Futuralismo (Lef4)

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VALIGIA Nº 59

FUTURALISMO magazine online anno 1° numero 4


EDIT

Questa è la nostra quinta valigia, l’ultima del primo anno di Lostenfaund. Non a caso, di nuovo una valigia con un solo racconto, come era successo per la prima (la rivista n° 0). Non a caso perché si tratta di due racconti senza i quali, probabilmente, Lef non esisterebbe. Quando parlai per la prima volta a qualcuno di Lostenfaund, infatti, pensavo proprio al mio racconto, Sei mio, e a quello che pubblichiamo in questo numero: La stanza 115 di Sara Benedetti (donna che ho sposato perché aveva dentro storie del genere). Si trattava di racconti che avevamo scritto anni prima e poi perso, nei labirinti di un’editoria indifferente a tutto ciò che non possa dirsi romanzo, di un medioevo culturale in cui lo smarrimento di senso iberna le volontà creative di chi crede in un’arte che coltivi una persona. Questi due racconti, nel tempo, rimanevano, alla mia lettura, vivi, degni, urgenti, senza pagare il dazio, a volte implacabile, della distanza che rivela difetti. Lostenfaund è venuto fuori pensando ad altri racconti che ugualmente si erano persi, e invece meritavano lettori. Durante quest’anno ne abbiamo

ritrovati e ancora ne ritroveremo, e intanto ecco il momento di chiudere un primo ciclo, con La Stanza 115. Io e Sara avevamo visto Codice 46. Era stata una folgorazione. Una fantascienza, ma così realistica, così umana. Un tipo di fantascienza rara, iniziata forse da Orwell, tenuta in vita da Bradbury e Dick, poi apparentemente estinta dal marketing e dai visual effects e invece sopravvissuta e riconsegnataci intatta da Winterbottom. Ci confessammo che ci sarebbe piaciuto coniare un nome per quel tipo di fantascienza lì, un nome che non c’entrasse coi cyborg o con le fantapolitiche, con possibili mutazioni del cervello o della medicina. Un nome che c’entrasse col fatto che una storia, capitata un giorno o un millennio dopo di noi, scoprisse il suo motivo d’esistere nell’indagare l’animo umano, i suoi affetti, i sogni e gli incubi, in un modo che l’oggi e il realismo non permettevano. Alla fine il nome lo trovammo: Futuralismo. Ci piacque molto. Non restava che scrivere anche noi qualcosa che si sarebbe potuta definire futuralista. Sara l’ha fatto per prima.

Andrea Tomaselli


LA STANZA 115 di Sara Benedetti

K. era un soggetto ricorretto. La conobbi in un bar della zona 21. Era un periodo in cui stare a casa da solo mi creava ansia, a volte veri e propri attacchi di panico. Ormai avevo imparato: una volta scatenato, l’attacco non rientrava. Conquistava rapido altro territorio, inarrestabile. Si infilava in ogni stanza della mia mente prima che potessi arrivarci io, mi chiudeva qualsiasi via di fuga. Il segreto consisteva nel prevenirlo, cercare di distrarmi, uscire, non dargli tempo di braccarmi. Prima, c’erano stati i mesi in cui non volevo vedere nessuno. Volevo sentirmi ed essere allo stesso modo. Solo. Ma quel periodo era passato presto perché non lo ero davvero. I miei disturbi psichici erano tornati a trovarmi. Così avevo preso a frequentare i bar della zona 21. I ricorretti non potevano uscire dalla zona loro destinata, ma gli altri potevano entrare senza alcun problema, sempre che qualcuno ne avesse voglia perché la zona 21 era il deserto. Si trovava nella seconda cintura di Malo, molto lontano da tutto il resto. Io mi ci sentivo a mio agio, per quel discorso della corrispondenza tra dentro e fuori. Non andavo sempre nello stesso bar, ogni sera mi sedevo in un posto diverso finché gli occhi non si posarono su K. Da quella notte iniziai a frequentare solo lo Zoo bar, prima con la speranza, poi con la certezza che l’avrei rivista.

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Aveva un’iride verde e l’altra marrone, K. Guardandola, non potevi mai dirti sicuro di niente. I suoi occhi tradivano l’inquietudine di chi scarta all’ultimo senza avvertire. I gesti a cui si costringeva, sempre gli stessi, erano una forma di ascesi per dimenticare un’altra natura. Questa era l’idea che mi ero fatto guardandola da lontano. Perché avevo trascorso diverse notti semplicemente a osservarla. Sedeva sempre sull’ultimo sgabello in fondo al bancone, ordinava un beethoven e, prima di bere, aspirava l’assenzio. Andava via intorno alle due, non pagava mai. Sorrideva al barista. Un sorriso asciutto, inaspettato. Lui aveva la faccia di quelli che non invecchiano, che fatichi a pensarli bambini e non puoi pensarli vecchi. Moriranno con quella faccia lì, se moriranno. Ricambiava il sorriso ma lei era già tra i tavoli che si allontanava con quel passo unico. Quando K. lasciava lo Zoo bar, uscivo anch’io, con discrezione perché non mi notasse. La seguivo a distanza fino a un portone di ferro dietro cui spariva. Una notte si voltò e mi chiese perché lo facevo. Le dissi che ero certo che standole vicino sarei diventato una persona migliore. “Non ne vale la pena.” mi rispose. Passò molto tempo. Una sera prese il bicchiere con il suo beethoven, si allontanò dal bancone e venne a sedersi al mio tavolo. Era la sera della coppa intercontinentale di soccer, l’occasione più attesa dell’anno per i fanatici del tre d. Nel bar c’erano solo altre due persone oltre me: lei e il barista. “Non ti piace il tre d?”, mi chiese lei. Scossi la testa, non mi piaceva più. Perse le grandi cose che mi facevano andare avanti, me ne erano rimaste di piccole. Il tre d, i bonsai, la cucina. Ma ora iniziavo a disinteressarmi anche a loro. Mi sentivo vicino alla morte cerebrale. “Strano.” aggiunse “Se prendi due persone a caso in questa città, l’unica cosa che avranno in comune è il tre d.”.

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Era stato inventato alla fine dell’età precedente, ma con il Dominio aveva raggiunto le masse. Si indossavano i v-eyes, dei visori collegati ai chip video installati negli occhi dei giocatori. Potevi scegliere a quale schieramento appartenere, quale giocatore diventare. Per novanta minuti smettevi di essere operaio o impiegato del Dominio e ti sentivi altro. Finita la partita, riconsegnavi il visore all’addetto del noleggio e ti restituivano il tuo documento e la tua vita. A me non interessava più. Glielo dissi e la cosa non la convinse del tutto. Si accese un caraibico e me ne offrì un tiro. Era il suo modo per dirmi che eravamo meno estranei. Perché non si suicidassero, questo non mi spiegavo dei ricorretti. La ricorrezione annientava le personalità, bruciava le menti, predisponeva alla dipendenza da ogni sostanza. La ricorrezione prendeva il posto della vita. E forse era questo il punto. Ai ricorretti non sembrava più di averne una. I ricorretti non avevano case proprie, abitavano in edifici fatti costruire dal Dominio all’interno della zona 21. Una stanza. Un water. Un letto. I ricorretti non avevano famiglie. Se due soggetti ricorretti avessero generato una vita, il figlio sarebbe stato sottratto loro e regalato al Dominio, come risarcimento per le devianze dei genitori. I ricorretti non avevano forza per l’amore. Bevevano, scambiavano parole vuote e tornavano nel formicaio a dormire. Quando si svegliavano, andavano ad assemblare per dodici ore elementi di alta tecnologia che il Dominio vendeva a caro prezzo fuori dalla zona 21, là dove sembrava esserci la vita vera. Ma K. aveva quello sguardo spezzato in due. Mi diceva che per lei non era come per gli altri. Non stava riempiendosi di assenzio per ingannare l’attesa della morte. Rimaneva per guardare come andasse a finire. Qualcosa la aspettava.


Accettai il tiro, contento di avere quest’altra cosa in comune con lei, la terza. La prima era la disperazione che ci percorreva dalla testa ai piedi come una filigrana, la seconda era il piacere fisico per i suoni sintetizzati che arrivavano dalle casse. La zona 21 era l’unico posto di tutta Malo dove si potessero ascoltare canzoni degli anni ‘80 dell’Era democratica. Nel resto della città l’unica musica consentita era quella creata dopo l’avvento del Dominio. Ma per la zona 21 il discorso non valeva. Che ascoltassero pure la musica degli anni precedenti, che ricordassero pure cosa c’era prima. Per il Dominio erano già morti. E in un certo senso era vero. Gli individui ricorretti avevano subito una doppia procedura di pulizia. La correzione che veniva inflitta ai ribelli era seguita da una ricorrezione nel caso in cui fossero tornati a ingrossare le fila della resistenza. Io di procedura ne avevo subita solo una. Ma era bastata a privarmi di ogni volontà, mi avevano lavato il sangue e i neuroni dal dissenso. Con la correzione potevi ancora ricordare tutto quello che avevi fatto ma i motivi per cui l’avevi fatto, quelli non tornavano più. Dopo la correzione, mi sentivo per la prima volta a posto, una sensazione nuova, quella di essere pulito, di non aver più niente da nascondere, nessuna vita formicolante e segreta sotto la superficie. Avevo preso a frequentare il tre d e i corsi di hobbistica offerti gratuitamente dal Dominio. Eccellevo nell’arte del bonsai. Cucinavo piatti che non mangiavo, li lasciavo invadere dagli scarafaggi prima di buttarli via. Lavoravo nel mio appartamento. Dalla mia postazione, tramite il terminale informatico, controllavo gli spostamenti dei residenti all’interno di Malo, segnalavo mete ricorrenti, convergenze sospette. Uscivo poco. Guardavo una donna nella metro, in un ristorante. Se ricambiava lo sguardo, trascorrevamo la notte insieme. Ma tutto questo non è bastato più. Si vede che certi insetti, anche se sterminati, con-

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tinuano a deporre le uova in un angolo segreto di qualche organo o in una piega della coscienza in cui l’anestesia non è arrivata. Ho iniziato a frequentare la zona 21 come se, nonostante non avessi subito una seconda procedura, fosse quello il posto a cui appartenevo. Sapevo che qualcosa di simile era successo ai superstiti dei campi di concentramento nazisti del secolo XX: una volta in salvo a casa, spesso si erano suicidati. Perché era un altro il posto a cui appartenevano. Per seguire lo stesso destino delle uniche persone a cui sentivano di assomigliare. Lo stesso accadeva a me. Non ero finito nella zona 21 per una deficienza di volontà, ma era lì che dovevo stare. E aver incontrato K. me ne convinse definitivamente. Era l’anno ventinovesimo del Dominio e avevamo smesso di credere ai miracoli. Al Dominio mancava l’annessione di pochi territori, ormai. Entro qualche anno, tutto il pianeta sarebbe stato un unico identico paesaggio. Il cielo non era mai completamente coperto. C’era sempre un disco bianco che si intravedeva nel grigio. Non scaldava, non illuminava. Rimaneva lì a ricordare che sarebbe potuta andare in un altro modo. Il tempo che non passavo nella zona 21, rimanevo in casa. Sedevo poche ore al terminale, segnalavo al Comando centrale qualcosa per non attirare sospetti e controlli sulla mia postazione. Attraverso il vetro della finestra, guardavo i bonsai alloggiati sul davanzale. Ne scrutavo il piccolo tronco ricurvo, le miniature dei fiori bianchi o rossi. Per qualche anno erano stati il mio orgoglio, ora si mostravano nella loro essenza: erano una correzione. Come i corsi di dizione, di sport ed efficienza fisica, di estetica. Il Dominio correggeva, non faceva altro tutto il tempo. Fino ad allora non avevo riflettuto molto sulle procedure di correzione.

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Prima non ci pensavo, avrei morso il polpo proprio al centro della testa, volevo cambiare l’intero pianeta e non avevo tempo per le sue singole storture, mi disinteressavo dei tentacoli. Poi, mi avevano lavato il sangue e ogni pensiero era scivolato via. Da quando avevo conosciuto K., da quando avevo fumato con lei il caraibico e la sua voce viaggiava nella mia testa, unica traccia umana tra suoni sintetizzati, ero tornato a farmi domande. Mi chiedevo come sarebbe stata senza la ricorrezione. Perché quello che il dolore fa, non puoi mai saperlo. Come lavori dentro di te, quali disegni descriva con infinita pazienza liquida. In molti credono che il dolore sia una detonazione, una tragedia i cui effetti devastanti sono subito evidenti. Invece il dolore è un’inondazione con l’acqua che sale man mano e tu non sai se diventerà pericolosa e quando. A un certo punto gli argini cedono e i danni, quelli, li scoprirai solo dopo, quando il fiume ti avrà lasciato in pace. Negli occhi di K. vedevo chiaramente la riga ondulata dell’acqua che, dopo la tragedia, si era ritirata. Con i danni ci faceva i conti tutti i giorni. Le bastava guardarsi al mattino mentre si infilava la tuta grigia dei ricorretti o sfiorarsi durante la giornata. Aveva una gamba di carne e una in lega. Il titanio che aveva preso il posto della sua gamba era allo scoperto, appena sotto i vestiti. L’altra, quella vera, linee morbide, pelle chiara, qualche linea celeste delle vene che la percorreva come in trasparenza, era un’opera d’arte. Ancora più bella perché unica. La gamba l’aveva persa durante un atto terroristico. Accarezzargliela così, distesi sulla sua brandina, mi aiutava a ricordare chi era e cosa le si agitava dentro. Facevamo l’amore nella stanza a lei assegnata. Stanza 115, Quarto Dormitorio, Terza strada. La mia casa non era granché eppure sognavo di portarla lì un giorno. Era spoglia, quasi come la stanza 115. La maggior parte dei poster erano stati ritirati dall’esercito della Censura. Ero stato ingenuo, li


avevo lasciati dov’erano. Mi ero rifiutato di nasconderli. Ne sopravviveva uno soltanto perché ai tempi della retata non c’era ancora. Raffigurava un corpo umano con i meridiani che lo attraversavano. Su queste linee blu erano evidenziati dei punti in rosso. Punti energetici o qualcosa del genere. L’avevo preso a casa di mia sorella. Stavo andando da lei quando la portarono via. La guardai da lontano per l’ultima volta, non feci nulla, tranne entrare in casa sua e strappare dalla parete questo poster. Non ero più tornato da quelle parti, ma una volta a settimana mi spogliavo, mi sdraiavo sul letto e infilavo gli aghi dove il poster mi suggeriva, dove Johanna me li aveva inseriti sapientemente per mesi, una volta a settimana. La verità è che non mi aiutava - il dolore io l’ho sempre combattuto con la morfocaina - ma mi ricordava di quando c’era lei. Restavo sdraiato con gli aghi che mi trafiggevano il cranio, il torace, le mani. Chiudevo gli occhi, sentivo il prurito che quel metallo filiforme mi creava entrando nella pelle e cercavo di ricreare nella mia mente la sua figura accanto al lettino. Ma i miei neuroni sfibrati faticavano a tenere l’immaginazione e tutto questo durava meno di qualche minuto. Poi stringevo le palpebre, le serravo per non farla andar via, ma i colori sbiadivano, il nero si mangiava il suo viso. Sentivo solo una pioggia gelida che mi trapassava la pelle. Sfilavo via gli aghi e uscivo dalla stanza il più velocemente possibile. Era stata la correzione. Non sapevo cosa mi avessero fatto. Di qualunque cosa si fosse trattato, mi aveva lasciato dei dolori insopportabili. Scosse elettriche che partivano dalla colonna vertebrale e finivano nel cranio. Lo percorrevano, rimbalzando tra le ossa, poi per qualche ora, mi regalavano un po’ di tregua, finché, senza che io sapessi perché o quando, non tornavano.

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La verità è che con il dolore è impossibile trovare un accordo, venirci a patti. La tregua che ti lascia è sempre troppo breve. Ti scopri irragionevole come non pensavi di poter essere e vuoi che la pace continui ancora perché ti sembra di essere andato oltre quello che potevi sopportare. È stato così che li ho cercati. Al parco, erano gli unici che stavano fermi, che non sentivano freddo. Così li riconoscevi. Vendevano morfocaina. Il Dominio ufficialmente l’aveva dichiarata sostanza illegale e loro in teoria rischiavano di finire male. In realtà il Dominio non li condannava: pagava loro uno stipendio misero e si intascava tutto il profitto. E se qualcuno sgarrava e nelle casse imperiali arrivava un migliaio di low in meno, finiva negli istituti di detenzione a rimpiangere il sole grigio e gli alberi di plastica. La mia dispensatrice di serenità era una ragazza. Bionda, minuta, sembrava una bambina buttata in pasto al mondo degli adulti. Non ricordo il colore degli occhi, mi ricordo però i mezzi guanti di lana spessa e nera da cui spuntavano i polpastrelli che tenevano stretta la fiala di morfocaina. Spezzavo il vetro e la versavo sotto la lingua. Era veloce, era quello che mi ci voleva, rapida come i calci che avevo preso in faccia certe volte, così rapidi che neanche li avevo visti, ne avevo sentito solo l’effetto. Il cuore rallentava, una morsa d’acciaio allacciava la nuca e poi una pace calda e artificiale dilagava nel cervello. K. e la morfocaina non si conoscevano. Sopportava il dolore che la ricorrezione le aveva sparso nel corpo con la sola volontà, tagliandolo in due con quello sguardo che non abbassava mai. Quando stava per mollare, ordinava un beethoven doppio. Aspirava l’assenzio chiudendo gli occhi e andava avanti. Era passato qualche mese dalla prima notte in cui ero salito nella

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stanza 115. Pensai di portarle un regalo, un tascabile illustrato di astronomia che mi aveva dato mio padre per il settimo compleanno e che da allora avevo sempre con me. Lo sfogliavo spesso, prima di addormentarmi. Per questo ricordavo che c’era un universo dove avremmo potuto essere liberi. E che c’era una stella, la prima della sera, che si chiamava Vespero. Da qualche parte lassù, esisteva ancora. Volevo che lo avesse K., volevo darlo a lei ma quella notte non trovai il momento per farlo. Era l’alba e avevo aperto gli occhi da poco, quando K mi abbracciò e mi chiese un figlio. “Un figlio?” La guardai come fosse un’estranea, più estranea di quando l’avevo vista per la prima volta allo Zoo bar. Soffrivo di attacchi di panico, ciclotimia, schizofrenia paranoide. I miei disturbi dormivano nel mio DNA. Li sentivo minacciarmi da lontano. Mi alzai dal letto, cercai la distanza. “Perché un figlio?” Continuò a guardarmi e sorrise, senza rispondere. Le scattai una foto, non mi sarei mai abituato all’idea di perdere quello sguardo. Me ne andai dal dormitorio stringendo con la mano il libro che era rimasto nella mia giacca. Il freddo mi penetrò dentro il cervello. Da quando mi avevano creato a forza il buio nella mente, cercavo di eliminare ogni novità. L’ignoto alimentava la paura, avevo imparato questo. Una volta a casa, mi sedetti alla postazione di lavoro ma non riuscii a fare nulla. Mi impossessai dell’username e dell’identificativo di posizione di qualcun altro. Inoltrai all’Ufficio centrale di Registrazione una richiesta di informazioni. Volevo che mi spaventassero, che mi costringessero a dirle no. La verità è che nessuna risposta avrebbe avuto la forza che aveva lo


sguardo o il sangue di K. “Un battito d’ali di farfalla”, questo mi raccontò. Nostro figlio cresceva, iniziava a muoversi, le faceva il solletico nella pancia. Presto K. avrebbe dovuto lasciare la stanza 115. Sarebbe stata trasferita nel reparto monitoraggio dell’Ospedale Periferico fino a quando non fosse arrivato il momento che nostro figlio si sentisse abbastanza forte per lasciare il corpo di sua madre. Lei l’avrebbe intravisto o forse no. Non avevo idea di come sarebbe andata. Non ero mai entrato nell’Ospedale Periferico, non avevo mai avuto figli con un soggetto ricorretto. Non avevo mai avuto figli. Tutto quello che avevo era una comunicato dell’Ufficio centrale ricevuto dodici ore dopo l’invio della mia richiesta. Se un soggetto ricorretto di sesso femminile dà alla luce un bambino la cui paternità è ignota o attribuibile a un altro soggetto ricorretto, il bambino in questione verrà prelevato dall’utero della madre con operazione chirurgica prima del termine della gravidanza e affidato ai Collegi. Se la paternità del bambino è rivendicata – e quindi comprovata da analisi genetiche - da un soggetto non ricorretto che si dichiari disponibile a occuparsi della sua educazione, si attenderà il parto spontaneo per affidare al padre il neonato con l’ordine che non venga mai a conoscenza dell’identità della madre. Al padre viene fatto espresso divieto di introdursi nella zona 21 con il figlio ed è consentito l’ingresso della sua persona solo sotto stretta sorveglianza. Ogni tanto, lo rileggevo. Smettevo di lavorare e lo scorrevo con lo sguardo. Come un mantra, come un vaccino. Perché non mi sorprendesse. Ma l’ultima volta non riuscii ad andare oltre la prima riga. Nel-

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la vena del collo sentii pulsare il battito del cuore, l’aria si spezzava, non arrivava più ai polmoni e dal centro della schiena sentii partire la prima scossa. Morfocaina, pensai. La bionda non c’era più al parco. “Ci ha provato, ma qui non sgarra nessuno. Nessuno c’è mai riuscito.” Questo mi disse quello che aveva preso il suo posto, il suo angolo. Era solo un ragazzo che cercava di sopravvivere come tutti ma lo odiai da subito. Gli chiesi i particolari. Una sera la bionda aveva lasciato il parco con l’incasso della giornata e il giorno dopo non era tornata. Si era innamorata di qualcuno che l’aveva guardata davvero negli occhi. “Per questo non è andata a versare l’incasso. Dovevano vedersi quella notte all’incrocio tra la 46esima e l’autodromo.” mi raccontò. La immaginai con i capelli nascosti nel cappuccio di una felpa nera ad aspettare. Le dita strette intorno alle banconote nella tasca. Lui tarda, lei per la prima volta si accorge di sentire il freddo. “Una brutta sorpresa. Era un agente di Polizia.” continuò il ragazzo. Ero certo che la bionda dentro di sé sapesse la verità, non si passa metà della vita al parco senza affinare la vista. Ma la stanchezza l’aveva presa e lei aveva preferito un piccolo sogno a colori per qualche giorno. “La Squadra Operativa l’ha portata via e lui se n’è tornato a casa.” concluse. Quando la scossa mi raggiunse il cranio, la vidi. Chiusa in una cella degli istituti di detenzione. Gli occhi erano verdi. Mi vomitai sui piedi, il ragazzo si spostò in tempo per non sporcarsi. Dentro di me lo incolpai di tutto. Mi chiese se volevo della morfocaina. Risposi di no. Senza morfocaina e con l’elettricità condensata in coltellate nella mia testa da ore, andai da K. Il motore dell’autobus si arrese un chilomet-


ro prima di arrivare alle porte della zona 21 e non c’erano altri mezzi per arrivare. Proseguii a piedi, con le scarpe che affondavano nella neve, fino al Quarto Dormitorio. Quando entrai, una donna al primo piano mi fissava dalla porta semichiusa. Salendo le scale, mi resi conto che le mie suole lasciavano impronte di fango e acqua. Pensai che mi avrebbero trovato. Non ero pedinato, non ce n’era ragione, ma ero sicuro che qualcuno mi seguisse. E mi avrebbe trovato. Mi convinsi che l’autobus non si era rotto per caso. Arrivato al piano, notai che la porta era spalancata. La stanza 115 era vuota. Scesi le scale, ricalcai le mie orme di qualche istante prima. La donna era ancora lì, mi aspettava. Cercando nell’acqua che aveva invaso il suo cervello, afferrò il ricordo scivoloso di qualche ora prima. “Sono venuti a prenderla. La polizia l’ha presa.”, disse. Qualcuno doveva aver parlato. “Portami a letto ora.” mi implorò. La depositai sulla branda. Le sistemai le gambe piegandogliele un po’. La lasciai in posizione fetale a fissare la feritoia da cui arrivava una luce opaca. Richiusi la sua porta. A quel punto guardai il corridoio pieno di scarafaggi. Pensai alle uova degli insetti che non mi avevano lasciato in pace. La fila di impronte che arrivava a me. Mi aveva trovato. Dopo una tregua di qualche mese, la solitudine mi aveva stanato. Corsi all’Ospedale Periferico, all’infermiera che presidiava l’ingresso raccontai tutto. Avevano portato lì una donna, un soggetto ricorretto, era incinta, al sesto mese. Io ero il padre, ero il padre del bambino che si muoveva come una farfalla dentro la sua pancia. E li volevo vedere, tutti e due. “Come si chiama?” mi chiese “La donna, come si chiama.” Non lo sapevo, mi aveva detto K. Per me era K. Non aveva una casa, non aveva ricordi, che importava del nome? Aveva una gamba in tita-

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nio, però. Questo lo sapevo. “Comunque i ricorretti di sesso femminile condotti in stato di gravidanza non possono ricevere visite”. Mi porse un foglio elettronico dove scrivere il mio identificativo di casa. Se era vero quello che sostenevo, al momento della nascita di mio figlio, sarei stato chiamato. Mi allontanai dall’ospedale senza pensare a K. né al bambino. Incredibile a dirsi ma fu così. Mi allontanai con lo stordimento di chi non dorme da giorni o di chi non ha fatto altro negli ultimi mesi. Non mi venne in mente lei neanche quando entrai nello Zoo bar. Ricordai solo quello che teneva tra le mani per aiutarsi. Forse avrebbe aiutato anche me. Ordinai un beethoven. “Doppio” aggiunsi. Il barista annuì. Era sempre lui, non era invecchiato di una ruga. Quando mi portò il bicchiere, aspirai. L’assenzio rotolò in vortici di fumo fino al mio cervello. “Non ci sono più.” dissi. “Me li hanno portati via.” Pensai che avrebbe voluto saperlo. Mi ricordavo di come lei gli sorridesse andando via dal bar, pensai che il suo sorriso gli mancasse. Lui mi guardò dritto negli occhi, nessuna reazione, nessun impulso nervoso a muovergli la faccia. Ci misi qualche istante a mettere insieme i pezzi. Mi alzai, lo presi per il collo della camicia. Qualcuno seduto ai tavoli si girò a guardare e, come se non vedesse nulla, tornò a fare quello che stava facendo. Mi circondò i polsi con le mani ma niente mi avrebbe fermato. Scaricai tutta la forza che avevo in un sinistro. Lui scartò di lato con qualche secondo di anticipo sui miei riflessi ritardati dall’assenzio. Gli uomini della Polizia di stanza nella zona 21 invasero il locale in pochi istanti. Ebbi solo il tempo di guardarlo un’altra volta.


Passai cinque anni in carcere. Due erano quelli della sentenza, i restanti me li ero guadagnati io. Aggressione a un agente di sorveglianza, rissa, tentativo di evasione. Questo però successe dopo. I primi mesi non diedi nell’occhio, li passai sapendo che io e K. eravamo prigionieri in due posti diversi. Ma lei in realtà non era sola. Io ero anche dentro di lei. E mi sforzavo di pensare che tutti e due eravamo in un posto che nessuno, né gli agenti di sorveglianza, né le uova degli insetti, né i terminali informatici, poteva raggiungere. Nuotavamo nel mare che aveva dentro di lei, in un buio che per una volta non faceva paura. Eppure non bastava. Non potevo uscire, non avevo morfocaina, non avevo i locali della zona 21. Il panico mi trovava facilmente in una stanza di due metri per due. Le notti in cui non avevo dolore però ci riuscivo. Mi stendevo sulla branda a occhi aperti e mi concentravo sul soffitto finché non veniva divelto dal resto dell’edificio e poi volava via. Come fossero di cartone, le pareti precipitavano e io lievitavo fino a vagare con la mia branda nell’universo. Poi lasciavo anche questa e nuotavo nell’aria, mulinando le braccia come l’uomo nel quadro di un pittore che era tra i miei poster tanti anni prima. Il viso di donna che è stampato sulla luna abbandonava la sua espressione vagamente inquieta e, semplicemente, restava a guardare nel buio. Disegnai un calendario sul muro, solo un promemoria. Non cambiava niente, non mi avrebbero fatto uscire di lì ma potevo immaginare più o meno quando sarebbe nato. Una notte ci portarono nella sala del tre d per la finale della coppa intercontinentale di soccer. Il Dominio sfidava il Regno antartico sul

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campo mentre pianificava di annetterlo. Noi eravamo una fila di uomini scortati dalle guardie che uscivano da una tana e rientravano pochi metri dopo in un’altra. Cercai di stirare quei minuti in cui attraversavamo il cortile per farli durare il più possibile. Guardai in alto e la coltre di grigio che sovrastava Malo in alcuni punti si era assottigliata. Mi sembrò di vedere la prima stella. Vespero. Non so se la vidi davvero perché i miei occhi abituati all’oscurità della cella faticavano a mettere a fuoco, mi ingannavano spesso. Mi convinsi però che fosse un segno e che fosse nato. Nostro figlio, di cui non conoscevo il nome, era nato. La luce. Alla luce, per quanto grigia e sbiadita, non ero più abituato. Appena fuori dal cancello, strizzai gli occhi per difendermi dalla luce dopo cinque anni trascorsi al buio dell’istituto di detenzione. E poi gli spazi e la profondità dei piani, non ero più abituato neanche a questo e avevo continui problemi di messa a fuoco. Non riuscivo a capire, con il solo guardare, quanto fossero distanti da me oggetti, edifici e persone. Non sapevo più muovermi nel mondo. Ero un uomo libero senza alcun posto a cui tornare. Avevo due persone. Mio figlio che cresceva in qualche stanza degli Imperiali Collegi perché alla nascita non c’era stato nessun padre a portarlo via con sé. E K. a cui non avevo il coraggio di confessarlo. Così decisi di tornare a casa mia. E scoprii che là fuori il mondo non si era fermato. Il Dominio stava per completare i suoi piani. Aveva soggiogato ogni territorio che resisteva indipendente, gli mancava ormai soltanto l’Alleanza con il Regno antartico. La mia casa non esisteva più. Scoprii che la 36esima era diventata il fulcro del gioco d’azzardo di Malo. Bische, lotterie truccate, roulette russe. Il seminterrato del mio palazzo ospitava i combattimenti clandestini. Sorrisi pensando che alla fine da parecchio tempo quella non era più casa mia, non lo era mai stata. Il posto più simile a una casa era la stanza 115.

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K. mi mandò a chiamare sul finire di quell’anno. Un tipo losco, dalla barba incolta e l’alito pieno di fumo si avvicinò alla panchina. Erano mesi che dormivo al parco, nell’angolo dove anni prima incontravo la ragazza bionda. Non so perché, ma quello mi sembrava il posto giusto. Come se il suo ricordo fosse l’unica cosa che poteva regalarmi il sonno. Pensai che l’uomo volesse uccidermi o picchiarmi. Non avrei reagito. Invece con una voce sabbiosa mi disse che K. aveva chiesto di me. Raggiunsi la zona 21 a piedi, come un pellegrinaggio in cui scontare tutti i peccati, anche quelli che non avevo commesso, anche le colpe degli altri. Volevo arrivare da lei trasparente in modo che potesse guardarmi attraverso. Lo Zoo bar resisteva. Stessa insegna, stessi tavoli. Qualche lampadina si era bruciata, nessuno aveva provveduto a sostituirla. Cercai nel buio che si era infittito i suoi occhi. La trovai seduta al mio tavolo, il viso assottigliato, sorrise nel vedermi. Fece un cenno perché mi avvicinassi. Ci guardammo per qualche minuto in silenzio. “Ha negli occhi la luce di certi pomeriggi che abbiamo passato a letto.”. La prima cosa che mi disse. Avrei voluto chiederle altro, tutti i dettagli, come era stato quando l’aveva visto. Perché a me non era riuscito. Non c’ero quando era nato e, anche ora che ero libero, mi difettava il coraggio di andarlo a conoscere. Non glielo chiesi, la guardai a lungo invece. Il suo sguardo aveva perso i colori originari. Il marrone e il verde erano solo ricordi, l’acqua li aveva conquistati. Poi mi disse che aveva ancora una cosa da fare. Guardò in alto verso i monitor. Il Dominio stava per firmare un’alleanza con il Regno antartico. Non si parlava d’altro nelle reti di comunicazione ufficiali e non ufficiali. Il giornalista ricordava che l’alleanza avrebbe dato luogo al più vasto Impero della storia. Il gran giorno si avvicinava. La triade del


Dominio e il gotha del Regno antartico si sarebbero incontrati nella Sala del Governo di C. K. mi raccontò che la resistenza aveva organizzato tutto. Alcuni avrebbero eliminato parte della squadra di sorveglianza. A lei il compito di sfondare con un’auto rubata le barriere d’interdizione della zona 21 e correre fino all’autostrada che collegava Malo a C. Il piano era perfetto: il sistema di sorveglianza avrebbe dato l’allarme in ritardo e prima che la Polizia l’avesse localizzata e raggiunta, si sarebbe fatta esplodere contro una delle automobili nere della triade. Mi chiese di guardarla dal cavalcavia. Poi mi strinse le mani e sul nostro nodo fece leva per alzarsi. La gamba di titanio che anni prima era un discreto surrogato, ora era l’unico appiglio che aveva. Mi scolai il bicchiere. Raggiunsi il bancone e al nuovo barista chiesi notizie dell’altro. “È morto. Qualcuno gli ha sparato, nessuno sa perché.” Guardai attraverso il buio e il fumo, la vidi uscire e mi tornò, irresistibile, la voglia di seguirla. Lo stesso sguardo di sua madre. Un’iride marrone, l’altra verde. Cosa aveva di mio? Rimanemmo in piedi, distanti, a guardarci. Non c’era niente sul pianeta che avesse a che fare con me quanto lui, eppure niente mi era più estraneo. Era alto per la sua età ma aveva solo sette anni. Mi avvicinai e gli porsi il tascabile di astronomia. Lo prese, lo sfogliò. Dentro trovò la foto di K. Sorrideva nonostante intorno a lei l’intonaco della stanza 115 avesse ceduto in molte parti, nonostante i miei dolori e i suoi incubi. La guardò ancora per qualche istante, in silenzio. Riconobbe il suo stesso sguardo, credo. Poi alzò gli occhi su di me. “Raccontami qualcosa di lei.” disse mentre mi osservava. Mi chiedevo cosa pensasse di me. Ma ancora di più mi domandavo cosa gli si fosse

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già inciso sull’anima, cosa avesse già visto con quello sguardo. “È stata il mio motivo per continuare a vivere.” gli confessai. “Qualcosa di lei.”, ripeté. “Aveva delle gambe bellissime ed era unica: una guerriera metà donna e metà macchina. “ Lui annuì soddisfatto mentre i suoi occhi di adulto non mi mollavano. “Se fosse qui ti direbbe che anche se non sembra, tu puoi scegliere. Non c’è niente nel futuro che può fermarti, neanche la Polizia o il dolore.” Mi ascoltò in silenzio. Gli accarezzai la testa con un gesto goffo e mi voltai per andarmene, quando mi raggiunse la sua voce. “Adam.”, disse. Una strana calma mi pervase, come se per la prima volta qualcuno avesse detto la verità su di me. “Sì.” risposi. “Puoi portarmi con te, adesso.” Mi voltai e vidi un bambino con il tascabile di astronomia stretto nella mano. Mi sentii grande e piccolo allo stesso tempo. All’improvviso capii quello che aveva capito K. Il mondo ricominciava, sarebbero tornate le costellazioni. Tornai indietro, da lui. “Come sai il mio nome?” gli chiesi. Alzò le spalle, non mi avrebbe risposto. “E io ti posso chiamare Vespero?”, gli domandai ancora. Sorrise, divertito. Tornò serio per dirmi: “Puoi chiamarmi V.”. Mi prese la mano e ci avviammo verso l’uscita. La vecchia casa di Johanna nella prima cintura di Malo. Era abbandonata ma non era stata abbattuta. Tornammo lì. C’era ancora qualche mobile. Ci saremmo arrangiati. Per entrambi era molto meglio del posto in cui avevamo vissuto fino ad allora.

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“Te ne vai?” mi chiese V quella mattina. Mi ero vestito al buio, stando attento a non fare rumore. Si era svegliato comunque. Era ancora sotto le coperte ma quegli occhi mi inchiodavano a una risposta. “Torno presto, adesso dormi.” dissi. Lo lasciai che dormiva nel letto troppo grande per lui solo e andai all’appuntamento con K. Non gli avevo raccontato niente di quello che stava per succedere. Avevo solo sussurrato ancora una volta “Torno presto.” e un’ombra mi aveva lasciato per sempre. Mi sedetti sul cavalcavia, a guardarmi intorno, ad assaporare l’aria di quei momenti in cui la sapevo ancora viva. Sarebbe cambiata di certo. Che lei non c’era più, l’aria me l’avrebbe detto tutti i giorni che mi rimanevano da vivere. Da lontano arrivavano le sirene delle auto della Polizia imperiale. Il cuore prese a pulsarmi in tutte le vene ma non lo ascoltai. Guardai giù, sostenni la vista dell’intera altezza del cavalcavia ma la mia mente rimase calma, avevo fatto una promessa. Tornai a sedermi. Fu allora che comparve all’orizzonte un grosso bagliore, come l’esplosione di una stella, e una colonna di fumo. Il fumo si mischiò alla nebbia mentre una luce diffusa impregnava il cielo tutto intorno. E io, per la prima volta, sentii che forse ce l’avevamo fatta.

Sara Benedetti

bio

Sono nata a Roma e ho vissuto in provincia. Dopo un’infanzia simbiotica con una sorella non gemella, i cartoni giapponesi, le manifestazioni pacifiste, la laurea, gli innamoramenti felici e gli amori infelici, il primo impiego, ho capito che non volevo passare in un ufficio le mie giornate. Io volevo scrivere. Sempre di stare davanti a un computer si trattava ma il fine era diverso. E quindi io e la mia Fiat600 celeste nel 2002 siamo approdate a Torino. Per arrivare al punto, ora scrivo, ho un bimbo, un marito pazzo, la pergamena buddista, qualche guaio, la 600 celeste. E mi piace da matti.


editing

Valerio Codispoti

immagini

Teresa Lucente www.giovaniartisti.it/teresalucente Senza titolo 1, 2012 (copertina) Nella mente dell’uomo, 2012 Dove vai, 2012 Lei e lui (2/2), 2013 Incubo ricorrente sulla perdita dei miei genitori, 2011 MOI 2 ((dalla terza serie Paraschool), 2012 Senza titolo, 2013 grafica

Valentina Rivetti

redazione

Andrea Tomaselli Valentina Rivetti Valerio Codispoti

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Lostenfaund è un progetto di collaborazione creativa. Valigie piene di storie, immagini, suoni: questo creiamo. PerchÊ le storie non esistono quando si vendono. Esistono quando si raccontano.


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