UNA E TRE SEDIE:
MA QUALE SEDIA?
LA RAPPRESENTAZIONE NELL’ARTE CONCETTUALE
a cura di Lorenzo Vanda
Matr. N. 102834
Filosofia dell’Arte
Corso di Laurea Magistrale in
Arte, Valorizzazione e Mercato
Università IULM
A.A. 2020-2021
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INDICE
Introduzione
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Una e tre sedie
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Il significato dell’arte concettuale
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Ma quale sedia?
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Tre eroi e tre sedie
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Appendice fotografica
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Bibliografia
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INTRODUZIONE
Joseph Kosuth (Toledo, 1945) è un’artista americano, considerato uno dei pionieri dell'arte concettuale. La sua ricerca pluridecennale sul ruolo del linguaggio e del suo significato nell'arte ha assunto la forma di installazioni, mostre museali, commissioni pubbliche e pubblicazioni. Presente a nove edizioni della Biennale di Venezia e a sette di Documenta, il lavoro di Kosuth è stato fondamentale per lo sviluppo dell’arte concettuale e dell’arte povera. One and Three Objects/Subjects è la prima serie di lavori dell’artista, realizzata a soli vent’anni, in cui mostra un soggetto - che sia una sedia, un cappello, una lampada o addirittura un cactus - affiancato dalla sua riproduzione fotografica e dalla sua definizione da dizionario.
Questo testo si propone di analizzare il tema della rappresentazione e dell’imitazione attraverso la lente dell’arte concettuale, e più in particolare di uno dei lavori di Kosuth, per arrivare a dimostrare come questo abbia scavalcato i confini dell’arte plastica esposti da Lessing nel Laocoonte.
Il lavoro in questione è One and Three Chairs, la prima e la più rappresentativa delle opere della serie sopracitata, e il primo capitolo si sofferma proprio su questo, illustrandone i dettagli. Il secondo capitolo entra invece nella poetica di Kosuth e del significato dell’arte concettuale attraverso una raccolta di saggi scritti dall’artista stesso tra il 1969 e il 1987. Il terzo capitolo prova a restituire alcune diverse letture di One and Three Chairs, attingendo dalla filosofia classica alla vita quotidiana, provando a rispondere alla domanda: ma quale sedia? Se una risposta a questa domanda forse non esiste, le riflessioni che ne derivano potrebbero essere considerate il motore del lavoro stesso di Kosuth.
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UNA E TRE SEDIE
New York, 1965. Il ventenne Joseph Kosuth, appena trasferito nella Grande Mela per frequentare la School of Visual Art, dopo una serie di viaggi tra l’Europa e il Nord Africa, realizza una delle opere manifesto dell’arte concettuale: One and Three Chairs1. Kosuth mette a confronto tre situazioni linguisticamente legate: una sedia pieghevole in legno al centro, la sua rappresentazione fotografica in scala 1:1 a sinistra, l’ingrandimento della definizione di “sedia”, presa da un dizionario di lingua inglese, a destra. La fotografia ritrae la sedia come effettivamente questa è installata nello spazio espositivo, e quindi l’opera cambia ogni volta che viene installata in una nuova sede. Esclusivamente due elementi del lavoro rimangono costanti: l’ingrandimento della definizione del dizionario della parola "sedia" e un diagramma con le istruzioni per l’installazione, entrambi firmati dall'artista. Il programma di installazione dà indicazioni ben precise: scegliere una sedia, porla davanti a un muro e scattare una fotografia. Questa deve essere poi stampata con le dimensioni reali della sedia e posta sulla parete a sinistra di questa. Infine la copia della definizione del dizionario deve essere appesa alla destra della sedia, con il bordo superiore allineato a quello della fotografia2.
Kosuth non ha realizzato la sedia, non ha scattato la fotografia e non ha scritto la definizione; li ha selezionati e assemblati insieme. Si tratta di una delle prime opere nel cammino verso la dematerializzazione dell’arte, nella quale, per citare Sol LeWitt, «l’idea o concetto è l’aspetto più importante del lavoro»3, per la 1
Joseph Kosuth, One and Three Chairs, 1965, Museum of Modern Art, New York
Hans Dickel, Die Sammlung Paul Maenz. Neues Museum Weimar, Berlino, Hatje Cantz Verlag, 1999. p. 82 2
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Sol LeWitt in Marco Meneguzzo, Il Novecento - Arte contemporanea, Milano, Electa, 2005. p. 60 7
quale tutte le programmazioni e le decisioni sono stabilite in anticipo, considerando l’esecuzione una mera «faccenda meccanica»4. In One and Three Chairs l’aspetto visivo non scompare del tutto: Kosuth non intende infatti abbandonare il linguaggio dell’arte per arrivare, per esempio, a quello della linguistica; vuole piuttosto sperimentare il limite cui può giungere il concetto di “arte”.
Esplicito è il riferimento che l’artista fa a Wittgenstein - al quale dedica nel 1990 la mostra The Play of the Unsayable: Ludwig Wittgenstein and the Art of the 20th Century al Palazzo della Secessione di Vienna e al Palais des Beaux Arts, Bruxelles - e in particolare alla Teoria dei giochi linguistici, espressa dall’autore austriaco nelle Ricerche filosofiche5.
Altrettanto evidente è la lettura di Kosuth del Libro Decimo de La Repubblica di Platone (di cui si tratterà meglio nel capitolo Ma quale sedia?).
Ciò che rimane comune nelle interpretazioni di One and Three Chairs è il rapporto tra linguaggio, immagine e referente e di come l’obiettivo di Kosuth sia quello di mettere in discussione le relazioni tra gli oggetti, i riferimenti visivi e quelli verbali.
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ibidem
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Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 2009 8
IL SIGNIFICATO DELL’ARTE CONCETTUALE
Nel 1987 la casa editrice Costa & Nolan pubblica una raccolta degli scritti teorico-programmatici di Kosuth in un libro intitolato L’arte dopo la filosofia - Il significato dell’arte concettuale6: dieci testi, scritti tra il 1969 e il 1987 in cui l’artista americano presenta l’evoluzione delle sue ricerche e del suo modus operandi. Con questo titolo Kosuth vuole chiarire la sua convinzione di come l’arte sia generatrice di significati, ma che trovi posto solo dopo la filosofia. Essere un artista oggi vuol quindi dire mettere in discussione la natura dell’arte7.
Kosuth trova il suo “padre spirituale” in Marcel Duchamp, a cui attribuisce il merito di aver dato all’arte la sua identità: se è possibile rilevare una tendenza all’autoidentificazione dell’arte fin da Manet, è solo con il ready-made di Duchamp che si iniziò a «parlare un’altra lingua», mutando la natura dell’arte da una questione morfologica ad una funzionale; da quel momento in poi l’arte spostava il proprio obiettivo dalla forma del linguaggio al contenuto8.
In Francia c’è un vecchio detto, “stupido come un pittore”. Il pittore veniva considerato stupido mentre il poeta e lo scrittore erano ritenuti molto intelligenti. Volevo essere intelligente. Dovevo avere l’idea di inventare. Non vale nulla fare quello che aveva già fatto tuo padre. Non vale nulla essere un altro Cézanne9.
Joseph Kosuth, L’arte dopo la filosofia - Il significato dell’arte concettuale, Genova, Costa & Nolan, 1987 6
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ivi, p. 24
8
ivi, p. 25
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ivi, p.32 9
Nel testo Kosuth si scaglia più volte contro la pittura e il modernismo formalista proposto da Clement Greenberg (che in un intervista del 2017 paragona a Trump10), a favore di un ribaltamento del concetto di “arte”.
Kosuth, nel definire le tre aree di ricerca dell’attività artistica americana all’inizio degli anni Settanta (estetica, reattiva e concettuale), scrive come quella estetica, o “formalista”, rappresenta «la nozione generale di arte così come viene considerata dalla maggioranza del pubblico dei non addetti ai lavori» dove «il ruolo dell’artista non è dissimile da quello del valletto che assiste il suo padrone nel tiro al bersaglio: consiste nel lanciare in aria i piattelli di argilla usati come bersagli»11. L’artista “formalista” (che Kosuth chiama “Greenberger”) viene escluso dall’attività artistica, non partecipando in alcun modo «all’impegno concettuale necessario alla “costruzione” della proposizione artistica» che è invece competenza del critico12. L’arte estetica si rende in tal modo «parallela (e competitiva) alle fonti naturali delle esperienze visive»13. L’unico modo in cui la pittura e la scultura possano funzionare come arte è quello di impegnarsi nella presentazione di un’idea o di un concetto, e non nella rappresentazione di qualcosa.
Dopo l’arte estetica, Kosuth passa a quella reattiva che definisce «il cumulo di rifiuti delle idee artistiche del ventesimo secolo»14, per concludere con quella concettuale, che definisce «l’arte basata sull’indagine dentro la natura dell’arte»15. Non costituisce solo l’attività volta alla costruzione di proposizione artistiche, bensì un elaborare e mettere in luce tutte le implicazioni di tutti gli aspetti del concetto “arte”.
Joseph Kosuth intervistato da Askanews, 24 novembre 2017: http://www.askanews.it/cultura/ 2017/11/24/joseph-kosuth-e-i-neon-artista-e-curatore-sono-la-stessa-cosapn_20171124_00159/ 10
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Kosuth, 1987. p. 41
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ibidem
13
ibidem
14
Kosuth, 1987. p. 42
15
ivi, p.43 10
Nell’arte precedente un intermediario (il critico) appariva utile a causa dell’implicita dualità di percezione e concezione. L’arte concettuale annette a sé le funzioni del critico rendendo superfluo l’intermediario. L’altro sistema, quello di artista-criticopubblico, esisteva perché gli elementi visivi della costruzione del “come” conferivano all’arte un aspetto di intrattenimento - e quindi l’arte aveva un pubblico. Il pubblico dell’arte concettuale è soprattutto composto di artisti - vale a dire, non esiste un pubblico separato dai partecipanti. L’arte diviene tanto “seria” quanto la scienza e la filosofia, che nemmeno hanno un pubblico. Diviene interessante o meno nella misura in cui si è informati16.
Del rapporto tra arte e pubblico ne scrive anche Boris Groys, che distingue l’arte di massa, che si rivolge a un popolo di spettatori, dall’arte d’avanguardia, orientata ad una popolazione di artisti17. Lo studioso tedesco spiega che, dal momento che oggi «tutto può diventare arte nelle mani di un artista», il pubblico percepisce l’arte d’avanguardia come arte debole18. In altri termini, il “grande pubblico” è diffidente da quella dematerializzazione dell’arte avviata da Duchamp negli anni Dieci.
Jean Baudrillard conclude il suo celebre saggio La Sparizione dell’Arte sostenendo che «se l’arte si è dematerializzata è per il fatto che mette in circolazione oggi, ben più che opere, idee»19. Nel 1975 Kosuth si rende però conto che che l’ostilità e l’eccessiva difensiva che hanno caratterizzato l’incontro dell’arte concettuale con il pubblico dell’arte costituivano il sostegno vitale del movimento: erano proprio quella «atmosfera da giunta militare» nell’ambiente artistico della New York della fine degli anni Sessanta ed il desiderio di smentire in ogni modo la «gang di Greenberg» a dare significato all’arte concettuale20. Il lavoro di Kosuth trova quindi il suo “carburante” nello sfidare la rappresentazione e nel mettere in discussione la storia dell’arte attraverso la continua provocazione della tradizione artistica.
16
ibidem
17
Boris Groys, Universalismo debole in Going Public, Milano, Postemedia Books, 2013. p. 73
18
ivi, p. 65
19
Jean Baudrillard, La Sparizione dell’Arte, Milano, Giancarlo Politi Editore, 1988. p.48
20
Kosuth, 1987. pp. 79-80 11
12
MA QUALE SEDIA?
Ritornando a One and Three Chairs viene naturale interrogarsi su quale sia l’una, dal momento che le tre sono evidenti. Pare scontato che l’una sia quella di legno, quella su cui è possibile sedersi, quella al centro dunque. È però possibile dire che la sedia a destra (quella rappresentata nella fotografia) sia quell’una, così come che lo sia quella a sinistra (la definizione del dizionario).
Chiunque conosce, per esempio, il volto di Hitler, seppur pochi possono dire di averlo visto in carne ed ossa; lo conosciamo attraverso le fotografie sui libri di storia o i documentari in televisione, ma possiamo comunque dire con certezza che quell’uomo con i baffi a spazzolino e i capelli schiacciati a sinistra sia Adolf Hitler, pur non avendolo mai visto dal vivo. Oppure quando acquistiamo qualsiasi cosa online - che sia un paio di scarpe, una camera d’albergo o il sushi - ci basiamo esclusivamente sulla rappresentazione fotografica di quella cosa e la reputiamo reale anche senza poterla toccare. Io stesso non ho mai visto dal vivo l’installazione di Kosuth in questione, eppure ritengo di conoscerla sulla base che questa sia esattamente come nelle fotografie viste sui manuali di storia dell’arte o su internet. Che una fotografia possa rappresentare la realtà è una discussione aperta fin dall’invenzione dell’apparecchio fotografico. È certo però che da quando esiste la fotografia tendiamo a prendere per vero ciò che vediamo rappresentato in essa. Roland Barthes sosteneva che una fotografia, in quanto prodotto di una tecnica di registrazione, è indiscutibilmente oggettiva21. Reggerebbe quindi la tesi che l’una sia quella fotografata, quella a sinistra.
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Roland Barthes, La camera chiara - Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, 2003. p. 7 13
Platone, sulla base di ciò che scrive nel Libro Decimo de La Repubblica, non sarebbe assolutamente d’accordo con quest’ultima affermazione: non solo la fotografia è una copia della sedia, ma anche la sedia stessa (quella su cui ci si può sedere) è una copia dell’idea di sedia. La fotografia è dunque una copia della copia dell’idea di sedia. Sulla base di ciò, Platone potrebbe quindi sostenere che l’una sia la definizione di sedia, quella dunque a sinistra, perché le altre due non sono altro che copie.
Volete riferirvi a una sedia? Avete tre modi leciti: prendere la sedia e porla nell’opera, seguendo la modalità del ready-made duchampiano. Oppure ne date una foto, la più semplice e povera possibile. O infine ne mettete in mostra la definizione linguistica rubata da qualche dizionario. Ma per favore, non affaticatevi a proporne un qualche trattamento pittorico22.
22
Joseph Kosuth in Renato Barilli, Signora Pittura, in Artribune, 12 dicembre 2017 14
CONCLUSIONI
One and Three Chairs non fornisce informazioni di nessun tipo sull’esperienza concreta; è “soltanto” una presentazione dell’intenzione dell’artista, ovvero una proposizione linguistica presentata nel contesto dell’arte a commento dell’arte. È una tautologia. È composta dai mezzi di riproduzione di massa offerti dalla nuova realtà industriale, condannati da Greenberg perché demistificatori dell’ “auracità” dell’arte e della nozione di originalità dell’opera. È una presa in giro.
E proprio in quanto tale è possibile considerare One and Three Chairs un’opera rivoluzionaria e fondamentale, che ha avuto il merito - tra gli altri - di superare i limiti delle arti plastiche individuati da Lessing nel Laocoonte: in primo luogo, mettendo in discussione le relazioni tra gli oggetti, i riferimenti visivi e quelli verbali, evidenzia l’inutilità della rappresentazione nell’arte, in un momento storico in cui questa deve occuparsi necessariamente di altro. In secondo luogo dichiara la supremazia dell’invenzione sulla rappresentazione anche nell’ambito delle arti plastiche, e non solo in quelle letterarie come Lessing aveva fatto emergere23. L’arte raggiunge così l’autoidentificazione, rinunciando alla mera imitazione. Kosuth condanna la rappresentazione in quanto priva di quell’impegno concettuale necessario alla costruzione della proposizione artistica. Impegno che fino a quel momento era affidato al critico, che Lessing ritiene essere l’unico in grado di distinguere la poesia dalla pittura24; Kosuth annette a sé le funzioni del critico, liberandosi dell’intermediario e riferendosi direttamente al suo pubblico, per quanto non universale.
23
Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte, Aesthetica, Palermo, 2000. cap. X
24
ivi. Prefazione 15
L’arista americano apprende dal saggio di Lessing i limiti della pittura e della poesia e in pieno spirito rivoluzionario decide di non accettarli, mirando a superare entrambe le discipline con una nuova: l’arte concettuale.
Lo scontro con la tradizione artistica, la dematerializzazione dell’opera d’arte e del suo autore, la supremazia dell’invenzione sopra la realizzazione, la ripetizione del gesto, l’indagine dentro la natura dell’arte, l’inutilità del critico, la riflessione filosofica e la condanna della rappresentazione pittorica sono solo alcuni degli ingredienti che hanno fatto di One and Three Chairs una delle opere più sovversive e importanti del ventesimo secolo e di Kosuth, non solo il padre dell’arte concettuale, ma uno dei pilastri dell’arte contemporanea.
16
IMMAGINI
Joseph Kosuth, One and Three Chairs, 1965, Museum of Modern Art, New York
17
Joseph Kosuth, One and Three Plants, 1965, Museu Berardo, Lisbona
18
Joseph Kosuth, One and Three Lamps, 1965, collezione privata
19
Joseph Kosuth, One and Three Hats, Fondazione Antonio Dalle Nogare, Bolzano
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BIBLIOGRAFIA
Barilli Renato, Signora Pittura, in Artribune, 12 dicembre 2017
Barthes Roland, La camera chiara - Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, 2003
Baudrillard Jean, La Sparizione dell’Arte, Milano, Giancarlo Politi Editore, 1988
Celant Germano, Jannis Kounellis, Milano, Fondazione Prada, 2019
Dickel Hans, Die Sammlung Paul Maenz. Neues Museum Weimar, Berlino, Hatje Cantz Verlag, 1999
Gombrich Ernst, Arte e Pubblico. Artisti, Esperti, Clienti, Milano, Mimesis Edizioni, 2013
Groys Boris, Art Power, Milano, Postmedia Books, 2012
Groys Boris, Going Public, Milano, Postmedia Books, 2013
Kosuth Joseph, L’arte dopo la filosofia - Il significato dell’arte concettuale, Genova, Costa & Nolan, 1987
Lessing Gotthold Ephraim, Laocoonte, Aesthetica, Palermo, 2000
Meneguzzo Marco, Il Novecento - Arte contemporanea, Milano, Electa, 2005
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