INTERVISTA A VELASCO VITALI
13 NOVEMBRE 2019
A cura di Lorenzo Vanda
L’ABUSO IN ARTE VA RICERCATO LORENZO VANDA: Quando ho visitato la Reggia di Venaria in occasione di Branco (2019), mi sono ritrovato circondato da una decina di bambini che correvano come forsennati intorno alle sculture, quasi desiderando di farsi inseguire dai cani, invece immobili; avevano trasformato un branco di cani randagi in amorevoli cani da campagna. D’un tratto i bambini hanno iniziato ad assalire le opere, chi sopra a cavalcioni, chi lasciandosi scivolare sul dorso; parliamo di vandalismo o di un atto di scoperta ed interazione con l’opera d’arte? VELASCO VITALI: Già all’Isola Madre mi era capitato di assistere a scene di questo tipo, con la differenza che si trattava di pesanti anziane al galoppo dei miei cani, quindi, che lo facciano dei bambini, mi turba meno. Da un certo punto di vista fa anche piacere: significa che la struttura è resistente. Essendo le opere assicurate, la cosa che più mi preoccupa in queste situazioni è che nessuno si faccia male, anche perché si tratta di sculture pericolose, spesso fatte di ferro arrugginito. Quando un’opera viene posizionata in un luogo pubblico, diventa pubblica e quindi viene talvolta contaminata, talvolta presa a calci. Effettivamente ci sono opere che invitano al tatto più di altre ed io stesso ricordo di avere fatto suonare l’allarme di un museo toccando con le mani due belle aringhe di Van Gogh, attratto dalla materia con cui erano dipinte. È altrettanto vero che se chiunque mettesse il proprio dito su quelle aringhe, da bianche diventerebbero nere.
LV: In quell’istante una persona che mi accompagnava si è catapultata verso una delle madri dicendo: “Signora, questo non è un parco giochi, è un’opera d’arte!”. I bambini sono scesi immediatamente dalla groppa dei cani. Questa frase mi ha dato molto da pensare, perché effettivamente, in qualche modo, l’opera d’arte aveva fatto giocare anche me, assumendo una nuova connotazione, un nuovo significato, un nuovo potere. VV: Mi auguro che l’opera d’arte sia un parco giochi, un parco giochi per la mente. Il tuo racconto dei bambini è molto bello perché spiega come, solo nel momento in cui ci si mette in rapporto con il diverso, si apre un dialogo e si prende confidenza, il nemico diventa amico; e così, i cani randagi si trasformano in compagni di giochi dei bambini. Questo è Branco. Troppo spesso i miei cani vengono interpretati come migliori amici dell’uomo, ma sono stati realizzati esattamente con il significato opposto. Rappresentano un momento preciso della mia vita, quando tutt’intorno al mio studio in Sicilia, ogni sera, mi trovavo circondato da un branco di cani randagi; ciò era per me un elemento di inquietudine, di terrore, di interrogazione e ho capito che quella necessità di avvicinarsi, di socializzare, di sfamarsi, di sbranare, di aggredire e di vivere un territorio, fosse lo stesso identico comportamento che ha l’uomo nell’occupare uno spazio, secondo le proprie esigenze e modalità. È stato in quel momento che ho sentito il bisogno di realizzare i cani, avvicinandomi per la prima volta alla scultura.
LV: Immagino che di questo abuso abbia risentito fortemente anche lo spazio di lavoro: la scultura ha delle richieste tecniche ben differenti da quelle della pittura. In che modo si è trasformato, da allora, il lavoro in studio?
LV: La scultura è arrivata quindi come necessità? VV: Volevo assolutamente realizzare i cani, ma, confrontandomi con amici scultori, mi rendevo conto di quanto fosse tutto così complicato. In quel periodo stavo lavorando alla serie Serre, sul tema dell’abusivismo edilizio in Sicilia; quell’anarchia nel costruire mi aiutò ad individuare una scorciatoia per realizzare i miei cani e allo stesso tempo un modo per caricarli di quel senso che il branco doveva avere. Allora il ferro, il tondino, la rete, il cemento rapido, il piombo e il catrame, che sono i materiali di cui si serve l’abusivismo edilizio, erano esattamente ciò di cui avevo bisogno per i miei cani. La cosa che mi piace dire è che la scultura è arrivata in maniera abusiva; l’abuso in architettura è un reato, mentre in arte è un grande vantaggio: quasi quasi, l’abuso va ricercato. Io, come nel resto, non l’ho cercato: l’esigenza ha fatto sì che io abusassi.
VV: La scultura ha sempre bisogno di una forza e di un’energia che la pittura non richiede.In ognuno dei miei studi ho tutti i materiali che mi servono per dipingere. Scolpire e modellare è decisamente più complesso. L’unico studio in cui avevo l’officina era quello di Bellano, ma ho dovuto rinunciarci e scindere inevitabilmente le due pratiche: la scultura è invasiva e tende a prendersi tutto. Da allora realizzo le opere principalmente in fonderia, dove posso godere di un valore aggiunto fondamentale in tutto il mio lavoro: quello degli artigiani. La condivisione dei saperi in fonderia ha stravolto il mio approccio alla creazione.
LV: Quando il Branco è arrivato a Milano nel 2010 ha attirato l’attenzione dell’ex ministro Matteo Salvini, che ha ironizzato “Il gran finale di questa mostra potrebbe essere una gigante cacca di cane davanti al nuovo Museo del Novecento. Per un’opera del genere chiamerei non solo Vitali, ma anche Cattelan, così tutto il mondo potrà parlare nuovamente di Milano”1. Effettivamente, nell’ultimo decennio, di Milano e di arte a Milano si è iniziato a parlare tanto. Ci stiamo forse avviando verso una nuova epoca d’oro per l’arte milanese, come quella che ha generato Fontana e Manzoni? VV: Devo ammettere che fu il migliore critico, colui che fece, in parte, la fortuna della mostra a Palazzo Reale. Che gli artisti stiano vivendo di un'energia poetica identica a quella degli anni che hanno generato Fontana ho decisamente qualche dubbio. La mia generazione è stata, ed è tuttora, accusata di non aver dato quello che hanno dato i nostri padri, di non avere avuto presa, di non aver detto qualcosa di nuovo, rivoluzionario, fondamentale. Effettivamente non abbiamo un Fontana che ci rappresenti; forse (per l’appunto) Cattelan, tra l’altro della Vergine e del 1960 come me. Ho sempre però fatto questa considerazione: un contemporaneo di Cezanne non avrebbe mai pensato che lui fosse la sintesi dell’impressionismo e il generatore del cubismo. Secondo me alcuni di noi, dico della mia generazione, perlomeno a Milano, hanno avuto il compito di essere dei traghettatori. Gli elementi di transizione sono assolutamente fondamentali. Raccolgono alcuni codici e li trasferiscono. È necessario, in alcune fasi della storia, un momento di transizione, e quindi necessari artisti che sappiano consciamente essere il veicolo che congiunge due mondi, due strade. Se Milano adesso è così, potrebbe esserlo perché ci son state delle forze che l’han condotta qui; quindi, magari, anche a livello artistico, rivederla sotto quell’aspetto non sarebbe male, e allora forse scopri qualcosa, un modo di vedere le cose diverso da quello canonico.
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Rossella Verga, La canoa sbarca in Centrale, in "Corriere della Sera", 30 ottobre 2010