera doveva passare attraverso una democratizzazione del prodotto. Doveva cambiare la sua percezione. In questo senso la produzione robotizzata, in serie all’interno di un mercato dove la figura dell’artigiano, dell’orologiaio era sempre stata prevalente, ha trasformato questa figura in un esperto non solo del movimento miniaturizzato ma anche di altre cose. L’introduzione di un materiale quasi sacrilego a quei tempi è stata una novità assoluta, oggi la plastica invece è stata nobilitata dal mondo del design, ma all’epoca era una vera e propria provocazione.

Qual è stato il filo conduttore che Swatch ha utilizzato e usa nella sua comunicazione? Ci sono degli elementi del marchio che per coerenza si ripetono nella nostra comunicazione, uno di questi è

l’emozione. Come diceva il fondatore della Swatch: “se un progetto non comunica un’emozione ad un bambino di dieci anni, vuol dire che non funziona”. Quindi, l’immediatezza prima di tutto, certo ci può essere a volte una comunicazione più sofisticata, ma tendenzialmente puntiamo ad un messaggio che colpisca in modo diretto. Il secondo elemento è il fatto di avere una storia, ogni orologio ne ha una, è un esercizio di narrazione, la collezione è un po’ lo specchio di quello che succede durante una campagna.

Avete anticipato la moda del momento: lo storytelling? Siamo stati un po’ antesignani di diverse cose come gli eventi di cui sopra. Lo storytelling ha fatto parte del nostro modo di essere sin dal 1984, c’è sempre una storia legata ad un orologio. Una parte della comunicazione ha il fil rouge della narrazione e su di essa si inserisce il messaggio più istituzionale e legato al brand.

Carlo Giordanetti Direttore creativo Swatch

Carlo Giordanetti è direttore creativo di Swatch Ltd. dal 2012, responsabile di un’identità di marca unificata di prodotto, comunicazione e design del negozio. Ha anche il compito di sviluppare lo Swatch Art Peace Hotel di Shanghai, elemento strategico del marchio. Arriva dalla Montblanc (2007-2012), dove ha lavorato come direttore creativo per tutti i gruppi di prodotti e ha raggiunto un notevole successo. In precedenza, in qualità di co-fondatore e direttore creativo di Brand DNA (2000-2007), si è specializzato nello sviluppo di concetti di branding e di marca, e (ri) posizionamento nel mercato dei beni di lusso. Per dieci anni (1987-1992 e 1995-2000) ha servito in una varietà di posizioni, tra cui vice presidente, marketing, contribuendo attivamente a numerosi progetti che coinvolgono eventi d’arte, brand building, sviluppo di nuovi prodotti e le Olimpiadi di Atlanta del 1996. 52


INCONTRI CON L’arte e le collaborazioni artistiche sono quasi una costante delle collezioni Swatch: esigenza di marketing oppure profonda sensibilità e propensione artistica della casa? Sì, è una costante, ci sono sempre stati dei legami con artisti diversi nel tempo, e anche in questo mi sento di dire che siamo stati pionieri. Abbiamo iniziato molto presto, il primo progetto è stato fatto perché l’arte ha un po’ di magia intorno a sé, non è un universo accessibile a tutti e la provocazione è stata di creare un oggetto (poco caro) del desiderio, non tanto legato al suo valore monetario ma all’aspetto intrinseco, ovvero, l’interpretazione dell’artista. Poi si è avuta un’evoluzione della nozione di artista che è diventata una figura che abbraccia più campi. Pertanto sono nati dei modi di dialogare con gli artisti che vanno al di là del prodotto, per esempio il progetto Swatch Art Peace Hotel a Shanghai, un luogo unico che è allo stesso tempo hotel, punto vendita e residenza per artisti, un luogo dove artisti provenienti da tutto il mondo possono vivere e lavorare. Sono operazioni che fanno parte integrante della mission del marchio e non dell’aspetto commerciale.

La qualità di Swatch ha alle sue spalle una lunga storia di tradizione e attenzione al particolare. Come ci si mantiene in un mercato sempre più futuristico e tecnologico comunicando la tradizione? Prendendolo in contropiede, nel senso che abbiamo visto che da un brand come il nostro ci si aspetta quasi di più l’essere presi di sorpresa che non vedere assecondate le proprie aspettative. Mi spiego, quando sono entrati nel mercato gli smart watch nel 2013, noi abbiamo partecipato alla fiera di Basilea, dove di solito non siamo presenti per vari motivi, tra cui quello di non avere un prodotto tradizionale. Però quell’anno festeggiavamo i nostri 30 anni e abbiamo preso un grande stand e organizzato una presentazione alla presenza anche dei giornalisti, i quali si aspettavano qualche joint venture con i grandi marchi come Apple. Noi invece abbiamo presentato Swatch Sistem51, un orologio meccanico, quindi l’opposto a quello che il mondo si aspettava, naturalmente con un lavoro di tecnologia dietro che reinterpretava la tradizione. È anche una sfida, difficile da comunicare in canali non predeterminati, che richiedono maggiori spiegazioni. Un anno dopo abbiamo presentato il nostro primo orologio connesso, la nostra piccola innovazione è stata di dire cose diverse rispetto agli altri: non avevamo un conta calorie ma dicevamo cosa si poteva mangiare in funzione delle calorie.

Quanto investe la Swatch in ricerca? E quali sono le figure che intervengono nel processo di ricerca? La forza di Swatch è di fare parte di un gruppo che si chiama Swatch Group, ha 19 marchi e si fonda sulla ricerca. Ci sono molte aziende che fanno ricerca anche di microcomponenti dell’orologio, noi beneficiamo molto di questo sistema, di aziende indipendenti che ovviamente dialogano con noi e a cui, spesso, diamo degli input. Ovviamente la ricerca si applica su vari fronti: dalla tecnologia al materiale, al design.

Innovazione costante e strategie sempre molto particolari, come gli orologi venduti nei fruttivendoli. Sembra che la vostra ricerca avvenga sempre in contesti che non siano quelli tipici del settore, come si arriva a questo? Si tratta comunque di scelte coraggiose… Beh il famoso bambino di dieci anni, di cui sopra, osa! Quindi questa voglia di sorprendere è sempre presente. Alla base di canali alternativi c’è la voglia di emozionare, sorprendere, andare contro le regole. Per esempio a Pasqua al passo del Gottardo si formano delle code lunghissime…e noi venderemo l’orologio che celebra la coda, con un packaging con all’interno dei giochi per bambini da usare in macchina. Per dirle che la provocazione è alla base del nostro modo di essere.

Il mercato italiano come si colloca rispetto al resto del mondo? Il mercato italiano per Swatch è il diamante centrale della collana, è come se questo prodotto avesse delle affinità con lo spirito italiano, come l’individualità, ogni orologio è diverso da un altro, la democraticità del prodotto consente di viverlo con una certa leggerezza, quindi di cambiarlo spesso. Sicuramente il discorso dello storytelling è una delle cose più facilmente riconducibili al popolo italiano, nel senso che a noi piace raccontare, ascoltare le storie, e questo ha contribuito al successo del marchio. Poi abbiamo avuto la fortuna, agli esordi, (1988) che il manager svizzero ha costituito un team italiano per il design a Milano, negli anni della cultura del design, e questo ha dato un impulso importante al brand.

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Red Hat: l’azienda che innova e cresce è, per sua natura, aperta Di Gianni Anguilletti, Regional Director Italy, Israel, Greece and Turkey

La nostra società appare sempre più caratterizzata da forti esigenze di trasparenza, autenticità, accesso e apertura. Per questo motivo, anche le imprese devono abbandonare l’approccio “command and control” per abbracciare i principi dell’organizzazione aperta. Le vecchie strategie basate su economie di scala e vantaggio posizionale, costruite su modelli gerarchici e compartimentati, non sono più funzionali nel mondo del XXI secolo, dove innovazione e cambiamento sono le parole d’ordine e la collaborazione è alla base di tutti i nuovi sviluppi.

Su questo cruciale argomento, Jim Whitehurst, presidente e CEO di Red Hat, ha scritto un libro intitolato “L’organizzazione aperta – Un nuovo modo di lavorare”, ora pubblicato anche in Italia da Garzanti. In questo libro, Jim Whitehurst ha utilizzato l’esempio pratico dell’azienda che dirige dal 2008 non tanto per teorizzare elaborate teorie da business school, quanto per condividere spunti di riflessione su come oggi le aziende, per operare in ambiti sempre più complessi e caratterizzati da continui mutamenti, debbano cercare nuove soluzioni alla tradizionale equazione “personeprocessi-tecnologie” per sostenere la propria operatività.

Allo scopo, ha ritenuto opportuno illustrare l’esperienza maturata attraverso il modello di sviluppo software open source che, traslato nella gestione complessiva di Red Hat, ha contribuito a renderla un’organizzazione con un volume d’affari in costante crescita che ha ormai superato i 2 miliardi di dollari.

Un modello costruito sulla partecipazione e il rispetto di tutti Start up di successo e aziende specializzate insegnano che occorre definire una ragion d’essere, una finalità che vada al di là del puro obiettivo di business. Ogni gruppo di lavoro dovrebbe avere ben chiaro quale bisogno soddisfa e quale assistenza presta. Su questa base, si può pensare di convincere le persone a partecipare attivamente, motivandole e, in questo modo, rendendole più produttive e fedeli alla missione condivisa. Il coinvolgimento di dipendenti e collaboratori è una componente critica del sistema organizzativo aperto e le decisioni vengono prese in base alle idee che si riterranno più valide, incentivando la propositività e responsabilizzando tutti i soggetti coinvolti. Il superamento di modelli gerarchici tradizionali consente di reagire rapidamente ai cambiamenti imposti dal mercato. Questo non significa privarsi dei ruoli-guida, ma trasformarli per sostenere il cambiamento. Più che uomini di comando, dunque, servono “catalizzatori” di comunità di dipendenti, collaboratori, partner e persino clienti attirati in modo partecipativo nei processi decisionali. In questo modo, si guadagna un rispetto più solido, non costruito su una posizione più importante di un’altra, ma sulla capacità di confronto, condivisione e motivazione meritocratica. L’arte di dirigere un’impresa aperta e autodeterminata consiste in parte anche nel provocare il passaggio all’azione. Un obiettivo troppo preciso rischia di demotivare le persone o portarle verso una direzione sbagliata per eccesso di indicazioni. Al contrario, traguardi troppo vaghi non ispirano azioni e generano caos. Il giusto equilibrio, non semplice da trovare, porta a definire una struttura sufficiente per incanalare le azioni di un’impresa, senza peccare di eccesso di rigidità.


Cosa può insegnare l’esperienza open source Il business di un’azienda come Red Hat dipende dalla collaborazione e dalla condivisione delle idee e non dal controllo degli asset. Tutti i dipendenti hanno la possibilità di esprimersi sia sulle questioni più strategiche che su quelle operative. A questo tipo di schema, per quanto in continua evoluzione, si è giunti ispirandosi al “modello aperto” adottato dalle comunità degli sviluppatori open source, dove concetti come collaborazione, competenza, meritocrazia sono alla base del successo delle tecnologie software concepite secondo questo approccio. Infatti, tali tecnologie non vengono create seguendo rigidi processi gerarchici, ma sono frutto del contributo “spontaneo” di un grande numero di professionisti che vedono riconosciuti i propri sforzi a seconda della professionalità, innovazione e competenza con le quali realizzano e condividono i propri elaborati, la cui idoneità a far parte di una certa tecnologia viene poi stabilita dal resto della “comunità” stessa. Altro insegnamento interessante del modello open source è rappresentato dal “release early, release often”. In un progetto di sviluppo software, i rischi di errore sono sempre in agguato. Più una versione comprenderà dei cambiamenti, più alto sarà il pericolo di trovarci qualche difetto. Gli sviluppatori open source ritengono che rilasciando più velocemente e frequentemente migliorie ad un software si possono ridurre i rischi e, allo stesso tempo, favorire l’innovazione. Allo stesso modo un'organizzazione deve prendere decisioni in modo agile e progressivo, evitando di “ingessarsi” per lunghi periodi di tempo in attesa di un “big bang”. In buona sostanza, una “organizzazione aperta” è caratterizzata da grande partecipazione che motiva le persone a dare il meglio delle proprie capacità per poter contribuire al raggiungimento di un obbiettivo condiviso.

È difficile immaginare in questo momento come sarà il 2017. In Italia e nel mondo, diversi fattori rendono incerto il clima anche sociale, politico ed economico, ma l’esperienza ha già mostrato in passato che le buone idee hanno maggiore possibilità di trovare spazio e ispirare la crescita di un’organizzazione anche in condizioni difficili. A nostro avviso il modello aperto è quello che meglio favorisce la creatività e il coinvolgimento delle persone. Applicarlo, magari anche partendo da gruppi dedicati a progetti specifici, può essere un buon modo per affrontare il mercato in modo vincente a prescindere dalla complessità nella quale ci si trova ad operare. A nostro parere e per concludere, le imprese di successo oggi devono far leva non più su tradizionali modelli gerarchici, bensì sulla capacità di coinvolgere in modo “emozionale” dipendenti, partner e anche clienti nei processi decisionali. Il modello aperto è quello che meglio si presta alla creatività e al coinvolgimento delle persone e può rappresentare una fonte originale di innovazione per permettere alle organizzazioni di operare in scenari caratterizzati da continui cambiamenti. Per questo la nostra “ragione d'essere” è: “rappresentare un catalizzatore per comunità di clienti, sviluppatori e partner, al fine di sviluppare migliori tecnologie attraverso il modello open source”.

Per maggiori informazioni:

www.redhat.com/it 55


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Cos’è AcademIT AcademIT è un progetto formativo che offre un percorso di sviluppo professionale e personale nel mondo dell’ICT, dedicato a tutte le figure che ruotano intorno ad esso e che si occupano di innovazione all’interno della propria azienda. Il progetto è frutto dell’aggregazione di Eurosystem e Nordest Servizi, che hanno scelto di unire le forze e sfruttare la propria solidità ed esperienza a favore dei clienti. AcademIT accoglie un programma formativo già sperimentato da Nordest Servizi e lo rinnova creando un comparto di formazione di alto livello, che risponde attivamente alle richieste di crescita degli ICT manager e degli stessi imprenditori.

Perché questo progetto? Per sostenere l’ICT manager nella crescita del proprio ruolo e del proprio contributo allo sviluppo del business aziendale. Perché questa figura è chiamata a lavorare sempre più a stretto contatto con la direzione strategica dell’azienda e ad evolvere i propri servizi. Nuovi strumenti e formazione sono necessari per favorire la sua integrazione all’interno di un’organizzazione che vuole essere sempre più innovativa e competitiva sul mercato.

Dove? In aula: corsi formativi per piccoli gruppi, tenuti da esperti di settore nelle città di Milano, Bergamo, Padova, Verona, Treviso, Venezia, Udine, Pordenone, Bologna, Vicenza, Brescia. In ufficio: webinar e approfondimenti per aggiornarsi online in modo veloce, comodo e gratuito.

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ACADEMIT

Da IT manager a manager dell'IT: l'offerta formativa

I nostri corsi

Privacy, Sicurezza, Controllo & ICT

CIO Evolution

Sicurezza in ICT

Risk Assesment

TREVISO BERGAMO MILANO BOLOGNA VERONA BRESCIA PADOVA VENEZIA UDINE VICENZA PORDENONE I nostri webinar

Finanziamenti alle imprese

Smartsourcing

Internet of Things

Per maggiori info: www.academit.it info@academit.it

Analytics e ProduttivitÃ

Progetto o Ri-getto?

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MAURO DE BONA Adattabilità, prima regola dello Smart Project Management La causa maggiore di progetti andati male è da ricercare nella cattiva comunicazione Il team e la comunicazione sono gli elementi imprescindibili dell’approccio Smart Project Management. Un metodo che non si rifà ad un’unica metodologia, ma sceglie un set di strumenti di base da cui partire per lo specifico progetto. Quest’ultimo ha tra le sue peculiarità incertezze che vanno ove possibile previste per renderlo più efficiente e più efficace. Intervista a Mauro De Bona, ingegnere gestionale e partner di Novalia. Cosa significa gestione agile di un progetto? Il tema dell’agile nasce in ambito anglosassone, nel mondo dei software. L’approccio tradizionale per lo sviluppo del software è sempre stato il waterfall, ovvero a cascata: analisi dei requisiti, progettazione, sviluppo, collaudo, manutenzione. Nel 99% dei casi succede che il risultato non combacia con le aspettative del cliente, questo per vari motivi: il cliente non era stato chiaro con il brief, oppure perché le esigenze nel tempo sono cambiate, etc. Di qui l’esigenza di avere un approccio agile: ovvero raccolgo le specifiche dal cliente, formo un team di lavoro che presenta al cliente in modo molto frequente dei piccoli risultati durante la lavorazione: questo permette al cliente di verificare la direzione che sta prendendo il progetto e nel caso, fare delle modifiche durante la lavorazione. Nel mondo agile esistono una serie di tecniche e metodi ormai consolidati. Si tratta di un approccio che non è così scontato poterlo applicare a tutte le aziende. Sono dell’idea che bisognerebbe mettere insieme quello che di buono il mercato mette a 58

disposizione in termini di strumenti e adattarli a ciascuna realtà.

Qual è l’evoluzione di questa sua teoria? Insieme a Nordest Servizi abbiamo coniato un termine: Smart Project Management. Partiamo da una premessa: i metodi, i manuali sono necessari per la gestione di un progetto, ma non sono sufficienti. Pertanto Smart Project Management è l’utilizzo di un set minimo di strumenti, scelti nell’ampio panorama a disposizione, che si ritiene utile per il specifico caso. Si procede con la messa a fuoco del progetto e si costruisce un team di lavoro che sia fortemente consapevole del contributo che andrà a dare al progetto. Nella pratica, il progetto, a differenza di un processo, non è un’operazione ripetitiva, ogni progetto è un caso a sé con le sue incertezze. Di queste alcune posso eliminarle altre posso prevenirle, altre posso gestirle solo ex post: ci sono vari fronti su cui bisogna agire.

Ci spieghi meglio… Avere la consapevolezza che esistono elementi di incertezza che si possono prevenire non è una cosa così comune all’interno di un’azienda. È un aspetto che dovrebbe emergere nella primissima fase in cui bisogna porsi una serie di domande: la prima e più importante è “Quale valore vogliamo realizzare?”. Inoltre, il progetto non va pensato solo per il cliente, ma anche per i membri del team di lavoro, ciascuno dei quali deve avere un


ACADEMIT interesse e un ritorno dal progetto, non solo di natura economica. Se nel progetto non abbiamo chiaro il ritorno, il valore che produce non solo per il cliente ma anche per ciascun componente, rischiamo che il progetto zoppichi. Pertanto la fase iniziale di farsi delle domande è un investimento di tempo obbligatorio per la buona riuscita del lavoro. La fase successiva alle domande è definire con chiarezza le responsabilità all’interno del progetto, noi utilizziamo la matrice RACI (matrice di assegnazione responsabilità) che definisce i vari livelli di responsabilità delle persone che intervengono.

Qual è la causa che primeggia nel fallimento di un progetto? È la scarsa comunicazione interna. Prendiamo le riunioni: uno strumento potentissimo e costosissimo e che, se non sono ben gestite, perdono di efficacia. Oppure la mail che serve solo per informare, se la utilizzo per risolvere un problema, sto sbagliando canale. Se uso gli strumenti giusti, evito la burocrazia ma punto all’efficienza, lavoro sulle competenze delle persone e riesco a lavorare in team mettendo insieme delle informazioni che arrivino alle persone giuste, il mio progetto ha degli ottimi presupposti di successo.

Quali sono i vantaggi che trae un’azienda dallo Smart Project Management? Il vantaggio principale è il recupero dell’efficienza. L’efficacia significa fare le cose giuste, efficienza è farle nel modo giusto. Riduzione di sprechi di tempo, dello stress, della frustrazione. Il recupero di efficienza si traduce in un valore maggiore. Attenzione, come dicevo sopra la metodologia va adattata a ciascun progetto.

Qual è il ruolo della comunicazione in questo approccio? In Italia si sottovaluta clamorosamente la comunicazione, ritenuta invece un accessorio, all’interno del progetto è la linfa. Bisognerebbe far seguire la fine di un progetto da due altri step: il primo è un po’ più tecnico, ovvero fare un de brief per mettere in evidenza sia le cose che hanno funzionato, che quelle che non hanno funzionato e il perché. L’altro aspetto della celebration è rendere partecipe ciascun componente del team del valore del suo contributo alla riuscita del progetto, proprio per ingaggiarlo e renderlo orgoglioso del lavoro e dell’azienda in cui lavora.

Mauro De Bona docente universitario e insegnante di AcademIT Laureato in Ingegneria Gestionale a Udine, ha svolto inizialmente attività di ricerca in ambito universitario. Si è poi spostato a Roma in un importante gruppo privato per gestire progetti internazionali di innovazione tecnologica con importanti aziende italiane ed estere. Dal 2005 si occupa di consulenza per l’innovazione strategica e organizzativa. Nel 2016 ha fondato assieme ad altri 4 soci Novalia, società di consulenza direzionale (www.novalia.cc). È professore a contratto di Economia e Organizzazione all’Università di Udine. È autore di pubblicazioni in materia di innovazione, creatività, modelli di business e capitali intangibili. Ha tenuto docenze e seminari in Italia e all’estero a cui hanno partecipato oltre 1.500 aziende. È insegnante del progetto formativo AcademIT, nello specifico dei corsi in aula sulle tematiche della CIO Evolution. 59


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CONSORZIO COLIBRÌ Quando l’unione fa la forza Un portale per agevolare le attività e favorire la comunicazione tra i consorziati Aver compreso che l’unione rappresenta un vantaggio per soggetti che operano nello stesso settore, è stata la scelta strategica che Consorzio Colibrì ha portato avanti. Lo scopo? Ottimizzare le risorse per essere preparati e offrire servizi migliori. 60

Consorzio Colibrì è un Consorzio senza fini di lucro che ha sede a Bologna e riunisce strutture che operano nel settore dei servizi sanitari e socio-sanitari privati ed accreditati. Nasce a fine 2009 dalla volontà di cinque consorziati fondatori: Villa Ranuzzi SpA, Villa Bellombra


STORIES Consorzio Colibrì SpA, Villa Serena Srl, Ospedale Privato Santa Viola Srl e Ospedale Privato Ai Colli. A seguire, in qualità di consorziati effettivi, hanno aderito al Consorzio altre strutture sanitarie o socio-sanitarie, ad oggi 16, che hanno sede in Emilia Romagna, ad eccezione di una cooperativa che ha sedi anche in Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia. Ognuna di queste strutture ha un’identità e un’esperienza che le caratterizzano, un knowhow distintivo, una capacità organizzativa e gestionale specifica, una missione da realizzare in base alle proprie competenze. L’obiettivo che il Consorzio si è posto, alla sua nascita, è stato quello di dar vita ad un ente che semplificasse l’esecuzione delle attività di chi ne facesse parte, in particolar modo gestisse efficacemente gli acquisti di prodotti e servizi utili ai consorziati, per ottenere poi vantaggi in termini di costi e di qualità. Questo è ciò che Colibrì fa continuamente informando le strutture delle possibilità di acquisto e lasciandole libere di scegliere se aderire o meno al processo. Effettua, inoltre, attività di assistenza tecnica, organizzativa, commerciale, amministrativa, di marketing, di comunicazione, di promozione, di pubblicità nonché di formazione professionale e dello sviluppo in ogni area di rilevante importanza gestionale. La nascita del Consorzio ha avuto origine dall’esigenza latente delle singole strutture di centralizzare alcune funzioni: in primis quella degli acquisti, poiché le consorziate acquistavano gli stessi prodotti o prodotti simili. Perché, infatti, non comprare con un nome unico, in modo tale da avere un maggior potere contrattuale con il fornitore? “La questione degli acquisti era sicuramente quella più sentita, ma anche qualità e formazione erano due voci che si volevano implementare al meglio attraverso la centralizzazione. Quando il Consorzio ha iniziato ad aprirsi ad altre strutture, oltre alle cinque fondatrici, il problema esistente si è acuito ancora di più ed è nata l’esigenza di rendere più facile il processo degli ordini d’acquisto” spiega Luca Boschiero, Responsabile amministrativo del Consorzio Colibrì.

... Eurosystem ha adattato Freeway® Skyline alle necessità del Consorzio. Il risultato è un portale che corrisponde esattamente a ciò che cercavamo e di cui avevamo bisogno per facilitare la gestione degli ordini e la comunicazione tra i consorziati.

Parallelamente allo sviluppo del Consorzio, è cresciuta anche l’esigenza dei consorziati di dotarsi di strumenti più evoluti e moderni, quindi più idonei a gestire le molteplici attività e la complessità crescente. Tra tutti i progetti valutati, è stata data priorità alla realizzazione di un portale che avesse l’obiettivo di favorire la connessione tra i consorziati, semplificare loro il 61


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processo di acquisto e contemporaneamente agevolare l’aggregazione. È stata così avviata una partner selection. Da qui è emerso che Eurosystem sarebbe riuscita a fornire uno strumento innovativo, gradevole, facile e veloce per poter inserire gli ordini e gestire in maniera centralizzata gli approvvigionamenti nei confronti dei vari fornitori: un portale centralizzato basato sulla soluzione dell’azienda trevigiana Freeway® Skyline. Oggi, ogni struttura consorziata possiede almeno un paio di utenti del portale. Nello specifico, oltre a favorire il processo di inserimento degli ordini a fornitore, il portale si è rivelato uno strumento valido per ottenere in un unico archivio tutti gli ordini fatti dai vari consorziati e raccogliere dati utili per costruire statistiche legate al volume di acquisto per consorziato o al volume d’acquisto complessivo del Consorzio. Tra le innovazioni apportate da Freeway® Skyline rientra la funzionalità di consultazione di un vero e proprio catalogo prodotti contenente le schede tecniche da cui è possibile verificare, per ogni prodotto, prezzi, caratteristiche, quantità ordinabile, fornitore preferenziale. La gestione dei contratti è stata poi un’ulteriore novità introdotta dal portale, grazie a cui è possibile condividere accordi per l’acquisto di materiali o servizi (telefonia, manutenzioni varie,..) e consultare tutta una serie di documenti, che prima venivano scambiati principalmente via mail. Ora, invece, possono essere più facilmente fruibili da parte di tutti. Oltre ad una sezione legata alle news, “un aspetto innovativo che ha semplificato e migliorato la comunicazione tra i membri del Consorzio - spiega Boschiero - è stata la predisposizione di una sezione social aziendale”. Infatti, Freeway® Skyline è stato integrato con Yammer®, un social di tipo enterprise della Microsoft®, che permette di creare gruppi di discussione, scambiare file, gestire e facilitare tutta una serie di attività, favorendo la comunicazione tra le varie strutture (ad esempio: attività preliminari alla definizione di un contratto nei confronti di un fornitore, ricerca e scambio di preventivi,…). “Proprio perché avevamo esigenze specifiche, Eurosystem ha adattato Freeway® Skyline alle necessità del Consorzio. Il risultato è un portale che corrisponde esattamente a ciò che cercavamo e di cui avevamo bisogno per facilitare la gestione degli ordini e la comunicazione tra i consorziati” commenta Luca Boschiero.

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Consorzio Colibrì Il Consorzio, originariamente composto da cinque strutture, rappresenta oggi un network di 15 realtà e si conferma essere una realtà dinamica in continua estensione. Le strutture aderenti a Colibrì operano all’interno del sistema integrato di servizi sociali, socio-sanitari e sanitari della Regione Emilia Romagna che, attraverso il Piano Sociale e Sanitario, intende realizzare un nuovo welfare di comunità locale e regionale in grado di rispondere a bisogni complessi. Il lavoro svolto permette ai consorziati di concentrarsi sulla cura personalizzata dell’utente dal punto di vista sanitario, assistenziale, riabilitativo e socio sanitario, in modo da raggiungere la massima efficienza per i pazienti giovani e adulti e da conseguire il più alto grado possibile di indipendenza nella vita quotidiana e di relazione, per i pazienti anziani e grandi anziani. La Mission del Consorzio Colibrì consiste nell’organizzare e gestire gli acquisti di beni e servizi nell’interesse comune di tutti i consorziati al fine di ottenere sconti e premi sulle quantità trattate, mediante attività di contrattazione collettiva con le rispettive controparti commerciali. Si propone di suggerire le migliori opportunità di acquisto per la scelta della qualità dei prodotti impiegati e dei servizi fruiti nelle attività aziendali, promuovendo incontri tra consorziati e fornitori. Il nome del Consorzio richiama l’idea di leggerezza e velocità che sono le caratteristiche portanti di questa organizzazione. Leggerezza intesa come struttura snella e costi contenuti, velocità come capacità di adeguarsi rapidamente ad ogni cambiamento.


SPAZIO A Y @eurosystem.it

COME CERCARE DATI E DOCUMENTI IN UN ERP La ricerca intelligente a supporto del business Stefano Biral

redazione@logyn.it

Il contesto dell’offerta L’ERP è un sistema complesso che deve rendere semplice, efficace ed efficiente il lavoro della persona che fa parte dell’organizzazione aziendale. L’utilizzatore di un sistema ERP ha a che fare con centinaia di migliaia, se non milioni, di registrazioni gestionali, che a sua volta fanno riferimento a documenti cartacei quali ordini, DDT, fatture, contratti, rapportini e quanto altro serve a relazionarsi tra le aziende.

Il problema dell’utente L’utente ha la necessità di trovare in tempi accettabili quello che gli serve ma spesso le ricerche all’interno del sistema ERP sono complesse, sparse in varie applicazioni, nonché sono condite di form di selezione delle informazioni che necessitano una conoscenza intrinseca del sistema gestionale e della sua struttura gerarchica, comportando anche l’inserimento di filtri multipli (es. da data a data, da tipo a tipo documento, da articolo ad articolo) che sovraccarichano l’utente di azioni da svolgere. In più spesso i tempi di risposta sono inaccettabili o terribilmente lunghi, e rischiano di rendere inefficiente, se non impossibile, la ricerca.

Ma una soluzione a misura di utente esiste... All’interno del nostro ERP Freeway® Skyline è disponibile un nuovo motore di ricerca intelligente, “nome in codice” SENSE (Search ENterprise Server), che consente

agli utenti di ricercare velocemente documenti e informazioni all’interno della propria azienda nello stesso modo in cui si è abituati con Google™ o con Amazon™. La soluzione è stata progettata per effettuare ricerche sia tra i documenti presenti nel proprio sistema informativo (preventivi, ordini, fatture o altri documenti gestionali di un database) sia all’interno di file (PDF®, Microsoft Word®, Microsoft Excel® e-mail o altri documenti elettronici disponibili sul file-server aziendale) al fine di trovare delle specifiche parole. Con il vantaggio che non è necessario utilizzare caratteri speciali o sintassi particolari per effettuare una ricerca: è sufficiente inserire una stringa composta da una serie di parole così come si fa normalmente per ricerche in Internet. Senza preoccuparsi di dove sia l’informazione, Freeway® SENSE permette di navigare tra i documenti gestionali senza doverne conoscere la struttura gerarchica, trovare velocemente e in modo sicuro oltre che in ordine di rilevanza le informazioni rispetto a quanto digitato dall’utente, ma soprattutto avere un unico strumento per cercare qualsiasi informazione aziendale in funzione dei permessi di accesso a tali informazioni. La soluzione è costituita da un server applicativo e da un portale web che offre agli utenti tutte le funzioni di ricerca testuale, di navigazione tra i risultati sfruttando le relazioni e i legami esistenti dedotti automaticamente dal database relazionale: è disponibile inoltre un filtro successivo per scremare i documenti trovati (la cosiddetta faceted search). Questa innovativa tecnologia è inoltre facilmente integrabile con qualunque software gestionale basato sui più comuni database come Oracle o Microsoft SQL Server ed è installabile su tutte le recenti versioni Microsoft Windows Server: è in grado di indicizzare archivi eterogenei di piccole dimensioni fino ad archivi di oltre 10 milioni di documenti strutturati e non strutturati.

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SPAZIO A Y Alla mia azienda serve una soluzione di Business Intelligence? Stefano Bacci

redazione@logyn.it

La BI come vantaggio per essere più competitivi Che cosa intendiamo esattamente per Business Intelligence e perché dovremmo adottare una soluzione di BI in azienda? Prima di parlare di obiettivi, è giusto fare chiarezza sul significato di questa materia e individuare gli strumenti a disposizione delle aziende e i vantaggi da trarne. Piccola guida sulla Business Intelligence, per capire concretamente quanti livelli di BI esistono e che valore aggiunto possono portare. L’adozione di tecnologie di memorizzazione di massa a basso costo e l’ampia diffusione della connettività hanno reso disponibile una grande mole di dati che si sono accumulati nell’arco degli anni. Le imprese, capaci di trasformare i dati in informazione e in conoscenza, saranno sempre più in grado nel tempo di elaborare decisioni tempestive e di conseguire un differenziale competitivo sulla base di questi dati attraverso sistemi di Business Intelligence.

Business Intelligence: di che cosa stiamo parlando? La Business Intelligence è un insieme di modelli matematici e metodologie di analisi che esplorano i dati per ricavare informazioni e conoscenze utilizzabili nel corso dei processi decisionali. Le metodologie di Business Intelligence hanno un’ampia portata e una natura interdisciplinare. Esse riguardano infatti:

• la teoria delle decisioni, ossia la rappresentazione e l’articolazione di processi decisionali nell’azienda;

• la raccolta e la conservazione dei dati destinati a facilitare i processi decisionali, quindi i dati

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nel gestionale Erp, oppure, se necessario, in un data-warehouse;

• i modelli matematici previsionali e cognitivi per l’analisi dei dati e quindi le metodologie della ricerca operativa e della statistica.

In quali settori può essere applicata? Gli ambiti prevalenti di applicazione sono il marketing, le vendite, la logistica, il controllo di gestione, i sistemi finanziari, la produzione e quant’altro può riguardare il business dell’azienda: le analisi di BI, infatti, tendono a promuovere un orientamento scientifico e razionale in tutti questi ambiti di gestione dell’azienda. La Business Intelligence è quindi quel qualcosa che permette ai decision-maker di anticipare i problemi che possono derivare dal mercato, dalla finanza o da qualsiasi altra fonte, considerando che: • l’ufficio rapporti con la clientela ha bisogno di informazioni per conservare i clienti, per adeguare le proprie politiche di vendita; • l’ufficio vendite ha bisogno di informazioni su quali prodotti si vendono di più, a quali gruppi, in quali mercati, attraverso quali canali; • l’ufficio produzione ha bisogno di informazioni sui ritmi di vendita per ottimizzare la produzione; • l’ufficio marketing ha bisogno delle informazioni sugli acquirenti dei prodotti per creare programmi intelligenti di marketing e di pubblicità;


SPAZIO A Y • l’ufficio finanziario ha bisogno di informazioni sulla redditività per adattare le strutture dei costi in vista del massimo valore.

Come si è evoluta nel tempo la BI? Alla fine degli anni ‘80 si sono sviluppate le prime applicazioni di Business Intelligence, ma concentravano il potere delle informazioni nelle mani di pochi e non sfruttavano il possibile talento di altri dipendenti dell’azienda. Negli anni ‘90 e ad inizio millennio, con il proliferare dei desktop e con la disponibilità di database, fogli di calcolo, word processor e altro, ogni reparto ha iniziato a tracciare i propri dati e le proprie informazioni, senza condividerli con gli altri reparti dell’azienda. Negli ultimi anni, però, ci si è resi conto di quanto sarebbe stato utile estendere l’accesso alle informazioni a “tutti” i dipendenti dell’azienda. Si è compreso che, per diventare più agili ed efficienti, non era possibile lasciare la maggioranza dei dipendenti all’oscuro di tutto ciò che riguardava l’azienda. Perché, maggiore è la quota di utenti che ha accesso ai dati aziendali e più ampio è il ventaglio delle informazioni loro fornite, più intelligente e pertanto vincente sarà l’azienda.

Quali benefici? I benefici che un progetto di Business Intelligence porta si possono suddividere in quattro categorie: riduzione dei costi, incremento delle entrate, valorizzazione dell’investimento nel sistema Erp e soprattutto miglioramento della comunicazione.

1. Riduzione dei costi

• Eliminare il ritardo nella produzione di report: gli

utenti possono trovare personalmente le risposte alle proprie domande producendo in autonomia i report, eliminando quindi le richieste al mondo IT.

• Trovare pepite d’oro nella catena del valore: si

possono usare tecniche per individuare costi nascosti o opportunità mancate e generare nuove entrate o minori costi.

• Negoziare migliori contratti con i fornitori e i clienti:

la chiave del successo per un negoziato è la sua preparazione. Quale migliore fonte di informazioni di un progetto di Business Intelligence che fornisca fatti e dati incontrovertibili?

• Migliorare l’efficienza operativa: applicare la Business

Intelligence in tempo reale ai sistemi per le attività operative può incentivare sensibilmente l’efficienza e quindi ridurre i costi e migliorare la qualità del servizio.

2. Incremento delle entrate

• Perfezionare le strategie con migliori analisi di

marketing: grazie ad un facile accesso a dati relativi a ordini, conti, produzione, contratti, spedizione, assistenza e persino a database esterni (es. social network).

• Un’arma vincente per la forza vendita: attraverso

un sistema di Business Intelligence integrato con il sistema gestionale interno i funzionari commerciali fuori sede possono disporre di una visione intelligente e completa della loro attività, di quelle dei loro clienti e dei loro prospect.

3. Valorizzazione dell’investimento nel sistema Erp

• Sistemi di pianificazione finanziaria, aziendale, di

contabilità, produzione, pianificazione dei prodotti, controllo delle scorte, spedizioni, logistica e altro ormai sono una realtà all’interno dell’azienda, ma paradossalmente non esiste un qualche cosa che permetta di unire tutte le informazioni in essi contenute. I sistemi di Business Intelligence liberano i dati operazionali contenuti nelle applicazioni e li rendono disponibili a tutta l’organizzazione per l’analisi.

4. Miglioramento della comunicazione

• Sviluppare un linguaggio comune, portando ad un

allineamento degli obiettivi: l’implementazione di un

• Mettere in discussione le opinioni diffuse: le

convinzioni sono molte volte destinate a rivelarsi errate perché si sono costruite, nel tempo, su ipotesi magari non più valide, o magari non corrette, ma costruite intorno al miglior surrogato possibile. 65


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sistema di Business Intelligence obbliga tutti i reparti dell’azienda ad un vocabolario comune. Con un sistema di Business Intelligence, una volta etichettato un dato, questo è vero per tutti.

• Promuovere l’accountability e l’efficienza: un problema comune nell’azienda è la comunicazione. Un sistema di Business Intelligence riduce drasticamente i tempi di risposta e le richieste interne possono essere soddisfatte più rapidamente.

• Stimolare la curiosità: è stato dimostrato che le

scoperte sono spesso frutto della curiosità del singolo che effettua indagini ai limiti della propria sfera di competenza ufficiale, il che dimostra che si possono ottenere risultati positivi dando libero corso all’autonomia e alla curiosità degli utenti.

Per una BI di successo, quale approccio? Come per gran parte dei progetti strategici, il successo di un’iniziativa di Business Intelligence dipende da molti fattori essenziali: l’integrazione con la strategia aziendale, il pieno appoggio della direzione, una corretta fase di implementazione.

1. La Business Intelligence deve far parte della strategia aziendale Il sistema di Business Intelligence d’impresa fa parte di un processo e i suoi ritorni sono inclusi in quelli del processo nella sua globalità. Il processo di Business Intelligence apporta valore come parte di una strategia aziendale più ampia e il suo valore può essere misurato solo con quello della strategia stessa. Il criterio guida di un sistema di Business Intelligence dovrebbe essere: “questo sistema aiuta l’azienda a realizzare la sua strategia?”. Ma per rispondere a questa domanda bisognerà rispondere a domande come: qual è la strategia? quali obiettivi vi siete posti per realizzare la strategia? quali sono i key performance indicator che l’azienda dovrebbe seguire per misurare il raggiungimento degli obiettivi?

2. I dirigenti aziendali devono promuovere la Business Intelligence Sono i dirigenti aziendali a portare al successo la Business Intelligence: come dimostrato da diverse analisi, le aziende 66

che con più successo hanno implementato un sistema sono quelle che fin dall’inizio lo avevano considerato principalmente in termini strategici.

3. Massimizzare il ritorno sul capitale investito tramite l’implementazione Per assicurare la massima utilità il sistema di Business Intelligence deve essere messo in funzione con la massima cura, ovvero gli utenti devono essere coinvolti fin dall’inizio; il sistema deve essere il più semplice possibile; gli utenti devono ricevere adeguata formazione e il management deve assicurare il proprio sostegno.

Livelli di Business Intelligence La Business Intelligence può essere adottata in azienda secondo modalità e livelli di complessità differenti, a seconda delle esigenze. Possiamo riconoscere due macro-livelli di BI che si basano su questi strumenti:

• Analisi OLAP, Report e cruscotti. • Data mining, con all’interno un focus particolare per quello che riguarda le analisi predittive.

Analisi OLAP (On-Line Analytical Processing), Report e cruscotti: cosa sono Questi strumenti permettono di analizzare in maniera interattiva, veloce e multidimensionale grandi quantità di dati. Il risultato è uno studio che consente di vedere i dati sotto diversi punti di vista e di utilizzarli per supportare le decisioni dei reparti aziendali.

Attività di Data mining e analisi predittive: cosa sono Questi strumenti permettono di analizzare molti dati eterogenei tra loro, attraverso tecniche come il clustering, l’individuazione di associazioni e di sequenze temporali. Questo consente di determinare relazioni tra dati non facilmente individuabili. Ancor di più le analisi predittive permettono, a partire da informazioni note, di fare previsioni su performance, andamenti e comportamenti.


SPAZIO A Y

Business Intelligence

Obiettivi

Funzionalità e Caratteristiche

Analisi OLAP, Report e cruscotti

• Sviluppare una terminologia comune alle varie aree aziendali • Soddisfare più velocemente le richieste interne di informazioni fra dipartimenti • Stimolare la curiosità degli utenti • Stimolare la proattività in azienda • Supportare i processi decisionali

• Raccolta dati (analizzati ponendo delle domande) • Precisione dei dati raccolti • Dati subito disponibili per l’analisi • Possibilità di analizzare molteplici dati • Semplicità e rapidità d’uso

Data Mining

• Comprendere l’adesione a una proposta commerciale • Indirizzare campagne marketing • Identificare le componenti che influenzano la vendita di un prodotto • Osservare un insieme di caratteristiche (periodo, anagrafica acquirente, prezzo, temperatura esterna,…) • Studiare persone di cui si è osservato il comportamento passato nei confronti di eventi simili e di cui si conoscono i dati anagrafici • Modulare l’offerta in base a certe condizioni esterne e mirare gli investimenti • Segmentare la clientela per campagne di marketing mirate, per indirizzare l’offerta e monitorare l’evoluzione della clientela • Individuare associazioni nei dati di vendita per conoscere quali prodotti vengono acquistati insieme ad altri (market basket analysis) al fine di realizzare offerte sui prodotti mirate • Analizzare trend, stagionalità e accidentalità del fenomeno • Prevedere il comportamento futuro per adeguare produzione/scorta/acquisti

• Esplorazione dati per formulare previsioni, identificare pattern e cluster • Analisi delle variabili (caratteristiche) considerate e della loro influenza sul fenomeno • Identificazioni di presenza o meno di correlazioni fra il fenomeno e le variabili e in quale proporzione • Possibilità di ottenere una classificazione della popolazione mediante la divisione in sottogruppi (clustering) • Possibilità di individuare delle regole nelle occorrenze concomitanti di due o più eventi • Possibilità di individuare delle regole nelle occorrenze e dei pattern lungo la linea temporale

Analisi predittive

• Prevedere andamenti e fenomeni futuri in breve tempo • Valutare rischi e opportunità • Intraprendere azioni mirate per valorizzare e incrementare il business aziendale

• Identificazione di pattern all’interno di dati storici • Estrazione di una preview da questi modelli tramite algoritmi • Valutazione dell’algoritmo più adatto in base alla situazione e al tipo di dati a disposizione • Restituzione di previsioni dagli algoritmi tramite delle operazioni matematiche • Disponibilità di informazioni su fenomeni che, con una certa probabilità, avverranno in futuro 67


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ASS N.5 FRIULI OCCIDENTALE

Service Desk per la Sanità Un servizio di help desk qualificato e tempestivo che, in modalità outsourcing, consente al personale sanitario di non perdere più tempo per i malfunzionamenti dei sistemi IT Dietro ogni buon servizio al cittadino c’è una macchina amministrativa, di competenze, persone e strumenti che si muovono in automatico e con un unico battito per far funzionare quel servizio. La cura e il buon funzionamento di ognuno di questi ingranaggi sono il segreto perché la macchina continui a lavorare bene, non commetta errori e porti a termine il suo compito con la soddisfazione di chi quel servizio lo riceve e, in questo caso, lo trova fondamentale per la propria vita e salute.

“La struttura completa Innovazione e gestione delle tecnologie – ci racconta l’ing. Maurizio Rizzetto, Direttore di questo stesso dipartimento – comprende tre aree: la prima gestisce le tecnologie biomediche, quindi tutto il parco delle apparecchiature elettromedicali; la seconda è dedicata alle telecomunicazioni (gestione telefonia, reti, traffico dati); la terza si occupa di tutto il comparto informatico (dall’abilitazione e gestione degli utenti e loro workspace hardware e software standard, nonché software medici/clinici, durante tutto il ciclo di vita aziendale.)".

La macchina di cui parliamo oggi è l’Azienda per i Servizi Sanitari n.5 “Friuli Occidentale”. Istituita nel 2015 con il nome di ASS n.6 “Friuli Occidentale”, oggi accorpora anche l’Azienda Ospedaliera “S. Maria degli Angeli” di Pordenone, operando in tutta la provincia con attività di tipo strategico e operativo, che si realizzano attraverso i distretti sanitari, i dipartimenti territoriali, il coordinamento sociosanitario e le strutture ospedaliere della provincia di Pordenone.

Nel complesso, il dipartimento coordina l’erogazione dei servizi descritti per tutte le strutture ospedaliere della provincia di Pordenone, oltre che per i dipartimenti terriotoriali.

Compito di questa macchina è CREARE SALUTE, slogan ma anche acronimo di 12 bellissimi principi a cui ogni operatore e l’azienda tutta si ispirano, assicurando alla provincia di Pordenone le funzioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, necessarie per raggiungere il più elevato livello possibile di salute. A supporto dello staff medico, cuore dell’azienda, un’intera area dedicata all’Innovazione e gestione delle tecnologie, indispensabile per garantire al personale la possibilità di lavorare in modo efficiente. 68

L’area informatica, nello specifico, eroga servizi per un totale di circa 3600 utenti. “Quando parliamo di utenti di un’azienda sanitaria – continua Rizzetto – dobbiamo immaginarci non semplici impiegati e utenti amministrativi, che sono meno di 300, ma soprattutto operatori sanitari e medici, persone dinamiche con responsabilità che li portano a rimanere fuori dal proprio ufficio e lontano dai dispositivi anche per diverse ore. Per questo tipo di risorse il buon funzionamento dei sistemi informatici a supporto è fondamentale. Per ciò negli anni abbiamo deciso di rinnovare la modalità di servizio di assistenza tecnica avviando un progetto di Service Desk che oggi viene gestito con successo da Nordest Servizi, società


STORIES ASS n.5 Friuli Occidentale Service Desk: la struttura del servizio La parola a Massimo Bosello, direttore Servizi Nordest Servizi Srl ed Eurosystem SpA In cosa consiste il servizio di Service Desk e come è costruito? Il Servizio di Service Desk è stato progettato su logiche ITILv3, uno dei migliori framework di riferimento per l'organizzazione dei Servizi IT. Strumenti di utilizzo, processi e persone sono coinvolti e amalgamati in un'unica entità, la cui logica pone l'utente/cliente al centro. Che tecnologia è stata utilizzata per l’Azienda per i Servizi Sanitari n.5 “Friuli Occidentale? Abbiamo scelto assieme al cliente lo strumento software di Incident Management, ovvero per la gestione di tutto il ciclo di vita del ticket, e abbiamo introdotto una soluzione Itil compliance, perché, tra le tante funzioni, garantisce un unico punto di contatto per qualunque richiesta supporto dell’utente. Questo è un principio fondamentale: un ServiceDesk deve essere riconosciuto come primo riferimento di supporto. Non a caso si utilizza l’acronimo SPOC, ovvero Single Point Of Contact. Che benefici ne ha derivato il cliente? In generale, l'introduzione di un Service Desk produce benefici sia per il business che per l'IT. Un miglior servizio agli utenti finali, migliore accessibiltà (gli utenti non devono ricordarsi un numero di telefono o email per ogni servizio), una più diretta comunicazione interna nel

specializzata nell’outsourcing di Servizi IT e punto di riferimento del panorama tecnologico friuliano”. La scelta di ASS n.5 è stata una scelta di campo. L’azienda ha deciso di abbandonare un modello tradizionale di assistenza tecnica per affidarsi ad un help desk più innovativo, flessibile, e adatto alla proprie esigenze. “Adesso, in caso di malfunzionamento di sistemi IT, l’utente non deve più aprire un ticket con un call center generico e attendere di essere richiamato (magari mentre intanto è entrato in sala operatoria), ma può rivolgersi direttamente ad uno specialista qualificato che, da remoto e tramite un software di incident management, prende il controllo dell’asset, identifica l’entità del malfunzionamento e decide se intervenire subito, attivare un’operazione di escalation nei confronti del produttore o rivenditore del sistema o intervenire direttamente on site. Con questo modello, circa il 40% delle problematiche tecniche segnalate dagli utenti sono risolte telefonicamente, in pochi minuti, e soprattutto già nel corso del primo contatto tra l’utente e lo specialista. Spesso si tratta di problemi banali, reinstallazioni di drive, aggiornamenti, per eseguire i quali, in passato, i nostri utenti avrebbero dovuto attendere ore”. Il sistema di help desk implementato con Nordest Servizi si è rivelato così efficace che spesso gli utenti hanno qualche difficoltà a trovare la linea libera per parlare con i loro tecnici di riferimento. “Per ovviare a questa problematica – spiega Rizzetto – abbiamo migliorato anche il centralino telefonico, creando una linea dedicata per gestire le code e le telefonate in

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dipartimento IT e con gli utenti con più focalizzazione sulle loro esigenze, infine una maggiore comprensione delle dinamiche di supporto e degli impatti. Con il risultato finale di aumentare la produttività delle risorse. Come si valutano efficienza ed efficacia di questo modello? Le metriche sono fondamentali per il controllo del servizio, sia dall’interno che dall’esterno. Oltre ai livelli di customer satisfaction, alla percentuale di ticket risolti al primo contatto e ai tempi medi di risoluzione, la definizione della priorità per la gestione del ticket resta un parametro fondamentale. In questo caso intersechiamo il livello di impatto sull’operatività aziendale con il tempo di accadimento. Il risultato è la definizione, concertata con l’utente, del livello di priorità della sua richiesta. Questo aiuta moltissimo a condividere le aspettative del nostro servizio e la nostra pianificazione. L’organizzazione e il clima di lavoro interno sono gli elementi fondamentali per un buon servizio al cliente. Come funziona il team di assistenza? Il gruppo, di 7 persone, ha il suo coordinatore e all’interno le attività sono suddivise per competenze tecniche, seniority e anche in base agli aspetti caratteriali. Ovviamente, riusciamo a garantire su tutto la necessaria ridondanza per permettere i classici turnover di assenza ferie o progetti vari.

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attesa con messaggi di cortesia e la possibilità per gli operatori di gestire il servizio. Il supporto di Nordest Servizi, che ha ereditato e contribuito ad evolvere un progetto già in atto nella nostra struttura da alcuni anni, è stato importantissimo: gli specialisti di Nordest operano all’interno della nostra divisione come fossero dei colleghi, conoscono e hanno sperimentato in prima linea i sistemi che il personale utilizza e per questo, anche da remoto, riescono ad offrire un servizio veramente competente”. Sfide future: l’Azienda per i Servizi Sanitari n.5 “Friuli Occidentale” è una realtà in evoluzione, particolarmente attenta e sensibile a quelli che potrebbero essere gli orizzonti futuri. “Stiamo lavorando affinché ci sia un’integrazione maggiore tra risorse tecniche appartenenti a diversi campi disciplinari. La sanità e la cura del paziente sono ambiti più di altri toccati dalla trasformazione digitale – sempre di più si parla di mobile health e applicazioni IoT in questo settore - e l’unico modo per affrontare con consapevolezza questi passaggi è mettere a fattor comune le diverse conoscenze: è necessario lavorare in un’ottica multidisciplinare di collaborazione per gestire nuovi progetti di informatizzazione del territorio, assistenza sanitaria a domicilio, e per questo è essenziale che specialisti di information technology, ingegneria biomedicale e telecomunicazioni si contaminino gli uni del sapere degli altri. Siamo ancora in una fase in cui mancano procedure sistematizzate e bisogna definire le aree di competenza e i livelli di collaborazione, ma la strada è tracciata e ben visibile e noi siamo pronti a percorrerla” – conclude Rizzetto.


SPAZIO A Y @eurosystem.it

COME CAMBIA IL CUSTOMER CARE Oltre il servizio, il “credo” dell’azienda Massimo Bosello redazione@logyn.it

Prodotto e servizio: due facce della stessa medaglia La maggior parte dei collaboratori di un’impresa (non tutti!) conosce che cosa viene prodotto nella propria azienda. Molti meno sanno come viene costruito. Almeno uno (ma non molti altri) ne comprende il perché! Da consumatore, una delle cose che apprezzo di più e che rappresenta il giudizio di modernità e qualità di un’azienda è il servizio al cliente. Quando riconosco un servizio veramente all’altezza, penso che anche quell’ultimo operatore del call center (non meno importante del board) conosce e crede in quel perché. Un enorme risultato, basato su un principio che, però, poche aziende difendono e guarda caso, sempre nella storia, quelle di maggior successo. Da Martin Luther King ad Apple, persone o aziende leader, abbiamo sempre comprato, prima la loro convinzione (il loro perché) e poi il loro prodotto. Se pensiamo che Prodotto e Servizio al cliente siano importanti in egual misura, allora siamo sulla strada giusta, ma se pensiamo che sia più importante il prodotto... cominciamo a preoccuparci fortemente! L’evoluzione qualitativa e l’attenzione che si stanno sviluppando nei confronti del cliente o prospect è pari all’accelerazione delle risposte e alla quantità di informazioni che da consumatori pretendiamo. Dunque, oggi, un’azienda deve strutturare il miglior servizio di customer care, adatto a sé, e questo è ciò che le permetterà un grande vantaggio competitivo.

Tra reale e virtuale: l’evoluzione delle soluzioni Le tecnologie a disposizione, se pur ancora giovani (Chatbot e Virtual Assistant), stanno facendo passi da gigante, ma una domanda incombe: per un customer care è meglio un operatore in carne ed ossa o la tecnologia?

La risposta è, come al solito, la più scontata e antipatica... dipende. Dipende, in primis da qual è la segmentazione del tuo mercato in termini di età utente. I giovani sono abituati a dialogare tramite piattaforme digitali (chat reali, chatbot, assistenti virtuali) e lo fanno perché il driver “tempo di risposta” è ciò a cui danno maggior importanza, oltre che al desiderio di esperienza self-service. Già oggi, secondo un’indagine OneReach, il 65% dei clienti preferisce scrivere un messaggio, piuttosto che chiamare un’azienda. Ma quali sono queste tecnologie? Vediamolo assieme.

Customer care a prova di IT Più che mature sono le Chat, che stanno cannibalizzando le vecchie mail e tramite le quali è possibile interagire in tempo reale con un operatore umano (realchat) o con un robot (chatbot). Le prime le conosciamo bene e derivano dalla nostra esperienza privata (WhatsApp, Facebook, Messanger, Telegram, Slack, ecc). Le Chatbot, invece, si differenziano per il fatto che, tramite le piattaforme sopra menzionate, si interfacciano con l’utente usando programmi che imitano le conversazioni con persone reali, grazie all’intelligenza artificiale. Riescono a coinvolgere l’utente con informazioni, oltre che in forma testuale, in forma di foto, video, disegni, il tutto con una velocità molto maggiore rispetto ad un operatore. Certo, perdiamo il lato caldo e umano del dialogo; per questo motivo, il miglior Customer service utilizza un blend di entrambe. Il vicino futuro ci fa già intendere che tecnologie di intelligenza artificiale (AI) basate sul linguaggio umano vocale si stanno perfezionando e saranno sempre più utilizzate, grazie alla spinta nella Ricerca, che aziende come Apple, Microsoft, Google e Facebook stanno dando. 71


informazione pubblicitaria

Application Performance Platform: massimizzare il business con Riverbed A cura di Vittorio Carosone, Country Manager Italy, Riverbed Technology Riverbed Technology è fermamente convinta che oggi la performance di tutti i business dipenda da quella delle applicazioni software che le aziende utilizzano per erogare servizi e prodotti sia ai propri clienti che agli utenti interni. Massimizzare l’esperienza di clienti e utenti è oggi la missione ultima di ogni organizzazione IT e la diffusione del cloud, anche in contesti business critical, l’adozione di soluzioni SaaS e PaaS, nonché le grandi iniziative di data center e di branch transformation stanno lanciando nuove importanti sfide. Allo stesso tempo sono emersi nuovi bisogni, gran parte dei quali riguardano la performance dei processi, delle applicazioni, delle reti e dei sistemi. La Hybrid Enterprise è stata posta da Riverbed al centro della propria strategia e l’intera offerta di mercato è volta a modernizzare le infrastrutture IT, proponendo una soluzione completa e perfettamente integrata che ne indirizzi le esigenze di agilità, visibilità, performance, sicurezza ed effcienza. La Riverbed Application Performance Platform combina dunque: •

visibilità e misurazione realtime della effettiva customer experience nell’utilizzo di applicazioni web, device mobili e client, favorendo anche un efficace e mirato supporto al troubleshooting; discovery agentless dei sistemi e dei servizi ospitati nel data center, delle loro interdipendenze, dei flussi applicativi e della loro mappatura tra data center locale, cloud e applicazioni as-a-service; la

gestione dinamica delle reti (MPLS, Internet, Cloud) in modalità application aware e software-defined: esigenza di attuale interesse per tutte le aziende, sulla quale Riverbed si propone con un connotato di unicità e una soluzione - di tipo Enterprise - già pronta ad essere implementata; l’accelerazione delle applicazioni come ulteriore passo in avanti rispetto all’ottimizzazione della widearea-network, ambito di tradizionale leadership di Riverbed e che oggi beneficia di una innovativa spinta tecnologica; il governo dell’IT nelle agenzie e nelle filiali, consentendo di perseguire rapidamente importanti obiettivi di risparmio, efficienza e sicurezza dei dati, concentrando le risorse informatiche e i dati sensibili nel data center o nel cloud, pur mantenendo la velocità di fruizione tipica dell’onpremise.

La Riverbed Application Platform si adatta perfettamente ai progetti di innovazione del data center, soprattutto laddove sia necessario raggiungere rapidamente obiettivi di trasformazione digitale, di migrazione al cloud, sicurezza dei dati, troubleshooting, mappatura e ridisegno delle applicazioni, di zero IT nelle branch, di miglioramento delle performance di reti ed applicazioni e di completamento delle strategie di DevOps.

Per maggiori informazioni:

www.riverbed.com/it


STILE LIBERO Lavoro

La gestione del Libro Unico Cosa comporta l’utilizzo di mezzi digitali

STUDIO LIZIER, BOTTARI E ASSOCIATI

r.pieretti@studiprofessionali.org

Il Libro Unico del lavoro è un documento riepilogativo che deve essere tenuto dai datori di lavoro privati di qualsiasi settore che occupano lavoratori subordinati, co.co.co. o associati in partecipazione. Serve per certificare sia la gestione del rapporto di lavoro nei confronti del lavoratore, sia la regolarità e la correttezza con cui il datore di lavoro adempie agli obblighi previdenziali e fiscali nonché alla disciplina in materia di orario di lavoro e assenze.

semplificazione e smaterializzazione dei documenti cartacei, l’art. 15 del D. Lgs. 151/2015 aveva istituito, a decorrere dal 1° gennaio 2017, l’obbligo di tenuta del Libro Unico del lavoro in maniera telematica presso il Ministero del Lavoro. Per rendere operativo tale obbligo, però, vi era la necessità che fosse emanato un decreto per stabilire le modalità tecniche di tenuta e conservazione dei dati in esso presenti. Ad oggi tale decreto non è ancora stato emanato ed il Legislatore ha previsto che la decorrenza della tenuta telematica del Libro Unico del lavoro venga posticipata al 1° gennaio 2018.

Obblighi del datore di lavoro Il datore di lavoro ha l’obbligo di conservare il Libro Unico e può farlo presso la propria sede legale, presso lo studio del Consulente del Lavoro o degli altri professionisti abilitati oppure presso i centri di assistenza delle associazioni di categoria. Il Libro Unico del lavoro può essere tenuto con stampa meccanografica su fogli mobili a ciclo continuo, con stampa laser o su supporti magnetici dotati dei requisiti di inalterabilità, integrità e sequenzialità cronologica dei dati contenuti.

Verso una gestione telematica In un’ottica di razionalizzazione,

Il prospetto paga I datori di lavoro hanno anche l’obbligo di consegnare il prospetto paga al dipendente, obbligo che può essere assolto mediante la consegna di una copia vidimata del Libro Unico, anche senza la sezione delle presenze. Le modalità consentite dalla normativa vanno dalla consegna cartacea al lavoratore, con sottoscrizione di una copia della busta paga effettuata per ricevuta, all’invio via email PEC o email ordinaria, fino alla possibilità di consegnare la busta paga online tramite pubblicazione sul sito web aziendale in un’apposita area riservata.

Dal cartaceo al digitale: cosa cambia Dato che il datore di lavoro deve dare dimostrazione dell’avvenuta consegna, per quanto riguarda l’invio tramite email, il procedimento preferibile è senz’altro quello di inviare il documento dalla email PEC aziendale alla email PEC del dipendente. Il Ministero permette anche l’invio ad una mail “normale”: in questo caso, però, per poter provare la consegna, l’azienda dovrebbe farsi inviare una email di avvenuta ricezione del cedolino paga da parte del dipendente. Il Ministero, inoltre, afferma che l’assolvimento degli obblighi di consegna del cedolino paga possa essere effettuato anche mediante la collocazione del prospetto su un sito web dotato di un’area riservata con accesso consentito al solo lavoratore interessato, mediante l’utilizzo di un’apposita password personale. Con l’invio tramite email o con la collocazione sul sito web, è necessario che l’azienda si accerti sia che il lavoratore abbia la disponibilità di un pc, una stampante e un collegamento internet (in caso contrario deve metterli a sua disposizione) sia che lo stesso venga informato della pubblicazione della busta paga. 73


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Monitoraggio degli strumenti di lavoro In bilico tra controlli datoriali e privacy UNIS&F

Tel. 0422 916465

privacy@unisef.it

Il monitoraggio degli strumenti di lavoro è da sempre una chimera per un datore. Se da un lato, infatti, il lavoratore dipendente richiede a gran voce che la propria privacy venga rispettata, dall’altra il datore di lavoro ha sempre più bisogno di poter monitorare gli strumenti di cui dota i propri dipendenti, anche al fine di tutelare il know-how aziendale. La sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani Il 12 dicembre 2016, la Corte Europea dei Diritti Umani si è pronunciata e, nell’esaminare il ricorso di un ingegnere romeno licenziato per inadempimento contrattuale, provato anche dall'utilizzo a fini personali della mail aziendale in orario di lavoro, ha ritenuto non irragionevole il bilanciamento tra privacy dei dipendenti ed esigenze datoriali, ammettendo, quindi, il controllo datoriale sull'attività lavorativa nella misura in cui sia strettamente proporzionato e non eccedente lo scopo di verifica dell'adempimento contrattuale. La Corte Europea dei Diritti Umani sancisce quindi la fine della privacy in 74

ambito lavorativo? Assolutamente no. Con la pronuncia, la Corte si è limitata a ritenere non irragionevole il bilanciamento tra privacy dei dipendenti ed esigenze datoriali affermato dalla giurisdizione romena. E questo perché: • L'azienda aveva informato i dipendenti delle condizioni d'uso della posta elettronica aziendale che non ne consentivano l'utilizzo a fini personali. • Il monitoraggio delle mail è stato limitato nel tempo e nell'oggetto, nonché strettamente proporzionato allo scopo di provare l'inadempimento contrattuale del lavoratore (desunto da altri elementi), la cui scarsa produttività aveva determinato e legittimato il licenziamento. • L'accesso alla posta elettronica del lavoratore da parte del datore di lavoro è stato legittimo proprio perché fondato sul presupposto della natura professionale del contenuto delle comunicazioni (come da contratto avrebbe dovuto essere).


STILE LIBERO Privacy • L'identità degli interlocutori del lavoratore non è stata rivelata in sede giurisdizionale. • L'azienda non ha avuto accesso ad altri documenti archiviati sul computer del lavoratore: il contenuto delle comunicazioni non è stato oggetto di sindacato da parte datoriale nel giudizio, ma soltanto il carattere personale delle mail inviate nell'orario di lavoro, con conseguente riduzione della produttività del dipendente. • Il dipendente non ha motivato la ragione dell'utilizzo della mail aziendale a fini personali.

Quali parametri per i controlli datoriali? La Corte ha dunque riaffermato, nel caso concreto, che i controlli

datoriali sull'attività lavorativa sono ammissibili soltanto nella misura in cui siano strettamente proporzionati e non eccedenti lo scopo di verifica dell'adempimento contrattuale. Essi devono essere limitati nel tempo e nell'oggetto, mirati e fondati su presupposti (quali in particolare l'inefficienza dell'attività lavorativa del dipendente) tali da legittimarne l'esecuzione; infine, devono essere già previsti dalla policy aziendale, di cui il dipendente deve essere adeguatamente edotto. Il Garante ha affermato in più occasioni che il datore di lavoro è tenuto all'individuazione preventiva della lista dei siti considerati correlati alla prestazione lavorativa, nonché dell'adozione di filtri per il blocco dell'accesso a determinati siti o del download di alcuni file. Non sono, invece, consentite al datore di lavoro la lettura e la

registrazione sistematica delle e-mail e delle pagine web visualizzate dal lavoratore, così come quella dei caratteri inseriti tramite tastiere e dispositivi analoghi, nonché l'analisi occulta di computer portatili affidati in uso.

Dopo il Jobs Act Questi principi restano validi anche dopo la riforma dei controlli datoriali operata dal Jobs Act e anche rispetto agli strumenti di lavoro che, pur sottratti alla procedura concertativa, restano comunque soggetti alla disciplina del Codice Privacy, ai principi di necessità, finalità, legittimità e correttezza, proporzionalità e non eccedenza del trattamento, nonché all'obbligo di previa informativa del lavoratore e al divieto di profilazione. www.unisef.it

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Il commercialista… digitale! Nuove modalità per lo scambio delle informazioni RUGGERO PAOLO ORTICA - ENRICO FANTUZZI

L’evoluzione tecnologica dell’ultimo ventennio ha cambiato in maniera radicale il modo in cui persone, aziende e pubbliche amministrazioni si mettono in contatto tra loro e si scambiano informazioni. Nell’ambito delle professioni intellettuali, quella che ha dovuto affrontare notevoli cambiamenti nel “modo di comunicare” è di certo quella dei Dottori Commercialisti, i quali si sono dotati di strumenti e conoscenze digitali al fine di poter interfacciarsi con l’amministrazione finanziaria ed adempiere ai sempre più numerosi obblighi informativi gravanti sui propri clienti. Il commercialista oggi La figura tradizionale del commercialista, che dialoga di persona con i propri clienti o con l’amministrazione finanziaria, col tempo è stata parzialmente rimpiazzata da un più moderno “commercialista digitale” che comunica attraverso i canali telematici dell’Agenzia delle Entrate e condivide documenti e informazioni con i propri clienti attraverso moderni software di cluod o file sharing come “Dropbox”, 76

info@studioassociatopiana.it

“WeTransfer” o “Google Drive”.

Mai più senza…fatture elettroniche Uno dei cambiamenti più importati che l’evoluzione digitale ha portato nel modo di comunicare è stato introdotto nel 2014, anno in cui è stato finalmente recepito il cambiamento apportato con la legge finanziaria 2008, la quale ha stabilito che la trasmissione delle fatture elettroniche destinate alle Amministrazioni dello Stato doveva essere effettuata esclusivamente attraverso il Sistema di Interscambio (SdI). In pratica dal 2014 Ministeri, Agenzie fiscali, enti nazionali di previdenza e successivamente anche le restanti P.A. non hanno più potuto accettare fatture emesse o trasmesse in forma cartacea. Nell’ambito di tale processo è stato fondamentale l’accompagnamento delle aziende, soprattutto quelle di piccole e medie dimensioni, da parte del dottore commercialista.

comunicare grazie all’evoluzione digitale è quella dei Tribunali, che, a partire dal 2007, hanno iniziato ad adottare il “PCT” ossia il Processo Civile Telematico. Attraverso quest’evoluzione nella comunicazione tra avvocati e commercialisti con i Tribunali, ad oggi è possibile consultare via internet i dati associati al singolo avvocato o commercialista, relativamente ai registri del contenzioso civile, tribunale del lavoro, volontaria giurisdizione, Giudice di Pace, esecuzioni mobiliari ed immobiliari, procedure concorsuali, nonché procedere con le notifiche degli atti in maniera telematica. Evoluzione simile a quella del Processo Civile Telematico è occorsa anche nel Processo Tributario Telematico la cui adozione effettiva è iniziata nel 2015, ma già molte commissioni tributarie lo avevano precedentemente implementato con efficacia nelle proprie sedi, assecondando in questo modo il processo di semplificazione nei rapporti tra fisco e contribuenti.

Comunicare via Internet con i Tribunali

Imprese private: la digitalizzazione della documentazione

Altra tipologia di ente pubblico con la quale è cambiato il modo di

L’ultima novità in tema di evoluzione tecnologica e della comunicazione,


STILE LIBERO Fisco è la possibilità di realizzare sistemi di emissione e ricezione di fatture, anche tra imprese private, in maniera completamente digitale. In pratica, l’obbligo imposto legislativamente nel 2014 per la comunicazione di documenti fiscali tra soggetti privati e pubbliche amministrazioni è oggi una possibilità che può essere sfruttata anche nei c.d. rapporti B2B, ossia nei rapporti tra imprese private, le quali, grazie a moderni software gestionali, possono “dematerializzare” completamente il ciclo di fatturazione e recuperare tempo di lavoro e spazio fisico attraverso una digitalizzazione completa della propria documentazione.

quelle annoverate nell’Agenda Digitale e, tra queste, l’evoluzione della comunicazione tra aziende, privati e pubbliche amministrazioni è ai primi posti per quanto riguarda il sistema di interscambio di documentazione fiscale attraverso i canali ufficiali dell’Agenzia delle Entrate, finalizzato alla tracciabilità dei flussi d’informazione e alla lotta all’evasione fiscale. Nella seconda parte del 2016 sono stati infatti introdotti alcuni decreti legislativi con l’obiettivo di

Entrate può disporre direttamente dei dati delle fatture attive e passive. Alla luce di quanto sopra è pertanto necessario che le aziende italiane e soprattutto i commercialisti, loro consulenti, siano in grado di comprendere ed adattarsi ad un mondo sempre più dinamico ed interconnesso, perché l’evoluzione digitale è l’unica strada per rimanere concorrenziali nei confronti degli altri Paesi competitor.

• supportare la “tax compliance” e ridurre l’evasione fiscale;

L’Italia e il digitale

• semplificare gli adempimenti fiscali di imprese e professionisti.

L’Italia pone tra le sue priorità proprio

In questo modo l’Agenzia delle

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Diffamazione e altri reati sui social network Questioni dibattute e responsabilità del gestore GIULIA TEBALDI

giulia.tebaldi@gmail.com

La comunicazione oggi è estremamente cambiata grazie all’avvento di internet e dei social network. Attraverso questi nuovi mezzi, reati quali molestie, diffamazione e stalking sono perpetrati sempre più frequentemente con conseguenze devastanti per la reputazione e l’onore, incidendo gravemente sulla personalità delle vittime. La giurisprudenza ed il codice penale si stanno quindi adeguando a queste nuove forme di offesa particolarmente insidiose, quanto alla potenzialità diffusiva del messaggio denigratorio o alla reiterazione della condotta molesta. Stalking e diffamazione Ipotesi di reato quali appunto la diffamazione e lo stalking si considerano aggravate proprio per l’uso del mezzo telematico. Lo stalking è punito più severamente, come previsto espressamente dal comma 2^ dell’art. 612 bis del codice penale, quando viene commesso attraverso strumenti informatici o telematici proprio in ragione della serialità della condotta che può essere amplificata dal loro uso. 78

In materia di diffamazione, invece, è la Giurisprudenza che si è dovuta esprimere qualificando la critica o l’offesa espressa attraverso i social network quale diffamazione aggravata per l’uso del mezzo pubblico (Cass. pen. Sez. V, Sent., 22-02-2017, n. 8482), in quanto trattasi di condotta potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone, qualunque sia la modalità informatica di condivisione. La pronuncia “apripista” di questo orientamento è la sentenza n.4741 del 17/11/2000 emessa dalla V Sezione della Cassazione Penale, attinente proprio a un caso di diffamazione consumatosi sulla “bacheca” di un sito internet: per la prima volta è stato lanciato l’allarme affermando che l’offesa recata attraverso la rete sarebbe stata per certo meritevole di più severa sanzione, in quanto la diffusività e la pervasività di internet non sarebbe paragonabile a mezzi quali la televisione o la stampa.

I Diritti della nostra Costituzione Uno degli aspetti più dibattuti riguarda la responsabilità del gestore del sito web, ma per analizzare tale

tema è doverosa un’importante premessa. Ai fini della valutazione della liceità o meno di una certa affermazione proposta in rete, è necessario considerare che la nostra Costituzione sancisce il diritto di cronaca e di critica, ma anche il diritto alla reputazione e all’onore: detti beni giuridici devono essere soggetti a bilanciamento. Anche il diritto di satira può entrare in discorso, tuttavia è bene ricordare che la satira viene considerata illecita se consiste nell’insulto gratuito. Una critica o un commento possono essere ritenuti legittimi solo se sono rispettati i limiti di continenza nell’espressione e di veridicità del fatto. Una notizia pungente non è lesiva se sussistono i requisiti del pubblico interesse, di pertinenza e/o della notorietà del soggetto; fermo restando il rispetto del criterio della verità obiettiva delle informazioni e della continenza del linguaggio. La verità può anche essere solo putativa, ma alla base deve essere stato svolto un serio e diligente lavoro di ricerca.

Responsabilità del gestore Qualora i contenuti caricati sul sito non corrispondano a queste


STILE LIBERO Azienda sicura caratteristiche, il gestore che abbia omesso il controllo di quanto pubblicato, o peggio abbia consentito o favorito la pubblicazione di informazioni lesive dell’altrui reputazione, ne risponde in primis civilmente a titolo risarcitorio (vedasi Cass. Civ. sez. III sent. n. 18174/2014). Sotto il profilo penale, però, la prova da raggiungere deve abbracciare anche il dolo, ovvero la coscienza e la volontà di offendere l’altrui reputazione. Inoltre, perché possa essere dichiarata la penale responsabilità a titolo di concorso del moderatore o dell’amministratore di un sito web su cui vengano pubblicati messaggi diffamatori o molesti, deve essere dimostrato che questi abbia consapevolmente esaminato il messaggio e ne abbia volutamente consentito la pubblicazione (cfr. Corte d’Appello Trento, 24/06/2016). Nel caso in cui un soggetto pubblichi una frase denigratoria su un sito, il webmaster, per il ruolo che svolge, ha il precipuo compito di controllare e filtrare questo tipo di messaggi. Tale responsabilità non può essere tuttavia assimilata a quella prevista per il direttore delle testate giornalistiche, non ammettendosi in diritto penale il ricorso all’analogia.

Né può essere addebitata alcuna responsabilità oggettiva essendo la responsabilità penale sempre e solo personale. Il gestore deve quindi aver volontariamente e consapevolmente deciso di non oscurare quello specifico messaggio agendo così concorsualmente con l’autore. Il sito, poi, può essere sottoposto a sequestro preventivo, misura reale cautelare.

La condanna del gestore: un esempio In una recentissima sentenza (datata 27/12/2016 n. 54946), la Suprema Corte ha confermato tale ricostruzione e ha condannato il gestore per non essere intervenuto a censurare i commenti diffamatori pubblicati da un utente che, su un noto sito di calcio, aveva apostrofato quale “emerito farabutto” e “pregiudicato doc” il presidente della Lega Nazionale dilettanti. Solo dopo il sequestro del sito, il gestore si è attivato, ma con troppo

ritardo secondo la Suprema Corte, avendo già ricevuto una mail che lo avvertiva della diffamazione in atto e rimanendo inerte. A nulla sono valse le doglianze della difesa, a sostegno della non conoscenza del post da parte dell’imputato, il quale è stato condannato, oltre che penalmente, anche al ristoro del danno valutato equitativamente in euro 60.000.

Cosa fare per ottenere la rimozione dei contenuti? Allo stato normativo attuale, per ottenere rapidamente la rimozione di messaggi dannosi diffusi on line è necessario preliminarmente rivolgersi al gestore e, in difetto di riscontro, al motore di ricerca, affinché elimini o quanto meno deindicizzi pagine con contenuti diffamatori o costituenti reato. Solo dopo aver inutilmente percorso questa strada, si può ricorrere al Garante della Privacy, ferme restando le misure che possono essere intraprese in via giudiziale. Spesso, però, per azionare questi rimedi passano diversi giorni, se non mesi, e a volte il danno patito dalle persone offese diviene irrecuperabile.

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La degenerazione della comunicazione Aspetti giuridici di un fenomeno attuale: il cyberbullismo ANDREA MANUEL

Il Cyberbullismo (o bullismo elettronico) è un fenomeno strettamente correlato al bullismo e consiste in atteggiamenti e comportamenti da parte di qualcuno, finalizzati ad offendere, spaventare ed umiliare la vittima tramite mezzi elettronici. Consiste, inoltre, in qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché nella diffusione di contenuti on-line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso o la loro messa in ridicolo. Le difficoltà della scuola e della famiglia Il cyberbullismo, sebbene meno diffuso del tradizionale bullismo, rappresenta un fenomeno che coinvolge sempre più bambini ed adolescenti. 80

Gli esperti del mondo dei minori hanno da tempo lanciato un allarme alle famiglie: le scuole, purtroppo, non riescono ad arginare il fenomeno spesso sottovalutato proprio dal nucleo familiare. In tutto questo, il fenomeno del cyberbullismo è caratterizzato da un aspetto molto singolare: infatti la stragrande maggioranza dei reati commessi dai bulli viene eseguita attraverso il pc scolastico, andando a costituire uno strano parallelismo con le statistiche, secondo le quali la maggior parte dei reati informatici è commessa dagli adulti nei luoghi di lavoro e non dalle postazioni di casa. Sembra che, fuori dalle mura domestiche, vi sia una spersonalizzazione maggiore della propria condotta consapevolmente negativa.

E le istituzioni? Il Ministero della Pubblica Istruzione ha emesso una direttiva specifica al fine di contrastare il cyberbullismo e disciplinare l’utilizzo delle risorse informatiche tecnologiche all’interno degli Istituti scolastici. Innanzitutto, la direttiva stabilisce che sia trattato con estrema severità l’uso

dei telefonini da parte degli studenti (ma anche degli insegnanti) durante l’orario di lezione. In secondo luogo, propone la redazione di un regolamento interno alla scuola per disciplinare l’utilizzo delle risorse informatiche. La mancata sorveglianza da parte della scuola determina una responsabilità giuridica per mancato controllo ed eventuali responsabilità anche in caso di danni civili, avendo messo a disposizione di minori – che devono, in ogni caso, essere sorvegliati nelle attività realizzate nell’ambiente scolastico - delle risorse informatiche senza controllo alcuno. La direttiva introduce, inoltre, il c.d. “patto di corresponsabilità” incitando le scuole a creare un canale diretto con le famiglie per poter reciprocamente prendere atto del cyberbullismo.

Le responsabilità dei genitori Probabilmente l’atteggiamento negligente dei genitori deriva dall’analfabetismo in campo informatico e gli stessi, nella maggior parte dei casi, non si rendono conto che oltre al danno educativo, sono titolari della responsabilità giuridica


STILE LIBERO Parola all’avvocato per le condotte dei figli: se un minore pubblica su un blog dei commenti offensivi o immagini lesive della dignità di un minore, si tratta di reati, che in rete, peraltro, assumono una gravità ampliata dal mezzo comunicativo. Uguale discorso vale per eventuali fotografie, scambiate tra amici via telefono, con riprese di atti particolari tra minori: quante volte si sente parlare di messaggi girati all’interno di una scuola e lesivi dell’onore, delle dignità ed anche della sessualità di ragazzi e ragazze, i quali, una volta subiti atti del genere, hanno poi serie difficoltà a reintrodursi nella vita scolastica? Nonostante ciò, raramente si pensa alle conseguenze che dovranno affrontare i genitori chiamati a rispondere degli atti dei figli.*

La leggi per contrastare il fenomeno Recentemente il Senato ha approvato con modifiche un disegno di Legge che punta a contrastare il fenomeno del cyberbullismo. La Legge è in corso di approvazione

ma, dal testo fino ad oggi approvato, si possono ricavare certamente aspetti positivi. Innanzitutto, sono stati eliminati i riferimenti al bullismo ed è presente una concentrazione sul fenomeno del cyberbullismo. Inoltre, viene data maggiore attenzione agli aspetti preventivi (ad esempio interventi informativi educativi nei confronti dei minori coinvolti) rispetto a quelli repressivi. Concentrandosi maggiormente sulla tutela dei minorenni, la vittima di cyberbullismo non può più essere chiunque (“una o più vittime” nella versione della Camera), ma esclusivamente il minorenne (“in danno di minorenni” nell’ultima versione) e la definizione del fenomeno è introdotta al fine esclusivo di individuare e contrastare una serie di fenomeni dagli effetti potenzialmente devastanti per le vittime. Anche nell’art. 2, dedicato ad un particolare procedimento di rimozione di contenuti dal web, si sposta l’attenzione sulle vittime minorenni con la previsione di un procedimento di rimozione, oscuramente o blocco di “dati personali del minore” che preveda il

coinvolgimento dell’ufficio del garante per la protezione dei dati personali, il quale dovrebbe attivarsi entro 48 ore dal ricevimento della richiesta con tempi, notevolmente più rapidi, rispetto alle procedure già oggi previste. Resta, inoltre, l’obbligo per il Dirigente scolastico, che sia venuto a conoscenza di atti di cyberbullismo, di informare tempestivamente i genitori ed i tutori dei minori coinvolti e si punta ad attivare adeguate azioni di carattere educativo. Il fenomeno, pertanto, è complesso e l’intervento del Legislatore (in itinere) è certamente auspicabile. Il Diritto deve adeguarsi all’evolversi della Società cercando – se non di arginare – quanto meno di porre delle regole ai fini di evitare quelli che possono essere gli aspetti degenerativi della comunicazione.

Studio Legale Nordio-Manuel * http://www.consulentelegaleinformatico. it/2007/07/02/aspetti-giuridici-sulcyberbullismo-responsabilita-e-soluzioni/

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numero 14

Il Buddhismo ed Internet Lo sviluppo della relazione tra questi due mondi LUCIANO CAMPAGNARO

casaincino.weebly.com

Internet sta cambiando tutto. Anche il Buddhismo, la meditazione, i gruppi di pratica. Cosa sta succedendo a questa tradizione antichissima in una società dove la tecnologia domina ogni aspetto della vita e tutto cambia a una velocità sempre più frenetica? È arrivato il tempo per ampliare lo sguardo e intraprendere una riflessione collettiva che ci consenta di capire meglio la realtà in atto. Dove si trovano i sangha? Chi non vive in una grande città – o in aree dove la meditazione è troppo poco popolare – ha scarse probabilità di trovare un sangha (gruppi di pratica delle varie tradizioni buddhiste, nei quali i praticanti si riuniscono

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per meditare insieme, ascoltare gli insegnamenti dei maestri, organizzare ritiri di proprio gradimento da frequentare). A titolo di esempio, per chi vive nelle grandi città ci sono molti gruppi diversi, che si riuniscono ogni giorno della settimana. Altrove, invece, non è così.

Internet come rimedio alla problematica della distanza Internet rende possibile la creazione di gruppi che si mantengono in contatto a distanza, in forme sempre

più sofisticate. Dai primi newsgroup e forum degli anni ’90 si è passati alle mailing list e poi alle interazioni in video in tempo reale a basso costo. Presto tecnologie come la realtà virtuale e la realtà aumentata diventeranno alla portata di tutti, rendendo le riunioni a distanza quasi “reali”. Del resto, per il Buddhismo, cos’è veramente reale? Il maestro zen Thich Nhat Hanh, dalla sua comunità a Plum Village, ha dato vita a un sangha online che periodicamente trasmette dirette web che consentono ai membri del suo sangha mondiale di prendere parte ai


STILE LIBERO Benessere sul lavoro momenti clou dei ritiri che si tengono nella località francese.

La nascita continua di elementi caratterizzanti Elementi tipici del Buddhismo come la meditazione e la mindfulness (termine che nell’antica lingua pali significa “presenza mentale” o “consapevolezza”) sono ormai patrimonio condiviso tra molti eterogenei gruppi, scuole e movimenti che in molti casi non si richiamano esplicitamente al Buddhismo. Quest’ultimo, non avendo un carattere dogmatico, si presta facilmente a varianti di ogni tipo. La meditazione in sé, del resto, è un elemento centrale solo in alcune tradizioni buddhiste (Theravada, Zen), mentre è diventata essenziale per l’alienante vita quotidiana di noi occidentali. Oltre alla meditazione e alla mindfulness c’è da aspettarsi che in futuro possano sorgere altri metodi, scuole, movimenti – forse persino religioni – basate sull’estrapolazione di ulteriori elementi del Buddhismo, come la compassione o la concentrazione. Già nel mondo ci sono molte iniziative centrate sulla gratitudine in quanto tale, indipendentemente da qualsiasi indirizzo spirituale.

Una diffusione a livello globale Cosa c’entra internet con tutto questo? La rete facilita enormemente la diffusione di idee, concetti e istruzioni pratiche a livello globale, insieme alla loro semplificazione ed estrapolazione dal contesto d’origine, come avviene già da tempo in tanti ambiti diversi.

Un’ulteriore tendenza riguarda l’uso delle tecnologie a servizio della meditazione e della consapevolezza. Qui molti potrebbero storcere il naso, ma non dobbiamo dimenticare il fatto che le tecnologie digitali stanno già profondamente cambiando molti aspetti della nostra attività mentale: dal modo di comunicare con le altre persone a quello di memorizzare e/o richiamare alla memoria contenuti di ogni tipo. Dieci anni fa gli smartphone non esistevano. Oggi sono l’appendice irrinunciabile per miliardi di individui nel mondo. Come potrebbe la tecnologia non rivestire un ruolo ancora più importante in futuro? Agli scettici ricordo anche che il Buddha non ha lasciato alcun contributo scritto. I suoi insegnamenti sono ancora oggi così noti e praticati solo grazie alla scrittura, una tecnologia che ai tempi delle trascrizioni dei suoi discorsi – in precedenza tramandati solo oralmente – era di introduzione relativamente recente.

Tecnologie al servizio della consapevolezza Qualsiasi ragionamento sulle tecnologie al servizio della consapevolezza è provvisorio e prematuro, trovandoci agli albori in questo ambito. Ma già possiamo individuare alcuni filoni significativi: • Le app che aiutano le singole persone a praticare. Alcune di esse, come Insight Timer, sono dei timer per uso individuale che svolgono anche molte funzioni del sangha online. Altre, come Headspace o GPS for the Soul, cercano di sfruttare le caratteristiche degli smartphone per proporre nuovi tipi di pratica di consapevolezza.

• Le app per il benessere personale. Sfruttano i sensori presenti nello smartphone per monitorare ogni aspetto della vita individuale, dall’attività fisica praticata quotidianamente al ritmo cardiaco, cui presto seguiranno il respiro e la sudorazione della pelle. Si evolveranno sempre di più in alleati per tenere sotto controllo la consapevolezza nella vita di tutti i giorni, a partire dal corpo. • La misurazione dell’attività cerebrale. L’elettroencefalografia (EEG), applicata a persone mentre stanno meditando, è un’applicazione vista già molte volte, che ha consentito di creare molti punti di contatto tra scienza e psicologia buddhista, in merito al funzionamento del cervello. È dunque da considerarsi un importante filone di ricerca. Anch’esso, con l’evolversi delle tecnologie può riservarci molte sorprese. Che ne dite? Penso che sia arrivato il momento di ragionarci un po’ sopra. Il mondo sta cambiando molto, molto rapidamente e in maniera molto significativa con tutti i social media: è qualcosa che dobbiamo certamente affrontare ed indagare di fronte a questo sviluppo sociale. Perché se siamo coinvolti nel Buddhismo e nel tentativo di rendere gli insegnamenti buddhisti accessibili ad altri – oltre che utili e significativi – allora dobbiamo pensare a ciò che sta succedendo nel mondo di oggi. Luciano Campagnaro, Psicologo Zen 83


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STILE LIBERO Naturopata

Sovrappeso e obesità Dimagrire mangiando consapevolmente VANIA LOT

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L’eccesso di peso è uno dei problemi maggiori della salute pubblica nei Paesi Occidentali. Il Ministero della Salute dichiara che “sovrappeso e obesità sono responsabili di patologie cardiovascolari, metaboliche, osteoarticolari, tumorali e respiratorie che comportano una ridotta aspettativa di vita e un notevole aggravio per il Sistema Sanitario Nazionale”. In Italia, ad esempio, i costi diretti sulla spesa sanitaria sono stati stimati in circa 23 miliardi di euro all’anno. Diete “miracolose” ed effetti collaterali Oggi esistono le più svariate diete. Alcuni programmi dietetici “miracolosi” sfruttano l’eliminazione di acqua dal corpo, con diuretici per esempio, e danno dei risultati veloci dovuti proprio alla perdita idrica: inizialmente il peso diminuisce, ma non appena il corpo riesce a reintegrare l’acqua, aumenta nuovamente. Anche le diete iperproteiche sono pericolose perché possono provocare danni renali e osteoporosi: i risultati iniziali possono essere gratificanti, ma subito dopo l’organismo compensa la perdita di acqua. Altre diete ancora abbattono l’apporto calorico

giornaliero portandolo a meno di 600 calorie. Questo fa sì che l’organismo entri in “modalità carestia” e debba proteggere gli organi, andando ad intaccare le riserve proteiche. Il 90% delle persone che segue questi regimi alimentari, entro un anno, recupera i chili persi o aumenta di peso rispetto al periodo precedente la dieta.

Cure efficaci contro l’eccesso di peso La cosa essenziale per iniziare un programma di dimagrimento efficace è adottare uno stile di vita sano che includa un’alimentazione naturale scelta in base alle esigenze nutrizionali della persona. In un precedente articolo, ho trattato la grande differenza tra alimentarsi e nutrirsi: un corpo nutrito sarà sempre sano e non dovrà mai innescare dei processi di stoccaggio alimentare che porterebbero inevitabilmente all’aumento di peso. Il punto di partenza viene fissato dopo una consulenza naturopatica che stabilisca il reale funzionamento metabolico.

Buone abitudini per un peso equilibrato Assumere cibi ricchi di fibre che conferiscono sazietà; iniziare sempre il pasto con un’abbondante porzione

di verdure crude; mangiare legumi che aiutano a tenere pulito l’intestino: queste sono le buone abitudini. Cosa non fare invece? Assumere grassi saturi e zuccheri raffinati; mangiare prodotti industriali, ricchi di calorie vuote e privi di nutrimenti. È consigliabile, poi, bere molta acqua naturale lontano dai pasti; non saltare mai la colazione; fare tre pasti principali e due spuntini al giorno; masticare lentamente, soprattutto i carboidrati. Infine, l’esercizio fisico, svolto tutti i giorni, aiuta ad aumentare la massa muscolare bruciando più in fretta le calorie.

Dimagrimento consapevole e graduale Perdere peso in maniera lenta e costante ha il vantaggio di non innescare compensi metabolici che possono andare ad intaccare le riserve idriche, in quanto si perde veramente grasso e non acqua. La cosa più importante, nel dimagrimento graduale, è che si acquistano, in maniera definitiva, salutari abitudini alimentari fondamentali per prevenire tutte quelle problematiche legate all’eccesso di peso (cardiopatie, ictus, ipertensione, diabete e molte altre). Il vero programma di dimagrimento inizia a tavola mangiando consapevolmente. 85


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Arte e tecnologia

L'arte e i new media: quando l'imperativo è comunicare Elettra Battini

elettra@artelaguna.it

Sempre piÚ labile il confine tra strumento e contenuto nelle ricerche artistiche contemporanee che esplorano le nuove tecnologie La comunicazione è un tema che sottende moltissime riflessioni e ricerche artistiche del nostro tempo, a volte esplicitamente esplorata e resa l'oggetto di indagine vero e proprio, altre volte emergente quasi suo malgrado, silenziosamente ma inevitabilmente. Comunicazione

Genya Krikova, @Voyager_Mirror, 2015

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è infatti un termine che permea la nostra era, fatta di social media e di digitale, e non sorprende che mezzi di espressione e il loro oggetto e contenuto si intersechino in modo costante, influenzandosi reciprocamente nelle loro evoluzioni, spesso rapidissime e inaspettate.


STILE LIBERO Arte e tecnologia Date queste premesse, appare chiaro che comunicare diventa una parola chiave anche e soprattutto nelle ricerche degli artisti contemporanei che hanno scelto le nuove tecnologie e i nuovi media come mezzo di espressione e di indagine, poiché nascono proprio come strumenti per rendere più efficace, rapido, interattivo lo scambio di informazioni, quasi sempre andando a modificare il contenuto stesso, che sempre più si fonde con il mezzo. All'interno di questo discorso, un'esplorazione che mette a nudo la comunicazione per se è l'opera "Radioactive Live Soundscape" (2016) del giapponese Hill Kobayashi, in cui le comunicazioni satellitari sono l'oggetto e il medium fondamentale dell'opera stessa, che ce le svela in modo quasi scarno e brutale, legandosi a tematiche drammaticamente attuali. L'artista ha infatti posizionato un microfono nella zona radioattiva del disastro nucleare di Fukushima, a 10 km dalla centrale nucleare: sfruttando le comunicazioni satellitari, è in grado di farci ascoltare dall'altra parte del mondo, in diretta 24 ore su 24, il paesaggio sonoro di questa zona contaminata, ora vietata all'uomo. Un gesto semplice, ma che proprio nella sua semplicità rappresenta una forte presa di coscienza del dramma legato alle azioni umane e insieme un tentativo di conservazione e archiviazione di questi suoni, per indagini future ma anche come messaggio di speranza, come ascolto del sommesso rumore della vita che, nonostante tutto, continua.

il loro elemento fondante, evidenziando un cambiamento importante anche nel modo di comunicare l'arte stessa. Siamo ormai lontani anni luce dalla dicotomia tra oggetto artistico e spettatore. Quest'ultimo anzi da spettatore diventa creatore, costruttore di significato, rispecchiando quello che sta avvenendo in modo più ampio nel mondo della comunicazione in generale. In questa prospettiva si colloca l'opera del giovanissimo collettivo artistico Taiwanese Ku.Mon. Studio. "Plant Plan" del 2016 può essere definita una vera e propria opera partecipativa, che porta l'arte più tradizionale a un nuovo livello attraverso l'uso delle nuove tecnologie. Inserendosi nel discorso ambientalistico e ponendosi come riflessione sul futuro del nostro pianeta, "Plant Plan" invita le persone

KU.MON. Studio, Plant Plan, 2016

Addentrandoci in un diverso filone, il vasto mondo dei social è l'area di indagine dell'artista russa Genya Krikova, che mette ludicamente al centro della suo opera "@Voyager Mirror" il fenomeno dilagante del selfie, collegandolo all'ancestrale tematica dello specchio, in una riflessione ironica sulla deriva narcisistica della nostra società ed esaltando l'aspetto partecipatorio e interattivo che è proprio dei social. L'opera del 2015 è molto semplicemente costituita da uno specchio, come il titolo stesso ci suggerisce: lo spettatore è invitato a scattarsi una foto premendo un pulsante, foto che verrà istantaneamente postata sul profilo Twitter collegato, e lanciata nello spazio infinito del web, rifacendosi al modo in cui il Voyager Golden Record venne rilasciato nello spazio interstellare sul finire degli anni Settanta per raggiungere forme di vita extraterrestri. L'interattività che riscontriamo in quest'opera sembra essere una delle caratteristiche quasi imprescindibili delle opere che nel contemporaneo che fanno della tecnologia

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a disegnare fiori e piante su fogli di carta fatta a mano a partire da materiali organici riciclati e contenente diverse varietà di semi. I disegni prendono letteralmente vita con la tecnica della proiezione aumentata: appoggiandoli alla parete di proiezione, e combinandoli con azioni nella vita reale, ad esempio compiendo il gesto di annaffiare il fiore nel disegno, si vedrà questo fiore germogliare virtualmente. Anche in questo caso, la banalità dei gesti cela un profondo intento educativo e nasconde un forte messaggio di speranza, con l'invito rivolto a chi prende parte all'opera di portare con sé la carta contenente il seme, piantarlo e farlo

realmente germogliare nel terreno, ripetendo e facendo avverare nella realtà quello che si era compiuto solo in una dimensione virtuale, creando così un forte momento di riflessione attivato dall'esperienza. È evidente infatti come sia proprio l'azione virtuale compiuta nel contesto dell'installazione a custodire ed attivare un prezioso processo di apprendimento e di comunicazione, che nel quotidiano rischierebbe di passare inosservato.

Hill Kobayashi, Radioactive Live Soundscape, 2016

LE OPERE Le opere citate in questo articolo sono state selezionate come finaliste per il Premio Arte Laguna 2016-2017, concorso artistico che da 11 anni promuove i talenti emergenti dell'arte contemporanea. Ogni anno, a Venezia, si espongono le più innovative opere di Arte Virtuale e Digitale provenienti da tutto il mondo, con l'intento di valorizzare l'arte creata con le nuove tecnologie, offrire opportunità agli artisti e mappare lo stato attuale dell'arte contemporanea.

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STILE LIBERO Sport

FEDERICO BUFFA Mise en scène di una storia: passione e gioco di squadra, gli ingredienti perfetti Sport e storie: un connubio imprescindibile Per diventare un buon storyteller è necessario trovarsi uno stile originale e bisogna raccontare nello stesso modo in cui si vorrebbe ascoltare una storia. Prima della costruzione del racconto, è indispensabile empatia per pubblico di quella storia. Questi alcuni dei pensieri di Federico Buffa, giornalista e telecronista sportivo, che ripercorre con noi le tappe del percorso che lo hanno portato ad unire la passione per lo sport con lo storytelling. Come l’interesse per la sociologia nel lontano 1978 si sposava con lo sport? Io sono un ragazzo cresciuto negli anni ‘70 e la sociologia allora era in primo piano per il nuovo modo di guardare il mondo. Quindi, quando ebbi l’opportunità di andare a studiare per una sessione estiva all’Università di Los Angeles, chiesi a mio padre di iscrivermi ad un corso di sociologia. E quando dissi a casa che volevo studiare sociologia mia madre mi sottrasse la carne che avevo sul tavolo e mi sbattè due uova dicendo che dovevo abituarmi a mangiare anche l’uovo, un episodio che non dimenticherò mai. Lo sport arriva assieme poiché ne sono particolarmente attratto.

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numero 14

Da tele/radio cronista a storyteller, come hai capito che le storie potevano far parte del tuo lavoro? Assolutamente, non ho mai pensato che potessero far parte del mio lavoro, è stato casuale. Ho sempre pensato di fare il telecronista fino a quel giorno alle Olimpiadi di Londra 2012 in cui si disputava una finale molto importante - forse una delle partite più belle degli ultimi tempi - e, dato che Sky aveva i diritti per la messa in onda, ho pensato che sarei stato chiamato a commentarla, invece mi sbagliavo. Così ho iniziato a pensare di andare a lavorare in Giappone, allora avevo la fidanzata giapponese. Invece, proprio quell’estate, Sky estese il mio contratto di un altro anno per parlare di NBA e nel contempo mi chiese di provare a raccontare le piccole storie di basket americano, visto che durante le partite non c’era mai tempo per farlo. Così nacque NBA dei vostri padri, che piacque a Federico Ferri, uno dei caporedattori del calcio che mi chiese di fare una cosa comparabile per questo sport, io accettai per una sola puntata e raccontai Maradona. Nonostante Ferri mi avesse chiesto di continuare ritornai a raccontare le mie storie di basket non immaginando che, solo un anno dopo, quello sarebbe diventato il mio incarico su Sky. Ferri infine mi fece partecipare ai mondiali del Brasile per raccontare il calcio, e rinacque Storie mondiali. Storie che avevo già raccontato

Federico Buffa Narratore, giornalista e telecronista sportivo Federico Buffa (Milano, 28 luglio 1959) è un giornalista, e telecronista sportivo italiano. Comincia la carriera giornalistica nel 1984 come radiocronista ufficiale delle partite dell’Olimpia Milano. Dal 5 aprile 2014 conduce su Sky Sport il programma Federico Buffa racconta Storie Mondiali, dieci episodi su alcuni degli eventi storici dei Mondiali di calcio, nei quali ha dato prova di eccellente raccontatore di vicende sportive intrecciate a quelle storiche. Parallelamente alla tv, dal 2015 Buffa porta a teatro lo spettacolo Le Olimpiadi del ‘36: è un successo incredibile, una tournée che dura ancora oggi.

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SPORT per la radio svizzera italiana riviste alla luce del nuovo canale. È stata la base di tutte le cose che ho fatto dopo.

attoriale: come stare sul palco, le luci, la voce, insomma un vero addestramento a stare in teatro.

Lo storytelling nello sport: Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini sono stati presi a prestito per raccontare, rispettivamente nel 1952 Le Olimpiadi di Helsinki e nel 1960 quelle di Roma. Più che fare i cronisti si sono messi a descrivere quello c’era oltre gli atleti, dietro il risultato. Quanto è rimasto di quel modo di narrare nelle tue storie?

Una scelta coraggiosa che implica l’arte della recitazione e regole comunicative molto diverse da quelle televisive. L’impatto diretto con un pubblico che sa essere anche poco clemente dal vivo. Come si è preparato a questo passaggio? E quali sono gli elementi scenici che ha dovuto mettere nel suo spettacolo per renderlo fruibile a questo tipo di pubblico?

Quello che mi piace leggere degli autori degli anni ‘60 è la capacità di aggettivare le storie, caratteristica persa ai giorni nostri dove, più la dittatura dell’immagine domina, meno la parola ha una sua parte evocativa. Questo, più che un problema di Calvino e Pasolini, è un problema della letteratura che, infatti, ha una rotondità diversa, molto più estesa, perché non è stata ancora attaccata dalle locuzioni contemporanee. Oggi invece, il linguaggio è molto più scarno e asciutto.

Secondo Aldo Grasso, lei è un narratore straordinario, “capace di fare vera cultura, cioè di stabilire collegamenti, creare connessioni, aprire digressioni in possesso di uno stile avvolgente ed evocativo”: serve il talento oppure una preparazione adeguata per questo mestiere? Definizione molto lusinghiera nei miei confronti, io penso che serva lavorare per quello che si fa, ovvero, devi raccontare una storia che ti piacerebbe che qualcuno ti raccontasse. Se veramente interessato, ti innamori del personaggio e a questo punto ti permetti di uscire ogni tanto di qualche riga, perché sai che ci puoi tornare indietro per disegnare i contorni della sua storia. Non credo sia un talento, credo sia un modo di amare qualcuno e cercare di trasmettere l’ammirazione che si prova per lui agli altri.

Le olimpiadi di Berlino del 1936 è lo spettacolo che sta portando in giro per l’Italia, come nasce l’idea di andare in teatro? Questa coppia, Emilio Russo, direttore artistico del teatro Menotti di Milano, e Caterina Spadaro, attrice e regista, mi hanno fatto la proposta di fare il grande salto. Alla quale io risposi di non sentirmi così sicuro di potercela fare ma che sarebbe stato per me un sogno. Sono i registi dello spettacolo. Caterina mi ha aiutato formando la mia parte

Caterina ha detto proprio questo, che sono stato coraggioso. Tutta la parte di come rendere fruibile lo spettacolo al pubblico è stata curata da Emilio. Lui ha pensato ad uno spettacolo con due registri: uno teatrale in senso stretto, dove io sono un personaggio realmente esistito, e un secondo registro narrativo dove io sono un contemporaneo che vede le cose e conosce gli eventi delle persone e sa soprattutto come sono finiti. Tutto questo senza cambiarmi d’abito, con la gestualità e il cambio dello spazio faccio capire al pubblico che non interpreto più il personaggio che sto impersonando ma un personaggio fuori campo che narra la storia.

Quali sono i consigli che darebbe a chi intende fare storytelling nel mondo sportivo? Di adottare uno stile originale. Perché credo che ognuno possa trovare un modo diverso di interpretare, se quello è l’obiettivo. A me, per esempio, piace aggiungere una parte in cui immagino cosa succedeva realmente in quella scena e lo faccio con un’incursione del linguaggio tipico del momento. Proprio per non essere meramente un narratore staccato dalla storia. In ogni caso è un gioco di squadra il nostro, anche se sono io che sono sul palco tutto il tempo. È un gruppo che ha voglia di stare insieme e questo crea molta armonia. Questo è uno degli ingredienti che fanno di un progetto la sua riuscita.

Progetti futuri? Questo spettacolo è andato oltre ogni ragionevole aspettativa, da sole tre repliche siamo arrivati a 126 con più di 60 mila persone presenti. Il 31 marzo è stata l’ultima replica e dopo ci inventeremo qualcosa di nuovo. Anche se ci sono delle idee che hanno bisogno di essere supportate anche da impresari teatrali convinti.

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YOU ARE MY GUIDE In vacanza con la guida su misura Intervista a Ester Liquori, Ceo You Are My Guide Srl Alla base di questo servizio un processo di automazione che non potrebbe esistere senza i Big Data. La grande mole di dati che gestiscono permette di accedere a tante fonti attraverso i controlli incrociati di un sistema accuratamente strutturato. In pratica, un viaggio su misura per il cliente, che tiene conto delle sue preferenze e abitudini. Yamgu propone suggerimenti utili a completare l’esperienza di viaggio, dalla piazza, al museo, alla serata, al dove dormire, al cosa fare di speciale. Proposte, offerte e servizi per rendere migliore il viaggio.

Com’è nata l’idea di YAMGU? E a chi si rivolge? L’idea è nata, come spesso accade, da un’esigenza personale. Io e il co-founder Mauro Bennici amiamo viaggiare e organizzare i nostri viaggi. Quante volte, sognando la prossima vacanza, magari acquistando al volo un biglietto low cost, vi siete poi detti: “bene, adesso vediamo un po’ cosa posso fare lì”. “Fare” è la parola chiave. Perché oggi vogliamo fare, conoscere, vivere esperienze uniche e non perdere nulla. Allora le vecchie guide cartacee ci stanno troppo strette, sono “per tutti” ma non “per me”. Il mio modo di viaggiare è diverso dal tuo, da quello di Mauro, Celeste, Sabrina, Flavio, Maurizio, Vincenzo e Sandra. Chi sono queste persone? Rappresentano ciascuno un’esigenza diversa: avventura, giovinezza, romanticismo, infanzia, viaggi in solitaria, coppia di nonni curiosi del mondo. YAMGU è per tutti loro e tutti noi. Più che una guida viaggio un amico del posto che ci suggerisce quello che sa che ci piace, perché ci conosce. Viaggia con noi e impara che io preferisco passeggiare e fotografare tramonti, l’arte moderna e viaggio in famiglia mentre tu avrai altre preferenze. Proprio perché sa cosa ci piace sa anche trovare cosa c’è da fare ADESSO, mentre io sono qui e viaggio. Informazione aggiornata per me e intorno a me.

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portarci al chiuso se piove o a fare le fotografie panoramiche se c’è bel tempo e, magari, evitando le code. Basta registrarsi e potrò rivedere i percorsi, aggiornarli, modificarli e usarli su tutti i miei dispositivi, dal portatile al tablet e al cellulare. Per muovere il mio viaggio in sintonia con me. Il servizio è gratuito per i viaggiatori. Per le aziende che operano nel settore del turismo invece sono previsti dei servizi a pagamento.

Qual è la tecnologia che sta alla base? YAMGU raccoglie informazioni dalla rete come farebbe un lettore curioso e con molto tempo libero, cestina tutto quello che non riguarda il viaggio, segna quello che succederà ma anche quello che sta succedendo adesso. Infine riordina tutte le informazioni raccolte in una lista ordinata di cose da fare e, siccome come abbiamo detto, è un amico che mi conosce, allora mi sa anche aiutare ad avere proprio quello che mi serve. Questo suggerimento personalizzato è il risultato di un insieme di tecnologie e metodologie, Analisi Semantica, Web Scraping, Machine Learning, Data Mining e Intelligenza Artificiale, utilizzate dal nostro sistema proprietario e in attesa di brevetto.

Si parla di contenuti automatizzati e realizzati “su misura” rilevati dalla rete: esiste il rischio che non si tenga conto di aspetti quali l’ironia, il sarcasmo, etc. che come sappiamo possono cambiare il significato di una frase? L’automazione si basa su grandi numeri, i tanto citati Big Data. La grande mole di dati è certamente difficile da

Tutte le risposte che cerca il viaggiatore una volta che ha deciso di partire sono anche le stesse risposte che servono all’operatore per fornire i propri servizi a completamento dell’esperienza di viaggio. Oggi però l’impresa del turismo cerca di trovare risposte e costruire offerte a partire da un enorme sforzo, oltre che di ricerca, volto a capire le effettive richieste ed esigenze dei possibili clienti. YAMGU è per l’operatore il modo per raccogliere dati oggettivi e misurabili che permettano di studiare attività di marketing più efficaci con offerte che rispondano alle richieste del pubblico.

In sintesi quali sono i vantaggi? Contenuti sempre aggiornati, un servizio amico che segue le mie esigenze e preferenze e dà suggerimenti utili a completare la mia esperienza di viaggio, dalla piazza, al museo, alla serata, al dove dormire, al cosa fare di speciale. Proposte, offerte e servizi per rendere migliore il mio viaggio. Un viaggio del “fare” che permette anche agli operatori di creare servizi davvero a misura di viaggiatore.

Ester Liquori Ceo di Yamgu

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numero 14

L’acqua di mare & l’erba voglio

La cucina a modo mio: cucina trendy, facile e un po’ elaborata, ma alla portata di tutti e di tutte le situazioni di Luisa Giacomini cuoca per passione luisa.jackomini@gmail.com

C’era una volta il sashimi…ora reinterpretato da un poke hawaiano che va alla grande Il sashimi, il crudo di pesce mediterraneo, ma anche il ceviche hanno fatto appena in tempo a conquistarci che subito abbiamo sentito l’esigenza di provare qualcosa di nuovo, rimanendo sempre sul tema però, senza troppo sconvolgerne la filosofia e i sapori esotici. Arriva dal Pacifico il nuovo crudo di pesce, il poke, ed è subito amore. Hawaiian soul food di tradizione, nasce dalle onde dei surfisti in un vero comfort food estivo.

L’Hawaiian poke normalmente viene presentato da solo nelle tipiche e bellissime bowls, ciotole dalle svariate misure e colori con riso bianco o basmati lessato a parte. Presentazioni creative spesso propongono il poke come piatto unico disposto sopra a un letto di riso, oppure sopra ad insalate create al momento o insieme a strati alternati, vietato mescolare! Poke o pokè (pronuncia poh-kay) significa tagliato a tocchi, in generale cubetti di tonno (ahi tuna, tonno pinna gialla), piovra, polipo scottato oppure salmone o gamberi marinati in salsa di soia, marinati con ingredienti etnici o creativi quali cipolla dolce, olio e semi di sesamo, avocado, zenzero e peperoncino, noci di macadamia, tobiko (uova di pesce volante), yuzu (agrume), wasabi, infine alghe e/o altre spezie tipiche delle isole del pacifico. Come per tutti i crudi di pesce, anche il poke segue la regola delle normative per la sicurezza igienico alimentare: surgelare il pesce almeno per quattro giorni (96 ore) a meno 18 °C. Nelle ricette originali l’uso di aglio tritato, si alterna indifferentemente alla cipolla dolce, dipende se si preferisce un sapore più o meno marcato.

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STILE LIBERO Cucina Ahi Poke di tonno

Poke di salmone

Ingredienti per 4

Ingredienti per 4

1 filetto di tonno (Ahi tuna: tonno pinna gialla) 400 g, 1 avocado, 1 cipollotto (parte bianca e verde), 1 o q.b. di succo di Yuzu o lime 1, 1 cucchiaio di salsa di soia, 1 cucchiaio di olio di sesamo, 20 g di nocciole tostate e tritate grossolanamente, 10 gr di sesamo bianco, poco sale hawaiano, pepe macinato fresco, 3 fili di erba cipollina, coriandolo (facoltativo, alcune foglie spezzettate).

1 trancio di salmone selvaggio 400 g, 1 cucchiaio di salsa di soia, 1 cucchiaio di olio di sesamo, 1 cipollotto o cipolla di tropea, (oppure per un gusto più marcato uno spicchio di aglio tritato) 1 succo di yuzu o lime, 2 cucchiai di alghe wakame secche, 1 foglio di alga nori, 1 cucchiaino di zenzero fresco grattugiato, 1 cucchiaino di Mirin (aceto di riso o di mele), 1 cucchiaino di miele millefiori, 1 cucchiaino di semi di sesamo bianco e 1 di sesamo nero, sale hawaiano q.b., pepe macinato fresco, quattro fili di erba cipollina.

Esecuzione Irrigidire il tonno per qualche minuto nel freezer, servirà per ottenere un taglio netto e preciso della polpa in cubetti. Tagliare il trancio in fette e poi in cubetti da 1 cm e porli in una ciotola capiente, sbucciare e tagliare a tocchetti l’avocado e porli nella ciotola assieme al tonno. Condire cinque/dieci minuti prima di servire con il succo di agrume, salsa di soia, l’olio di sesamo, poco sale, pepe, cipollotto tagliato ad anelli, facoltativo il coriandolo, qualche seme di sesamo e poche nocciole, mescolare poi con delicatezza. Servire in ciotole o fondine, decorare con i rimanenti semi di sesamo, erba cipollina a pezzettini e nocciole. Accompagnare a parte con riso basmati lessato o insalata croccante.

Esecuzione Mettere in ammollo precedentemente le alghe, strizzarle e asciugarle tamponandole bene e tagliarle a julienne. Procedere come per il tonno e porre il salmone a cubetti in una ciotola. A parte sciogliere il miele intiepidito nella salsa di soia, unire mezzo succo di lime, l’aceto di riso, l’olio di sesamo, poco sale, lo zenzero e amalgamare bene. Versare sui cubetti, aggiungere poco sesamo, anelli di cipollotto, le alghe e il pepe. Mescolare delicatamente, all’occorrenza aggiungere ancora poco succo di lime e porre in frigorifero a marinare per 20 minuti circa. Servire il poke decorato con il resto del sesamo e ed erba cipollina a pezzetti. A parte servire del riso basmati lessato e/o insalata fresca con cetrioli a cubetti senza semi, ananas, sedano bianco e poco concassè di pomodoro S. Marzano.

Poke di seppia: creativo e originale Ingredienti per 4/5 400 gr di seppie medie/piccole nostrane pulite spellate, 100 gr di lamponi, 100 gr di mango, 1 cucchiaio di salsa di soia, 6 cucchiai olio E.V.O del Garda, 1 o q.b. succo di yuzu o lime, 6 noci di macadamia, 1 bacca di vaniglia, 1cipollotto, 2 cucchiaini di semi di sesamo nero, 1 cucchiaino di coriandolo in semi macinato (no foglie), poco peperoncino polvere qb, sale e pepe macinato fresco.

Esecuzione Aprire con una lama la bacca di vaniglia, estrarre tutti i semi e versarli in una ciotola, unire anche la buccia della bacca, aggiungere l’olio extra vergine, quindi mescolare il tutto. Tagliare le seppie ancora semicongelate a tocchi di 3/4 cm circa per lato, affettarli in filetti non troppo sottili, porli in una ciotola con l’olio alla vaniglia e mettere a marinare in frigo per un’ora o due. Cinque minuti prima di servire: sgocciolare dall’olio eccessivo se necessario eliminando la buccia. Nella ciotola unire le seppie al succo di mezzo yuzu, la salsa di soia, il coriandolo, peperoncino q.b., parte del sesamo, le noci spezzetate, il mango a fettine come la seppia, anelli sottili di cipollotto, parte dei lamponi, poco sale e pepe. Amalgamare delicatamente, regolare di succo di agrume all’occorrenza. Servire su ciotoline o terrine stilizzate con una base sottostante di riso venere lessato o basmati, appena condito con olio evo. Decorare con il sesamo e i lamponi rimanenti. Abbinare ad una delicata misticanza.

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STILE LIBERO Fumetti

La matita di Sue

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N. 14 Pubblicazione semestrale Registrazione Tribunale di Treviso n. 201 del 09/11/2012 ROC n. 22990/2012 direttore responsabile Leonardo Canal caporedattore Dora Carapellese responsabile organizzativa Giovanna Bellifemine hanno collaborato Gian Nello Piccoli, Dora Carapellese, Stefano Moriggi, Stefano Biral, Stefano Bacci, Massimo Bosello, Ruggero Paolo Ortica, Enrico Fantuzzi, Rudy Pieretti, Andrea Manuel, Giulia Tebaldi, Unis&F, Luciano Campagnaro, Vania Lot, Elettra Battini, Luisa Giacomini, Sue Maurizio, Francesca Fantinel, Alessandro Zaros. realizzazione grafica Franco Brunello, Giulia Zangrando segreteria e sede operativa Via Newton 21, 31020 Villorba (TV), telefono 0422.628711, fax 0422.928759 redazione@logyn.it editore Eurosystem S.p.A., via Newton 21, 31020 Villorba (TV) redazione@logyn.it per la pubblicità e per i numeri arretrati Eurosystem S.p.A., via Newton 21, 31020 Villorba (TV), telefono 0422.628711 redazione@logyn.it stampa Trevisostampa Srl Via Edison 133, 31020 Villorba (TV) telefono 0422.440200 info@trevisostampa.it Nell’eventualità in cui immagini di proprietà di terzi siano state qui riprodotte, l’Editore ne risponde agli aventi diritto che si rendano reperibili. Porrà inoltre rimedio, su segnalazione, a eventuali involontari errori e/o omissioni nei riferimenti.


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