monografia
Meno per più
Trasmettere la Città Sostenibile
06 2010
Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - 70% CB-NO/TORINO n° 2 Anno 2010
TAO n.6/2010 www.taomag.it ISSN 2038-0860 Direttore Responsabile
Consiglio OAT
Riccardo Bedrone
Riccardo Bedrone, presidente Maria Rosa Cena, vicepresidente Giorgio Giani, segretario Felice De Luca, tesoriere
Coordinatore Redazionale
Liana Pastorin l.pastorin@awn.it - T +39 0115360513 Redazione
Raffaella Bucci Emilia Garda Raffaella Lecchi Via Giolitti, 1 - 10123 Torino T +39 011546975 - F +39 011537447 www.to.archiworld.it redazione@taomag.it Comitato scientifico
Marcello Cini Mario Cucinella Philippe Potié Cyrille Simonnet
Foto di copertina
Republic of Macedonia. Learning architecture XII Mostra Internazionale di Architettura di Venezia Foto di Raffaella Lecchi Periodico di informazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Torino registrato presso il Tribunale di Torino con il n. 51 del 9 ottobre 2009 Le informazioni e gli articoli contenuti in TAO riflettono esclusivamente le opinioni, i giudizi e le elaborazioni degli autori e non impegnano la redazione di TAO né l’Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Torino né la Fondazione OAT Tiratura 10.000 copie
Consiglieri
Marco Giovanni Aimetti Roberto Albano Sergio Cavallo Pier Massimo Cinquetti Franco Francone Gabriella Gedda Maria Adriana Giusti Elisabetta Mazzola Gennaro Napoli Carlo Novarino Marta Santolin Direttore OAT
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Simona Castagnotti
Consiglieri
Riccardo Bedrone Mario Carducci Giancarlo Faletti Emilia Garda Ivano Pomero Direttore Fondazione OAT
Eleonora Gerbotto Si ringraziano Cosimo Santoro per la selezione dei film per il Roundabout La Scuola Holden per la selezione del graphic novelist Guido Bertorelli
Indice
Contributors Redazionale 5 Oggi più che mai, il meno è più editoriale di riccardo Bedrone 2 4
Addizione 14 16 18 8
12
Etica e scienza: due sfere separate? Marcello Cini Crescere senza consumare Mauro Giudice, Fabio Minucci Parkour Guido Bertorelli Decolonizing architecture Sandi Hilal, Alessandro Petti, Eyal Weizman Un parco con qualcosa in più intervista a gianluca cosmacini
Moltiplicazione 2 6 27 8 2 9 2 30 2 2 25
Il Laboratorio Città Sostenibile Giuseppe Borgogno Il Piano territoriale Torino, Città in Gioco Il Piano strategico delle aree gioco urbane Gli spazi per il gioco e la socializzazione Le Colline del Valentino Il progetto unitario cortili scolastici “Se voi architetti potete far realizzare queste cose...” Pier Giorgio Turi
Sottrazione 4 3 4 3 8 3 o 4 2 4
Quel che resta della città Gayle Chong Kwan Non sprecare: almeno nel tuo frigorifero Andrea segrÈ Less is more gianluca Gobbi Waiting for Water: fluire di acqua, fluire di genti Walid Mawed Una slow fotografa tra essenzialità e misura intervista a bruna biamino
Roundabout Fotobook 2010
4 6
48
Contributors
Giovane creativo torinese di nascita. Formatosi al corso di fumetto della scuola internazionale Comics, si è guadagnato il secondo posto al concorso I Love my City e ha da poco concluso con successo un workshop presso la Scuola Holden di Torino dal titolo Urban Storytelling. Attualmente insegna Esprimersi coi disegni ai ragazzi del Cecchi Point. Usa il racconto per immagini come forma a lui più congeniale per esprimere pensieri fluttuanti e situazioni insolite, indagando sui nuovi modi di vivere la strada e la coscienza.
GAYLE CHONG KWAN
Artista di origini cinesi e scozzesi, vive e lavora a Londra. Laureata in Fine Arts presso il Central Saint Martins College of Art, si è specializzata in Communications e in Politics and modern history. Utilizza la fotografia, il video e il suono per installazioni e performance context specific spesso risultato di un lavoro a contatto con le comunità. I sui progetti sono stati esposti in numerosi musei e città al mondo tra cui Londra, New York, Lisbona, Parigi, L’Avana a Cuba e Medellin in Colombia. www.gaylechongkwan.com
GIANLUCA GOBBI
BRUNA BIAMINO
GUIDO BERTORELLI
40 anni, torinese, giornalista professionista. Caporedattore di Radio Flash e corrispondente di Radio Popolare Network. Per il Treno della Memoria ha condotto a Cracovia dibattiti sul tema del razzismo e ha fatto parte del Gruppo Comunicazione Tavola della Pace nel progetto Time for Responsibilities in Israele e Palestina. Docente di Giornalismo in numerose scuole piemontesi, è responsabile comunicazione di Terra del Fuoco e consulente per i media della Cooperativa Valdocco.
È fotografa professionista dell’architettura e della fotografia industriale. Da anni svolge un’attività di ricerca sul paesaggio urbano. Vive e lavora a Torino. Ha studiato con Nathan Lyons a New York dove ha frequentato il corso di Tecnica fotografica di stampa in bianco e nero e il corso di Psicanalisi e fotografia. Sue fotografie sono conservate al Musée de l’Elysée di Losanna, all’Archivio dello Spazio di Milano, alla Polaroid Foundation a Cambridge, Massachussets, al MAXXI di Roma e alla GAM di Torino.
MARCELLO CINI
Professore emerito di Istituzioni di Fisica teorica e di Teorie quantistiche all'Università La Sapienza di Roma, è stato vicedirettore della rivista internazionale Il Nuovo Cimento e tra i fondatori del quotidiano Il Manifesto. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo L'Ape e l'Architetto (1976), scritto insieme a Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria e Giovanni Jona-Lasinio, Il paradiso perduto (1994), Dialoghi di un cattivo maestro (2001). Ha ricevuto il premio Nonino 2004 A un maestro italiano del nostro tempo. È membro del comitato scientifico di TAO.
MAURO GIUDICE
GIUSEPPE BORGOGNO
GIANLUCA COSMACINI
SANDI HILAL
Nato a Torino nel 1958. Giornalista pubblicista, funzionario della Regione Piemonte presso l’Ufficio Comunicazione Istituzionale del Consiglio regionale. Consigliere della Circoscrizione 5 di Torino dal 1985 al 1993. Consigliere comunale nel 1997. Nominato Capogruppo DS nel 1999; componente delle Commissioni consiliari permanenti II e V. Consigliere comunale nel 2001. Capogruppo sino al 2005. Nel giugno 2006 è nominato assessore al Personale organizzazione polizia municipale, carica che ricopre sino a giugno 2009 quando assume la carica di assessore alle Risorse educative.
Architetto paesaggista, ha insegnato alla Facoltà di Agraria e alla Facoltà di Architettura di Torino. È co-fondatore dell’acPav, l’associazione culturale che promuove e realizza il PAV di cui è stato coordinatore del progetto esecutivo e progettista del parco e degli spazi pubblici. Oltre alla realizzazione di Trèfle, opera ambientale di Dominique Gonzalez-Foerster, è autore – con Dudi D’Agostini – del video Trèfle Backstage - La dimensione collettiva di un’opera d’arte. È membro del comitato direttivo del PAV e curatore delle installazioni outdoor del PAV.
Architetto, presidente della sezione Piemonte e Valle d'Aosta dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU); è stato dirigente del Settore pianificazione territoriale regionale della Regione Piemonte e presidente del Comitato scientifico dell’Osservatorio delle Trasformazioni Territoriali in Piemonte; è stato membro del comitato tecnico del progetto Trasmettere la Città Sostenibile presentato al XXIII Congresso mondiale degli architetti UIA 2008.
Laureata in architettura. Lavora come consulente dell'UNRWA nel programma Camp improvement. È visiting professor all'International Academy of Art Palestine. È cocuratrice del progetto Decolonizing Architecture. Nel 2006 ha completato il suo dottorato di ricerca in Transborder policies for daily life presso l'Università di Trieste. Dal 2001 al 2005 ha insegnato come assistente al corso Visual Arts and Urban Studies presso lo IUAV (Università di Venezia).
WALID MAWED
ANDREA SEGRÈ
FABIO MINUCCI
PIER GIORGIO TURI
ALESSANDRO PETTI
EYAL WEIZMAN
Nato a Nazareth nel 1975, si è laureato nel 1998 presso l’Institute of Fashion and Textile a Beit Sahour in Palestina. Artista e costumista, ha lavorato tra gli altri per i film Paradise now e Miral. Si occupa inoltre di arte pubblica e di questioni ecologiche. Fin dall'inizio della sua attività si è dedicato all'idea del riutilizzo di tessuti e altri materiali per i suoi lavori artistici e di design. Si muove e lavora tra Palestina, Italia e Londra.
Docente di Pianificazione territoriale presso la II Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino. Partecipa all’Osservatorio Valle di Susa della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la linea ferroviaria ad alta capacità Torino-Lione in rappresentanza dei Comuni della ‘Adduzione Ovest’ di Torino. Tra le sue pubblicazioni più recenti: L’evoluzione del governo del territorio e dell’ambiente (2005), Le nuove leggi urbanistiche regionali (2008).
Architetto, urbanista e ricercatore, con base a Betlemme. Insegna all'Honors College Al-Quds/Bard University ad Abu Dis-Gerusalemme ed è direttore dell'ufficio ricerca di Decolonizing Architecture. Ha curato progetti di ricerca e mostre sulla trasformazione della città tra cui Stateless Nation e Arab Cities con Sandi Hilal e The Road Map con Multiplicity; ha scritto sull'emergente ordine spaziale dettato dal paradigma della sicurezza e del controllo in Arcipelaghi e enclave (Bruno Mondadori, Milano, 2007).
Professore, economista e agronomo, dalla fine degli anni Novanta ha concentrato la sua attività di ricerca al campo dello spreco di risorse nei Paesi sviluppati e in via di sviluppo. È presidente di Last Minute Market, spin off accademico dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, per il recupero a fini benefici dei prodotti alimentari e non alimentari invenduti. È professore ordinario di Politica agraria internazionale e comparata e Preside della Facoltà di Agraria presso l’Università di Bologna.
Architetto e urbanista. Per la Città di Torino ha curato la costituzione dell’Urban Center ed è coordinatore scientifico del Laboratorio Città Sostenibile. Dal 2000 collabora con l’Ordine degli Architetti di Torino sui temi della sostenibilità urbana e coordina il focus group OAT Architettura e città sostenibile. È relatore generale del progetto Trasmettere la Città Sostenibile presentato al XXIII Congresso Mondiale degli Architetti Torino 2008 ed è membro del comitato di coordinamento scientifico di Biennale Democrazia.
Architetto con base a Londra. È direttore del Centre for Research Architecture al Goldsmiths College, University of London. Ha precedentemente lavorato come professore di Architettura alla Academy of Fine Arts a Vienna. Come architetto in Israele lavora su progetti collegati all'arte e al teatro. Tra I suoi libri Hollow Land (Verso Books, 2007) e A Civilian Occupation (Verso Books, 2003). Ha vinto il premio James Stirling Memorial Lecture Prize per gli anni 2006-2007.
Redazionale
Mentre questo numero di TAO andava in stampa, dopo 10 mesi di moratoria riprendevano le attività di costruzione negli insediamenti israeliani in Cisgiordania: l’architettura può essere anche espressione di supremazia su un territorio da colonizzare. Gli autori scelti per questo numero di TAO hanno esplorato il concetto di limite e di misura: dal nostro frigorifero, ai cortili scolastici, fino alle questioni di etica e scienza, TAO si muove dal livello micro a quello macro applicando le categorie elementari di sottrazione, moltiplicazione e addizione per scoprire quanto il confine tra i due livelli sia fluido e mutevole. Lo stesso percorso che ha seguito il progetto di fotografia democratica Fotobook e dal quale abbiamo selezionato tre immagini per le aperture delle tre sezioni di cui si compone TAO. [-] L’artista palestinese Walid Mawed nasconde l’acqua, la ‘sottrae’ alla vista e impone una riflessione sul valore di questa risorsa come bene di tutti, la fotografa Bruna Biamino spoglia le immagini dei deserti per scoprirne l’anima, il giornalista Gianluca Gobbi dà corpo alla radio, media ‘minore’ che in assenza di immagini ha saputo rinnovarsi anche meglio della televisione. E ancora: all’ideatore di Last Minute Market Andrea Segrè e all’artista Gayle Chong Kwan è dedicato lo spazio di due racconti in parallelo su un tema che li accomuna: lo spreco e la raccolta di ciò che viene frettolosamente buttato via e che può essere ancora utile. [+] Ma di spreco si può parlare anche attraverso la prospettiva opposta: quella dell’addizione e della crescita. Gli urbanisti Fabio Minucci e Mauro Giudice intravedono una
possibilità di ribaltamento del continuo sviluppo delle città: si può crescere senza ulteriormente consumare il poco territorio ancora libero dalla cementificazione. Nello stesso filone si inseriscono le riflessioni del gruppo di architettura di Alessandro Petti che lavora sul concetto di decolonizzazione, inteso come attribuzione di utilizzi diversi a edifici e strutture precostituite. È in questa attribuzione di nuovi significati che consiste il valore aggiunto di alcune pratiche, come il parkour – illustrato dal graphic novelist Guido Bertorelli – che costituisce un modo di muoversi nella città godendo di inaspettate prospettive, o di alcuni luoghi della città, come il PAV Parco d’Arte Vivente descritto dal paesaggista Gianluca Cosmacini che, nella somma di professionalità e campi disciplinari, sfida costantemente il concetto di confine. Aggiungere etica al pensiero e all’agire, infine, aiuterebbe a migliorare la vita di tutti, così come ricorda Marcello Cini, insigne fisico teorico, per il quale la scienza non dovrebbe prescindere dall’etica. [x] Sempre a proposito di etica nel pensiero e nell’azione, come sempre, al centro del numero, TAO accoglie un’esperienza concreta, sviluppata localmente. A piccoli passi si possono raggiungere grandi obiettivi, moltiplicando l’effetto del lavoro e del confronto di generazioni diverse su temi di interesse generale, come gli spazi della scuola. Gli architetti tutor e gli alunni di alcune scuole elementari di Torino con i loro insegnanti, aprono i cortili alla riqualificazione e alla condivisione di progetti. Un buon progetto oggi moltiplica le possibilità di futuro domani.
Oggi più che mai, il meno è più Editoriale di Riccardo Bedrone
Tanti anni orsono venne pubblicato nei Romanzi di Urania – la più nota collana di fantascienza italiana, allora splendidamente diretta da Fruttero e Lucentini – un racconto inquietante ma premonitore, come tanti altri espressi da questo immeritatamente trascurato genere letterario. Non ne ricordo il titolo né l’autore, ma mi è rimasta ben impressa la descrizione di una società futura in cui la classe dominante – e solo quella – poteva permettersi di ‘non consumare’. Mentre le classi subordinate, indipendentemente dall’età, dal sesso, dall’occupazione e dallo stesso ruolo sociale erano costrette, per legge, a sostenere con continui consumi di beni, quelli necessari ma ancor più quelli superflui, una economia basata sulla superproduzione e quindi sullo smaltimento incessante di tutto ciò che veniva prodotto. Chi non seguiva queste regole veniva perseguito come individuo asociale, mentre i potenti potevano permettersi la frugalità e l’astinenza, senza l’assillo di apparire continuamente intenti a comprare e poi a disfarsene immediatamente, senza magari neppure utilizzarla, qualsiasi cosa venisse posta sul mercato, dai cibi agli elettrodomestici, dagli autoveicoli agli abiti, dai gioielli agli hobby. Quanta verità mi pare di ritrovare nei comportamenti odierni, condizionati da modelli di vita che impongono quasi di alimentare la crescita socio-economica non con il risparmio ma con i consumi, individuali e collettivi, in gran parte rivolti a beni e servizi non necessari. Con una differenza, rispetto al romanzo: nella società ipotizzata dall’autore i mezzi di produzione erano illimitati grazie forse, mi pare di ricordare, ad una disponibilità sconfinata di energia, per produrre e riciclare. Mentre la nostra società ‘reale’ corre all’impazzata verso un disastro annunciato, ma inascoltato. Quante volte ci sentiamo dire, non da profeti di sventura ma da autorevoli ricercatori, che le nostre risorse materiali sono limitate e che sopratutto quelle energetiche, fino a quando (e se) impareremo a sfruttare con la massima efficienza il sole, sono dannose per ogni forma di vita e fonte di guerre, ingiustizie e diseguaglianze
che investono la gran parte dei Paesi e delle popolazioni? È di ieri la notizia, fornita dall’autorevole Global footprint network, che l’impronta ecologica dell’uomo è così devastante che già dal 1986 la sua domanda di risorse naturali ha superato la capacità della natura di rigenerarle. Anno dopo anno, da allora, noi intacchiamo sempre più anticipatamente le riserve disponibili per soddisfare i nostri smodati – anche se inegualmente espressi, visto che il cittadino statunitense consuma 5 volte quello cinese e due volte circa quello italiano – bisogni: nel 2010 abbiano esaurito il nostro ‘capitale ecologico annuale’, cominciando a eroderne gli interessi, che avremmo dovuto lasciare a figli e nipoti, il 21 agosto. Nel 1987 l’allarme era suonato il 19 dicembre, nel 1995 il 21 novembre, nel 2008 il 23 settembre! Per gli architetti, vale lo stesso ammonimento. Come non preoccuparsi nel vedere dimenticata la lezione di Mies van Der Rohe, quando affermava che “il meno è più”? Oggi impera il modello ‘emirato’, simboleggiato da costruzioni faraoniche frutto di una fantasia progettuale votata all’esibizionismo, al monumentalismo, al chiassoso, al ridondante: tutte manifestazioni di disprezzo per le risorse da impiegare e che vengono durante i lavori e verranno nell’uso consumate in misura assai maggiore in simili insediamenti che negli edifici essenziali, coscienziosi, puliti e austeri. E non è forse frutto della stessa mentalità sciupona e colpevolmente disattenta il crollo dell’economia globale, cui abbiamo assistito nell’ultimo biennio, basata sul miraggio dello sviluppo continuo e alimentata dalle bolle immobiliari che hanno nefastamente fatto inondare il paesaggio di città semideserte, di quartieri invivibili, di fabbricati inutili per una popolazione che in Occidente è in regresso demografico oltreché in deficit di coscienza civile? Di questo tratta la rivista, in un numero dedicato proprio al tema Meno per più. E vi si troveranno, in molte versioni, i timori degli autori che, ciascuno per la propria esperienza, ci parlano di consumo e di spreco.
Aggiungere valore
Addizione Si può crescere mettendo in relazione campi diversi di conoscenza. E si può far crescere le città senza occupare ulteriore spazio. Si possono attribuire nuovi significati a un parco e adottare utilizzi diversi per gli edifici. Si può ricercare il valore aggiunto che rende un’azione ordinaria come l’attraversamento della città un po’ straordinaria
Marcello Cini
Etica e scienza: due sfere separate? Cadono gli steccati tra scienza, tecnologia e etica. Non si possono separare gli interessi dalla conoscenza, i valori dai fatti
Mauro Giudice, Fabio Minucci
Crescere senza consumare L’occupazione del suolo aumenta più velocemente della popolazione e il risultato sono nuovi vuoti urbani. Ma è possibile una crescita intelligente
Guido Bertorelli
Parkour Camminare per strada, senza guardare la città dall’alto… che occasione mancata!
Sandi Hilal, Alessandro Petti, Eyal Weizman
Decolonizing architecture Profanare gli edifici esistenti, promuoverne nuovi utilizzi, riportarli a un uso collettivo: anche l’architettura è pratica politica
Gianluca Cosmacini
Un parco con qualcosa in più
Ph © Arianna Tagliaferri, Lubecca
Naturale + artificiale, dentro + fuori, artista + pubblico: il valore aggiunto del PAV
8 — Addizione
Etica e scienza: due sfere separate? Il principio di precauzione deve guidare lo sviluppo e la diffusione dell’innovazione tecnologica nella società del rischio Marcello Cini
Nel secolo appena finito l’uomo ha instaurato il suo pieno dominio sulla materia inerte. Un esempio clamoroso del problema della responsabilità sociale degli scienziati, sorto nel corso di questa impresa, è stato indubbiamente la scoperta dell’energia immagazzinata nel nucleo dell’atomo e la sua utilizzazione per la costruzione della prima bomba atomica. Avevo compiuto da pochi giorni ventidue anni quando la notizia del suo lancio su Hiroshima apparve in un laconico trafiletto sul giornale, l’Unità, che avevo diffuso da clandestino, tornato libero in edicola dopo più di due decenni. Ero soltanto uno studente di ingegneria e non sapevo nulla di fisica atomica ma i diciotto mesi passati sotto l’occupazione tedesca mi avevano insegnato che se Hitler avesse avuto la bomba prima degli americani sarebbe stato un disastro per tutta l’umanità. Non mi fece dunque particolarmente orrore, ma la considerai, al contrario, come la fine delle tragiche dittature che avevano minacciato il mondo e l’ultimo degli orrendi massacri e delle immense carneficine della guerra.
Il nuovo secolo sarà invece il secolo del dominio dell’uomo sulla materia vivente e del controllo sui fenomeni mentali e sulla coscienza. È essenziale riconoscere che questa svolta cambia profondamente la natura stessa della scienza e dei problemi etici che essa solleva. Essa infatti comporta lo sgretolamento di due steccati che tradizionalmente separavano la scienza dalle altre attività sociali umane. Uno separava la scienza (in quanto conoscenza disinteressata della natura ottenuta attraverso la scoperta) dalla tecnologia (in quanto utilizzazione pratica dei risultati della prima realizzata attraverso l’invenzione). L’altro steccato separava le attività che si occupano di fatti da quelle che si occupano dei valori che stanno alla base delle norme (etiche e giuridiche) intese a regolare le finalità e i comportamenti degli individui nei loro rapporti privati e nelle loro azioni sociali. Una cosa è infatti manipolare, controllare, forgiare un oggetto fatto di materia inerte e altra cosa è compiere le stesse operazioni su un organismo vivente o addirittura
sull’uomo. Nel primo caso il lecito può coincidere con l’utile, nel secondo il lecito dovrebbe per lo meno dipendere anche da una valutazione di natura etica. Dunque anche la seconda separazione tende a svanire: diventa sempre più difficile decontaminare i fatti dai valori ed estirpare gli interessi dalla conoscenza. È tuttavia evidente che la svolta non viene percepita, nell’immaginario collettivo, in tutta la sua radicalità. “Il fatto che una cosa abbia natura biologica e si autoriproduca – afferma ad esempio un oscuro ma aggiornato biotecnologo di Oakland – non basta a renderla diversa da un pezzo di macchina costruita con dadi, bulloni e viti”. Il problema della responsabilità sociale degli scienziati si pone dunque in una luce completamente nuova. Secondo il fondatore della sociologia della scienza, Robert Merton, “quattro sono gli imperativi istituzionali a fondamento dell’ethos della scienza moderna: l’universalismo, il comunitarismo, il disinteresse e il dubbio sistematico”. Perché questi principi entrano in crisi? In primo luogo, vacilla la norma della
Addizione — 9
adozione di criteri universali e impersonali come premessa per l’identificazione dei ‘fatti’ e per la formulazione delle categorie appropriate a ordinarli. L’esistenza di criteri di questa generalità poteva essere giustificabile quando si trattava di scoprire le grandi leggi della natura, ma diventa impossibile da sostenere quando l’obiettivo è la spiegazione delle proprietà di sistemi complessi, per definizione dipendenti dal contesto e dalla loro storia; ne derivano spiegazioni diverse che non sono per forza mutuamente esclusive, ma dipendono a loro volta dalle ipotesi assunte per darne rappresentazioni attendibili. Quanto alle norme sul comunitarismo e sul disinteresse, ne è ormai sotto gli occhi di tutti l’anacronismo. Lo sgretolamento della barriera fra ricerca scientifica ‘pura’ e ricerca tecnologica ‘applicata’ e la conseguente corsa alla brevettazione di ogni componente della straordinaria varietà di forme viventi e di ogni manifestazione delle infinite possibili espressioni del pensiero umano, ne decreta infatti l’obsolescenza teorica e l’inapplicabilità pratica. Anche l’ultimo imperativo istituzionale,
il dubbio sistematico, che avrebbe dovuto portare, attraverso ripetuti confronti tra giudizi dissenzienti, alla convergenza della comunità su un unico giudizio condiviso relativo all’interpretazione dei fenomeni oggetto d’indagine, si dimostra infine, anche se sempre necessario, inadeguato a raggiungere uno scopo diventato irraggiungibile. Come ricostruire dunque norme deontologiche valide, capaci di ridare all’attività di ricerca strumenti per ottenere risultati affidabili e offrire agli attori sociali (individui singoli, comunità, gruppi di interessi, istituzioni pubbliche e private) gli elementi per compiere scelte razionalmente giustificabili e moralmente soddisfacenti? Per quanto riguarda il rapporto fra etica e ricerca scientifica il riferimento all’opera di Hans Jonas è d’obbligo. Il primo nuovo valore che dobbiamo introiettare, secondo questo filosofo, è fondato sull’obbligo morale di prefigurarci e di approfondire le possibilità ipotetiche che il nostro oggi, così gravido di conseguenze e sotto molti aspetti calcolabile, porta in grembo. “Il valore
di tali prefigurazioni è legato al fatto che non sono fatalistiche: anzi, è proprio in quanto noi possiamo agire in modo da evitarne le possibili conseguenze catastrofiche che dobbiamo impegnarci a svilupparle”. È per questo dunque, che la coscienza impone “a coloro che fanno previsioni ipotetiche di rendere noto il loro punto di vista come stimolo o ammonimento per favorire o impedire l’avverarsi di ciò che hanno previsto”. La proposta di Jonas ci permette, ad esempio, di rispondere alle argomentazioni – puntualmente avanzate dai sostenitori ad oltranza della libertà della scienza e della tecnologia di realizzare tutto ciò che può essere realizzato (e di immetterlo sul mercato) – a proposito di due questioni sulla quali si è molto discusso e si continua a discutere: quella della diffusione su scala planetaria degli OGM e quella dell’intervento sul genoma umano al fine di ‘migliorare’ la specie. Strettamente legata alle idee di Jonas è l’introduzione, ormai accolta da una serie di documenti ufficiali e da norme
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dell’Unione Europea del principio di precauzione nello sviluppo e nella diffusione dell’innovazione tecnologica. La sua base fattuale è data dalla constatazione che viviamo ormai nella “società del rischio” (un termine coniato da Ulrich Beck in un testo ormai classico con questo titolo che risale alla metà degli anni Ottanta), definita come la nuova fase della società industriale, in cui “il rapporto tra produzione di ricchezza e produzione di rischi s’inverte dando priorità alla seconda rispetto alla prima”. Siamo passati infatti da una fase nella quale era diffusa l’aspettativa che la crescita della conoscenza della realtà sociale e naturale avrebbe permesso d’intervenire su di essa sempre più efficacemente e razionalmente in modo mirato e controllato, a una in cui la proliferazione di questi interventi è a sua volta origine d’imprevedibilità e insicurezza. Secondo la formulazione che ne danno i due autori – Kourilsky e Viney – che per primi hanno affrontato la questione, “il principio di precauzione implica l’adozione di un insieme di regole finalizzate a impedire un possibile danno futuro, prendendo in considerazione rischi tuttora non del tutto accertati”. La precauzione occupa un ambito intermedio fra quello in
che sta diventando sempre più attuale, a causa dell’influenza che questo intreccio esercita su ogni aspetto della vita quotidiana dei cittadini e sulle prospettive del loro futuro. Tradizionalmente, questo rapporto è stato gestito attraverso consulenze fornite ai rappresentanti eletti del popolo (parlamento e organismi di governo locali o centrale) da agenzie governative o comitati di esperti nominati ad hoc, o ancora informalmente da singoli scienziati di fiducia dei decisori politici, senza interventi rilevanti dell’opinione Si sgretola lo steccato pubblica. Da qualche anno, tuttavia, la che tradizionalmente separava tecnologia e la scienza generano controla scienza dalla tecnologia versie che coinvolgono larga parte della popolazione, su temi come lo smalticupano della valutazione del rischio, sia mento dei rifiuti o la collocazione e la naai decisori che devono far fronte alla sua tura delle centrali, la difesa dell’ambiente gestione. Spetta dunque alle associazioni o gli OGM, la prevenzione delle malattie o che hanno per obiettivo la tutela della sa- la libertà delle telecomunicazioni. lute e la salvaguardia dell’ambiente aller- Un approccio originale a questo protare i cittadini, senza catastrofismi ma con blema è stato sviluppato negli ultimi documentata attenzione, sui possibili ri- decenni dagli studiosi dei rapporti fra schi che superino la soglia della conget- scienza, tecnologia e società (STS). Setura per entrare nel campo delle previsioni condo Wiebe E. Bijker, che insegna questa disciplina all’Università di Maafondate su evidenze significative. Un ultimo tema riguarda il rapporto fra stricht, dove dirige anche un centro di riil crescente intreccio tra le tecnoscienze cerca dedicato allo studio dei problemi e l’ordinamento democratico delle so- che nascono da questo intreccio, il comcietà occidentali industrializzate. Un tema pito di questi studi è di “politicizzare la cui si applicano le procedure della prevenzione (cioè dell’attivazione di misure volte a evitare o a limitare le conseguenze di un agente di rischio accertato) e quello delle semplici congetture (che non giustificano la sospensione di uno sviluppo tecnologico utile del quale i futuri possibili effetti avversi, in assenza di evidenze anche parziali, possano soltanto essere ipotizzati). È chiaro, tuttavia, che l’applicazione di questo principio lascia larghi margini di discrezionalità sia agli scienziati che si oc-
Addizione — 11
società tecnologica, mostrando a un largo spettro di soggetti sociali – politici, ingegneri, scienziati, oltre al pubblico in generale – che la scienza e la tecnologia sono cariche di valori, che tutti gli aspetti della cultura moderna sono permeati di scienza e di tecnologia, che queste ultime giocano un ruolo chiave sia nel tenere insieme la società, sia nelle questioni che ne minacciano la stabilità, e dunque che entrambe debbano essere soggette al dibattito politico”. Gli studiosi di STS devono diventare – secondo Bijker – i nuovi intellettuali del XXI secolo, per affrontare nei loro molteplici aspetti problemi concreti: questioni ecologiche, il fossato tra nord e sud del mondo, il terrorismo, la democrazia e così via. In particolare, Bijker fonda la sua attività di ricercatore e di organizzatore sul concetto di “costruzione sociale della tecnologia” (CST), in contrapposizione alla concezione standard della tecnologia come forza autonoma, rappresentata da macchine e processi che incorporano proprietà oggettive della materia, in grado perciò di immettere nella società i suoi prodotti senza essere condizionata da questa. Nella CST, il punto di partenza sono i ‘gruppi sociali rilevanti’. Gli artefatti tecnici sono descritti attraverso gli
superamento della tradizionale concezione di una scienza dei fatti indiscutibili e di una tecnologia degli oggetti manipolabili a piacere, e, dall’altro, sull’adozione di una politica dei soggetti e delle loro priorità, attraverso la trasformazione dei soggetti umani e degli oggetti naturali in attori sociali (umani e non umani) integrati in un collettivo ibrido società/ambiente. Di conseguenza, considerare le nostre relazioni con l’ambiente come bene primario significa riconoscere il diritto a tutti gli stakeholders (soggetti coinvolti) di intervenire Si assiste al superamento per affermare i loro bisogni fondamentali. della concezione di una scienza Per concludere: lo scienziato oggi non dei fatti indiscutibili può limitarsi a rifiutare – come fece il fisico Franco Rasetti quando declinò l’indefinizione di questo concetto capace vito di Fermi a unirsi a lui nel Progetto di tener conto sia della crisi dell’ogget- Manhattan – di partecipare a un’impresa tività scientifica che nasce dalle enormi considerata oggettivamente inconpotenzialità delle tecnologie legate al trollabile ma soggettivamente ritenuta progredire della conoscenza della na- dannosa o immorale. Oggi si tratta di tura (che rendono tendenzialmente in- contribuire attivamente, dall’interno, alla controllabile la catena dei loro effetti), liberazione del processo di crescita della sia dell’esistenza di nuove forme di as- conoscenza della natura e della società sociazione fra umano e non umano – i dalle catene che lo vincolano sempre di cosiddetti ‘collettivi ibridi’ – che caratte- più al cieco meccanismo del mercato, rizzano l’intreccio fra le relazioni sociali, per ricostituire quell’unità tra “virtute e le condizioni materiali di esistenza degli canoscenza” che Dante indicava come individui e le trasformazioni ambientali. fine agli uomini che non volessero rasIl concetto si basa, da un lato, sul segnarsi a “viver come bruti”. occhi dei membri di questi gruppi. Deve essere chiaro che i costruttivisti non sostengono che la scienza e la tecnologia non abbiano meriti intrinseci propri: al contrario, essi sono convinti che queste attività debbano essere salvaguardate e altamente apprezzate. Ma i loro meriti devono essere conquistati nella pratica sociale e non calati dall’alto. Sullo stesso terreno dell’analisi di Bijker, si pone Daniele Ungaro nel libro La democrazia Ecologica – per proporre una
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Crescere senza consumare Che governo del territorio e quale utilizzo del suolo dobbiamo auspicare per la città contemporanea? Mauro Giudice, Fabio Minucci
Secondo le rilevazioni realizzate nel 2006 da Legambiente, nel nostro Paese le superfici ‘artificiali’ impegnano il 7% del territorio nazionale mentre, quando si considerino i soli territori pianeggianti, si raggiunge il 20%. Con riferimento alla provincia di Torino, come la stessa Provincia dimostra in uno studio del 2008, il consumo di suolo, dal 2000 aI 2006, è aumentato del 12% mentre la popolazione è cresciuta solo del 3,4%. L’occupazione di suolo per usi urbani e infrastrutturali, oggi, è uno dei principali problemi da affrontare quando si voglia concretamente perseguire uno sviluppo sostenibile; senza considerare che, a parità di abitanti, la realizzazione/gestione dei servizi pubblici (reti infrastrutturali, servizi collettivi) nelle aree a bassa densità ha, per la collettività, costi molto più elevati di quelli della città compatta. Per contrastare il fenomeno con successo è indispensabile ricorrere, massimizzandone le sinergie, a un insieme di strumenti di natura diversa e complementare: giuridica (leggi, piani ecc.), economica, fiscale.
Un ruolo non indifferente nell’espansione dello sprawl urbano è svolto dalla fiscalità immobiliare e dalla politica urbanistica dei Comuni: dal 2001 è stato cancellato I’art. 12 della legge n. 10/77 (che vincolava l’uso degli oneri di urbanizzazione per opere di urbanizzazione) per consentirne l’uso per spese correnti fino al 75% (ciò spiega anche il forte incremento edificatorio a partire dagli inizi di questo secolo). Il fenomeno è esaltato dall’attuale fase di restringimento delle risorse degli enti locali (riduzione dei trasferimenti statali, blocco delle manovre tributarie) che vede le scelte urbanistiche sempre più indotte dall’esigenza di ‘far cassa’ con la fiscalità urbanistica. Quanto sommariamente prefigurato, impone una profonda revisione delle logiche che presiedono al governo del territorio che, direttamente o indirettamente, vanno ad incidere sulle problematiche del consumo di suolo coinvolgendo tutti i soggetti interessati. La continua evoluzione dei processi economici che caratterizza questa fase del nostro sviluppo genera sistematicamente
nuovi vuoti urbani: un’occasione per un continuo adeguamento, nel tempo, della città alle esigenze localizzative e funzionali delle diverse attività riducendo le esigenze di edificare nuove aree. Una realtà in continua evoluzione che presuppone un processo di piano più attento alla valorizzazione di tali ambiti urbani anche incentivando un loro riuso funzionale all’evoluzione delle esigenze delle attività urbane. È in questo contesto che i vuoti urbani hanno assunto, anche in funzione della dimensione dell’insediato, un ruolo di sempre maggiore rilievo. L’utilizzo attento dell’insieme dei vuoti urbani e degli ambiti sottoutilizzati può costituire un elemento qualificante per una progettazione urbanistica innovativa, che sappia coniugare gli assunti disciplinari e culturali dell’urbanistica più avanzata con le esigenze delle diverse attività e la crescente domanda di qualità della vita da parte della collettività urbana. In tale prospettiva, la disciplina urbanistica, ad oggi interessata allo studio dei fenomeni di espansione delle città, deve ampliare il suo campo di indagine a nuovi
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modelli di sviluppo, spesso a geografia variabile, tra attività umane e nuove funzioni urbane, tra dinamiche socio-economiche legate alle nuove modalità di produrre e alle più recenti forme di recupero e riutilizzo degli spazi urbani. La minimizzazione del consumo di suolo dovrà essere intesa non come dato da valutare in termini meramente quantitativi, ma come esito di una corretta risposta quantitativa/qualitativa alle esigenze insediative dello sviluppo, ai caratteri e alle necessità specifiche della fruizione, alle esigenze di differenziare le modalità e i tipi di intervento in funzione dei caratteri peculiari dei luoghi, della qualità e della caratterizzazione dei territori. Le azioni per limitare il consumo di suolo sono molteplici e riguardano, contemporaneamente, sia il contenimento delle possibilità edificatorie sia il riutilizzo di aree degradate, dismesse o sottoutilizzate; in questa logica, le azioni volte al contenimento delle nuove edificazioni si traducono in una maggiore attenzione verso il patrimonio edilizio esistente consolidato, creando una reale opportunità di riorganizzazione urbanistica del territorio. Le principali linee d’azione oggi emergenti, anche a livello europeo, per contrastare fenomeni di sprawl possono
essere schematicamente raccolte in due macro gruppi di azioni. Il primo, riferito prevalentemente alla scala urbana, ricomprende sistemi di azioni finalizzate a migliorare qualità e vivibilità delle aree centrali. Il secondo, riferito alla scala territoriale, è costituito da azioni volte a disincentivare l’ulteriore diffusione degli insediamenti indirizzandoli verso modelli urbani sostenibili. Per una ‘crescita intelligente’ sembra oggi indispensabile la messa in campo di sistemi integrati di azioni, alle diverse scale, mirate contemporaneamente alla riqualificazione della città esistente ed alla promozione dell’addensamento delle spinte insediative nelle aree già urbanizzate e sottoutilizzate. Una ‘crescita intelligente’ perseguibile ricorrendo a modelli insediativi compatti e a basso consumo di suolo, fondati su elevati mix funzionali e su intensità di uso del suolo adeguate ai caratteri dell’edificato esistente ed al contesto ambientale e paesaggistico in cui si inseriscono. È chiaro che il perseguimento delle linee d’azione e degli obiettivi sopra sinteticamente prefigurati presuppone il supporto di un quadro normativo, a cominciare da quello nazionale, in grado di fornire i necessari input e garantire un
efficace rapporto sussidiario tra le diverse scale di piano. Ciò presuppone anche la revisione del processo e dei contenuti del piano prefigurato dalle recenti leggi urbanistiche regionali anche per introdurvi, in modo esplicito, le analisi necessarie per definire, in modo condiviso e con parametri oggettivi, una sorta di ‘zonizzazione’ dei costi economici ed ambientali delle diverse tipologie di intervento previste nei diversi ambiti urbani: recupero, riqualificazione e valorizzazione dell’esistente, aree di nuovo insediamento sui quali fondare, in tempi di federalismo fiscale, una fiscalità urbanistica oggettiva, che non scarichi sulla collettività i costi aggiuntivi di una città che va sempre più qualificandosi come un insieme di flussi senza luoghi.
CRESCERE SENZA CONSUMARE Governo del territorio e uso del suolo A cura di Mauro Giudice e Fabio Minucci Editore Esselibri, Napoli Uscita Novembre 2010
Foto tratte da Google Earth 1 Frammentazione residenziale nell’area collinare torinese. 2 Infrastrutture e aree industriali nell’area metropolitana torinese. 3 Insediamenti commerciali nella bassa alessandrina. 4 Frammentazione residenziale nell’area novarese. 5 Infrastrutture e aree industriali nell’area metropolitana torinese. 6 Frammentazione residenziale nell’area collinare torinese.
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Decolonizing architecture ‘Decolonizzare’ significa aggiungere nuovi significati e usi a edifici esistenti, per un utilizzo comune di ciò che l’ordine coloniale ha separato e diviso Sandi Hilal, Alessandro Petti, Eyal Weizman
Future Archeology. Nel 2007, dopo alcuni anni di ricerche teoriche sullo spazio focalizzate sulla Palestina, abbiamo deciso di cambiare la modalità del nostro impegno e creare un istituto di architettura fondato su un programma di studio/residenza a Beit Sahour, Betlemme. Il Decolonizing Architecture Institute (DAi) cerca di usare la pratica spaziale come una forma di intervento politico e di narrazione. Il lavoro di residenza è basato su una rete di affiliazioni locali e archivi storici che abbiamo raccolto nei nostri lavori precedenti. Il nostro lavoro ha a che fare con una serie complessa di problemi architettonici che si concentrano attorno a uno dei più difficili dilemmi della pratica politica: come agire sia in maniera propositiva, sia criticamente in un ambiente in cui il campo delle forze politiche, per quanto complesso, è così drammaticamente distorto. È possibile intervenire in qualche modo? Come può la pratica spaziale, nel ‘qui e ora’ del conflitto, negoziare l’esistenza di istituzioni e di realtà legali e spaziali senza divenire connivente con la realtà diseguale che queste
producono? Come trovare una ‘autonomia della pratica’ che sia al tempo stesso critica e trasformativa? Abbiamo iniziato sperimentando una serie di interventi che tentano di dare nuovi contenuti, significato e capacità d’azione al termine ‘decolonizzazione’. Suggeriamo una rivisitazione di questo termine ampiamente screditato al fine di mantenere le distanze dall’attuale linguaggio politico utilizzato per una ‘soluzione’ del conflitto palestinese e dei suoi confini. Le soluzioni a uno, due e ora a tre Stati sembrano ugualmente intrappolate in una prospettiva da esperti topdown, ognuna con una propria logica autoreferenziale. La decolonizzazione, al contrario, presuppone un processo di trasformazione e di riutilizzo delle strutture dominanti esistenti – finanziarie, militari e legali – concepite per il beneficio di un gruppo etnico-nazionale, e implica la lotta per l’eguaglianza. È fondata sul confronto, secondo un approccio completamente opposto alla realtà dell’occupazione e dello spossessamento. Il riutilizzo di edifici e infrastrutture nel
processo storico di decolonizzazione riproduceva spesso gli stessi usi per i quali erano stati progettati, con delle modalità che lasciavano intatte le gerarchie territoriali. In questo senso i processi passati di decolonizzazione non si sono mai veramente sbarazzati del potere della dominazione coloniale. Profanazione – un concetto proposto da Giorgio Agamben in relazione al dominio del ‘sacro’ – è una “neutralizzazione di ciò che esso profana”. “Profanare non significa semplicemente abolire o cancellare separazioni, bensì imparare a farne un nuovo uso”. La decolonizzazione è il contro-apparato che cerca di riportare a un uso comune ciò che l’ordine coloniale ha separato e diviso. L’obiettivo della decolonizzazione è la costruzione di contro-apparati che trovino nuovi usi per le strutture di dominazione abbandonate. Usi che sono a volte pragmatici e a volte sfide ironiche. A questo livello la ‘decolonizzazione’ non è mai stata raggiunta, è una pratica in evoluzione che consiste nella disattivazione e nel riorientamento intesi sia come fenomeni presenti, sia perpetui.
Ph © Situ Studio NYC, 2008
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La natura dei problemi che stiamo trattando ci ha convinto che un approccio fattibile vada trovato non solo nel linguaggio professionale dell’architettura e della pianificazione, quanto piuttosto nell’inaugurazione di una ‘arena di congetture’ che incorpori prospettive politiche e culturali variegate attraverso la partecipazione di una moltitudine di individui e organizzazioni. Un programma di residenza architettonica aperto e collaborativo ha quindi dovuto sostituire le consolidate modalità della produzione architettonica. I progetti che seguiamo esaminano e sondano i campi delle forze politiche, legali e sociali attraverso una serie di interventi architettonici. Combinando discorso, intervento spaziale, istruzione, apprendimento collettivo, incontri pubblici e sfide legali, il tentativo è quello di avviare la disciplina e la prassi dell’architettura – intesa come la produzione di edifici e strutture urbane elevate – in reti di ‘pratiche spaziali’ mobili che includano varie
altre forme di intervento. Il programma di residenza ha finora riunito gruppi di affermati professionisti internazionali – architetti, artisti, attivisti, urbanisti, registi e curatori – per lavorare collettivamente all’interno della cornice che avevamo costituito. Un esempio di queste collaborazioni è il lavoro di Salottobuono, che ha passato l’estate 2008 in Palestina componendo e schematizzando le strategie sviluppate in studio dall’inizio del programma. Inoltre ha avuto luogo per tutta la durata dell'estate 2010 il Battir International Summer Program, una summer school dal titolo Urban Studies and Human Right in context supportata da Unesco, Al-Quds University/Bard Honors College e Battir Village Council. Nell’ambito di questa sono state ospitate numerose lectures che hanno toccato diversi temi legati all’impatto e ai mezzi con cui l’attività normativa agisce e regola lo spazio fisico del quotidiano e la sua fruizione, oltre a tavole rotonde e fieldworks dedicati
in particolare ai gruppi di studenti dell'AlQuds University/Bard Honors College e ad un gruppo internazionale di architetti e artisti. Questi ultimi sono stati chiamati a rielaborare parallelamente il tema di ricerca sotto forma di produzione artistica ed architettonica, attualmente confluite nella mostra The Red Castle and the lawless line ospitata presso la Galleria 0047 di Oslo fino al 24 Ottobre 2010, che esplora l’elemento delle linee di confine e le dinamiche legate alla loro instabilità nel momento del loro impatto sulla scala architettonica e sullo spazio domestico.
Info e approgondimenti www.decolonizing.ps
Dettaglio del plastico dell’area di Psagot per il progetto Proximity, Decolonizing Architecture
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Un parco con qualcosa in più Intervista al paesaggista Gianluca Cosmacini di Raffaella Bucci
Domanda Nella definizione del progetto del PAV da un punto di vista artistico e architettonico, quanto è stato vincolante il luogo in cui il PAV si è inserito? Risposta Il PAV è stato realizzato sul territorio di un’area industriale dismessa, spazio in tensione verso un’inedita trasformazione che è diventata oggetto, per una pluralità di attori, di trattative finalizzate alla sua realizzazione in sostituzione di un più tradizionale parco urbano attrezzato. Anche il lavoro con gli artisti, nella fase preliminare, è stato utile per svelare le qualità dello spazio: uno spazio ibrido in cui si assiste a una vita pionieristica animata dall’insediamento di molte specie vegetali dotate di una vitalità propria. L’idea progettuale si è precisata in questa fase del processo e a partire da alcune osservazioni: un parco, non totalmente progettato con un linguaggio formale, che si struttura e si definisce attraverso la ‘processualità’ del vivente, cioè attraverso le relazioni che si formano tra piante, animali, persone e che generano trasformazioni inaspettate e non determinate a priori di
questo frammento di paesaggio urbano. I vincoli sono derivati prevalentemente dal sottosuolo e dalle caratteristiche del suolo, dalla sua stratigrafia, dai relitti di manufatti e sottoservizi antichi e recenti contenuti al suo interno, che però hanno rappresentato anche una opportunità per entrare in relazione con il luogo e la sua storia, anche utilizzando il metodo e il punto di vista originale degli artisti che partecipano al progetto culturale e artistico del PAV. D Quali limiti, quali sfide e al tempo stesso quali opportunità ne sono derivate? R Una delle sfide è portare all’esterno l’esperienza del PAV. Il territorio del PAV, i suoi tre ettari non si devono configurare come un hortus conclusus ma sviluppare un’osmosi dei confini, che implica una relazione tra il dentro e il fuori. Tra PAV e città. È vitale ridefinire i parametri tradizionali del concepire e fare esperienza del paesaggio, aprendosi alla creatività delle persone (il pubblico), risorsa e strumento imprescindibile dell’idea di abitare, collettivamente e individualmente, questo luogo.
Questo vuol dire assumere una prospettiva di ‘colonizzazione’ del territorio urbano per portare questa esperienza in altre realtà sociali e luoghi della città. Il limite non è nello spirito, ma nelle risorse economiche disponibili nella gestione del progetto. D Qual è il confine tra la componente naturale e spontanea e la componente artificiale e progettata nel disegno del PAV? r Non esiste questo confine e se c’è è mentale. Non esiste una opposizione tra naturale e artificiale. I luoghi della naturalità sono spazi oggetto di azioni di salvaguardia e in questo senso spazi ‘progettati’. Pochi nel pianeta sono i luoghi naturali che presentano un’autonomia evolutiva incontaminata: gli habitat marini e artici, alcune foreste pluviali. Al PAV la naturalità presente è frutto di un progetto, tutto il territorio è un intreccio di componenti naturali e artificiali. Per esempio, scegliere la miscela di sementi locale è questione non secondaria. L’uso di semi di origine locale con germoplasma di provenienza nota evita fenomeni di inquinamento genetico nel rispetto della biodiversità floristica.
E allora il termine ‘naturale vs artificiale’ assume un’altra prospettiva. La naturalità (natura) dobbiamo proteggerla, incrementarla, salvaguardarne l’evoluzione anche spontanea, nel senso che l’esito non è definibile a priori e questo comunque è un atto progettuale, consapevole. Tutto questo è nelle intenzioni del PAV: un progetto evolutivo, un ‘cantiere ininterrotto’ appunto, un intreccio dialogico di esperienze aperto alle alterità innovative, in omologia con i sistemi viventi della biosfera, un luogo di negoziazione tra uomini e cose, un territorio artistico in evoluzione, un modello di sviluppo sostenibile tra le pratiche artistiche e lo spazio d’esposizione dove le ‘opere’ si producono e si mostrano. D L’arte al centro del progetto del PAV è definita ‘relazionale’. Che cosa la caratterizza? r Il PAV si struttura e si definisce attraverso la ‘processualità’ del vivente, cioè attraverso le interconnessioni che si formano tra piante, animali, persone e che generano trasformazioni inaspettate e non determinate a priori del paesaggio urbano. Il progetto del parco fa proprie le sollecitazioni degli artisti, le relazioni di questi con l’ambiente, con i suoi vincoli e le sue potenzialità, con il gruppo di lavoro del PAV, con il pubblico e le committenze sociali, in un sistema di interazioni in cui il territorio è il luogo di produzione e di esposizione delle opere, dove le opere, entrando in rapporto fra loro, concorrono al processo di costruzione di questo frammento di paesaggio urbano. Ecco il valore aggiunto. Il progetto si pone come obiettivo la crescita culturale della persone, e architettura e paesaggio sono un mezzo e non un fine.
Ph © Mattia Boero © PAV 2010
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Il risultato è superiore alla somma
Moltiplicazione ‘Partecipare’ significa guardare lo spazio che ci circonda con attenzione e provare a ridisegnarlo per le necessità proprie e della collettività. Gli spazi che ci sono stati consegnati come standardizzati, dai cortili delle scuole alle aree gioco, possono assumere nuova vitalità
Giuseppe Borgogno
Il Laboratorio Città Sostenibile
Le schede Il Piano territoriale Torino, Città in Gioco
La città è un luogo di tutti. E tutti partecipano alla sua progettazione
Il Piano strategico delle aree gioco urbane Gli spazi per il gioco e la socializzazione Le Colline del Valentino Il Progetto unitario cortili scolastici
Pier Giorgio Turi
“Se voi architetti potete far realizzare queste cose…”
Ph © Gloria Pasetto, NY my way
Esplorare, confrontare, progettare: i bambini costruiscono un futuro sostenibile
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Il Laboratorio Città Sostenibile Sostenibilità vuol dire partecipare alle scelte di trasformazione urbana Giuseppe Borgogno
La Città di Torino, ormai da molti anni, investe sui suoi cittadini più piccoli una parte rilevante delle risorse economiche dell’Amministrazione, nella convinzione che per bambini e ragazzi sia importante vivere in una città piena di stimoli, di culture, di occasioni. Una scelta che si collega con le grandi esperienze educative del passato, dagli oratori alle sperimentazioni didattiche stimolate dal Movimento di cooperazione educativa che hanno fatto di Torino un modello nel panorama italiano per quanto riguarda l’offerta formativa collegata al tempo scuola. Il sistema educativo comunale è costituito, infatti, non solo da nidi e scuole dell’infanzia ma anche da laboratori didattici, organizzati in centri di cultura per l’infanzia e l’adolescenza, mirati al territorio e all’esplorazione della realtà fisica e sociale che ci circonda. Con deliberazione del Consiglio comunale del 15 novembre 2004, è stata approvata la costituzione di una Istituzione comunale, denominata ITER (Istituzione Torinese per una Educazione Responsabile), a cui affidare la gestione delle
attività educative e culturali condotte dai centri di cultura. L’Istituzione si inserisce all’interno del sistema educativo comunale fornendo un ulteriore contributo al dibattito sul ruolo dell’Ente locale nel campo della formazione. Confronto che vede la Città di Torino affiancare le istituzioni scolastiche nella costruzione di una scuola di qualità che può contare su un vero e proprio piano formativo del territorio, visto come luogo di eccellenza per la costruzione e consumo di conoscenza. Nella città, infatti, è possibile sviluppare processi di coinvolgimento diretto di tutta la comunità, affinché la crescita di tecnologie, le trasformazioni economiche, sociali e culturali siano fattori in grado di migliorare la vita di tutti i cittadini. Lo sfondo pedagogico che caratterizza l’intervento di ITER è sintetizzabile nella costruzione di un “progetto condiviso in grado di garantire la promozione dell’autonomia del bambino cittadino attraverso un percorso di crescita responsabile che spazi tra il tempo scuola e il tempo libero”. Nell’ambito della valorizzazione del protagonismo giovanile si inseriscono le
attività del Laboratorio Città Sostenibile, che dall’aprile del 2010 è entrato a far parte di ITER. Il Laboratorio Città Sostenibile, istituito nel 1999 dalla Città di Torino, si pone come obiettivo di sviluppare azioni volte al riconoscimento del diritto dei cittadini a vivere in un clima di relazioni significative e in una dimensione urbana sostenibile. Oggi è una struttura che traduce scelte politiche facenti capo a sei assessorati: Risorse educative, Ambiente, Arredo e rigenerazione urbana, Verde pubblico, Viabilità e trasporti, Decentramento e area metropolitana. In questa cornice le coordinate entro le quali si collocano le azioni del Laboratorio Città Sostenibile fanno riferimento ad alcuni ‘concetti chiave’: la diffusione dell’idea di città come ‘luogo di tutti’; i ‘soggetti deboli’ di una città sono la misura della sua sostenibilità sociale e pertanto possono essere assunti come parametro di riferimento per scelte di trasformazione urbana; i processi di trasformazione urbana in chiave sostenibile richiedono la promozione di politiche partecipative dalle quali bambini e ragazzi
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non possono essere esclusi; la promozione di una cultura urbana della sostenibilità favorisce una migliore qualità della vita; accrescere la formazione dei cittadini, a partire dai più giovani, quali soggetti attivi di cambiamento e di sviluppo locale. Nel corso della sua attività il Laboratorio Città Sostenibile ha, finora, coinvolto più di 5000 tra bambine, bambini, ragazze, ragazzi e adulti in progetti dedicati alla cura e trasformazione degli spazi urbani attraverso percorsi di partecipazione. Progetti che attraverso la lettura e l’interpretazione della città contemporanea cercano di comprendere come viene vissuta, quali criticità presenta e quali interventi sono ritenuti prioritari per migliorarne la qualità sociale e ambientale. In tutti i progetti i percorsi partecipativi sono condotti da architetti tutor, una nuova figura professionale nata dalla collaborazione con l’Ordine degli Architetti PPC della provincia di Torino, che operano in qualità di ‘facilitatori’ per accompagnare i soggetti di volta in volta coinvolti in analisi territoriali, in discussioni su criticità ed opportunità e nello sviluppo di proposte progettuali ‘sostenibili’.
Il percorso metodologico adottato dal Laboratorio Città Sostenibile in genere si articola in 4 fasi principali: un percorso di esplorazione e di conoscenza di ambienti architettonici e di spazi urbani per indagarne caratteristiche e qualità. Le osservazioni emerse convergono in mappe condivise che illustrano i luoghi ritenuti particolarmente significativi e le opportunità o le criticità riscontrate per ogni luogo; una fase di confronto per passare da una visione individuale ad uno ‘sguardo comune’, finalizzato ad elaborare delle proposte di intervento da segnalare alla Città; un percorso di progettazione partecipata per trasformare le idee in un vero e proprio progetto di trasformazione o di personalizzazione dei luoghi segnalati nelle proposte di intervento; la traduzione tecnica dei progetti partecipati, direttamente curata dal Laboratorio, per facilitare il passaggio dal piano della creatività a quello della fattibilità. Un’attività indispensabile per consentire alla Città di programmare, sulla base di effettive dimensioni d’intervento e di disponibilità economiche, alcune delle opere proposte e che ha
portato alla realizzazione di numerosi interventi in complessi scolastici e distribuiti sul territorio. Come si evince dal processo educativo illustrato, l’intervento del Laboratorio Città Sostenibile favorisce la reale partecipazione di bambini e ragazzi nelle scelte che riguardano il contesto in cui vivono. Si tratta di una modalità che si colloca nel filone dell’apprendimento sociale necessario per costruire un futuro responsabile. Futuro responsabile che potrà realizzarsi solo se la partecipazione alla vita cittadina non si limiterà al conferimento di deleghe a qualcuno che deve pensare a tutto, ma ad un continuo confronto con gli altri e i loro interessi e visioni dei problemi. L’esperienza sviluppata dal Laboratorio ha contribuito nel 2001 all’attribuzione alla Città di Torino del premio per il Migliore progetto per una Città Sostenibile delle Bambine e dei Bambini e nel 2007 e 2008 a collocare Torino al primo posto nella classifica del Rapporto Ecosistema Bambino di Legambiente sulle città italiane che promuovono politiche a favore della partecipazione degli under 14.
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Laboratorio Città Sostenibile Città di Torino ITER – Istituzione Torinese per una Educazione Responsabile Assessorati Risorse educative (coordinamento) Ambiente e politiche per la casa e il verde LABORATORIO CITTÀ SOSTENIBILE Politiche per l’integrazione CITTÀ DI TORINO Viabilità e trasporti ITER – IstituzioneeTorinese Decentramento area metropolitana per una Educazione Responsabile Direttore ITER Assessorati Umberto Magnoni Risorse educative (coordinamento) Ambiente e politiche per la casa e il verde Coordinamento pedagogico Politiche per l’integrazione Marisa Cortese Viabilità e trasporti Decentramento e area metropolitana Coordinamento tecnico-scientifico e architetti tutor Direttore ITERTuri Pier Giorgio Umberto Magnoni Ufficio ricerca e progettazione Coordinamento pedagogico Raffaella Leonforte Bruno, Maria Bucci, Marisa Cortese Cosmina Tunno, Annamaria Ventura Coordinamento Architetti tutor tecnico-scientifico eArianna architetti tutorMara Brunetto, Maria Antonietta Borda, Pier Giorgio Elena Turi Ferrari, Elisabetta Liore, Cengiarolo, Paola Masuelli, Milena Misia, Cristina Viani Ufficio ricerca e progettazione Raffaella Leonforte Bruno, Maria Bucci, Cosmina Segreteria organizzativa Tunno, Annamaria Ventura Varvelli Gabriella Mazzoli, Antonella Architetti tutor Arianna Borda, Mara Brunetto, Maria Antonietta Cengiarolo, Ferrari, Liore, Dal 2003 è Elena in vigore una Elisabetta convenzione tra Paola Città di Masuelli, Milenadegli Misia, Cristina estesa Viani dal 2004 alla Torino e Ordine Architetti, Fondazione dell’Ordine degli Architetti, sul tema Segreteria architetturaorganizzativa e città sostenibile che include la promoGabriella Mazzoli, VarvelliCittà Sostenibile zione delle attività Antonella del Laboratorio
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Il Piano territoriale Torino, Città in Gioco Le informazioni prodotte durante i percorsi di esplorazione del contesto urbano, svolti a partire dal 2003 con le scuole, sono raccolti in un Piano territoriale che restituisce l’immagine collettiva di una città raccontata attraverso icone urbane e punti di riferimento sociale. Una città caratterizzata da piccole centralità: spazi dedicati al gioco e all’aggregazione, percorsi pedonali e ciclabili utilizzati ogni giorno, piccole e grandi attività commerciali riconosciute come proprie, ma anche edifici nei quali i bambini e i ragazzi si identificano. In questa rappresentazione gli osservatori acquistano consapevolezza del proprio ruolo e delle proprie capacità di ‘esperti’
che abitano e che appartengono ai luoghi rappresentati sulla mappa, mettendo in luce temi trasversali da porre all’attenzione dell’Amministrazione: la necessità di ritrovare in città la dimensione del gioco e dell’aggregazione in luoghi con una migliore qualità urbana, una maggiore attenzione al verde, il bisogno di muoversi in sicurezza e autonomia ristabilendo l’equilibrio tra mobilità veicolare e pedonale, la necessità di rispondere alle esigenze di accessibilità e comfort di tutti, la richiesta di individuare nuove regole per la trasformazione, la cura e la manutenzione dello spazio pubblico nella quale essere tutti ‘un po’ più protagonisti’.
a cura di Laboratorio Città Sostenibile con la collaborazione delle scuole che hanno partecipato al progetto Torino, Città in Gioco
© Ferruccio Capitani
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Il Piano strategico delle aree gioco urbane In una città garantire il ‘diritto al gioco’ è una condizione essenziale per riconoscere ai bambini e ai ragazzi una effettiva dimensione di cittadinanza. Da questo presupposto è nata nel 2004 l’idea di elaborare un ‘piano’ che rispondesse alla richiesta di bambini e ragazzi di ripensare la natura e la qualità degli spazi urbani dedicati al gioco, ma anche all’esigenza di definire nuove modalità di pianificazione e gestione delle oltre 270 aree attrezzate allora presenti sul territorio cittadino. Il Piano strategico delle aree gioco urbane assume, in risposta a questa diffusa domanda, un particolare indicatore urbanistico: le esigenze del ‘cittadino bambino’ come parametro di qualità urbana. La lunga costruzione del Piano,
conclusa nel gennaio 2010 con l’approvazione da parte della Giunta comunale del progetto definitivo, si è strutturata sulla base di un’articolata valutazione qualitativa nella quale per ogni singola area è stata analizzata posizione territoriale, morfologia, caratteristiche ambientali, contesto urbano e sociale, collegamenti ciclo-pedonali, livelli manutentivi e vicinanza con punti sociali ‘sensibili’. I risultati sono stati incrociati con una raccolta di osservazioni pubbliche, dando vita ad uno strumento di pianificazione decisamente inusuale per una Pubblica Amministrazione che oggi pone le basi per la riqualificazione, lo sviluppo e la manutenzione di un vasto patrimonio di spazi sociali.
Coordinamento progettuale Pier Giorgio Turi (Laboratorio Città Sostenibile) Responsabile Settore Gestione Verde Gabriele Bovo Gruppo di lavoro Maria Bucci, Annamaria Ventura (Laboratorio Città Sostenibile) Collaborazione Luca Valperga Settore Gestione Verde
© Tiziano Cirigliano
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Gli spazi per il gioco e la socializzazione Tra i numerosi interventi oggetto di progettazione partecipata sono state di particolare interesse le esperienze realizzate per i Parchi del Valentino e di Spina 4. Nel 2006 l’area di viale Ceppi, una tra le più utilizzate del Parco del Valentino, diventa oggetto di un laboratorio di progettazione partecipata con i bambini e i ragazzi del quartiere San Salvario, che si è ulteriormente arricchito nel 2008 con un’esperienza animata dal designer James Irvine. Un lavoro che ha portato ad interpretare l’asse di viale Ceppi come un nuovo grande spazio che si snoda sinuoso e collega i diversi episodi dedicati al gioco, alla socializzazione, al relax e allo sport. Tra gli elementi più caratterizzanti vi sono un roller-ground, due labirinti-gioco, un’area fitness e le ‘Colline del Valentino’, strutture
gioco che ‘emergono’ dalla superficie di un vasto prato sintetico. Da un percorso avviato nel 2007 con i bambini della Scuola elementare Pestalozzi, nasce inoltre, in un’ampia zona di trasformazione urbana a nord di Torino, l’area gioco del Parco di Spina 4. Uno spazio di oltre 1.700 metri quadrati che ruota intorno a un nucleo centrale a forma di ‘cratere’ e a due ‘satelliti’ che diventano luogo delle interazioni, degli incontri e dell’organizzazione di attività ludiche individuali o di gruppo. Tutta l’area è occasione di sperimentazione: l’accostamento tra i diversi materiali esalta le differenze tattili, i colori delle superfici, le forme insolite, le visuali sempre nuove, offrono uno scenario dove i bambini possono muoversi in libertà e misurarsi con le proprie capacità.
Settore tecnico Grandi opere del verde pubblico Riccardo Guala Settore Gestione verde Gabriele Bovo Progettisti Paolo Miglietta (Coordinatore) Piergiorgio Amerio, Flavio Aquilano, Ferruccio Capitani, Cristina Cavalieri, Loredana Di Nunzio, Elena Hartog, Giovanni Besusso Stefania Camisassa (Coordinatore) Mario Andriani, Marco Bet, Piero Fassino, Piero Ferrando, Michelangelo Merlo, Gabriella Mosca Laboratorio Città Sostenibile Pier Giorgio Turi Progettisti Mara Brunetto, Raffaella Leonforte Bruno, Maria Bucci, Paola Masuelli, Cosmina Tunno Progettazione partecipata Arianna Borda, Mara Brunetto, Paola Masuelli, Cristina Viani
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Le Colline del Valentino Nel quadro dell’evento Torino Geodesign inserito nelle manifestazioni di Torino 2008 World Design Capital è stata realizzata un’intensa esperienza di progettazione che ha visto coinvolti un gruppo eterogeneo di giovani committenti e il designer James Irvine, progettista affermato a livello internazionale. L’incontro è nato dalla necessità espressa dai ragazzi, già coinvolti in un percorso di progettazione di un’area gioco all’interno dello storico Parco del Valentino, di trovare una soluzione a un tema particolarmente difficile: risolvere l’impatto prodotto da dieci ingombranti oggetti (le prese d’aria poste sulla copertura di un parcheggio sotterraneo) distribuiti su un vasto prato sintetico
che, inaspettatamente, è diventato nel tempo un punto di riferimento del Parco, particolarmente vivo e molto utilizzato. Mettendosi completamente in gioco James Irvine ha coinvolto i ragazzi in un laboratorio creativo e dialogico, dove è stato ripensato lo spazio e sono state progettate soluzioni per rendere accessibili e piacevoli anche delle invadenti bocche di areazione. Le ‘Colline del Valentino’ diventano così luogo di gioco, creano volumi inediti e divertenti, rompono con la monotonia dell’area, sollecitano i ragazzi ad arrampicarsi, a sperimentare, a ‘vedere dall’alto’ e, soprattutto, a incontrarsi all’ombra di un luogo riconoscibile e riconosciuto.
Torino 2008 WDC Torino Geodesign Laboratorio Città Sostenibile Progettista James Irvine Progettazione partecipata Mara Brunetto, Paola Masuelli (Laboratorio Città Sostenibile) Collaborazione Agenzia San Salvario ASAI Oratorio San Luigi Realizzazione modelli Cooperativa Sociale Piero & Gianni
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Il Progetto unitario cortili scolastici La riqualificazione dei cortili scolastici, luoghi che in alcune situazioni urbane costituiscono gli unici spazi dove bambini e ragazzi possono giocare e incontrarsi all’aperto in un territorio ‘protetto’, si inserisce nelle riflessioni avviate con il Piano strategico per le aree gioco urbane. Così a partire dalla forte richiesta espressa da bambini e ragazzi di personalizzare questi luoghi del ‘quotidiano’, per migliorarne la qualità ambientale con adeguati spazi per la socializzazione e con nuove soluzioni per il gioco o per la didattica all’aperto, prende avvio il Progetto unitario cortili scolastici. Un progetto nel quale il cortile diventa il principale luogo
di connessione tra la città e la scuola e un importante punto di riferimento sociale per l’intera comunità scolastica. Spazi che si trasformano in luoghi del progetto partecipato, dove sperimentare nuove soluzioni per armonizzare interventi edili, arredi e sistemazioni a verde e che sono concepiti per permettere la libera espressione della fantasia, l’utilizzo non convenzionale di superfici e attrezzature, con spunti innovativi per il gioco, la socializzazione e la didattica, utilizzando gli elementi naturali, le movimentazioni del terreno, i differenti materiali, gli elementi decorativi e la capacità compositiva frutto della collaborazione creativa tra architetti e bambini.
Settore Edilizia scolastica manutenzione Pierluigi Poncini, Isabella Quinto Progettisti Susanna Aimone Mariota (Coordinatore) Claudio Cornetto, Piero Rosso Laboratorio Città Sostenibile Pier Giorgio Turi Progettisti Raffaella Leonforte Bruno, Maria Bucci, Cosmina Tunno, Annamaria Ventura Progettazione partecipata Arianna Borda, Mara Brunetto, Maria Antonietta Cengiarolo, Elena Ferrari, Elisabetta Liore, Paola Masuelli, Milena Misia, Marina Santangeli, Cristina Viani
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“Se voi architetti potete far realizzare queste cose...” (Matteo, 11 anni)
Gli architetti tutor dei bambini per ridisegnare la scuola Pier Giorgio Turi
Il Laboratorio Città Sostenibile è una struttura con un’esperienza ormai più che decennale che interviene in progetti nei quali è possibile armonizzare percorsi educativi, forme di partecipazione e attività progettuali, promuovendo il metodo della collaborazione multidisciplinare e della trasversalità operativa tra diversi settori dell’amministrazione locale. Un’attività strutturata all’interno dell’organizzazione comunale che nel tempo si è aperta a numerose collaborazioni esterne, tra le quali la più consolidata è certamente quella con la Fondazione OAT e con l’Ordine degli Architetti della Provincia di Torino che ha permesso di istituire una nuova figura professionale – l’architetto tutor – che si è rivelata fondamentale per le attività del Laboratorio CS. Una professionalità, con alle spalle un percorso formativo specifico, con cui si sono sviluppati i percorsi di conoscenza della città e della sua architettura, la costruzione di piani territoriali a partire dal punto di vista dei bambini e dei ragazzi, la conduzione di attività di progettazione partecipata su spazi educativi, aree verdi
e spazi pubblici, la promozione di azioni territoriali sul tema della mobilità sostenibile o di natura sociale a favore della sicurezza urbana. Questo insieme di azioni sono raccolte nel progetto Torino, Città in Gioco, un percorso che ogni anno il Laboratorio CS offre ad un numero selezionato di scuole a cui propone di diventare ‘osservatorio urbano’, ovvero un luogo privilegiato di coinvolgimento e di partecipazione sui temi della trasformazione e cura del territorio. Il percorso prevede un ‘contratto’ iniziale con i ragazzi nel quale la Città si impegna a mettere a disposizione risorse, strumenti e competenze per un reale percorso di conoscenza e di progettazione. Analogo patto è stipulato con le scuole che s’impegnano ad inserire a pieno titolo l’attività nella loro programmazione didattica. Gli insegnanti coinvolti vengono affiancati dagli architetti tutor del Laboratorio CS che accompagnano tutto il percorso, supportano la dimensione tecnica della progettazione e si coordinano con i settori dell’Amministrazione coinvolti di volta in volta per competenza.
Torino, Città in Gioco si sviluppa lungo un intero anno scolastico secondo un processo metodologico articolato in quattro fasi. La premessa è che la scuola ‘osservatorio urbano’ adotti come campo d’indagine il proprio complesso scolastico e una parte di territorio circostante; la scuola viene così intesa come ‘parte’ fisica e sociale della città con la quale intreccia relazioni urbanistiche e sociali. Un ambito territoriale che diventa il riferimento per la prima fase del percorso progettuale: l’esplorazione. Un’attività di importanza fondamentale per l’architetto tutor, che permette di acquisire una visione della realtà architettonica e urbana vista attraverso gli occhi e le opinioni dei bambini e dei ragazzi, a loro volta protagonisti di una lettura dei propri territori fatta con ampi gradi di libertà espressiva e di metodo d’indagine. Infatti l’obiettivo a cui si tende è la costruzione di ‘mappe’ che rappresentino la reale percezione che i bambini hanno della propria scuola e dell’ambito di città esplorato. Carte che ‘raccontano’ l’esplorazione, punto per punto, attraverso testi, fotografie,
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disegni, grafici, interviste, che descrivono le caratteristiche e le qualità dei luoghi. Sono carte che esprimono una percezione dell’architettura e della città secondo una prospettiva certamente diversa dai tradizionali approcci di analisi urbana, dalla quale emergono le criticità, ma soprattutto le opportunità, di territori letti secondo indicatori di qualità ambientale condivisa con i bambini ed i ragazzi, quali il colore, la luce, il rumore, i luoghi riconoscibili, quelli piacevoli o sgradevoli, pericolosi o sicuri, belli, brutti, adatti al gioco, da evitare, con architetture che colpiscono, con negozi, attività, servizi e spazi di aggregazione, luoghi ‘amici’ o ‘nemici’, con strade pericolose o sicure, con percorsi pedonali e ciclabili, con aree a parcheggio codificate e non oppure attraversamenti particolarmente difficili, se non impossibili. Questo patrimonio informativo diventa lo strato di conoscenza ‘critica’ su cui si fonda la seconda fase del percorso: la visione condivisa delle criticità e delle opportunità territoriali per individuare potenzialità progettuali e proposte d’intervento. Uno snodo importante del progetto con il quale si propone alle scuole un’esperienza di ‘democrazia partecipativa’ per costruire una visione di sintesi e il più possibile condivisa dell’ambito urbano adottato. Attraverso un confronto, articolato per passaggi successivi, tra bambini e ragazzi, esteso successivamente ad insegnanti e genitori, l’architetto tutor conduce, prima le singole classi e poi i loro rappresentanti, all’elaborazione di una proposta condivisa da tutta scuola, nella quale le criticità e le opportunità sono tradotte in
segnalazioni d’intervento e vengono scelte le tre proposte progettuali con le loro priorità – subito, presto, dopo – da presentare alla Città. Proposte che diventano protagoniste del terzo passaggio metodologico, i laboratori di progettazione partecipata, nei quali ci si misura con la dimensione del progetto architettonico o urbano. Insieme architetti, bambini e ragazzi confrontano la loro creatività con i vincoli legati ad aspetti normativi, di limite fisico degli spazi, di risorse disponibili e di soluzioni tecniche praticabili, per giungere ad una vera e propria proposta progettuale corredata da disegni, plastici e testi. Progetti che, dopo la loro presentazione all’intera comunità scolastica, vengono presi in carico dal gruppo di progettazione del Laboratorio CS che si occupa di avviare l’ultima fase del percorso metodologico: la traduzione tecnica dei progetti partecipati. Un passaggio strategico per trasferire le idee dal piano della creatività a quello della fattibilità, un’attività indispensabile per trasformare le proposte delle scuole in progetti tecnici utili per programmare, sulla base di effettive disponibilità economiche, alcune delle opere proposte. Il percorso con le scuole si conclude con la presentazione dei progetti preliminari, già approvati dalla Giunta comunale, in un incontro tra architetti e bambini nel quale si esamina il progetto, si valutano le affinità con la proposta originale, si raccolgono le osservazioni utili ad eventuali modifiche da apportare nel progetto definitivo e si formalizza l’accettazione, da parte del dirigente scolastico a nome della scuola, delle opere progettate, che in molte
occasioni sono poi state realizzate. Gli oltre dieci anni di lavoro del Laboratorio CS e gli esiti raggiunti, visibili in molte parti di città, hanno consolidato un metodo d’intervento e figure professionali – oggi sempre più richieste anche in azioni territoriali complesse – che hanno prodotto strumenti di pianificazione a scala urbana che collocano al centro della riflessione il bambino come parametro di qualità urbana collettiva. Un’esperienza che attraverso la Fondazione OAT si sta estendendo anche ad altri Comuni della provincia di Torino come Moncalieri, Rivalta, Grugliasco, Nichelino, dove sono stati avviati i primi incontri, o Rivoli e Collegno nei quali si è già giunti alla definizione di un accordo per avviare il coinvolgimento degli architetti tutor in progetti da svilupparsi nell’anno scolastico che è appena iniziato. Sono risultati che, anche al di là delle opere realizzate, dimostrano come sia realmente possibile accreditare la voce dei cittadini più giovani nella costruzione delle scelte di trasformazione urbana della propria città. L’ambiente urbano diviene così scenario che anima un percorso di educazione alla cittadinanza nel quale, toccando con mano i problemi, si comprende l’importanza che assumono l’architettura e l’urbanistica per migliorare la qualità della vita di tutti noi e nel quale la partecipazione, sviluppata all’interno di un processo educativo – seppur con tutti i limiti e le contraddizioni – diventa non solo buona pratica, ma anche speranza di veder crescere nelle generazioni future la consapevolezza dell’essere cittadino responsabile in una ‘città sostenibile’.
Ciò non toglie
Sottrazione Ridurre il superfluo, eliminare gli sprechi, isolare i particolari, nascondere per attirare l’attenzione. Nell’età dell’eccesso, per far sentire la propria voce, bisogna diventare più silenziosi
Gayle Chong Kwan
Quel che resta della città Con gli scarti prodotti ogni giorno si può costruire o ricostruire una città Andrea Segrè
Non sprecare: almeno nel tuo frigorifero L’equazione ‘meno rifiuti = meno inquinamento’ impone l’imperativo ecologico di ridurre lo spreco
Gianluca Gobbi
Less is more Istantaneità, ubiquità e intimità sono le caratteristiche di un medium senza corpo come la radio
Walid Mawed
Waiting for Water: fluire di acqua, fluire di genti Per riflettere sull’importanza dell’acqua è necessario che non sia visibile. Solo l’assenza ne mette in luce la presenza
Bruna Biamino
Una slow fotografa tra essenzialità e misura
Ph © Matteo Ghisalberti, In my town
Concentrazione nell’inquadratura, pochi ritocchi al computer, riduzione del superfluo per una maggiore attenzione ai particolari… i trucchi svelati
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Quel che resta della città Dallo scarto può prendere forma anche una città. Parigi, un tempo meta dei Grand Tour degli aristocratici e rinomata come capitale dei gourmet, è ora rappresentata (e costruita) tramite gli scarti prodotti dai suoi abitanti e raccolti dall’artista nelle strade e nei marciapiedi parigini. La serie di fotografie Paris Remains raffigura vedute della città che ripercorrono le fasi della pianificazione urbana. Ma più che il progresso si rappresenta qui il declino Gayle Chong Kwan
Non sprecare: almeno nel tuo frigorifero Qualcosa rimane. Non tutto il cibo può essere cucinato e consumato e molti prodotti alimentari vengono destinati alla discarica a ridosso della loro data di scadenza. Last Minute Market è il progetto che da sette anni insegna a rimettere in circolazione questa merce scartata ma ancora commestibile da destinare a mense pubbliche. Il messaggio è farci meno abbagliare da offerte speciali che lasciamo marcire in frigorifero: meno rifiuti, più civiltà. Il 2010 è l'anno della campagna europea Un anno contro lo spreco. Un'occasione davvero imperdibile Andrea Segrè
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Gayle Chong Kwan, 7.02, Paris Remains (series), 2008
È oramai necessario che la città e i suoi abitanti si rendano conto che le risorse sono limitate e che troppo spesso vengono sprecate, anche e soprattutto nelle aree urbane dove la concentrazione antropica è maggiore: nei negozi, nei centri commerciali, nei ristoranti, nelle farmacie, soprattutto nelle nostre case e in particolare nei nostri frigoriferi – i più grandi giacimenti di prodotti pronti per essere gettati via – ma ovunque in verità. Del resto, la merce prodotta e accumulata se non viene consumata deve essere in qualche modo eliminata, distrutta, al limite regalata, per fare posto agli altri prodotti che vengono continuamente ‘sfornati’ dal mercato stesso. Dove metteremmo altrimenti quelli nuovi? Lo spreco è un valore aggiunto del mercato,
ne fa parte: si accumula. Usa e getta, obsolescenza programmata sono ormai le parole d’ordine del nostro sistema produttivo. Che genera rifiuti, inquinamento, malessere, povertà. Cosa significa sprecare? “Consumare inutilmente, senza frutto; usare in modo che determinate qualità o quantità di una cosa vadano perdute o non vengano utilizzate”. Chiaro, ma non completo. Bisogna entrare nei particolari per capire meglio questo “consumare senza discernimento”. Sprecare, dunque sempre legato al verbo consumare, significa in particolare: “non utilizzare proficuamente o nel modo giusto”. Non a caso nella società contemporanea lo spreco costituisce sempre più spesso il frutto non tanto e non solo dell’eccessivo
consumo, quanto del mancato utilizzo di un determinato bene. Che invece potrebbe ancora essere usato, almeno da qualcuno: per vivere. Appunto: il ciclo di vita dei beni, e talvolta anche delle persone, è proprio breve. Brevissimo. Le ‘isole ecologiche’ come si chiamano oggi, invece che discariche, sono piene di prodotti di ogni genere ancora integri, commestibili o funzionanti, scartati a causa di qualche difetto del tutto irrilevante, oppure sacrificati per fare spazio al ‘nuovo che avanza’ nell’effimera civiltà dell’‘usa e getta’. È come a Leonia, una delle città invisibili di Italo Calvino dove “l’opulenza […] si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove”. Come ci ricorda Zygmunt Bauman, nella
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Gayle Chong Kwan, 7.21, Paris Remains (series), 2008
società consumistica è necessario scartare e sostituire: il consumismo, oltre ad essere un’economia dell’eccesso e dello spreco, è anche un’economia dell’illusione. L’illusione, come l’eccesso e lo spreco, non segnala un malfunzionamento dell’economia dei consumi. È al contrario, sintomo della sua buona salute, del suo essere sulla giusta rotta. Ed è segno distintivo dell’unico regime che può assicurare a una società dei consumatori la sopravvivenza. Oggi – è paradossale, ma è così – dobbiamo ‘sopravvivere al troppo’ o, in alcuni casi, al troppo poco. È il caso del cibo, ad esempio. Guardiamo dentro il nostro frigorifero, osserviamo il nostro comportamento di consumatori eccessivi e spreconi. Secondo alcune stime ogni nucleo familiare
italiano getterebbe via il 19% del pane, il 17% della frutta e della verdura, ogni anno 515 euro di prodotti alimentari su una spesa mensile di 450 euro, circa il 10%. Il fautore del ‘principio di sovrabbondanza’, Peter Sloterdijk, scriveva che: “Mentre per la tradizione lo spreco rappresentava il peccato per eccellenza contro lo spirito di sussistenza, perché metteva in gioco la riserva sempre insufficiente di mezzi di sopravvivenza, nell’era delle energie fossili si è realizzato intorno allo spreco un profondo cambiamento di senso: oggi si può dire che lo spreco è diventato il primo dovere civico. L’interdizione della frugalità ha sostituito l’interdizione dello spreco – questo significano i continui appelli a sostenere la domanda interna”. In realtà
l’obsolescenza programmata dei prodotti è uno dei principi dello spreco che perdura anche nel Ventunesimo secolo. Ma se adottiamo comportamenti che tendono a ridurre lo spreco ci indirizziamo verso una razionalizzazione del nostro stile di vita seguendo un’ottica pro-ambiente. Meno spreco vuol dire meno rifiuti, meno danni all’ambiente, meno inquinamento, insomma più ‘eco’. Ridurre lo spreco deve quindi divenire un imperativo ecologico, un diktat da seguire, che non ne porterà alla sua eliminazione ma sicuramente ad una sua contrazione, perché paradossalmente lo spreco, o almeno una sua parte, può fare del bene. Infatti lo spreco, ciò che si getta via, almeno in parte può essere utile, almeno per qualcuno. I prodotti invenduti
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Gayle Chong Kwan, 7.58, Paris Remains (series), 2008
possono essere considerati come una potenziale offerta di prodotti. Alla stessa stregua è possibile immaginare che vi possa essere una domanda inespressa proprio per quegli stessi prodotti. Pensiamo solo agli indigenti, consumatori senza potere di acquisto. Ecco un ossimoro: lo spreco utile. Ciò che per tanti è abbondanza, e quindi spreco, per qualcun altro è scarsità e quindi opportunità. Lo spreco può dunque trasformarsi in risorsa. E soprattutto può diventare il paradigma di una nuova società. È ciò che propone e fa concretamente Last Minute Market, spin off accademico dell’Alma Mater Studiorum, Università di Bologna. Un sistema di recupero dei beni invenduti auto sostenibile che coniuga, per davvero, solidarietà con sostenibilità.
Prolungare la vita dei beni vuol dire allungare anche quella di chi li utilizza: cestinare e distruggere i prodotti prima del loro uso o della loro fine naturale è un po’ come farli morire, e con loro eliminare le persone che invece potrebbero consumarli. Ma non basta. Perché l’equazione meno spreco più ecologia porta ad una nuova società. La società sufficiente dove abbastanza non è mai troppo, dove più non è sempre uguale a meglio, dove anzi si può fare di più con meno e, se necessario, anche meno con meno. È una società capace di sostituire, quando serve, il denaro (mercato) con l’atto del donare, e non soltanto perché si tratta di un anagramma: il dono porta alla relazione e alla reciprocità. È una società capace di prevenire la formazione di rifiuti
promuovendo nuovi stili di consumo e di vita. Ed è questo anche il senso della campagna europea Un anno contro lo spreco 2010, promossa da Last Minute Market con il Parlamento Europeo (Commissione Agricoltura), campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui temi legati allo spreco e alle modalità per ridurlo. Campagna che ha avuto una tappa importante a Torino Spiritualità il 25 settembre con una serie di azioni concrete contro lo spreco.
Info e approfondimenti Andrea Segrè, Lezioni di Ecostile. Consumare, crescere, vivere, Bruno Mondadori, Milano 2010. www.lastminutemarket.it www.unannocontrolospreco.org www.andreasegre.it
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Less is more La radio supera la sua cecità, scende in strada e sul web, va a teatro e diventa multimediale Gianluca Gobbi
“Qualcuno esiste solo se ha una funzione, e chi ne ha poca esiste poco. Questo principio fondamentale dell’arte, come dell’etica, si realizza alla radio più radicalmente che non sul palcoscenico”. Le parole di Rudolf Arnheim, autore de La radio, l’arte dell’ascolto a distanza di più di settant’anni sono attualissime per definire un medium dalla vitalità insopprimibile. In grado per lungo tempo di essere il primo mezzo di comunicazione di massa e di incassare come un boxeur esperto l’avvento della televisione che, come uno specchio irriverente, lo mette di fronte alla sua sottrazione di spazi e di forme espressive. Pur con i suoi limiti strutturali la radio gode di una libertà superiore a ogni altro mezzo di comunicazione, come rileva Guido Michelone nel suo saggio Dalla radiofonia alla radiodrammaturgia, perché esprime per intero la creatività, fornendo all’ascoltatore “l’oggetto e l’idea dell’oggetto, il reale e l’ipotetico”. Tra le sue caratteristiche, continua Michelone, spiccano “l’istantaneità e l’ubiquità”, perché non esiste “mediazione tra emittente e
recettore del messaggio, recepito simultaneamente in luoghi diversi anche tra loro lontanissimi”. McLuhan aggiunge l’intimità, dato che “la radiofonia tocca personalmente perché presenta un mondo di comunicazioni e sottintesi tra lo speaker e l’ascoltatore” e dunque “l’aspetto immediato della radio è questo: un’esperienza privata”. Tutti elementi che esaltano il desiderio del suo
pubblico così appassionato e fedele di concorrere al successo dei programmi, in particolare dalla seconda metà degli anni Settanta quando irrompe nell’etere la radiofonia ‘libera’, privata, commerciale che porta ad un aumento esponenziale delle voci e della tipologia di emittenti. Le radio generaliste accusano il colpo e sono costrette a reinventarsi dotandosi di nuovi linguaggi e
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aprendo i microfoni ai cittadini, sempre più desiderosi di essere parte integrante delle trasmissioni e non semplici ascoltatori. Negli ultimi quindici anni la presenza su larga scala del telefonino e la crescita di Internet si rivelano due straordinari propulsori per la radio, che può raggiungere chiunque in tempo reale sollecitando l’ospite anche sull’ultima notizia colta navigando in Rete e può intercettare facilmente le opinioni del pubblico. I siti delle emittenti si prestano ad integrare i servizi giornalistici con riprese e foto utilizzando il videofonino di ultima generazione con cui viene realizzata la corrispondenza in diretta radiofonica. Affiancando un articolo riassuntivo al podcast del pezzo appena andato in onda, la radio va incontro a chi non lo ha potuto ascoltare live e in un colpo solo è tv, medium digitale e giornale. Un’autentica rivincita: la concorrenza spietata delle immagini non è riuscita a mandare al tappeto un mezzo capace di resistere riappropriandosi della sua vera forza che, osserva Gianfranco Bettetini in La radio come mezzo
di comunicazione, consiste nel “felice compromesso tra la sua struttura tecnica, che la colloca nell’ambito dei mass-media, e la dimensione personalizzata degli scambi comunicativi”. La radio è un medium senza corpo che per muoversi nello spazio ha bisogno della complicità degli ascoltatori ai quali concede il privilegio di “liberare il proprio immaginario”, sintetizza Aldo Grasso, aggiungendo che “il suo carattere di astrattezza permette alla radio di creare i migliori mondi reali possibili, come un’arte nuova che comincia dove cessano il teatro, il cinema e la narrazione.” Fin dalla sua nascita questo mezzo deve costantemente fare i conti con la propria ‘cecità’ e con la sostanziale unidimensionalità, contrapposta alla tridimensionalità del teatro e alla bidimensionalità del cinema. Ma la radio sempre più spesso si fa ‘vedere’ dal suo pubblico quando non ha timore di lasciare le rassicuranti stanze insonorizzate e si fa carne per occupare uno spazio aperto come la piazza, in occasione di manifestazioni
o concerti. Una strategia efficace per cementare il rapporto con gli ascoltatori soddisfacendo le curiosità più impensabili, compresa la richiesta di appoggio a un referendum per reintrodurre con effetto immediato il potere d’acquisto della lira. Oppure può cogliere la straordinaria occasione di attrarre nuovi ascoltatori: è stato chiesto di trasferire il Fuori onda radiofonico di Radio Flash a teatro. Quattro magiche serate che hanno visto sullo stesso piano pubblico, ospiti e conduttore per contribuire alla nascita della ‘notizia’: prima il ruolo della donna nei media, poi la scuola “Stella” cadente?, Torino capitale europea dei giovani e il citizen journalism. Per un paio d’ore il tentativo di analizzare un fenomeno senza trucchi. Il sentimento di sincera riconoscenza dei partecipanti a questa sorta di agorà multimediale prova che a mettere in circolo le idee e ad ascoltare le osservazioni del Paese reale c’è soltanto da guadagnare. E che anche uscendo dai propri studi la radio può essere libera, ma libera veramente.
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Waiting for Water: fluire di acqua, fluire di genti L’acqua da risorsa sprecata a risorsa contesa. Da elemento di consumo quotidiano a fattore di controllo politico Walid Mawed
Nel mondo occidentale, in un anno, mediamente, una persona percorre 18.000 chilometri e consuma 110.000 litri d’acqua: come dire 6 litri per ogni chilometro percorso o un cucchiaino d’acqua ogni due passi. L’acqua si muove con le persone, dove si muovono le persone. L’acqua, fonte di vita per eccellenza, da risorsa preziosa diviene risorsa contesa, al punto di finire al centro di conflitti come quello israelo-palestinese: lo dimostra il fatto che, sottolinea Vandana Shiva, in Le guerre dell’acqua, “tra il 1967 e il 1982 le acque del West Bank e della striscia di Gaza sono state controllate dall’esercito” e che “i pozzi palestinesi non potevano essere più profondi di 140 metri, mentre i pozzi israeliani potevano raggiungere una profondità di 800 metri”. Ma prestiamo mai la necessaria attenzione a questa risorsa o la diamo piuttosto per scontata, quasi fosse una costante immutabile? Da queste riflessioni prende forma il progetto Waiting for Water, che attraverso azioni artistiche anticonvenzionali cerca di incidere sul nostro rapporto quotidiano con l’acqua per renderlo più rispettoso
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e consapevole, stimolando la crescita di una coscienza nuova, di una più diffusa consapevolezza delle problematiche connesse alla distribuzione, al controllo e all’impiego di questa risorsa. Il progetto, avviato nel 2004 durante la partecipazione ad Unidee, residence internazionale per creativi curato da Cittadellarte-Fondazione Pistoletto, si è concretizzato con l’installazione di ‘muri’ di tessuto nero sospesi sopra a fiumi, come sul Cervo a Biella, sulla Dora Baltea a Ivrea, sul Po a Torino per i Giochi Olimpici Invernali del 2006, sul Ledra a Gemona del Friuli o tesi in spazi urbani come a Messina o nel Quadrilatero Romano a Torino. Un ‘muro’ nero a bloccare visivamente il flusso dell’acqua, ad impedire la visione di parte del ‘paesaggio liquido’ abituale, a nascondere e trasformare in sorpresa quel flusso continuo che ci troviamo davanti abitualmente e che di conseguenza ci appare ovvio. Il nero, ‘non-colore’ potente ed invasivo, steso nel contesto naturale del letto di un fiume, rappresenta un puro elemento artificiale che ci costringe finalmente a prestare attenzione all’acqua, alla sua presenza naturale, resa solo presunta dalla barriera morbida imposta dall’installazione. Interpretando l’incessante mutamento dell’acqua – sia nella forma che nella funzione – attraverso il suo scorrere dalla sorgente al mare, parte del tessuto usato per le installazioni si trasforma nella Water Collection, una collezione di abiti ispirata ai vestiti semplici e funzionali delle portatrici d’acqua. L’ampio spettro delle attività sposta Waiting for Water dal terreno dei puri progetti artistici a quello della mobilitazione sociale, lo moltiplica e lo dissolve in un laboratorio aperto e collettivo, la cui forma è modellata insieme da una rete fluida di collaboratori – la watercollection.net – dalle reazioni e dai contributi del pubblico e poi ancora dalla continua azione delle forze naturali. I diversi interventi sono il prodotto di un ‘network instabile’ il cui proposito è restituire centralità all’acqua tanto nelle questioni socio-politiche, quanto nelle soluzioni proposte a tali questioni: l’acqua deve rimanere libera, poiché è la nostra stessa libertà possibile a riflettersi sulla sua superficie increspata.
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Una slow fotografa tra essenzialità e misura Intervista alla fotografa Bruna Biamino di Liana Pastorin
DOMANDA La fotografia ha sovente lo scopo di fissare un futuro ricordo, per non perdere la memoria di un luogo o un momento particolare. Come si è modificata questa pratica con l’introduzione delle macchine digitali e con l’abuso, per così dire, di scatti fotografici? RISPOSTA La fotografia ha avuto un enorme cambiamento passando dalla modalità tradizionale al digitale, innovazione che, per certi versi, è stata molto utile per quei professionisti, come i fotografi di architettura, che sono facilitati nella risoluzione di alcuni problemi, come l’eliminazione di elementi di disturbo nello scatto di un’architettura che si vuole isolata, neutra, corretta poi in Photoshop. L’utilizzo della pellicola piana 20x25, o anche di quella a rullo 6x9, il grande o il medio formato, necessitavano di un banco ottico e di grande attenzione e tempo da dedicare all’inquadratura per ottenere l’effetto desiderato. Il digitale ‘fintamente’ non costa nulla: non c’è il costo della pellicola, è vero, ma gli scatti sono molti di più perché viene a mancare quella concentrazione richiesta
dalla modalità tradizionale e si investono molte ore per il ritocco al computer. Il mio lavoro è essenzialmente sull’architettura e sul paesaggio. Normalmente non opero ritocchi importanti né numerosi perché sono convinta che il computer sia uno strumento utile ma che debba essere utilizzato con assoluta misura. D Il troppo distrae, è ridondante e non aiuta il ricordo, non stimola la memoria. Da alcuni anni conduci uno studio sui deserti medio-orientali, con l’obiettivo di fissare l’essenzialità di quei luoghi. Ma operare per sottrazione non è un metodo per modificare la realtà? R Paesaggi simbolici non è il mio primo lavoro personale, ma è certamente quello che mi ha permesso di coagulare una serie di esperienze e di riflessioni, perché ho acquisito maggiore consapevolezza, anche a seguito di un’esperienza che mi ha obbligato ad una riflessione più profonda sull’esistenza. Questo progetto è iniziato nel 2007 quando mi trovavo a Gerusalemme per raccontare il Barocco piemontese, e decisi di ritornare nei deserti medio-orientali, in Giordania, in Marocco,
in Tunisia e riprendere un progetto che avevo abbozzato tempo prima. In Israele ho trovato un valore della realtà che corrisponde al mio sentirmi a casa. Sono paesaggi che hanno 3 o 4 colori, non di più, e che nella mia fotografia cerco di bilanciare e raccontare non tanto per rappresentare ciò che ho visto ma ciò che ho provato nel guardarli. Le mie riprese sono sempre più panoramiche, meno concentrate su un soggetto in particolare, bensì cercano di cogliere un colore, una sensazione, uno stato emotivo. In fase di elaborazione tolgo sostanza al colore per lasciare l’essenza. I miei deserti non hanno nulla di esotico: riprendo dagli scavi romani ai parcheggi d’auto, la dimensione del deserto ma non l’epica del Sahara, tracce storiche o scoperte in cui mi sono imbattuta, cogliendo magari un piccolo particolare annegato in un più grande contesto, che riporto all’attenzione di chi guarda. Manipolo la realtà ma con la convinzione che il togliere porti a scoprire e a comprendere il vero spirito di un luogo. D Sei stata ispirata da autori di romanzi o dal cinema o questa tua tensione ha
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Neghev1, 2007 stampa getto inchiostro cm 100x150
a che fare anche con un’insoddisfazione del nostro modo di vivere superficiale e consumistico? R Il cinema mi ha ispirato molto di meno di alcuni testi che hanno al contrario stimolato la mia immaginazione. I miei primi lavori erano in bianco e nero e risentivano della folgorazione che avevo subito dalla descrizione di interni dei romanzi di alcuni scrittori russi ed ebrei di fine Ottocento e inizi Novecento, come Bruno Schulz, autore di Le botteghe color cannella, o Sin-
ger oppure Jiri Langer. Andando avanti con la ricerca, spostandomi dagli interni agli esterni e ai paesaggi, mi sono accorta della necessità di trovare un punto centrale per riuscire a raccontare una storia. I paesaggi urbani sono di fatto dei racconti in cui ho cercato di catturare l’essenzialità procedendo a togliere il più possibile il superfluo, quello cioè che, a mio avviso, non è indispensabile per restituirne lo spirito. Credo però che questo mio modo di operare abbia anche a che fare con una
certa reazione a questo mondo così soffocato dalle cose. Abbiamo molto, troppo e non nascondo di aver provato anche recentemente un senso di colpa nell’acquistare un altro pullover. Non ne avevo davvero bisogno. D Hai un tuo profilo su Facebook e usi in generale i social network? Come ti rapporti con la velocità della contemporaneità nei rapporti personali e nel lavoro? R Mi capita di incontrare occasionalmente e di fare quindi una conoscenza superfi-
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DeadSea7, 2008 stampa getto inchiostro cm 100x150
ciale di numerose persone e ciò mi lascia insoddisfatta, non ritrovo tracce in me di quegli sporadici accadimenti. Preferisco guardare le persone in faccia. Mi sento un po’ in controtendenza e mi definisco una fotografa ‘slow’: l’attenzione e l’intensità della concentrazione e il senso della misura sono i fattori che più mi interessano. Infatti non ho sempre con me la macchina fotografica, ma un quaderno per scrivere: è per me un ottimo esercizio guardare e prendermi il tempo per riflettere senza
avere l’urgenza dello scatto. La fotografia è un modo straordinario di vivere, incontrare persone e stringere amicizia anche con le persone con cui si lavora. D Qual è il tuo rapporto con l’architettura? R Come quello di Nanni Moretti in Caro Diario: vorrei vedere solo fotografie di facciate di edifici. Cammino sempre a naso in su perché il paesaggio urbano è una continua sorpresa, una continua tensione e a differenza del paesaggio ambientale
non puoi mai sapere se ti farà sentire in armonia con te stesso. Scatto sempre avendo un progetto ben chiaro in testa e riflettendo su ciò che sto per fare. D Qual è stata la tua occasione perduta, la fotografia che avresti voluto fare e non hai mai scattato? R Avrei voluto fotografare tutte le stanze degli alberghi in cui ho soggiornato nella mia vita. Le avrei riprese tutte dallo stesso punto di vista. Sono dei mondi ognuno a sé stante.
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Timna5, 2008 stampa getto inchiostro cm 100x150
D Che cosa ti sei ripromessa di fare nel prossimo futuro? R A Gerusalemme un professore dell’università mi ha fatto visitare la città dalle terrazze delle case. Un punto di vista inusuale e affascinante. Mi piacerebbe fare un corso per imparare a praticare il parkour e godere così in modo giocoso di prospettive inaspettate della città. Sicuramente allargherò i deserti del mio progetto a luoghi più epici e meno circoscritti, come il Mali, la Mauritania, la Namibia.
D La fotografia può essere un’esperienza multisensoriale? R La campagna fotografica sui Luoghi dello spirito, esposta nel 1998 all’Accademia Albertina in cui il mio tema erano i paesaggi sulle acque, e quella del 2003 della Darc, che mi aveva destinato come tema la Versilia mi hanno aiutato a identificare più precisamente ciò che mi interessava dei paesaggi e ho cercato di affinare una sensibilità nel trasferire odori e colori dell’infanzia nel racconto
fotografico. La luce e il colore dell’aria, l’afa e i cieli bianchi per il troppo calore: ciò che ho ricreato con la fotografia dava un’immagine alla ‘calura’, un termine che porta in sé più di una sensazione. Paradossalmente lavoravo di più in quel periodo perché trascorrevo molto tempo in camera oscura per ricreare certe atmosfere, certe luci, che non adesso, poiché il paesaggio del deserto che ho finalmente trovato corrisponde perfettamente a ciò che stavo cercando.
Roundabout
Il Vuoto Riflessioni sullo spazio in architettura
di Yona Friedman
Manifesto per la felicità. Come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere
Marinotti Edizioni, 2004 pp. 240 | € 16.00 ISBN 9788882730567
Bollati Boringhieri, Temi 188 pp. 208 | € 16,00 ISBN 9788833920115
Donzelli Editore, Saggine, 2010 pp. XIV-306 | € 18.00 ISBN 9788860364579
Il saggio indaga il vuoto sia come concetto assoluto (la mancanza), sia nella sua concretezza materiale (spaziale, architettonica). Come contrappunto alla rigorosa struttura della trattazione, questa duplicità analitica è testimoniata da una certa libertà di associazione di opere appartenenti a tempi e luoghi distanti tra loro, in cui il vuoto si manifesta di volta in volta come assenza (nelle stanze vuote dipinte da Van Gogh o da Hopper), simbolo (nel palazzo di Cnosso), rinuncia (nelle architetture di Mies van der Rohe), destino (nella dottrina taoista) o riflesso di uno stato d’animo (nelle incisioni di Piranesi). Considerare il vuoto nella sua fisicità presuppone forse un approccio distante dalla nostra sensibilità: mentre in Oriente il concetto di vuoto, profondamente radicato nella cultura e nel sentire comune, è punto di partenza ed attivo strumento progettuale (nella casa giapponese così come nel giardino zen), in Occidente il vuoto diviene un utile momento di lettura ed analisi (della polis greca od anche dell’architettura moderna), ma non solo. Il vuoto in architettura, garante di senso e strumento compositivo, funziona anche da stimolatore emozionale: solo per fare un esempio, forse è proprio la perfetta e densa vacuità dello spazio interno del Pantheon che continua a meravigliarci a duemila anni dalla sua costruzione.
A chi spetta il diritto di decidere in materia di architettura? Come assicurare questo diritto alle persone cui esso spetta? Come farlo in un mondo che va verso una povertà crescente? Come sopravvivere in tale mondo? Di fronte agli attuali problemi di impoverimento e di esaurimento delle scorte diventa indispensabile un’architettura ‘povera’ che riscopra i valori naturali e le tecniche compatibili con un modo di vita più sobrio. Risponde a queste esigenze l’architettura di sopravvivenza. Essa, a differenza dell’architettura classica che mira a trasformare il mondo per renderlo favorevole all’uomo, cerca di limitare le trasformazioni conservando solo le più necessarie perché l’uomo sia in grado di sopravvivere in condizioni sufficientemente favorevoli. In altre parole, l’architettura classica trasforma le cose per adeguarle all’uso umano, mentre l’architettura di sopravvivenza prova a trasformare il modo in cui l’uomo impiega le cose esistenti.
Viviamo in Paesi ricchi, ci siamo affrancati dalla povertà di massa e abbiamo accesso ai beni di consumo, all’istruzione, alla sanità, a una vita più lunga e sana. Siamo più ricchi di beni e sempre più poveri di relazioni. Ecco perché siamo sempre più infelici. Ma davvero per divenire più ricchi economicamente dobbiamo per forza essere poveri di relazioni interpersonali, di benessere, di tempo, di ambiente naturale? Davvero non esiste un’altra strada? Parte da queste basilari domande l’analisi e la proposta di un economista che da anni studia il tema della felicità nelle società avanzate. Perché i Paesi ricchi non sono riusciti e non riescono a coniugare sviluppo economico e benessere? Il cuore del problema è che lo sviluppo economico si è accompagnato a un progressivo impoverimento delle nostre relazioni affettive e sociali. Questo tipo di sviluppo non solo non produce benessere ma crea anche enormi rischi per la stabilità economica, come la crisi attuale dimostra. Essa infatti è il prodotto di un’organizzazione sociale che genera la desertificazione delle relazioni umane. Ecco dunque perché il nostro sistema economico e molti aspetti della nostra esperienza sia individuale che collettiva – la famiglia, il lavoro, i media, la vita urbana, la scuola, la sanità – hanno bisogno di un profondo cambiamento culturale e organizzativo. Cambiare la scuola. Cambiare le città. Cambiare lo spazio urbano. Ridurre il traffico. Ridurre la pubblicità. Sono alcune delle proposte concrete che compongono un vero e proprio manifesto per la felicità.
di Fernando Espuelas
Fernando Espuelas, laureatosi in architettura nel 1978 è attualmente preside della Facoltà di Architettura dell’Università Europea di Madrid, a cui affianca la pratica progettuale; tra le sue ultime opere l’auditorium e la biblioteca a Colmenar Viejo e la biblioteca a El Escorial.
L’architettura di sopravvivenza Una filosofia della povertà
Yona Friedman è nato a Budapest nel 1923. Vive e lavora a Parigi. Ha insegnato presso diverse università americane e collaborato con le Nazioni Unite e l’Unesco.
di Stefano Bartolini
Stefano Bartolini insegna Economia politica ed Economia sociale presso la Facoltà di Economia Richard M. Goodwin dell’Università di Siena. Ha pubblicato numerosi saggi sulle più prestigiose riviste internazionali.
Martha
Promises Written in the Water
The Forgotten Space
anno: 2010 regia: Marcelino Islas Hernández cast: Magda Vizcaino, Leticia Gómez, Penélope Hernández, Raúl Adalid, Ismena Romero, Berenice Avilés durata: 77' origine: Messico produzione: Zamora Films
anno: 2010 regia: Vincent Gallo cast: Vincent Gallo, Delfine Bafort, Sage Stallone, Lisa Love durata: 75’ origine: Usa produzione: Gray Daisy Film
anno: 2010 regia: Allan Sakula & Noël Burch durata: 112' origine: Olanda/Austria produzione: WILDart Film, DocEye Film
Una remota Città del Messico, in cui Martha, impiegata da trent'anni come archivista in una compagnia di assicurazione, viene licenziata e sostituita da una ragazza più giovane e da un computer. Settantacinquenne e sola, Martha subisce un vero e proprio shock: le giornate scandite dal lavoro d'ufficio si svuotano e non bastano le cure che presta presso un'anziana signora a sollevarla dal senso di fallimento. Quando anche l'unica amica lascia la città per trasferirsi in campagna, il dolore di Martha si fa più acuto: decide di lavorare ancora per un'ultima settimana prima di togliersi la vita. Il Destino ha però per lei pronte nuove sorprese. Quando si capisce che si sta arrivando alla fine? Il licenziamento, il distacco dalle persone care, la scoperta improvvisa della solitudine. Lenti movimenti catturano un universo urbano chiuso e claustrofobico, dalla drammaticità a volte grottesca, a volte surreale, in cui Martha diventa il paradigma del declino fisico e mentale, ma anche di un improvviso vigore quando si renderà conto che sarà stata la morte ad essersi fatta beffa di lei e che lo spazio sta per aprirsi di nuovo.
Terzo film firmato, scritto, montato, musicato e prodotto da Vincent Gallo. Una volontà forse narcisistica, ma precisa di procedere per sottrazione, per realizzare un film scarno che abbatte ogni eccesso narrativo e produttivo e che apre a diversi strati di lettura. Una ragazza in fase terminale e un fotografo che accetta di prendersi cura di lei per evitarle del dolore; per esaudire il suo desiderio di essere cremata, trova lavoro in un'agenzia di pompe funebri. L'esplorazione del corpo della ragazza procede per sezioni, quadri fotografici, parti viste con sguardo anatomopatologico che si trasformano in metafora di un cinema che non esiste più (il cinema di Cassavetes ad esempio), che rimandano ad una bellezza visiva persa per sempre e che uniscono di colpo, inaspettatamente, due cadaveri. Un grande film, una regia superba, una bomba non implosa nell'incapacità di riuscire a gridare il dolore e la disperazione dell'esistenza umana, nell'impossibilità di poter affermare che il cinema esiste e non è perduto per sempre.
Un film saggio dalla forte potenza visiva su uno dei più importanti processi economici che affliggono oggi il mondo, alla ricerca delle ragioni per comprendere e descrivere il traffico marittimo contemporaneo in relazione con le complesse e solo simboliche leggi del mare. Grande quantità di materiale di repertorio: interviste, immagini d'archivio, clip da vecchi film. I container a bordo di navi, chiatte, treni e camion; interventi dei lavoratori, tecnici, progettisti, politici e quelli che vengono marginalizzati dal sistema globale dei trasporti. Visite presso agricoltori costretti ad abbandonare la propria terra in Olanda e Belgio, camionisti sottopagati a Los Angeles, marinai a bordo di meganavi che fanno la spola tra l’Asia e l’Europa e operai cinesi, i cui salari bassi sono la fragile chiave dell’intero rebus. A Bilbao, scopriamo l’espressione più sofisticata dell’idea che l’economia marittima, e il mare stesso, sono in qualche modo obsoleti. Si cercano e si tentano soluzioni di recupero: ma si può andare avanti senza o contro la forza del mare?
www.vimeo.com/13836514
www.promiseswritteninwater.com
www.theforgottenspace.net
Fotobook 2010 Un’idea di fotografia democratica
Prosegue il dialogo per immagini iniziato negli scorsi numeri di TAO. Come accaduto per Carlotta Maitland Smith e per Mauro Guglielminotti, anche in questo numero le immagini che illustrano le aperture di sezione sono state scelte a partire da un unico progetto fotografico. Questa volta, però, non si tratta di un unico autore: l’occasione è venuta dal progetto Fotobook curato da Elisa Bozzi e Roberto Dassoni della galleria Biffi Arte Fotografia e Video di Piacenza: 30 artisti che hanno lavorato su cinque temi predefiniti che vanno dal macro al micro. In my world, In my land, In my town, In my house, In my hand: i fotografi hanno sviluppato questi temi seguendo la loro sensibilità, realizzando una carrellata di scatti molto diversi fra loro che hanno dato vita a numerose personali e che sono stati riuniti in un unico catalogo. Paolo Barbaro, responsabile delle raccolte fotografiche dello CSAC di Parma, racconta il progetto: “Per dare una struttura a trenta storie, a trenta sguardi diversi, i curatori si sono affidati a metafore molto fotografiche, anzi prospettiche: la prossimità e la distanza, dallo spazio esterno più ampio, quello del mondo visibile, a quello della propria terra, e poi della propria città, della propria casa, fino a quello intimo, nelle proprie mani. Ogni autore ha scelto tre opere, aderendo liberamente alla dimensione ‘prospettica’ ritenuta congeniale, e di queste ha disposto la stampa e la dimensione visibile nel progetto”. TAO si appropria di tre di questi ‘sguardi’: quello di Matteo Ghisalberti, per il taglio e l’‘assenza’, illustra la sezione Sottrazione; quello di Gloria Pasetto, che inquadra una sovrapposizione di piani e di comunicazione, è stato scelto per l’apertura di Moltiplicazione; quello di Arianna Tagliaferri ‘aggiunge’ una possibilità di visione e apre dunque la sezione Addizione. Tutti gli scatti di Fotobook 2010 rimarranno visibili alla galleria Biffi Arte fino alla fine dell’anno e poi lasceranno il posto a nuovi autori e nuove fotografie, sempre nel rispetto di un’idea democratica di fotografia, proposta ad un prezzo popolare per favorire la diffusione delle immagini. L’idea di fotografia democratica nasce dalla volontà di sottrarsi alle logiche di mercato e di dare la possibilità a fotografi di talento di poter proporre i loro lavori abbattendo i costi di stampa e di promozione. www.fotobook.biz