Sei mio (LeF0)

Page 1

VALIGIA Nº 2 SEI MIO magazine online anno 1° numero 0


Ricordo ancora il disturbo, intenso, che provai quando mi dissero, quella volta, che la mia valigia era smarrita. E il piacere, intenso altrettanto, di quando la ritrovarono.

EDIT

Mi scopro spesso a chiedermi che piacere, che gioia, proverei se potessi ritrovare altre valigie che, nel corso della mia vita, ho perso. Quella in cui, per anni, collezionai Cortomaltese, un mensile di fumetti. Quella delle partite a pallone giocate nelle piazze. La valigia con la ragazza che ho fatto l’errore di non baciare, con i miei nonni e i meii zii, riuniti attorno a grandi tavolate. Tutte valigie che non torneranno più. A immaginarmi l’estasi che proverei, nel potere aprire le valigie delle mie vite passate, scoprire chi altro sono stato, in quali epoche

e luoghi ho vissuto. Le storie a volte riescono. Ti regalano quel piacere, quella gioia, a volte quell’estasi. Nell’ultimo film dei Coen, il protagonista, Llewyn Davis, un cantautore folk, propone un suo pezzo a un produttore, il quale lo ascolta con grande attenzione e poi gli dice ‘Non ci vedo soldi’. Un rifiuto secco, inesorabile, crudele. Ma le storie non esistono quando si vendono, esistono quando si raccontano. Per quello e per questo, vogliamo ritrovare storie. Metterle in valigia, e raccontarle. Partiamo da un bagaglio che abbiamo trovato a sud, in via Possesso n°2. Una storia voluminosa, che da sola riempiva la valigia. Andrea Tomaselli


SEI MIO di Andrea Tomaselli

Gli era rimasto incastrato un ginocchio tra due delle centosessanta sbarre dentro cui era rinchiuso. Aveva provato più volte a conteggiarle, durante la prima mezz’ora di processo, senza riuscirci. A distrarlo non era ciò che il suo avvocato o il pubblico ministero avevano da dire sulla sua effettiva o presunta, totale o parziale, infermità mentale; erano gli occhi a fregarlo: passando da una all’altra, le sbarre di colpo si sovrapponevano, ed era quest’effetto ottico a fargli perdere il conto. Il quinto tentativo, però, era stato di successo. Centosessanta. Fatto quello aveva iniziato a giocare col ginocchio, a capire se era possibile farlo passare tra due sbarre. Dopo un paio di evoluzioni articolari c’era riuscito, e da quel momento il problema era diventato quello opposto, ovvero farlo rientrare, e quando venne il momento per il Presidente della Corte d’Assise di pronunciare la sentenza, lui si trovò impedito ad alzarsi; pensò allora di fare scorrere il ginocchio lungo le due sbarre e si tirò su, in quella posizione niente affatto naturale. Mentre il Presidente lo condannava all’ergastolo a vita, la sua unica preoccupazione restava il ginocchio che iniziava, tra l’altro, a fargli parecchio male. Quando l’aula si era svuotata, gli agenti di polizia penitenziaria erano ancora lì, indaffarati attorno alla gamba del pluriomicida Giovanni Squitieri, soprannominato dai media il terrorista dell’amore. ‘Ce cazz stanno combinando?’, inveiva fuori dal tribunale l’autista del cellulare che aspettava il detenuto per trasportarlo alla casa circondariale di Taranto. Avevano tutti una gran fretta, ad eccezione di Squitieri, per nulla ansioso di passare da una gabbia all’ennesima.

3


4

Il caso, ormai noto come La strage del Comune (didascalia con cui era stato battezzato dai media, a poche ore dall’accaduto), si era chiuso in tempi record per la giustizia italiana. D’altronde, anche a non voler credere all’imputato, l’ex-finanziere Giovanni Squitieri, 34 anni, reo-confesso, il delitto, triplice, era stato commesso pubblicamente, davanti agli occhi di svariati testimoni. Ventotto giorni prima Squitieri si era recato al Comune di Crispiano, un piccolo paese in provincia di Taranto, e lì aveva ucciso il Sindaco, la sua Vice e la Segretaria, in ordine inversamente proporzionale all’importanza della carica ricoperta dalle vittime. La Segretaria era stata uccisa per prima, perché di fronte alla richiesta dello Squitieri di entrare nell’ufficio del Sindaco, si ostinava a ripetergli che era indispensabile un appuntamento. ‘Doveva farsi i fatti suoi’, aveva dichiarato Squitieri al Magistrato. Il colpo, unico, era passato tra la terza e la quarta costola e le aveva squarciato il polmone destro; la vittima era morta tre ore dopo in sala operatoria. La Vicesindaco era stata uccisa proprio in qualità di vice del primo cittadino. ‘Mi ha detto che il Sindaco non c’era, e così ho sparato a lei che ne faceva le veci’. Un colpo che le aveva perforato lo sterno raggiungendo il cuore. Deceduta all’istante. Uscendo dall’edificio Squitieri aveva poi, con suo grande piacere, incrociato il Sindaco che tornava dal bar all’angolo dove era solito, attorno a quell’ora, consumare un caffè con panna. I due erano a poco più di un metro l’uno dall’altro quando Squitieri aveva aperto il fuoco. Il primo colpo aveva spappolato il lobo destro della vittima, il secondo gli aveva frantumato l’osso ioide, e il terzo gli aveva perforato lo sfenoide, e attraverso il bulbo oculare sinistro aveva raggiunto il cervello. Alla domanda del Magistrato, Squitieri aveva risposto ‘L’ho ucciso perché aveva sposato me e mia moglie’. Sua moglie Giovanni Squitieri l’aveva conosciuta quattordici anni pri-


ma, al liceo scientifico Umberto II di Crispiano. Era l’anno della maturità, e in classe, a settembre, si era presentata una nuova compagna: una ragazzina smilza e bionda con l’accento del nord. Si chiamava Ludovica e veniva da Bergamo. Giovanni si era innamorato di lei, lei di lui, i due si erano messi insieme, ed erano rimasti fidanzati per dieci anni, prima di sposarsi. ‘Dieci sembrano tanti, ma tu non fai soltanto il fidanzato’ avrebbe detto quattordici anni dopo Giovanni alla vigilia del processo, nell’intervista che gli avrebbe valso il soprannome di terrorista dell’amore, ‘Vivi coi tuoi, studi, lavori, ti ammali e non sei concentrato sulla tua storia d’amore. Anche questo fa parte del complotto: la burocrazia esistenziale ti costringe a guardare dall’altra parte rispetto alle scelte che stai facendo. Ti distraggono in continuazione in modo che tu non possa farti le domande giuste’.

5


6

Ed effettivamente lui, durante quei dieci anni, era stato distratto dai litigi coi suoi genitori, dall’esame di maturità, dalla scuola allievi finanzieri a Bari, dal campionato di calcio, dall’incarico all’aeroporto di Pisa e dopo cinque anni dal trasferimento a quello di Bari grazie alla raccomandazione del padre (ex-finanziere con gli amici che contano). E poi, al momento clou, quello del matrimonio, le distrazioni si erano condensate: la casa da arredare, la lista nozze, gli invitati, il ricevimento, l’abito. ‘Tutto fum ind all’ucchie, e alla fine, al momento decisivo, finisce che guardi da un’altra parte invece di chiederti: ma farò bene a firmare questo contratto?’. Giovanni e Ludovica facevano parte del quarantotto per cento di coppie che si amano perché tra loro a letto va tutto alla grande e non capiscono come fanno ad avere un storia quelli sprovvisti di un’intesa sessuale. D’altra parte, i loro amici che rientravano nell’altro quarantotto per cento (gli sprovvisti dell’intesa suddetta ma che vanno d’accordo su tutto il resto) non si capacitavano di come due persone così diverse come Giovanni e Ludovica potessero stare insieme. Stavano insieme perché le dita di Ludovica facevano scintille sul cazzo di Giovanni, perché bastava un dito di Giovanni a mandare Ludovica in paradiso. Per il resto, effettivamente, lui alla maturità aveva portato filosofia, lei geografia astronomica; lei era una fanatica di musica lirica, lui la detestava; a lui piaceva la montagna, a lei il mare; lui voleva comprarsi una moto, lei una station wagon; lui era apolitico, lei di centro destra. Ma non appena i loro corpi si toccavano, ogni distonia veniva armonizzata. Lui la chiamava Ludo. Lei lo chiamava Mio. ‘Notte, Mio’, lo salutava al telefono, un attimo prima di chiudere. ‘Ti amo, Mio’, gli sussurrava a pochi millimetri dall’orecchio, ogni volta che lo baciava. Per undici anni era stato Mio, anche davanti agli altri, tanto che gli amici, per sfotterlo, lo avevano ribattezzato furmaggino. Lui si incazzava, ma c’era poco da fare.


Erano stati compagni di classe durante l’ultimo anno di liceo; lui aveva perso con lei la verginità, lei glielo aveva fatto credere; lui aveva scelto la carriera da finanziere, lei l’università di geologia; erano stati distanti i cinque anni che lui aveva lavorato a Pisa, e non si erano lasciati; lui non l’aveva mai tradita, lei aveva fatto un po’ di petting qua e là, ma accuratamente clandestino e in ogni caso con l’attenuante dell’ubriachezza; dopo dieci anni di fidanzamento, erano sulla trentina, avevano una casa tutta per loro (gentile dono dell’ingegnere padre), il lavoro di lui che gli avrebbe dato da vivere e due famiglie stanche di averli in casa e ansiose di tenere tra le braccia un nipote. Il sesso non era più così elettrico e paradisiaco, ma funzionava ancora. Insomma il matrimonio sembrava l’unica strada possibile. Anni dopo Giovanni avrebbe ripensato innumerevoli volte al momento in cui Ludovica gli aveva detto che secondo lei dovevano sposarsi, e l’avrebbe intimamente accomunato a quelle volte che la Telecom ti chiama a casa e ti offre una nuova tariffa e tu, come in ipnosi, dici di sì, al nuovo contratto, ma non hai mai seriamente vagliato l’ipotesi di accettare o meno. In fondo anche il liceo scientifico l’avevano scelto altri per lui (la madre, mentre lui avrebbe preferito il classico) e lo stesso era accaduto col lavoro (il padre, mentre lui avrebbe voluto laurearsi in filosofia morale). Giovanni si adattava, ecco cosa. Al liceo si era limitato a studiare le materie letterarie più di quelle scientifiche, e durante le svariate ore di inerzia, in caserma o al lavoro, aveva imparato ad occultare i testi di Rousseau dietro La Gazzetta dello Sport, per non insospettire nessuno. Era stato allevato, per tutta la vita, ad accettare scelte fatte da altri, sviluppando al massimo la capacità di adattamento. Lo stesso avrebbe fatto col matrimonio: in fondo si trattava di mera formalità, lui doveva, banalmente, continuare ad amare Ludovica come aveva sempre fatto negli ultimi dieci anni. Così, Giovanni si adattò a sposarla, e i suoi genitori al fatto che non l’avrebbe sposata in chiesa, nel rispetto dell’ingegnere padre, anticlericale da sei generazioni, che metteva la

7


8

casa (e che casa!), quando loro potevano giusto permettersi di regalare alla coppia il viaggio di nozze. Accettazione e adattamento sono in fondo le due caratteristiche più diffuse nel complesso disciplinare che regola l’esistenza della stragrande maggioranza. A volte però, sebbene di rado, come il pesce che, grazie a un trascurato e minuscolo pertugio, sfugge da reti che ne catturano a milioni, qualcuno solleva la testa, si guarda in giro e decide di voltarsi per percorrere all’incontrario il tapis roulant della vita, o di saltarne fuori. Questo era successo a Giovanni. D’un tratto accadde qualcosa che gli fece sbocciare in testa tutti quei dubbi sull’amore e sul matrimonio che mai lo avevano neanche lontanamente turbato, e che mai gli erano venuti a riguardo del tipo di liceo frequentato o della carriera intrapresa. Il pertugio si presentò, tanto improvviso quanto isolato, nella fitta rete della propria esistenza, durante il viaggio di nozze, palesando una macabra inopportunità. Fu allora, infatti, che Giovanni si sorprese, per la prima volta, ad augurarsi la morte di sua moglie. Giovanni e Ludovica si trovavano in Spagna, a Sitges, un paesino di mare a venti minuti da Barcellona. Avevano scelto Sitges come località del loro viaggio di nozze con cognizione di causa, corroborata da un memorabile sopralluogo nella località in questione. Anni prima, infatti, avevano trascorso lì la loro prima vacanza insieme. Padre e madre di Giovanni, nati e vissuti a Crispiano, trovavano ‘scandaloso’ che il figlio portasse in vacanza una ragazza appena diciannovenne. I genitori di Ludovica, invece, bergamaschi messi al mondo da bergamaschi, non ci trovavano niente di male, anzi, avevano dato alla figlia la loro benedizione a godersi quella vacanza. E Giovanni e Ludovica se l’erano goduta eccome, anche se non nel modo previsto. Il giorno prima di partire infatti, dopo che i due avevano con attenzione evitato le date del mestruo, a Ludovica era venuta una


cistite abbastanza acuta (risultato probabile della macumba tarantina della madre di Giovanni), cistite che sembrava compromettere la settimana di sesso sfrenato che i due si erano immaginati. In realtà, una volta a Sitges, preso possesso della camera prenotata al residence Antemar, Giovanni e Ludovica avevano appurato che i rapporti preternaturali non erano di nessun danno alla cistite di lei, e si erano prodotti per tutta la settimana in copule di tal specie che facevano felice lui e lei in eguale misura. Una notte la cosa era stata addirittura consumata nella piscina del recidence, a imperitura memoria della coppia, che in intimità avrebbe ricordato per anni quell’amplesso acquatico con la stessa fierezza di quei velisti che vantano regate vinte in condizioni climatiche proibitive. Di fatto la vacanza, per Giovanni e Ludovica, era rimasta memorabile per motivi che andavano ben oltre il fatto che fosse la loro prima: c’era stata la piscina (usata ampiamente anche di giorno, in modo decisamente più congruo), le romantiche passeggiate al tramonto sul lungomare, gli aperitivi sorseggiati nei variopinti e caraibici bar del centro, le scorpacciate di paella, le brave serate in discoteca. A Giovanni e Ludovica era rimasta quindi una voglia matta di tornare in vacanza in quel paesino, e quando il matrimonio offrì loro l’occasione di farlo, vi tornarono, sempre all’Antemar. La passione tra i due non era più quella di allora. Certo Sitges, l’esotismo della vacanza, la pelle abbronzata, i frequenti topless esibiti in spiaggia dalle bagnanti, le cene ai frutti di mare, avevano ringalluzzito il desiderio, ma si era comunque ben distanti dall’impeto sessuale che nove anni prima aveva permesso a Giovanni di penetrare Ludovica più volte al giorno e preternaturalmente. Il paragone tra la foga di allora e quella di adesso (paragone che nessuno dei due coniugi si sognava di esplicitare, ma che entrambi intimamente facevano), tale paragone fu probabilmente un viatico dell’illuminazione improvvisa che colpì Giovanni. Probabilmente anche il fatto di essersi sposato, di avere fatto il grande salto, lo fu; e lo fu ancora la vacanza, quel tempo sospeso dove

9


10

la routine e la distrazione quotidiana subiscono un brusco arresto. Ma nessuno di questi tre viatici sarebbe bastato, senza l’evento scatenante che diede l’effettivo via. Il via lo diede un fatto che accadde al quartultimo giorno di luna di miele. Stavano, Giovanni e Ludovica, tornando al recidence, dopo un ventoso pomeriggio passato in spiaggia, quando Ludovica si bloccò di colpo, come se la corda, che la teneva legata a un palo, si fosse tesa. ‘Mio’ gli disse, ‘ho dimenticato gli occhiali da sole sul tavolino della sdraio’. Giovanni la mollò all’ombra sottile di una palma e le disse di aspettarlo lì: faceva prima se tornava indietro da solo. Gli occhiali non se ne erano andati. Giovanni li prese, se li mise nella tasca del costume, e tornò a passo svelto da sua moglie. Stava percorrendo una della strette e lunghe vie interne del paese, costellate da siepi, roseti, cinguettio di uccelli, rumori ovattati di piscine, scomposte da bambini in gioco o da provetti tuffatori. Il sole a fine corsa del tramonto fendeva la via e Giovanni, avanzando, contemplava le ville dall’altra parte della strada accese dalla luce che i pini e le palme e le costruzioni a suo fianco non trasformavano in ombra. Il barman italiano dell’Antemar gli aveva raccontato che la maggior parte delle ville a Sitges erano di architettura cubana, per via del rientro massiccio a fine ‘800 di numerosi abitanti in precedenza emigrati a Cuba per arricchirsi. Giovanni era incantato da quel tipo di architettura, soprattutto quando a tingerla era l’ocra bollente che il tramonto offriva a quelle longitudini; aveva rallentato di molto il passo, proprio per godersi le colon-


ne, le verande, le finestre, i tetti, quando a un tratto quella luce ocra, invece di posarsi su cemento bianco e vetri e mattoni e tegole, si posò sulla carne di una donna. Al primo piano di una villa, il balcone, aperto, dava su una stanza dove la donna, bionda (svedese o inglese probabilmente), se ne stava seduta, occhi chiusi, la testa abbandonata sopra lo schienale, le cosce aperte, ornate da un pareo azzurro, e la mano destra, il dito medio, che solleticava la propria clitoride in mezzo a un cespuglio di peli oro platino. Giovanni si fermò. Gli ci vollero tre passi, dopo i quali ne dovette fare uno indietro, per recuperare al meglio la visione. Istantaneamente sentì il sangue confluirgli nel ventre, il cazzo farsi pesante, i coglioni friggere e un brivido attraversargli le spalle. Poi si accorse che la donna aveva sollevato la testa e lo stava guardando. Poteva avere trentacinque, quarant’anni al massimo. Giovanni non provò vergogna. La donna (quasi sicuramente svedese, a giudicare dai tratti del viso) neanche. Si alzò. Il pareo le scivolò a coprire le gambe, fino al ginocchio. Raggiunse l’anta del balcone, vi si appoggiò con le spalle e senza smettere di guardare Giovanni allargò il pareo con una mano, fece scivolare l’altra in mezzo alle cosce e riprese a toccarsi. Non più con la delicatezza precedente: stavolta, con la stessa violenza con cui fissava Giovanni, si infilò due dita dentro la fica. Giovanni diede una rapidissima occhiata in giro e, non vedendo nessuno, infilò la mano nella tasca del costume con l’intenzione di toccarsi a sua volta, ma subito trovò gli occhiali di Ludovica, e ritrasse la mano. Per un attimo, d’istinto,

11


12

aveva guardato verso la tasca, e una volta tornato al balcone, la donna non c’era più. Giovanni rimase interdetto, per qualche secondo, poi sentì scattare la serratura del cancello e un pensiero nella sua testa: è stata lei ad aprire, mi sta dicendo di entrare, se Ludovica non esistesse potrei accettare il suo invito. Non poté indugiare su quel pensiero che sentì un altro rumore, simile al primo ma più morbido, e vide la porta d’ingresso, a pochi metri da lui e dal cancello, schiudersi. La cosa lo terrorizzò, come uno squalo apparso sottacqua a un pescatore di telline. Scappò via. Accelerò il passo in maniera innaturale, assumendo la buffa andatura del maratoneta. E mentre si affannava a raggiungere il più in fretta possibile la moglie, il pensiero surreale che gli era piombato in mente poco prima (se Ludovica non esistesse) si trasformò in un’ipotesi improbabile ma plausibile: se Ludovica morisse. Cercò subito di scappare anche da questo pensiero: si sorprendeva ad augurarsi la morte della moglie, ma lui l’amava! Come le due cose (l’ipotesi e il sentimento) potevano essere entrambe vere? Eppure erano in tanti a pensare che era possibile desiderare più di una donna. Quella sera a letto, dopo aver fatto l’amore (con Ludovica, certo, ma anche con quella donna al balcone, ogni volta che chiudeva gli occhi), ripensò a tanti anni prima, quando aveva ricevuto la telefonata di una ragazza misteriosa che gli confessava di desiderarlo tantissimo, di non potere fare a meno di lui, che voleva incontrarlo. Giovanni le aveva detto che non poteva perché era fidanzato e felicemente, e la ragazza misteriosa ‘Non è un problema’ gli aveva risposto ‘possiamo anche vederci in segreto, a me va bene di essere pure la tua seconda ragazza’. Giovanni non aveva mai contemplato un’ipotesi del genere: ‘o sei leale o sei un poco di buono’, credeva. Ma, adesso, quell’incidente avvenuto nel pomeriggio aveva posto un altro problema: e la lealtà verso se stesso? La verità? Il suo desiderio di entrare in casa di quella donna e fotterse-


la, fotterle ogni cavità possibile, fottersela in tutte le posizioni, fotterla dovunque, fotterla per ore, fotterla scavando nel suo corpo con il cazzo e la lingua e le mani e i piedi, era una verità incontrovertibile, una delle più urgenti gli fosse capitato di sentire. E quella notte per la prima volta pensò che una terza strada c’era, tra l’uomo leale e il poco di buono: ‘Se mia moglie sa che io vado con altre donne, se io so che lei va con altri uomini, allora siamo leali, non ci stiamo tradendo, siamo fedeli’, pensò, e la cosa gli parve di una semplicità agghiacciante. Gli venne in soccorso la legge islamica, con le sue cinque mogli, e dall’estremo opposto del continente eurasiatico le coppie aperte della penisola scandinava. Gli vennero in soccorso tutti i giapponesi che dopo il lavoro andavano a donnine col beneplacito delle consorti e gli esquimesi la cui ospitalità prevedeva che offrissero all’ospite persino le proprie mogli; molte di queste usanze (apprese da amici che avevano viaggiato più di lui, scovate nei testi di etologia consumati in ufficio per ammazzare il tempo, dedotte dalle battute pruriginose nelle vignette della Settimana Enigmistica) avevano certo il limite, ne era consapevole, dell’essere a senso unico, maschiliste, ma la riflessione che si poteva dedurre da esse, a prescindere dal maschilismo, gli sembrava evidente: la monogamia non è l’unica possibilità e a giudicare dai risultati non è certo la migliore; estendendo la possibilità poligamica alle donne a Giovanni sembrava che la cosa potesse rappresentare la soluzione migliore per l’umanità. Giovanni sentiva di avere pensato bene quella notte, di avere trovato una soluzione soddisfacente, così guardò Ludovica dormirgli a fianco, pensò al loro nuovo futuro, fatto di lealtà ma non per questo di frustrazioni, e si addormentò placido, convinto che la volta successiva la serratura di un portone fosse scattata lui avrebbe potuto chiedere alla moglie di aspettarlo a casa, che aveva da fare l’amore con un bellissima donna, l’avrebbe fatto e poi sarebbe tornato da lei, per cena. E viceversa.

13


14

Che ci sarebbero stati problemi l’aveva già capito il giorno dopo l’illuminazione, quando aveva provato a tirare fuori l’argomento con Ludovica, così, facendo finta che capitasse per caso. Consumavano la loro undicesima, nonché terzultima, colazione a buffet, ai bordi della piscina del recidence Antemar. Cosa ne pensi dei musulmani di qua, cosa ne pensi degli svedesi di là, cosa ne pensi dei privé, dei compagni delle pornostar, ma Ludovica non aveva mostrato attitudine alcuna all’argomento: ‘Se io sapessi che vai con un’altra, prima le infibulerei la patatina e la boccuccia, e dopo le moncherei manine e piedini, così poi vediamo a cosa ti serve la battona’, aveva chiuso precocemente la discussione. L’esplicita opinione della moglie a riguardo, aveva da subito complicato un discorso che appena la notte prima gli era apparso così lineare. Quel giorno stesso, dopo la mattinata in piscina e un frugale pasto al cocktail-bar, Ludovica aveva mostrato chiari sintomi di un mal di testa incipiente, e si era reclusa in camera fiduciosa che l’aria condizionata, una moment e un paio di ore di sonno sarebbero stati una panacea sufficiente a godersi la serata. Giovanni aveva allora optato per una passeggiata. Aveva bisogno di camminare, di pensare e di farlo proprio lì, tra quelle vie. Giovanni sapeva non essere un caso che l’illuminazione della notte precedente fosse giunta in una località come Sitges. Sitges era un posto di mare e come tutti i posti di mare in estate l’erotismo dilagava, ne impregnava l’atmosfera; la nudità onnipresente, l’aroma di creme solari, i corpi sudati e bagnati, le musiche sudamericane, le vesti scollate, i cocktail, era come se emanassero nell’aria un gas sessuale, una specie di viagra via etere. Sitges era poi il posto di mare più licenzioso che Giovanni avesse mai visto, poiché da sempre era stata la meta prediletta dai gay; gli omosessuali in quelle settimane di vacanza sfogavano tutta la sensualità castrata, poiché sospetta, nei lunghi mesi di città, e la tolleranza di cui godevano finiva per dare licenza anche agli eccessi ete-


rosessuali. A Sitges tutto era permesso. Questo clima, che quando Giovanni e Ludovica erano stati qui da fidanzati aveva pompato la reciproca carica erotica, in occasione del viaggio di nozze aveva invece favorito la trasformazione dell’eros unidirezionale di Giovanni (unidirezionato verso Ludovica) in un eros panico. Se anni fa il bel popò di tette al vento che Giovanni vedeva in spiaggia accresceva a dismisura il desiderio delle tette di Ludovica, adesso era proprio di quello stesso bel popò che Giovanni sentiva il desiderio, e quando il giorno prima aveva visto la donna masturbarsi, il suo pensiero primo non era stato di barricarsi in stanza per sfogare la voglia con la moglie, bensì di sfogarla in loco. Ora però, mentre passeggiava per le vie di Sitges, dopo avere sentito cosa sua moglie ne pensasse di coppie aperte e poligamie varie, vedeva Sitges stessa con un altro occhio. Era indubbio che i gay che civettavano in centro e i topless che sfavillavano in spiaggia invitavano al sesso libero e dionisiaco, ma era altrettanto vero che c’era poi tutta un’altra Sitges che l’aveva finora circondato senza che lui se ne rendesse conto. Dietro quei cancelli, dietro quelle siepi, c’erano decine, centinaia, di ville, dall’architettura cubana, nelle cui terrazze si abbronzavano famiglie apollineamente monogamiche, nelle cui piscine giocavano piccoli umani allevati a rispettare lo schema della coppia, della famiglia mononucleare. Coi loro letti a due piazze, i servizi da due, le biposto decappottabili, i tête-à-tête al ristorante, le rose e gli uccellini, quel mondo non voleva che nessuno lo mettesse in discussione, ne alterasse l’equilibrio. Passeggiando, Giovanni capì che Sitges era il modello perfetto dello stile di vita dominante: al centro, nei locali, in spiaggia, i gay potevano pure possedersi a volontà e dedicarsi a cunnilungus perfettamente simmetrici, mentre gli etero sfaldare a piacimento ogni sacro imene, e tutti loro organizzare orge e baccanali a non finire, ma la cosa doveva restare lì: come gli indiani d’america nelle riserve. L’importante era che nessuno disturbasse quell’uomo e quella donna che nella loro stanza da letto, uniti dal sacro vincolo del matrimonio, perpetravano il modello

15


16


dominante, lo inseminavano, riproducevano, diffondevano. Per la prima volta nella sua vita, Giovanni ebbe una Visione nitida di ciò che accadeva attorno a lui: il pianeta era pieno di riserve temporanee per giovani ribelli: Miami, Ibiza, Rimini, Amsterdam, L’Avana, erano tutte località dove l’Impero Monogamico confinava giovani depravati perché potessero sperimentare poligamia integrale, senza diffondere il terrore nelle capitali dell’impero. Una volta cresciuti sarebbero tornati all’ovile, e avrebbero firmato monogamici contratti, dove nero su bianco si trovavano obblighi e diritti, e sottointesa la prassi di parziali fughe poligamiche che grazie all’ipocrisia, alla menzogna, alla frustrazione, non avrebbero mai insidiato la solidità del palazzo imperiale. Come San Paolo sulla via di Damasco, Giovanni vide la verità, una verità in questo caso terribile: anche lui, quando era stato lì da fidanzato, contro la volontà dei suoi genitori, e aveva scopato non per riprodursi e per giunta preternaturalmente, aveva creduto di trasgredire ai dictat delle famiglie e della chiesa, dei padri e dei Papi, ma in realtà aveva solo recitato una parte, prevista dal copione, per arrivare al più inevitabile dei finali: il matrimonio. Ripensò Giovanni a tutti quegli amici di un tempo, molto più trasgressivi di lui (che in fondo aveva solo mentito ai genitori e fatto del sesso un po’ particolare, ma sempre e tassativamente monogamico). Persone che per dieci anni avevano scopato in giro senza un compagno fisso, che lo avevano fatto anche avendolo, che avevano tradito la ragazza con la sua migliore amica, il ragazzo con suo fratello, che si erano scambiati i partner, organizzato ammucchiate, sfidato l’ai di esse. Pensava a tutti loro e li guardava adesso: indaffarati con biberon e pannolini, che prenotavano battesimi e comunioni versando l’obolo di rito. Era la natura a fregarli? La Visione non diceva questo: era l’Impero. Era l’Impero Monogamico a dettare legge, una legge valida per tutti, e l’illuminazione che Giovanni aveva avuto, la terza strada, altro non era che un’eresia.

17


18

Quando Giovanni era tornato a Crispiano, portandosi dietro valige e visioni, aveva da subito potuto appurare quanto eretica fosse considerata la sua terza strada dai sudditi tutti dell’Impero, oltre che da sua moglie. Gli stessi colleghi d’ufficio, che gli avevano raccontato delle curiosità sugli esquimesi, che avevano fatto le battute sugli arabi, che avevano riso con lui alle vignette sulla settimana enigmistica, quegli stessi gli avevano detto ‘Tu si scem! Chedd t tagghie u cazz’. La sua Ludo, lui lo sapeva, l’uccello non glielo tagliava, lei era moderna, lombarda, lei infibulava le altre, ma la sostanza non cambiava.

Dopo qualche mese di matrimonio, Giovanni dovette prendere atto che non solo il problema della monogamia era ben lungi dal potersi risolvere facilmente, piuttosto la convivenza con Ludovica ne generava altri e fastidiosissimi di problemi. Giovanni, per esempio, non capiva che cazzo combinava Ludovica con le sue magliette, quando le lavava. Sua madre non gli aveva mai ristretto una maglietta che fosse una, invece da quando si era sposato e le magliette aveva iniziato a lavargliele Ludovica, sembrava che divenissero ogni settimana più piccole. ‘Sei te che mangi come una botte e ti ingrassi’ ribatteva lei, ‘te l’ho detto che è una corbelleria che a lavoro non pranzi e poi torni qui la sera e ti rimpinzi prima di andare a letto!’. Ti rimpinzi diceva lei, però tutto il santo giorno in aeroporto ci stava lui, e a Bari per giunta, che il lavoro era lì, e lei non aveva voluto trasferirsi perché a Crispiano c’era la casa in un condominio di lusso, e papà e mamma, e le amiche, e lui ogni giorno doveva fare tre ore di macchina per andare e venire. Provasse lei a mangiare alla mensa dell’aeroporto!; c’aveva provato lui, all’inizio, e l’acidità se la portava a letto. Lei era brava a parlare, che poteva cucinarsi quello che voleva, con alimenti di prima scelta, comprati cari, coi soldi che lui portava a casa. Quando


erano ragazzi però era lei quella intelligente, che faceva l’università, quella col cervello, e lui lo sbirro lo chiamavano, perché era entrato alla scuola allievi. Lui era quello raccomandato, col padre finanziere, e lei invece si faceva da sola. Ma cosa si faceva? Geologia! Che lavoro credeva di trovare a Taranto, laureandosi in geologia? E adesso rompe pure il cazzo. Il pranzo, la cena, e intanto lui deve buttare le magliette, che gli fanno una pancia come se dovesse partorire un cocomero, mentre lei fa le diete giapponesi, lo yoga, si va a tingere i capelli una settimana blu e l’altra fucsia. Si desse almeno da fare con la casa. Ma quale! Le pulizie le fa la donna, cha parla solo in dialetto, e che lui ha pure dovuto mettere in regola. ‘A Bergamo sono tutte in regola’, gli aveva detto Ludovica, ‘Ce cazz me n’ futt a me di Bergamo. Siamo a Taranto!’, aveva risposto lui, ‘Ma lo sai te che se la Franca ci cade dalla scala e non è in regola ci rovina?’, aveva controbattuto lei, ‘Che cosa ci rovina quella, che non ha finito nemmeno la scuola elementare!’, aveva detto lui, ‘Sì, li conosco questi paesani, fanno i semplici loro, ma poi, se c’è da farti una denuncia, hanno sempre un qualche nipote avvocato, e lì sono cazzi’, aveva insistito lei, e alla fine si era dovuto fare come diceva Ludovica. E insomma, bisognava tirare fuori i soldi per pagare la Franca e tirare fuori i soldi per pagare la palestra a sua moglie, che se puliva Ludovica invece della donna, pensava Giovanni, la Franca la potevano licenziare e sua moglie faceva ginnastica gratis (e se cadeva dalla scala, tra l’altro, erano già apposto che era messa in regola col matrimonio). Quando poi qualcosa si guastava, mai che Ludovica avesse l’intraprendenza di intervenire, fosse solo per chiamare qualcuno, niente; in quei casi tutta la concretezza lombarda chissà dove andava a finire. ‘Mio, la lavatrice perde acqua’, lo accoglieva dopo una giornata all’aeroporto e un’ora e mezza di macchina per tornare a casa. ‘Non ho toccato niente per paura di peggiorare le cose’ dice, che cosa cazzo vuoi peggiorare che ci sono tre dita d’acqua sul pavimento della lavanderia e una macchia

19


20

d’umidità che tra due settimane, un mese al massimo, inizierà a sgocciolare al piano di sotto e indovina chi dovrà pagare i danni! ‘Mio, la serratura non funziona bene’, cazzo lo so, che sono rimasto fuori dieci minuti, che ti suonavo e tu avevi lo stereo acceso a un volume così alto che tremavano le pareti della scala e indovina chi dovrà giustificare la cosa alla prossima riunione di condominio. ‘Mio, l’aspirapolvere si ingolfa’, ‘Mio, la porta del box-doccia non scorre’, ‘Mio, la macchina non parte’, ‘Mio, internet si sconnette’, ‘Mio, SKY fa le bizze’. Rientrava dopo una giornata di lavoro e code in autostrada, e doveva mettersi a quattro zampe col cacciavite in mano, uscire per comprare Svitol, telefonare all’assicurazione, rimanere in attesa che un operatore fosse disponibile, stare in equilibrio sulla scala per tentare di capire perché la fiamma pilota di quello scaldabagno di merda non restava accesa. Non c’era niente in quella casa che funzionasse come avrebbe dovuto. E la sua illuminazione, la terza strada che conciliava poligamia e lealtà, quella men che meno. Un paio di anni prima del suo viaggio di nozze e della sua visione, durante una qualsiasi giornata di lavoro all’aeroporto, Giovanni aveva notato, tra la folla in attesa dell’imbarco, un gruppo di persone, maschi tra i trenta e i quaranta, che indossavano tutti una maglietta bianca con davanti scritto LOFARO WEDDING e sulla schiena CUBA 13.01.2005. La cosa aveva incuriosito lui e il collega. Erano andati da quelli e gli avevano chiesto di cosa si trattava. Uno di loro, l’unico con la maglietta rossa e con davanti scritto soltanto LOFARO, era per l’appunto Lofaro e si doveva sposare da lì a dieci giorni. Gli altri erano tutti suoi amici e stavano partendo per Cuba, dove avevano organizzato l’addio al celibato. La cosa, di per sé simpatica davvero, aveva lasciato a Giovanni un retrogusto amaro che soltanto dopo la sua personalissima illuminazione sulla via di Sitges poté cogliere appieno. A partire da Lofaro, a finire coi suoi amici, si trattava per lo più di uomi-


ni o sposati o fidanzati. Cosa andavano a fare questi uomini, tutti impegnati, a Cuba per una settimana? Era evidente che l’unica promessa credibile che avevano potuto fare alle loro compagne era stata quella di usare molti profilattici. E loro, le femmine dell’aneddoto? Niente da ridire: quello era un addio al celibato. Faceva parte del programma. Come fanno parte del programma le amanti, le troie, i trans. Ma allora di che gelosia stiamo parlando?, si era chiesto Giovanni. Di cosa sono veramente gelose le donne? Non del cazzo, altrimenti non permetterebbero nessun LOFARO WEDDING. Del cuore neanche, sennò non farebbero finta di non capire che da anni il marito non le ama più, ha un’amante, che con loro è infelice. E allora, di cosa? Forse parliamo unicamente di possesso, pensò Giovanni. Forse è l’idea che quella cosa, marito o moglie o fidanzato, è tuo. Può anche scopare in giro, avere dieci amanti, andare con duemila zoccole, passare un’intera settimana a Cuba, ma l’unica moglie sei tu, e lui è tuo come non lo è di nessun altra. E lei può cambiare amanti e gigolò, ma resta sempre tua moglie. Oppure stiamo parlando di convenienza: una cooperativa in due utile a raccattare certezze materiali e stabilità, a programmare un futuro. L’amore non c’entra niente, e tutta questa gelosia altro non è che paura di un fallimento aziendale, di un crack economico, di un crollo finanziario! Allora si tratta solamente di mettere da parte la passione e dedicarsi all’organizzazione, al successo. Allora non siamo poi così lontani dai matrimoni di un volta, combinati per accumulare capitale piuttosto che disperdere eredità: prima combinavano i genitori, e adesso combiniamo noi direttamente. Giovanni non poteva accettare tutto questo. Voleva credere con tutte le sue forze che potesse essere la felicità a unire le persone, e non motivi di mero possesso o di bieca convenienza. Ma se era la felicità il motivo, perché si continuava a perpetrare un sistema, quello monogamico, che palesemente non funzionava? Se Lo-

21


22

faro e company partono per Cuba, mentre le rispettive mogli fidanzate affittano un american dreamboy che viene fuori da una torta con un lungo uccello arrotolato dentro un microscopico tanga, vuol dire che in realtà lo sanno tutti che la monogamia è un fallimento totale. Perché fare gli ipocriti? Allora è tutta pigrizia la nostra! Come la storia di suo zio con le emorroidi. Quell’uomo aveva sempre sofferto di emorroidi, tanto che in casa, avendo lo zio in questione lo stesso nome di altri quattro zii, lo chiamavano così, lo zio con le emorroidi. Per sedersi aveva bisogno di un cuscino ortopedico (una specie di ciambella); stava sempre a mettersi pomate e unguenti; quando cacava doveva ricacciarsele dentro col dito e correre a sdraiarsi per evitare che tornassero fuori; e doveva seguire una dieta che neanche una modella anoressica. Si trattava di fare un’operazione, dolorosissima certo, ma risolutiva, che suo zio non volle mai fare. Preferì vivere così per venti e passa anni, piuttosto che affrontare un mese di dolori atroci, e alla fine le emorroidi se le portò nella tomba. Questa storia della monogamia, agli occhi di Giovanni, era la stessa identica cosa. Famiglie distrutte, figli rovinati, vite infelici, soltanto per non affrontare il fatto. Giovanni non poteva accettare che anche lui e il suo matrimonio facessero parte di questa gigantesca perversione. Un mese dopo essere tornati dal viaggio di nozze si prese di coraggio e parlò a Ludovica, stavolta a carte scoperte: ‘Ludo, qui c’è un problema: io ti amo ma desidero altre donne’ esordì, e provò a spiegarle tutto, le raccontò pure dello zio, delle emorroidi, anche di Lofaro wedding; ‘Io non voglio che noi due facciamo la stessa fine’, le disse e lei rispose ‘Ué Mio, guarda che anch’io quando vedo un bel ragazzone per strada ci faccio i pensierini, ma non siamo mica delle bestie! Magari sabato, quando facciamo il giretto in centro, passiamo da Desiderio e compriamo un paio di completini sciccosi così nel week-end facciamo tanto bang-bang e ti passano tutte queste cretinerie. O credi che dovremmo già fare un bebé?’. Ecco, pensò Giovanni, ci siamo, il matrimonio come accanimento tera-


peutico: vinci se raggiungi le nozze d’oro. D’altronde, quando capitava, nella notte, di essere svegliati da un rumore molesto proveniente dal giardino, e lui stava per alzarsi, ‘Dormi, dormi’, gli diceva Ludovica, ‘sarà il vento’. Eva aveva ventidue anni, e portava sempre una piccola clessidra di rame nella sua borsa a forma di gatto. I granelli di sabbia ci stavano un minuto e mezzo a scivolare da una parte all’altra della clessidra. Legava Giovanni alla testata del letto, girava la clessidra sul comodino, e lo toccava, o lo succhiava, o lo scopava, finché l’ultimo granello non era scivolato giù. A quel punto si fermava. Con sadica lentezza raggiungeva la clessidra, la voltava, e ricominciava. Lo torturava, e si torturava, a lungo, prima che riuscissero a venire. A volte la clessidra scoccava l’interruzione proprio al principio dell’orgasmo, e il dolore del coito interrotto era superiore al piacere, ma lei non ammetteva deroghe. A volte non faceva in tempo a legarlo, che Giovanni la violentava, la penetrava e la scopava fino a venirle dentro, così tutto d’un fiato. Raramente era lei a lasciare la clessidra nella borsa. In ogni caso Giovanni godeva come non gli succedeva da anni. Come i primi tempi che stava con Ludovica, quando lei gli faceva le seghe in macchina, mentre guidava, o quando si infilavano nei bagni dei locali, o delle discoteche, e si fottevano mezzi ubriachi. Quando Giovanni conobbe Eva, e la sua clessidra, pensò che parlare con Ludovica della terza strada era inutile, che bisognava metterla di fronte al fatto compiuto. Così lo aveva compiuto e poi era andato da Ludovica e le aveva detto ‘Ludo, io sto frequentando un’altra donna, e mi rendo conto che la nostra vita sessuale non va tanto bene. Forse anche tu dovresti provare ad andare con qualcun altro. Magari potremmo uscire tutti insieme’. L’avvocato di Ludovica aveva trovato di somma utilità queste informazioni, ed era rimasto felicemente incredulo, quando Giovanni, fregan-

23


24

dosene di tutte le bugie che il proprio legale gli aveva ordinato di dire, aveva piuttosto confermato inopinatamente la vicenda di fronte alla giudice, in occasione della causa di separazione. Giovanni perse la casa, l’appoggio economico della propria famiglia (che ripudiò il figlio degenere), e si ritrovò a destinare cinquecento euro al mese al conto corrente della ex-moglie. Una volta la stradale gli aveva fatto una multa con tanto di fotografia. C’era la sua macchina, in primo piano, che andava dieci chilometri l’ora oltre il limite consentito, e una mercedes dietro, che lo stava superando. La targa della mercedes era coperta dalla propria vettura, per cui a lui toccava pagare, mentre quell’altro, che sfrecciava ben oltre il limite, restava impunito. In quell’occasione la sua divisa gli aveva permesso di non subire quell’ingiustizia, e la multa era stata insabbiata; adesso, invece, doveva pagare eccome, e subire: si vedeva superato da fedifraghi,


pluricornificatori, ipocriti e bugiardi di ogni razza, che restavano impuniti mentre si godevano mogli, amanti e benessere, e a lui, che era stato onesto, sincero, gli toccava di sopravvivere con quello che gli restava dello stipendio, settecento euro scarse che dovevano bastare all’affitto di un monolocale, a mangiare e a soddisfare i capricci di Eva. Per la prima volta nella vita si sentì fregato. Si era sentito ingannato dal matrimonio, dalla società, da sua moglie; non aveva voluto calare la testa, si era voluto ribellare e l’avevano fregato, ridotto all’osso. I pochi grassi che dall’osso si potevano raschiare, con la disperazione dell’affamato e i denti aguzzi, potevano bastare a lui, ma non certo a Eva. Erano anni che vedeva certi suoi colleghi sfruttare il proprio lavoro per arrotondare in modo illegale lo stipendio. Aveva sempre trovato disgustoso tutto quello; ma adesso trovava disgustosa la legge, che lo aveva ingannato prima e fregato poi, e pensò che rubare a una legge che non

25


26

è giusta vuol dire farsi giustizia. Gli era relativamente facile accedere ai depositi dove si trovavano i carichi di stupefacenti sequestrati. Riempì tre barattoli di borotalco da portarsi a casa, e ne ricavò una cifra ragguardevole. Eva era contenta. Ma a lui non bastava. Quella nuova disponibilità acquisita, lo aveva reso insaziabile, di altri barattoli da riempire e di altre donne. Non appena Eva iniziò a usare meno la clessidra e a fare domande su quanti anni dovevano passare perché potesse risposarsi, Giovanni le diede il benservito. Con quel borotalco miracoloso era facile trovare belle ragazze con cui il borotalco non c’era neanche bisogno di riciclarlo. ‘Hai mai scopato sotto cocaina’, diceva Sharon Stone in Basic Instinct. A Giovanni quella frase gli era rimasta piantata nel cervello, dopo avere visto il film in prima serata su Canale Cinque. Effettivamente, poté appurare, Sharon non aveva tutti i torti. ‘Non era solo la cocaina; c’era la dipendenza, ancora più grave, dal sesso’ ammetteva Giovanni, nell’intervista rilasciata dopo la strage; il terrorista dell’amore confessava le proprie riflessioni su quel breve periodo di illegalità e poligamia attraversato poco dopo la separazione dalla ex-moglie; ‘Ero come un vampiro. Le donne per me erano corpi pieni di sangue. Ogni corpo pieno era il massimo. Finché non era mio. Finché non mi attaccavo al loro collo e non succhiavo tutto quello che c’era da succhiare. Poi il corpo era svuotato. Non era più niente. Ce ne voleva un altro. In realtà la poligamia che io sostengo non c’entra con quello che mi stava succedendo. Quando parlo di poligamia intendo un sistema di valori alternativo al nostro, che comprende affetto, comprensione, amore, oltre che il sesso. In quel momento, invece, le donne mi interessavano solo se avevano sangue in circolo. Una volta vuote, avanti un’altra. Mi comportavo come un playboy senza scrupoli. Ma questa, in realtà, è soltanto una delle anomalie del sistema monogamico. In un sistema poligamico il sangue circola e nessun corpo ne può essere svuotato del tutto. È il sistema monogamico che determina rapporti parassitari. Io


stesso, infatti, stavo reagendo ad anni di repressione monogamica. Se non fossi stato schiavo di uno stato monogamico, di quello che io chiamo l’Impero Monogamico, non mi sarei mai comportato in quel modo: non avrei abusato delle donne, non avrei rubato, probabilmente non avrei mai ucciso nessuno. Mi hanno costretto’. Costretto. Era esattamente come si sentiva Giovanni in quel periodo. Era costretto a cambiare donne, a sniffare, a rubare. Anche quando i sospetti su di lui si erano manifestati, Giovanni, vittima appunto di una coazione a ripetere che sfuggiva al suo controllo, aveva continuato a riempire barattoli finché non si era fatto beccare. Reato di peculato, ed era stato dimesso d’autorità dal corpo. La vita è come una sveltina nel culo di una troia: entri per godere, esci con l’HIV. Era scritto nel cesso del carcere dove Giovanni aveva dovuto scontare i tre mesi di pena inflittagli. Per non farne quindici, di mesi, aveva dovuto pagare una multa che lo aveva lasciato completamente all’asciutto. Così, una volta fuori, Giovanni aveva dovuto trovarsi un lavoro qualsiasi. Al porto di Taranto, se sei disperato, è facile trovare un lavoro, sottopagato e massacrante. Giovanni lo era e lo trovò. Passava l’intera giornata con la ramazza in mano sui pontili dei pescherecci ormeggiati; tornavano dal mare viscidi di squame e sale, bava di pesce e interiora squartate, e il suo compito era quello di tirarli a lucido. Lavorava con dei tappi alle narici, per non soccombere al fetore e quindi al vomito. La schiena ci mise poco a dolergli, le mani a riempirsi di calli. A fine turno, tornava in uno scantinato di quindici metri quadri che aveva affittato a Tamburi. Prima, durante e dopo cena, se ne stava seduto e pensava, pensava pensieri non troppo diversi da quelli che lo avevano già tormentato durante la giornata di facchinaggio: ricordava quando aveva conosciuto Ludovica, si chiedeva se quattordici anni fa avrebbe potuto intuire che quell’incontro poteva essere l’inizio della sua rovina,

27


28

se nei quattordici anni seguenti avrebbe potuto fare scelte diverse da quelle che aveva fatto. In principio aveva creduto che la colpa potesse essere sua, che magari si era rovinato a causa della sua formazione autodidatta da filosofo, che lo aveva portato ad avere la testa troppo tra le nuvole per saper vivere la vita concreta ma non abbastanza da raggiungere la vera saggezza, la vera illuminazione. Ma, poi, pensava da una parte a tutte quelle persone di gran lunga piÚ pragmatiche di lui, che nonostante la preziosa esperienza erano comunque finite nei casini; dall’altra a tutti quelli che, diversamente da lui, avevano approfondito gli studi, si erano laureati, erano diventati dei veri e propri professionisti della cultura, eppure anch’essi avevano finito col mettersi nei guai. No, si era risposto alla fine, la colpa non poteva essere sua, come non


era di tutti quei miliardi di persone che come lui avevano fatto gravi errori, si erano rovinati con le proprie mani, non avevano saputo evitare le trappole escogitate dalla vita. Giovanni Squitieri, giunto al fondo della propria disgrazia, chiedendosi se quattordici anni prima avrebbe potuto intuire che fidanzarsi con Ludovica avrebbe significato cadere in trappola, che avrebbe significato cadere in trappola sposarsi con lei undici anni dopo e dopo due separarsi da lei, sentiva che non avrebbe potuto intuire nessuno di questi errori, perché non era stato preparato a evitarli; lo avevano, piuttosto, addestrato a commetterli. Ma allora, chi era il colpevole?. Aveva cercato a lungo una risposta, e alla fine della propria indagine aveva capito che la risposta non poteva che essere quella: lo Stato. Il colpevole era lo Stato. A indagine conclusa bisognava passare all’azione. Aveva stilato una missiva indirizzata al Ministro della Giustizia. In un tentato bello stile, sovrastimando quel poco di linguaggio giuridico che la sua formazione da finanziere gli aveva fatto acquisire, Giovanni nella lettera in questione lamentava l’ingiustizia profonda che regola matrimoni e divorzi. Spiegava al Ministro che la natura dell’essere umano è innanzitutto poligamica, e che quindi era un sopruso da parte dello Stato volere costringere a norma di legge il cittadino entro un rapporto giuridico monogamico. ‘È altresì ingiusto da parte dello Stato, punire poi il cittadino nel momento in cui, costretto surrettiziamente, a firmare contratti monogamici, si rende conto di avere commesso un terribile errore e ricorra alla clausola del divorzio. Nei fatti il divorzio non è un diritto del cittadino, ma una punizione: il coniuge che chiede il divorzio si trova legalmente in una posizione di totale inferiorità: deve pagare gli alimenti, rinunciare a eventuali figli, cedere eventuali proprietà’. ‘L’essere umano’, aggiungeva Squitieri, ‘è per sua natura (oltre che, come già detto, poligamico) mutevole. L’essere umano nel tempo cam-

29


30

bia, e può succedere che due persone, che un giorno si amano e stanno bene insieme, passato del tempo non si amino più e non vogliano più stare insieme. È assurdo punire chi dei due ha il coraggio di ammettere questa ricorrente verità. È assurdo che lo Stato regoli cose che soltanto il cuore e l’anima dovrebbero regolare. L’occasione, si sa, fa l’uomo ladro, ma è assurdo che quest’occasione la procuri la legge: se il matrimonio fosse soltanto una questione di cuore, il mondo non sarebbe pieno, com’è, di gente che si sposa per accaparrarsi un tenore di vita o un patrimonio. E invece la gente si comporta così perché la legge glielo consente; la legge tutela gli approfittatori, o, come nel mio caso, consente a qualcuno, come la mia ex-moglie, di rovinare un’altra persona soltanto perché non la ama più’. A questa missiva Giovanni non aveva avuto nessuna risposta. L’aveva rispedita, inalterata nei suoi contenuti, altre dieci volte, ma la risposta non era mai arrivata. Giovanni aveva allora deciso di cambiare destinatario. Il Ministro della Giustizia, forse, scambiava la sua lettera, che era d’interesse generale, per una causa perorata a scopi egoistici. Forse doveva allargare la sua protesta, esplicitare il carattere universale che essa di fatto aveva. Quando sei vittima di una malattia, una malattia lunga e dolorosa, una malattia seria, improvvisamente ti accorgi di quanti altri soffrono di quella malattia, di quanto essa sia diffusa, di quanti compagni di sventura tu abbia. Allo stesso modo Giovanni, (una volta che Ludovica l’aveva lasciato, che aveva perso il lavoro, che era stato ripudiato dalla famiglia, che era rimasto solo e indigente), riflettendo sulla propria amara condizione, si era reso conto di quanti come lui si erano rovinati la vita; e non si trattava soltanto di coloro che avevano commesso il fatale errore di sposarsi, e quindi cadere nella trappola mortale della tentata monogamia e dell’inevitabile tradimento e del divorzio; si trattava di tutti quelli che erano caduti in trappola, a prescindere dal tipo di


trappola; potevano essere quelli che si erano ammalati a causa del cibo, quelli che si erano rovinati con mutui e rateizzazioni, quelli ancora la cui esistenza era stata fottuta dal demone del gioco, dalla tossicodipendenza, da un atto criminale. Di gente così, lavorando al porto, vivendo a Tamburi, ne conosceva ogni giorno. Di gente così, a sentire giornali e telegiornali, ne era pieno il pianeta. Nonostante i sintomi erano diversi, la malattia che accomunava lui e miliardi di persone era la stessa: disgrazia autoprocurata. Erano state le loro stesse mani a firmare i contratti matrimoniali, le loro gole avevano ingurgitato o vomitato il cibo; di propria scelta avevano richiesto mutui, puntato tutto su quel cavallo, assunto alcolici e stupefacenti. Apparentemente avevano operato in piena facoltà di intendere e di volere, ma in realtà, come era accaduto a lui col matrimonio, lo Stato non li aveva preparati a non cadere in trappola, anzi. Si trattava quindi di lamentare la malattia in toto, quella disgrazia autoprocurata che tante vittime mieteva in Italia e nel mondo intero. A quel punto però non bastava scrivere una lettera di ben più ampio respiro, bisognava individuare anche un interlocutore la cui azione istituzionale fosse di raggio altrettanto più ampio. Squitieri si era interrogato ossessivamente e a lungo, e alla fine aveva individuato quest’interlocutore nella persona del Ministro della Pubblica Istruzione. La sua indagine lo aveva portato, già da tempo, a scagionare le vittime della suddetta malattia da qualunque responsabilità. Apparentemente sembravano essere loro stessi la causa dei propri mali: in realtà non erano stati preparati a vivere. ‘La scuola ci insegna un sacco di inutilità’ aveva scritto Squitieri nella lettera al Ministro, ‘e non ci aiuta a capire come funzionano il sesso, i rapporti affettivi, le leggi; ci dà una cultura nozionistica. Vasta e inutile. Se fossimo preparati a vivere da adulti, a fare scelte, ci ammaleremmo di meno (e tantissimi dottori resterebbero disoccupati), faremmo molti meno incidenti stradali (e tantissimi meccanici ed elettrauto, e di nuovo

31


32

dottori, resterebbero disoccupati), ci sarebbero molti meno obesi e molte meno anoressiche (e un sacco di dietologi e psicologi resterebbero disoccupati), ci sposeremmo e divorzieremmo molto di meno (e un sacco di preti e avvocati resterebbero disoccupati); ma non crede, Signor Ministro, che sarebbe più giusto lasciare disoccupate le suddette persone piuttosto che accrescere di tanto l’infelicità della Sua popolazione?’. Squitieri, stavolta, aveva parlato a nome di tanti, e dunque era convinto di non potere essere ignorato. E invece anche questa missiva, spedita e rispedita una ventina di volte, rimase senza risposta alcuna. A valle dei fallimenti ripetuti, Squitieri pensò che, forse, era il caso di scavalcare i ministeri, e rivolgersi direttamente al capo dello stato, al Presidente della Repubblica. Gli inviò ben trenta lettere, il cui contenuto non era dissimile da quello delle lettere spedite al Ministro dell’Istruzione (a eccezione ovviamente del destinatario, e di qualche postilla in cui invitava il Capo dello Stato a redarguire i ministri della Giustizia e dell’Istruzione per il fatto che non rispondessero alle lettere dei cittadini). Ogni volta che si era trattato di rispedire la lettera, Giovanni non aveva fotocopiato la matrice (limitandosi a cambiare l’intestazione o la data), bensì aveva ricopiato l’intera lettera di sana pianta. Era convinto che la fotocopia perdesse la forza persuasiva dell’inchiostro che si impregnava nel foglio, e così aveva scritto e riscritto le stesse frasi per mesi. Dopo le prime quattro lettere indirizzate al Presidente, Giovanni non aveva più neanche aspettato il tempo utile a una risposta; ogni giorno, tornato a casa, si lavava accuratamente le mani, si sedeva al tavolo della cucina, e riscriveva la sua lettera; la mattina dopo la imbucava. Ormai non aveva più bisogno della matrice, per copiare, conosceva a memoria ogni singola virgola di quella lettera. Le parole che componevano la missiva gli si presentavano in mente in ogni momento della giornata,


e lui si ritrovava a pensarle, addirittura a pronunciarle, anche quando la cosa era del tutto fuori luogo. Gli era capitato già diverse volte di rispondere a qualcuno, al porto, con stralci di quella lettera; il qualcuno lo guardava strano, e in quell’istante Giovanni si rendeva conto di cosa era successo, e si scusava dicendo che era sovra pensiero. Ma le parole della lettera ormai si riproducevano, nella sua testa, a un ritmo forsennato; ogni lettera che lui riscriveva e spediva ne riproduceva a centinaia nel suo cervello, che ormai era stipato di quelle parole, di quelle frasi, che ne fuoriuscivano come filamenti di cibo da una bocca riempita a dismisura. Colpa dell’Impero Monogamico, si scopriva a rispondere al padrone di casa che gli ricordava dell’affitto. Molti meno incidenti stradali, diceva al collega che gli chiedeva di passargli il secchio. E a un certo punto aveva pure smesso di scusarsi, di accorgersene. Molti meno obesi, molti meno divorzi… Le frasi della lettera sfilavano fuori dalla sua bocca senza che lui se ne rendesse conto. Aveva cominciato a recitarle sottovoce, e gli altri, che lo vedevano parlare da solo, avevano preso a chiamarlo il pazzo, e nessuno gli dava più conto. Il Presidente risponderà, diceva dopo avere imbucato l’ennesima lettera per altre destinazioni, e ripeteva quella frase per tutto il tragitto utile ad arrivare al porto. Il Presidente risponderà, Il Presidente risponderà, Il Presidente risponderà, Il Presidente risponderà … Ma il Presidente non rispose. Quel giorno di luglio, un lunedì, Giovanni Squitieri sarebbe dovuto andare a lavorare alle diciotto, come tutti i giorni dispari. Alle ore quindici, si sedette in bagno. Sedersi sul water ormai, come l’alzarsi da e il sedersi su qualsiasi sedia, era divenuta per lui un’operazione fastidiosa, a causa del male alla colonna vertebrale, ‘gradito’ regalo del suo lavoro al porto. Bestemmiò in silenzio, finché tutto il suo peso si distribuì sulla tavola, e lui poté appoggiarsi con la schiena alla vaschetta, completa-

33


34

mente nudo. Facevano quarantacinque gradi all’ombra. Giovanni sgocciolava un sudore talmente fetente che si faceva puzza da solo. La testa gli scoppiava. Non riusciva ad andare di corpo da sette giorni. I cibi in scatola che mangiava da mesi gli avevano rovinato l’intestino. Inoltre dal piano di sotto una neonata, la figlia dei vicini, urlava come un maiale sgozzato e lui non riusciva a concentrarsi. Teneva sulle cosce la Settimana Enigmistica e c’era un indovinello particolarmente difficile da risolvere: un cavolo, un lupo e una pecora sono sulla riva di un fiume. Un uomo ha una barca e deve traghettare cavolo, lupo e pecora dall’altra parte del fiume. La barca è piccola e può portare una cosa per volta. Come fa? Non poteva certo trovare una soluzione se quella maledetta bambina continuava a urlare, e non poteva neanche riuscire a cacare. Le feci, dure come pietre, erano lì, le sentiva premergli l’ano da dentro, ma non uscivano. Una mosca, intanto, continuava ad appiccicarsi ai suoi piedi, e (quando la cacciava da lì) alla sua faccia, e (se la cacciava anche da lì) alla sua schiena, in un punto impossibile da raggiungere con le mani. Allora Giovanni sbatteva la schiena contro la parete, e la mosca, che si era guardata bene dal farsi schiacciare, riprendeva il suo giro, ripercorrendo le stesse identiche tappe. Il giorno prima un ufficiale giudiziario era andato a trovarlo al porto: erano tre mesi che non pagava gli alimenti a Ludovica. Quella stronza della mia ex-moglie, pensò Giovanni, fa una vita confortevole: ha la mia casa e i miei soldi. Fa una vita confortevole la puttana, pensò Giovanni, una vita davvero confortevole. Davvero confortevole, pensò. Davvero confortevole, pensò. Davvero confortevole, pensò, e spinse le feci con una tale violenza che finalmente uscirono (causandogli un dolore atroce) e precipitarono sul fondo del water. L’acqua che ristagnava fu bucata da quell’ammasso compatto e schizzò verso l’alto, bagnandogli i testicoli.


La neonata strillava ancora e Giovanni non riusciva a venire a capo dell’indovinello. La barca è piccola e può portare una cosa per volta. Se porta prima il lupo, la pecora si mangia il cavolo. Se porta prima il cavolo, il lupo si mangia la pecora. Giovanni si torse in maniera innaturale per prendere la carta igienica, che stava poggiata alle sue spalle, sopra la vaschetta dello scarico (non essendovi spazio sufficiente nel bagno per appenderla da qualche parte). Si pulì l’ano, ancora dolente, e si alzò. Mentre scaricava la propria merda nelle tubature, pensò al Presidente della Repubblica, quell’egoista schifoso che se ne fotteva dei cittadini come lui e delle loro lettere, e sentì, d’improvviso una voglia incontenibile di disastro, di fare qualcosa di breve e di facile, come tutte le cose che hanno a che fare con

35


36

la distruzione. Una goccia di sudore si staccò dal sopracciglio destro e Giovanni pensò alla sua pistola. Raggiunse l’armadio e fece per aprire il cassetto più basso. Non vi riuscì subito. Il cassetto era dispettoso e si incastrava di frequente. Lo forzò, e riuscì ad aprirlo. Ne estrasse la pistola. Bisognava uccidere il Presidente della Repubblica, una punizione esemplare contro l’Impero Monogamico, pensò. Pensò che sarebbe stato difficile organizzare un piano per ucciderlo. Difficile come l’indovinello: se porta prima la pecora, infatti, il lupo non si mangia il cavolo ma quando poi porta anche il cavolo, e torna a prendere il lupo, la pecora si mangia il cavolo, e se porta prima il lupo, dopo la pecora, e torna a prendere il cavolo, il lupo si mangia la pecora. Di certo doveva vestirsi per uccidere il Presidente, pensò. Se mi vesto il lupo non si mangia la pecora, pensò, e, con la pistola in mano, si infilò un paio di pantaloni, senza mutande, e una maglietta. Deve essere carica, però, pensò, così se la pecora vuole mangiarsi il cavolo io le sparo, pensò, e caricò l’arma. L’urlo della neonata si fece più acuto e prolungato. Così non posso pensare, pensò Giovanni, pensando come un urlo, e si affacciò al balcone. Eccola lì, la maledetta neonata che strillava con la sua acuta vocina tagliente. I suoi parenti bastardi potrebbero eccome azzittirla, pensò Giovanni guardando la terrazzina al piano di sotto, e invece stanno lì, a farle da guardia: la madre alla sua destra, alla sinistra la zia e la nonna, tre generalesse obese che danno appoggio alla comandantessa. Gli agenti di scorta del Presidente, pensò Giovanni. Come faceva il cavolo a mangiarsi il lupo, se lei strillava in quel modo?, pensò. Di certo è colpa del Presidente, pensò, è lui che le ordina di strillare, non la mia ex- moglie. Vedeva chiaramente gli spilli sonori che il piccolo mostro sputava fuori dalla boccuccia; li vedeva decollare dal terrazzo, entrare in casa, raggiungerlo e incunearsi nella sua testa. A ogni gemito sentiva gli spilli forargli il cranio, e affondare morbidi nella sua gelatina cerebrale. Quella neonata era l’ostentazione del suo fallimento, la prova carnale della


coppia perfetta, della monogamia riuscita, ‘il trofeo’ dell’idea di famiglia che lui ormai rifiutava come la lebbra. Piccola sacerdotessa di merda, pensò Giovanni, che in una lingua esoterica canti le gesta di padre pene e di madre vagina, del loro amore perfetto, del focolare domestico, della genie imperitura, pensò, e prese la mira. Forse sei il Presidente stesso sotto mentite spoglie, pensò, mentre mirava al cranio della piccola. Poi, però, pensò che se avesse sparato alla piccola il lupo si sarebbe mangiato la pecora, e anche se sparava al Presidente, quando poi tornava a prendere il lupo, la pecora avrebbe mangiato il cavolo. Fu allora che trovò la soluzione. A un tratto le grida della piccola scomparvero, il caldo svanì. Nell’antro del suo cranio rimbombarono le parole che il Sindaco aveva pronunciato sposandolo con la sua ex-moglie. Aveva parlato di ‘sempre’, di ‘mai’, di ‘sincerità’ e ‘fedeltà’, l’aveva incastrato in simili idiozie, anni luce distanti dall’essere umano che cambia, che muta, si trasforma, e l’aveva fatto firmare, l’aveva fregato. Se c’era un colpevole in fin dei conti era lui. Accompagno per prima la pecora, pensò Giovanni. Poi torno e prendo il cavolo, lo portò di là, e tornando a prendere il lupo mi riporto indietro la pecora. A quel punto lascio la pecora e mi prendo il lupo, lo porto di là col cavolo, e infine mi vado a riprendere la pecora e la porto di là col lupo e il cavolo. Bisognava fare un viaggio in più, solo quello. Non doveva sparare alla neonata, e neppure al Presidente. Non c’era bisogno di uccidere il Ministro della Giustizia o della Pubblica Istruzione, e nemmeno la sua ex- moglie. Bastava uccidere il Sindaco. Il Sindaco avrebbe pagato per lo Stato, che era colpevole dell’intera sua disgrazia. Lo Stato che sanciva falsi matrimoni, lo Stato che puniva chi come lui, sinceramente, rifiutava l’ipocrisia di un amore fasullo. Era lo Stato il colpevole, e per lo Stato lui, il Sindaco, che aveva celebrato in giacca e cravatta quell’inganno. Giovanni rientrò. Si guardò allo specchio. La maglietta non andava

37


38

bene, e poi era già zeppa di sudore. Se la tolse, sempre senza mollare la pistola, tirò fuori dall’armadio una camicia, la migliore che avesse, bianca, e la indossò. Abbottonò anche il colletto. Cercò di nuovo la sua immagine riflessa: mancavano le scarpe. Le scovò sotto il letto: un paio di mocassini che calzò a piedi nudi. Così poteva andare. Si tirò dietro la porta, scese le scale e poi, prima di uscire fuori, si infilò la canna dell’arma dentro i jeans, lasciando che la camicia ne occultasse l’impugnatura. A quel punto era pronto. Con tutte e due le mani si portò indietro i capelli, ingellati dal sudore, e lasciò il palazzo, diretto al Comune.

Andrea Tomaselli

bio

Nasco a Catania. 1972. Cresco con i fumetti e il cinema. Poi arriva la letteratura. Inizio tardi a scrivere poesie e a fare sesso. Mi do da fare per recuperare. Mi laureo in lettere moderne con una tesi su Danilo Dolci. Scrivo racconti. Vado a vivere a Torino. Scrivo romanzi. Mi sposo. Docente di lettere nelle scuole professionali. Giro i miei primi cortometraggi. Divorzio. Faccio un figlio e mi risposo. Divento buddista. Giro 'Zooschool', il mio primo lungometraggio.


redazione

Andrea Tomaselli Giuseppe Bisceglia Roberta Carbone Valentina Rivetti

immagini

tratte dai quadri di Amaranta Flagelli

grafica

Valentina Rivetti

Lostenfaund è una rivista online a cadenza periodica

Tutti i diritti rimangono degli autori dei lavori raccolti che liberamente e a titolo gratuito cedono lo sfruttamento dell’opera a Lostenfaund, mantenendo il diritto di ritirare la pubblicazione in qualsiasi momento.

www.lostenfaund.com

39


www.lostenfaund.com

Lostenfaund è un progetto di collaborazione creativa. Valigie piene di storie, immagini, suoni: questo creiamo. PerchÊ le storie non esistono quando si vendono. Esistono quando si raccontano.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.