Prima di essere un uomo (LeF 1)

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VALIGIA Nº 35

PRIMA DI ESSERE UN UOMO magazine online anno 1° numero 1


Una canzone che amo a un certo punto recita: “Come un bambino che non si dovrebbe lasciare solo, e l’unico adulto ad accorgersene è lui stesso diventato un uomo”. Mi è tornato in mente quando abbiamo riempito questa valigia, trovata al n°35 di via Infante.

EDIT

Dentro abbiamo messo storie di bambini, o ragazzini, scritte da adulti. I bambini non scrivono storie. Le vivono. O per lo meno iniziano a viverle. E non finiscono mai. Perché non fanno in tempo che crescono e quelle storie continuano a viverle da adulti. Radici così lontane che ormai si fatica a riconoscerle, ma che continuano nei frutti. Come è stato da sempre. E ogni tanto un adulto decide di immergersi,

dentro la terra da cui sorge, e tornare, attraverso un labirinto di umidità sotterranee, alla ricerca di dove tutto ha avuto inizio. Gli inizi, per i bambini, possono essere piccole cose. Quando sei piccolo tu, basta una cosa piccola, singola, a generare mondi: una frase, uno sguardo, un gesto. Una felicità microscopica che non saprai più trovare, o un dolore minuscolo che continuerà a fare male. Le cose piccole, da piccolo, sono così forti, e decisive, che quando ti capita una cosa grande, rischia di ferire a una tale profondità che non basta una vita intera a ricucire. E aspetti che siano altri a farlo. A curarti. A salvarti. Ma non puoi che essere tu. A tornare al bambino che eri, prendere quella cosa, piccola o grande che fosse, e occupartene. Andrea Tomaselli


LA VERA STORIA DI UN GATTO SUI TETTI di Marco Balmativola

Il giorno più bello della mia vita, ovvero quando scoprii che dar da mangiare ai gatti mi faceva sentire felice. Mia nonna aveva questa abitudine, cioè di lanciare gli avanzi di cibo dalla finestra impacchettati in piccoli contenitori improvvisati di alluminio, potevano essere spaghetti, cozze, avanzi di hamburger, tutto quello che si avanzava a pranzo veniva lanciato dalla finestra in questi piccoli gomitoli argentati di alluminio. Il giorno più bello fu quando anche io cominciai a tirare involucri ripieni di cibo ai gatti, come se ci fosse un esercito di gatti da sfamare che si aggirava per i tetti, noi eravamo la croce rossa di quell’esercito di gatti, dovevamo tirargli i rifornimenti cosicché potessero andare avanti con la loro guerra, e poco importava se ogni tanto qualche pacchettino d’alluminio spigoloso colpiva in pieno un gatto, rispondeva tutto alla legge del caso, si colpivano indistintamente gatti di fazioni diverse, non importava che fossero grigi rossi o striati o neri o di razza, anche se era difficile trovare gatti di razza con tanto di pedigree, erano quasi tutti gatti randagi o gatti che si trovavano male con i loro padroni, gatti che erano più che altro abituati a intrattenere rapporti con esseri umani come noi, esseri umani che li sfamassero, e se ogni tanto capitava qualche carezza era ben accetta anche quella, perché confortava l’animo del randagio che partiva per la grande battaglia, la battaglia che consisteva nell’accaparrarsi più provviste possibili, e quindi i gatti mangiavano per poter lottare e lottavano per poter mangiare. C’erano i gatti abituati agli spaghetti, quelli che prediligevano la carne o il tonno in scatola, e allo-

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ra creavano alleanze sulla base di queste preferenze, oppure si accordavano per spartirsi il bottino, tu ti prendi il tonno e io l’amatriciana, ma si sa che fondamentalmente i gatti sono animali individualisti, e gli piace avere compagnia di tanto in tanto, sia di gatti che di umani ed eccezionalmente anche di cani o altri animali che però fungono da prede, come canarini e topi, che sono dei veri e propri svaghi ma non rientrano a pieno titolo nella categoria cibo, in quella ci rientrano le cose già pronte come quelle che io e mia nonna tiravamo con tanto accanimento dal balcone. Un giorno di primavera decidemmo di adottare e addestrare il nostro personale gatto soldato, lo scegliemmo tra una cucciolata orfana della madre, la nostra vicina di casa ci disse di sceglierne uno ma alla fine non c’era stata data nessuna possibilità di scelta perché gli altri gatti erano già stati adottati e uno era morto, erano cinque fratelli, uno grigio, uno rosso, uno bianco nero e rosso, uno bianco, uno nero e uno bellissimo color senape, che era quello morto, quindi in realtà i gattini erano sei ma cinque erano i sopravvissuti e quattro erano stati adottati, così a noi capitò di allevare quello bianco anche se io personalmente avrei preferito adottare quello bianco nero e rosso che era una femmina per la varietà di colori che si portava addosso. Avevo sentito che i gatti bianchi con gli occhi chiari possono rivelarsi sordi, e sapendo questo pensai di testare la capacità del mio soldato di sentire i rumori con una piccola versione in miniatura di una trombetta da stadio, ma da una certa distanza dalle orecchie del gattino bianco, primo per non spaventarlo oltremodo, secondo per non rischiare di renderlo sordo anche se non lo era, il test produsse un risultato soddisfacente in quanto il gattino trasalì e servì anche per comprendere la natura del suo carattere, che poteva apparire soprattutto docile, ma forse questa impressione era data dal fatto che si trattasse di un batuffolo di peli bianchi con gli occhi tendenti al chiaro (forse fu il fatto che non erano occhi chiari per davvero a salvarlo dalla sordità, erano chiari ma non direi azzurri) un gattino quindi dall’aria da gattino, ma in realtà io capii subito che si


trattava di un gatto fiero che sapeva dissimulare la paura, lo vidi dalla posa che assunse una frazione di secondo dopo lo spavento della tromba, era una posa di rimprovero nei miei confronti, rimarcata dallo sguardo, e fu lì che capii che non era un gatto sordo dagli occhi chiari, ma un gattino che avrebbe potuto anche ambire a qualche titolo nobiliare all’interno della gerarchia dei gatti che si era instaurata sui tetti di casa di mia nonna, magari avrebbe potuto essere il più fiero condottiero bianco mai visto, oppure sarebbe potuto diventare anche re dei gatti, chissà. Ma io non mi facevo illusioni, e neanche il gatto bianco se ne faceva, e da quel giorno cominciò a crescere e crescere e crescere a dismisura, fino a diventare il gatto più grosso del palazzo, un gatto enorme ma non grasso, agile, e ne ero fiero perché era il mio gatto, e tutti i giorni cercavo di instillargli i valori del soldato ma in maniera sana, non volevo che diventasse un gatto inutilmente violento o un gatto che si comportava da prepotente nei confronti degli altri gatti, un gatto che non distinguesse il clima di pace da quello di guerra, volevo che fosse un gatto equilibrato, magari un gatto capace di schivare i colpi dell’alluminio, un gatto agguerrito ma leale. E lui capiva che io come maestro avevo dei limiti evidenti, anche perché ero un bambino che la guerra non l’aveva mai fatta, e si faceva nutrire da mia nonna molto volentieri. E la trattava con rispetto, come io avrei dovuto trattarla, mentre invece io di lei ogni tanto mi dimenticavo, anche perché se non ero intento a giocare con i gatti, giocavo con i miei giocattoli, ma era estremamente più noioso e lo facevo solo quando c’erano le tregue, lontano dai pasti, perché poi la guerra ricominciava e allora tutti i condomini il cui balcone affacciava sullo stesso cortile e sugli stessi tetti cominciavano prima pian piano poi sempre più spudoratamente a lanciare involti d’alluminio ripieni di cibo, e si levavano i primi miagolii di protesta, specie quando era sera e il sole cominciava a calare, e i condomini tiravano a caso colpendo e mietendo vittime a non finire, o forse era tutto nella mia immaginazione, e il momento più bello era quando il mio condot-

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tiero bianco, stanco di stare in casa a nutrirsi delle stesse cose scendeva in guerra e voleva a tutti i costi accaparrarsi il cibo degli altri, allora lo vedevo che si metteva vicino alla ringhiera del balcone e con aria fiera guardava gli altri gatti azzuffarsi e io sapevo A COSA stesse pensando, non pensava di volerli fare neri, no, pensava che un giorno sarebbe stato il loro re e avrebbe promulgato delle leggi speciali che regolassero la raccolta degli involucri di alluminio e la loro ridistribuzione tra i meno abbienti, perché era un condottiero contrario alla guerra, un fiero oppositore della violenza gratuita, un gatto dai sani principi che in parte gli avevo instillato io, in parte mia nonna, in parte la tv e i giornali, ma soprattutto che gli aveva dato la sua condizione di gatto orfano e grato di essere stato accudito da una famiglia sgangherata come la nostra, che partecipava così volentieri a un grande gioco di guerra tra gatti senza capire che in realtà per alcuni randagi quella guerra era tutto, e allora si trattava di una vera e propria guerra che durava da decenni e la tradizione di lanciare gli avanzi dalla finestra non poteva che alimentarla, e io non avrei voluto alimentare proprio nessuna guerra e nemmeno mia nonna e nemmeno i miei genitori, noi siamo contro le guerre di tutti i tipi, anche contro la guerra che si fanno i bambini in spiaggia per decidere chi ha costruito il castello più bello o chi ha vinto alla gara di biglie o chi si deve aggiudicare l’ultimo ghiacciolo alla coca-cola. E allora la provvidenza mi aveva regalato questo gatto, se così si può dire, anche se io sono più per attribuire tutto al caso, per insegnarmi che anche la guerra più piccola e insignificante, per quanto comprensibili siano i suoi intenti iniziali, per quanto innocua possa sembrare, andrebbe evitata, anche la guerra tra gatti che nel mio condominio tutti si sforzavano di giocare lealmente, e il più leale di tutti era proprio il mio grande gatto bianco, impavido e fiero, ma lui avrebbe voluto farla finita solo che non era ancora abbastanza adulto per mettere in pratica tutte le sue idee rivoluzionarie contro la guerra. I randagi difficilmente gli avrebbero dato ascolto, in fondo lui era un privilegiato, un po’ come me.


E invece io gli avrei dato una mano volentieri, avrei rinunciato volentieri allo spasso di buttare gli avanzi di cibo per aria pur di dargli una mano a porre fine a una guerra che evidentemente per lui era un faccenda molto più seria di quanto potesse mai essere per me. Però io non sapevo parlare con i gatti, o loro non sapevano parlare con me, questo me lo spiegò mio padre un giorno durante un viaggio in auto. Tu non puoi parlare con i gatti. E allora io ho pensato che forse sarebbe stato meglio per il mio grande gattino bianco nascere sordo, almeno ci sarebbe stata la scusa. Un giorno prese e se ne andò chissà dove, forse a studiare un modo per comunicare con gli uomini, forse a meditare sulla pace e sulla guerra, forse sta progettando un suo ritorno in grande stile, ma mia nonna non abita più nello stesso palazzo e io non lo saprò mai. Non penso che riuscirà a trovarmi. Un giorno, poco tempo fa, cioè tanti anni dopo, chiesi a mio padre “ti ricordi di quando tiravamo il cibo ai gatti?” e lui mi disse che non era mai successo, secondo lui, che mia nonna tirasse cibo ai gatti in pacchettini di alluminio.

Marco Balmativola

bio

Ho 23 anni, sono nato a Torino e da quando sono nato ho cambiato molte case. Ci metto all’incirca 15 anni per metabolizzare, che non è un verbo bellissimo ma rende l’idea, ed è per questo che ho cominciato a scrivere ossessivamente della mia infanzia. Tra altri quindici anni comincerò forse a scrivere della mia adolescenza. Nel frattempo studio alla scuola Holden, recito e scrivo in una compagnia di teatro amatoriale e cerco un modo per mettere a frutto la mia laurea triennale in letterature comparate. Sfida accettata.

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CON LA LUCE NON VALE di Giulia Muscatelli

Anche le bambole hanno paura? Si chiese Alice, mettendo a dormire Linda, la sua preferita. Al piano di sotto tutto era in ordine. La sala da pranzo era stata risistemata dopo il té del pomeriggio, e nello studio ogni libro era tornato al suo posto sullo scaffale. Aveva spolverato la scala, sbattuto i tappeti. I cristalli del lampadario all’entrata scintillavano immobili. Lei e Linda avevano giocato tutto il giorno e adesso ad Alice toccava mettere a posto. Non le dispiaceva, e la soddisfazione maggiore l’aveva quando, una volta finito, poteva passare qualche minuto davanti alla casa a contemplare il nuovo equilibrio. La mamma entrò nella stanza e la trovò con la faccia dentro la camera da letto della bambola. - E’ ora di dormire amore. - Aspetto che si addormenti lei e vado anche io. - rispose Alice senza guardarla, continuando ad accarezzare la testa di Linda. La donna sorrise e infilò la mano nei capelli liscissimi della bambina. Se li faceva passare tra le dita strette, e poi aprendole li lasciava sulla schiena. - Andiamo a letto, dai. Alice sistemò il lenzuolo bianco al mento della bambola, e le diede ancora un’ultima carezza prima di alzarsi. Nel letto la mamma tirò il piumone, finché si distese al punto che sembrava sotto non ci fosse nessuno. Alice stava attenta a non muoversi


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per non modificare l’assetto stabilito. - Linda oggi mi ha chiesto se le compriamo una lampada vera per la sua casa. - E cosa se ne fa Linda di una lampada? – chiese la mamma con la bocca a pochi centimetri dalla fronte di Alice. - Vede quello che succede di notte – rispose lei. Aveva otto anni, e non riusciva a spiegare a sua madre che il problema non era il buio, ma il modo in cui questo cambiava le cose. Al buio anche la sua casa delle bambole aveva un’aria diversa, come se Linda fosse rimasta sveglia in attesa. Le piaceva dormire con una mano fuori dalla casa. Una pallina di pezza troppo grande per entrare nella camera. Scivolava fuori sempre, anche quelle volte che Alice, prima di andare a dormire, si premurava di incastrarla tra la parete e il letto. Così è pericoloso, potrebbe portarti via qualcuno. Linda non capiva. Possibile che riuscisse a stare così tranquilla con tutto quello che poteva capitare? Accadde anche quella notte; Alice notò la mano della bambola che usciva dalla stanza, arrivando quasi a sfiorare il tavolo della cucina al piano di sotto. Si alzò e la prese con sé. Ma non tornarono subito a dormire. Con Linda sotto un braccio - il collo premuto contro l’ascella e il resto del corpo a penzoloni - Alice andò a sedersi per terra, davanti alla camera di sua madre. Stava con le gambe incrociate, le cosce leggermente sollevate, perché la pelle nuda doveva ancora abituarsi al freddo delle piastrelle. - Cosa facciamo qui? - le chiese Linda sussurrando. - Niente. - Allora torniamo a letto, no? Alice non si muoveva. Continuava a fissare sua madre che dormiva. - No, devo controllare.


- Controllare cosa? - Che sia tutto a posto. - Ti accendo la luce? - No, con la luce non vale. Linda non capiva, ma si fidava di Alice. La bambina la sistemò al centro, nel vuoto formato dalle sue gambe. Tutte e due avevano gli occhi fissi sulla stessa cosa. Ma se una guardava solo un corpo abbandonato al sonno, l’altra era concentrata sui particolari di quel corpo; sul petto, sulla bocca. - Vuoi chiederle qualcosa? - A chi? - A tua mamma! La svegliamo? - No, no, se la sveglio si arrabbia. - E allora cosa facciamo? - Aspettiamo. - Cosa? - Che si muova. - E poi? - E poi torniamo a dormire. La figura esile di sua madre lasciava intravedere l’altro lato del letto rimasto intatto, con la coperta perfettamente aderente al materasso, ancora rimboccata. Linda si stupì della perfezione di quella metà. - Ma tuo papà non dorme con tua mamma? – chiese ad Alice. Lei non rispose. Iniziò a mordersi il lembo della manica. L’ultima volta che aveva visto suo padre era buio. Prima di uscire si era fermato per un attimo in fondo al corridoio. Era rimasto immobile, in piedi, con la luce del pianerottolo che filtrava da sotto la porta. Solo grazie a quella luce Alice era riuscita a distinguerne la figura, a capire con certezza che si trattasse di lui. Adesso viene qui e mi dà un bacio - aveva pensato, e si era allungata per bene nel letto, con le dita dei piedi che premevano contro il piumone. Le

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palpebre strizzate, il naso, la bocca, persino le guance, in attesa. Ma poi un rumore, e un altro ancora; la porta che si apre, si chiude, tre giri di chiave nella serratura. Aveva allargato le gambe, tirato fuori le braccia, schiacciato la faccia sul cuscino. Mi bacerà domani mattina, prima di scuola. Solo che la mattina dopo, a scuola, sua mamma non l’aveva fatta andare. Non l’aveva neanche svegliata come faceva sempre. Allora lei si era alzata ed era andata in cucina. L’aveva trovata seduta a piangere. Aveva fatto qualche passo verso di lei e sua madre l’aveva tirata a sé ancora prima che potesse chiederle cosa stava accadendo. Teneva il mento appoggiato sulla sua spalla e le braccia lungo i fianchi. Mentre sua madre la stringeva e le accarezzava la testa, Alice fissava la porta davanti la quale la sera prima aveva visto scomparire suo padre. Ogni tanto si toccava la guancia. Nessun segno di quel bacio, nessuno. Di quello mai più.


Erano sedute lì da un’ora. Alice a volte sbadigliava e si passava la mano sugli occhi per costringerli a rimanere aperti. Iniziavò a sentire freddo, e si allungò la camicia da notte fino a coprire anche le caviglie. Resisteva con la pazienza di chi celebra un rito e conosce la gratificazione alla fine del sacrificio. In fondo sarebbe bastato solo un movimento, anche minimo, una gamba che si solleva, la testa che si sistema sul cuscino. Un solo movimento e lei avrebbe potuto finalmente dormire. Linda ogni tanto cercava di girarsi verso Alice, ma non appena si muoveva, la bambina la rimetteva nella sua posizione. Non aveva voglia di essere guardata. Neanche da lei. Inclinò la testa all’indietro, lasciandola cadere sulla pancia di Alice. La bambina capì - non avere paura- e così la tirò su e se la portò al petto.

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La teneva con entrambe le braccia strette intorno al collo, i capellimorbidi fili di cotone - pizzicati tra le dita. - Andiamo? – chiese lei esausta. - Tu vai, io arrivo tra poco. - Ma da sola ho paura. Alice pensò che la bambola non avrebbe resistito ancora. Che a un certo punto avrebbe alzato la voce, la mamma si sarebbe svegliata, e trovandola lì ancora una volta l’avrebbe sgridata. Si alzò, sistemò Linda con la schiena appoggiata al muro, e in punta di piedi si avvicinò al letto. Controllò le narici, per vedere se riusciva a capirlo da quelle. Ma era troppo buio. Allungò una mano sulla sua spalla e le diede un piccolo colpo con l’indice e il medio. Sua madre non si mosse. Alice iniziò a deglutire saliva e sentì improvvisamente caldo sulle guance. Allora, fingendo di volerle rimboccare, spostò le coperte, ma la mamma sembrava non accorgersi di nulla. La faccia le prudeva, e grattandosi si girò verso la bambola.


- Prova a soffiare sul naso – sussurrò Linda. Questo davvero non l’aveva mai fatto, ma stasera era preoccupata più del solito e ascoltò il consiglio. Sua madre si toccò il naso, come in procinto di starnutire, poi con gli occhi chiusi si girò dall’altre parte. Alice sorrise. Tornate a letto, non riuscirono subito a prendere sonno. Alice guardò oltre la porta della stanza, mentre Linda, di fianco a lei, fissava la sua casa. - Alice…dormi? - Quasi. - Alllora domani me la compri la lampada? La bambina le prese la mano. Chiuse gli occhi. - Si,certo. - Alice? - Dimmi. - Cosa avresti fatto se non si fosse mossa? - Sarei rimasta lì. - Per quanto? - Per sempre.

Giulia Muscatelli

bio

17 settembre 1989, il Torino segna sette goal. Mio padre aspetta i giocatori per un’intervista che però non pubblicherà mai. Quella notte nasco io. Ho studiato Lettere moderne, e tra pochi mesi terminerò il master alla Holden. Ho lavorato in una scuola elementare e nei weekend faccio la cameriera. Mestiere lontano da quello che voglio, ma avete idea di quante storie riesco a origliare? Amo le chiacchiere con il mio cane, il Nobel a A. Munro, le finestre. Detesto chi non crede che il mio cane parli, l’aggettivo “femminile” per descrivere la scrittura di una donna, lavare i vetri; è sopratutto con la polvere che hai a che fare quando vuoi raccontare storie.

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LA TELEVISIONE di Andrea Amadei

Ricordo una bandiera triangolare blu, o forse arancione, di plastica leggera attaccata ad un sottile tubicino bianco. Ricordo d’aver conservato il tubicino anche dopo che la bandiera si era staccata. L’avevo portata a casa dal circo, quella volta in cui i miei genitori avevano portato là me e mia sorella. Io ero molto piccolo all’epoca, tre, quattro anni. A casa mia non si facevano spesso cose di quel tipo, uscite tutti insieme. E a me è rimasto attaccato il sentimento che per essere una famiglia non bisogna fare cose insieme, ma condensare la vita comune, la vita di tutti i giorni, in un tutt’uno pieno e vitale, trasformare la casa in un microcosmo coerente e solidale. Mia mamma era tornata a casa dal lavoro alle cinque come al solito, era segretaria in un’azienda poco distante da casa, ed era di buon umore. Aveva un bel vestito rosso e un gran sorriso. Quando rincasò mio padre, almeno due ore più tardi, si ritrovarono come ogni sera a parlare in cucina, mentre lei preparava la cena. Chiese com’era andata la giornata, se sul cantiere tutto era proceduto a dovere, poi passò con naturalezza a parlare del circo, di quando c’era stata una volta da bambina. Disse che le era venuto in mente perché aveva visto i manifesti per strada. Raccontò allora di come era ancora viva nella sua mente l’immagine di quel carretto scarno che era arrivato in paese, con le scritte colorate ai lati, un asinello a portare una ragazza che spiegava le meraviglie cui si sarebbe potuti assistere la sera stessa, per sole cinque lire. - Ma chi ce le aveva cinque lire? - Disse poi. Continuò allora spiegando come


lei e suo fratello, che ancora non aveva avuto quel brutto disturbo, la sera stessa si decisero per andare a vedere il circo. Erano piccoli, due bambini, ma in quegli anni potevano già godere di una certa libertà. Dissero in casa che sarebbero stati a giocare in strada, come ogni sera, mentre si diressero allo spiazzo sterrato a lato della strada principale, quella che portava in città, dove il comune aveva assegnato al circo il posto dove potersi fermare. Era ancora estate, ma aveva fatto buio presto e c’era da fare duecento metri di strada senza luci per arrivare a quello spiazzo: mia madre aveva paura, perché lo spettacolo era già cominciato e non c’era in giro nessuno, solo le ombre che venivano dal bosco. Suo fratello però, mio zio, non volle rinunciare, se la prese per un braccio e la trascinò fino là, con l’aria umida che saliva dal fiume lungo la strada a farsi sentire alle ginocchia di entrambi, e sotto le magliette di cotone. Arrivarono e videro il tendone, che parve loro quel che di più sontuoso potesse esserci al mondo, con le bandierine tutt’intorno, altissimo e un pennacchio dorato sulla cima. Avevano visto una volta al cinema un film ambientato in un circo, e si ricordavano di quei bambini che di continuo andavano a vedere gli spettacoli mettendo la testa sotto il tendone. Avevano deciso di fare la stessa cosa: quando mai sarebbe ricapitato il circo in quel minuscolo paese sperduto tra le montagne e le cave di marmo? La sorte pareva assecondarli, poiché fuori e tutt’intorno non c’era nessuno. Presero allora a camminare piano, sulle punte, per fare il giro del tendone e cercare un punto dove il telo potesse essere slacciato facilmente. Quello spiazzo, che durante tutto l’anno si riempiva solo alla processione di S. Anna, il mese di luglio, non era mai sembrato così grande, così sconosciuto e inesplorabile. Si sentivano le civette dai boschi di là del fiume, l’acqua che scorreva e copriva ogni rumore e le fronde degli alberi che si scuotevano col vento fresco che veniva d’in cima i monti. Non avevano più paura, stavano per vedere il circo, per realizzare un sogno.

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Quando arrivarono dall’altra parte del tendone rispetto al paese, videro che c’era tutto un altro mondo da esplorare là dietro. C’erano furgoni colorati, gabbie vuote, tende, tavoli ancora apparecchiati a metà, tutto coperto d’ombre e mistero, di quell’odore speziato e gitano che al cinema non avevano potuto sentire. Mentre suo fratello cercava di sciogliere un nodo del tendone lei cominciò ad immergersi in quell’anfratto di normalità, che riconosceva così diversa, ma pur familiare nella sua semplicità. Vide un fornello a gas poggiato su una tavola di legno sostenuta da due sassi grandi, un pentolone sporco ancora di minestra, e poi notò una luce venire da dietro una gelosia di una finestra piccola, in un vagoncino attaccato ad un furgone, una sorta di roulotte. Gli occhi le si fecero scuri dopo che ebbe guardato in quella direzione, aspettò un momento poi continuò a camminare, anche se aveva i piedi freddi e una manciata di sassolini le si era infilata nelle ciabatte. Diceva che non sapeva spiegare perché, ma volle addentrarsi ancora, andare a vedere che ci fosse a quella luce solitaria, lontana e indifferente dal clamore dello spettacolo. Quando fu quasi arrivata, scansò un lenzuolo appeso ad un filo e dal buio emerse improvviso il muso dell’asinello: mia madre cacciò un grido talmente forte che superò il rumore del fiume e raggiunse il bosco. Suo fratello si spaventò e corse subito da lei, e nel frattempo si sentirono rumori arrivare dalle carrozze lì dietro. Era terrorizzata, non sapeva che fare, aveva paura perché era in un posto vietato, circondata da gente sconosciuta e un po’ sospetta, certamente strana. Suo fratello, pure terrorizzato, arrivò da lei e come prima la prese per un braccio e la portò qualche passo giù dall’argine del fiume, tra l’erba alta e i cespugli di ginepro. Si mossero piano verso il paese, restando nascosti, ed aspettarono la fine dello spettacolo. Quando le persone cominciarono ad uscire, si mischiarono tra la folla e raggiunsero casa, - con le gambe graffiate e il viso pallido – raccontò mia madre – che quando i nonni ci videro non ebbero nemmeno il coraggio di sgridarci per il ritardo, tanto s’erano presi paura.

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Mio padre seduto al tavolo della cucina ascoltò tutta la storia, stranamente senza dir nulla, senza interromperla con qualche battuta irridente. E perciò anche io avevo avvertito la singolare importanza di quel racconto, la peculiarità del momento. E infatti subito dopo mio padre disse – Allora facciamo in fretta a mangiare, che non saremo ricchi, ma cinque lire ce le abbiamo: il circo lo fanno al parcheggio del mercato, si fa in tempo -. Mia madre non lo prese sul serio, ma lui insistette e alla fine anche lei era felice, forse più di me, di poter vedere finalmente il circo. Mangiammo un piatto di minestra veloce, - che tanto quando torniamo ci facciamo il caffelatte -, e poi andammo al circo, facendo la fila per il biglietto, entrando dall’ingresso principale. In realtà io non riesco a ricordare molto di quella sera. Il tendone c’era, ne sono certo, ed era molto grande, almeno ai miei occhi di bambino. Ricordo le gradinate di metallo su cui ci eravamo seduti ma nessun animale feroce o spettacoli eclatanti, niente del genere. Ricordo distintamente solo i pagliacci, che gesticolavano animatamente e facevano scherzi che già allora avevo trovato stupidi. Ridevo per la sorpresa di vedere due uomini, due adulti, truccati in quel modo a fare cose imbarazzanti, ma di certo non ridevo per quel che stavano facendo. Poi ricordo il terrore che avevo provato quando si misero a scrutare il pubblico per scegliere dei bambini che andassero a far parte dello spettacolo. Ho sempre odiato stare al centro dell’attenzione, anche quando era il mio compleanno e all’asilo tutti mi cantavano la canzoncina, e io piangevo. Poi tornammo a casa e ci facemmo il caffelatte e io avevo questa bandierina in mano, che appesi subito alla testata del letto. Ero molto contento, felice per la sera appena trascorsa, ma non per quello che avevamo fatto, il circo non mi aveva mai affascinato. La cosa bella e importante era che finalmente avevamo fatto qualcosa come le famiglie della televisione, che escono tutti insieme e sono felici. E questa cosa è molto triste, perché io ero già felice a casa mia.


INIZIA A CORRERE BASTARDO! di Giuseppe Bisceglia

Sullo spiazzo di cemento di fronte la chiesa del paese, le due squadre si sfidavano a denti stretti in una sera di fine estate senza traffico. Cristiano e Giorgio, i due capitani, impartivano ordini ai compagni: “Torna, torna!” “Non così! Passa, passa!” Al posto dei pali, i ragazzi avevano sistemato le scarpe dei portieri e ai bordi del campo le ragazzine del quartiere tifavano a squarcia gola. Sul lato destro della pianura di cemento, un lungo dirupo aveva rubato numerosi palloni e anche quella sera minacciava di interrompere la partita. Infatti, durante un’azione concitata, Cristiano colpì al volo e rinviò il pallone direttamente giù per la scarpata. Dalla vetta del precipizio, i ragazzini si sporsero per rintracciare il pallone, ma il buio pesto non gli permetteva di vedere oltre le punte delle loro scarpe, erano molto demoralizzati e dopo i primi mugugni, fu Giorgio, che indicando Cristiano, disse: “Sei stato tu a tirare il pallone e ora lo devi andare a prendere!” e spinse Cristiano verso il dirupo. Fu un attimo e Cristiano non si vide più. Mentre rotolava giù per il burrone, Cristiano pensava che odiava Giorgio Burza. La mano si era sbucciata al centro del palmo, la sentiva sanguinare. Gli occhiali erano volati via, così la terra gli arrivava dritta negli occhi. La corsa di Cristiano finì contro il tronco di una vecchia quercia. Il bambino era stordito e nell’oscurità della valle distingueva a malapena i cespugli e i sassi a lui vicini. Tastò il terreno con le mani alla ricerca delle sue lenti: scartò una piccola pigna, tanti sassi,

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proseguì facendosi strada nell’erba alta, ma non ebbe successo. Disperato e in lacrime tornò alla quercia, si sedette e guardò in alto in cerca della strada. Metteva a fuoco stringendo gli occhi a palla, quando sentì una voce stridula e sottile provenire da sotto il suo sedere. Si scostò e abbassò la testa, non vedeva nessuno. Così la voce ripeté nuovamente: “Spostati ciccione, ti sei messo in testa di mandarmi in fallimento?” “Chi sei ?” rispose Cristiano con un filo di voce. “Sono Caio il re del FormiCaio, il locale più frequentato della valle, qui a due passi dal tuo deretano, la vedi quella montagnella di terra, la vedi? E lo vedi dove sei seduto? Lo vedi? Hai intenzione di stare qui ancora per molto? hai intenzione di ammazzare altri clienti? Lo vedi che c’è la fila, lo vedi?”. Cristiano non rispose e rimase imbalsamato. “Cosa vuoi? Cosa vuoi ho detto! Dai fai in fretta, devo ripulire prima che se ne vadano tutti, alzati, alzati! E smettila di piangere!”. E Cristiano piangeva. “Basta, basta! – urlò Caio - facciamo un patto, hai qualche briciola con te ciccione?”. “Briciola?”, disse il giovane risucchiando con il naso e asciugandosi la faccia con la mano. “Qualche pezzo di pane, di cioccolata, un cracker?”, chiarì Caio. “No, ho la gomma da masticare”, replicò Cristiano e la fece cadere. Caio salì sulla gomma insalivata, assaggiò e disse: “Può andare. Allora che problema c’è?”. Cristiano rianimatosi spiegò la situazione: “Giorgio Burza mi ha spinto nel fossato, ho perso i miei occhiali, devo riprendere il pallone e non vedo niente, ma se ritorno vivo in strada giuro che lo strozzo, lo giuro!” Caio fece un fischio e un centinaio di formiche si strinsero in cerchio attorno a lui. Dall’alto della gomma da masticare il re del formicaio iniziò a dare istruzioni e dopo alcuni secondi le formiche ripartirono rapide, cocciando l’una contro l’altra come le macchinine dell’autoscontro. Cristiano non capiva e attese paziente sotto la quercia facendo attenzione a non schiacciare altre formiche. La squadriglia di Caio tornò dopo dieci minuti con il paio d’occhiali che fluttuava sotto le zampette.


“Ecco qua ciccione, prenditi gli occhiali e alzati adesso.” Cristiano pescò gli occhiali e li indossò. Alzatosi in piedi si accorse che mancava una lente: adesso da un occhio poteva vedere nitidamente la strada mentre con l’altro tutto continuava ad essere sfuocato. Si abbassò per cercare Caio e lo trovò sulla gomma da masticare che dava indicazioni per portar via i resti delle formiche schiacciate. “Ehi, mi manca una lente!”, gridò in direzione della formica capo. “Io faccio affari non chiacchiere giovanotto, voltati che arriva la tua lente”, rispose Caio senza staccarsi dal lavoro. Cristiano girò la testa e vide arrivare, fluttuanti, mille pezzetti di vetro. Ogni formica ne portava un frammento sulla testa, ondeggiando. I pezzi più grandi invece erano trasportati da gruppi di tre, quattro formiche. “Butta gli occhiali”, disse Caio. Cristiano obbedì e la lente riapparve ricostruita sotto il groviglio di zampette e antennine. “Grazie”, disse Cristiano riprendendo gli occhiali. “Sì, vattene via adesso!”, rispose Caio. Con la vista in frantumi dall’occhio destro, Cristiano risalì un pezzo di frana per riprendere il pallone, ma non riusciva a trovarlo. Aggirò la parte più ripida della salita facendo un giro largo, le fronde delle querce erano così fitte che se anche fosse rimasto impigliato tra i rami, lui, dalla sua altezza, non sarebbe mai riuscito a vederlo. Del pallone non c’erano tracce, Cristiano non voleva rientrare senza aver portato a termine l’impresa e tornò da Caio. “Ancora qui?”. “Caio non riesco a trovare il pallone”. “Ragazzo sei davvero uno sprovveduto, cos’hai da scambiare stavolta?”. Cristiano vuotò le tasche, “Non ho niente”. “Allora niente affari, mi dispiace.” Cristiano guardava a destra e a sinistra con la speranza di rintracciare la palla, cercava uno spicchio di arancio nell’ombra nera dei roseti. Era sull’orlo di una crisi di pianto, quando, invece di esplodere, si voltò e tornò ancora una volta da Caio. “Caio, devi aiutarmi a trovare il pallone.” “Basta storie ragazzo, devo lavorare, torna da dove sei venuto.” “Se non mi aiuti a trovare il pallone mi siedo

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sul formicaio.” Si ripeté la scena degli occhiali e le formiche arrivarono in processione con la palla. Caio non vedeva l’ora che Cristiano andasse via per tornare ai suoi affari. I due non si salutarono e il ragazzo con il pallone sotto il braccio iniziò a risalire la scarpata. In strada, le ragazzine piangevano e si disperavano: “L’ha ammazzato! L’ha ammazzato!”. Giorgio Burza era seduto in disparte su un muretto. Cristiano riapparve zoppicando, aveva la faccia graffiata, il jeans strappato, la mano e il ginocchio sanguinanti, gli occhi rossi e gli occhiali col vetro crepato. Raccolse le forze, calciò il pallone contro Giorgio e urlò: “Inizia a correre bastardo!”


LA POLVERE DEL CAMPETTO di Giuseppe Bisceglia

La polvere del campetto si alzava bianca e sporca. Quando il busto di Lorenzo si contorse armoniosamente e il collo del piede sinistro impattò con il pallone che scendeva lento, una nube fina si levò avvolgendo le scarpette. Un tiro mancino e magistrale da oltre metà campo: Serafino alzò lo sguardo sorpreso, era sbilanciato dalla spinta del piede destro, ma fu fulmineo nel tornare vicino ai pali. Ciuffi di calce bianca sbuffarono al suo passaggio, aveva gli occhi sulla palla e con un colpo di reni, a mano sinistra aperta, parò incredibilmente il tiro. Lorenzo si mise le mani nei capelli neri velati dall’impasto di polvere e sudore. Serafino ricadde al suolo accompagnato da un’esplosione del terriccio, si rialzò di scatto, era carico: batté forte le mani infarinate, si aggiustò il cappello tirandolo dalla visiera e si accovacciò simile a un ricevitore di baseball. Dietro la rete verde di ferro, sugli spalti ombrosi e grigi, cinque sagome sedute dritte si godevano lo spettacolo: due vecchietti col cappello, agganciati al bastone, risero ed esultarono per il tiro e la parata. Più in qua dai due signori, Canaletta si alzò in piedi, lasciò gli amici che bivaccavano all’ombra e iniziò a scendere la gradinata, arrivò al cancello, lo aprì e proseguì sul terreno di gioco. Le sue scarpe da tennis erano bianche: Canaletta camminava piano, posando prima un piede e poi l’altro per non sporcarle. In campo erano in otto, quattro contro quattro, ancora fermi nelle posizioni del tiro di Lorenzo e della parata di Serafino. Tutti si voltarono a guardare Canaletta. Lui, alto e secco, con il naso adunco fatto apposta per reggere gli esili oc-

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chiali da vista, arrivò davanti a Lorenzo, aprì quel ramoscello di braccio che si ritrovava, e frustò con le cinque dita sulla guancia del ragazzo. Che restò dritto sulla schiena e non disse nulla. Sulla pelle bianca si formò, rossa, la sagoma della mano di Canaletta. Gli occhiali di Lorenzo leggermente spostati. Quelli di Canaletta al loro posto. Quel giorno al campetto tutti appresero che la violenza incombe inesorabile sul mondo.


I CAPELLI DI SILVIA di Giuseppe Bisceglia

Dario Braccino aveva i capelli sempre arruffati e passava le ore di lezione nell’angolo in fondo sulla destra, coperto da tutti e lontano dagl’occhi della maestra, a strappare pezzetti di carta dai quaderni e a smontare penne bic. Quando addentava le biro con rabbia per sfilare la punta, gli schizzi d’inchiostro lo macchiavano ovunque: di solito una goccia blu gli finiva anche sul carnoso labbro inferiore trasformandosi in pochi secondi in rossetto sbavato. Sul banco teneva quaderni e libri aperti con sopra tante piccole palline pronte a essere sparate. Infilava la carta dall’estremità più larga della cerbottana, si metteva in posizione, prendeva la mira, inspirava e buttava l’aria fuori soffiando dall’estremità più stretta. Le palline uscivano umide, impastate dal vapore e dalle gocce di saliva, alcune rimanevano incastrate nel mezzo della canna e Dario per farle uscire doveva soffiare forte e diventava tutto rosso. Il bersaglio preferito di Dario era Silvia Arturi, una bambina seduta al banco davanti, proprio di fronte a lui. I capelli di Silvia erano lunghi, secchi e biondi come fili di paglia e Dario amava bombardarla tutte le mattine. Silvia, vittima di un attacco senza tregua, era costretta a scrollare la testa e far correre una mano tra i capelli per liberarsi dalle palline. Un giorno, durante l’ora di religione, Dario era più eccitato e combattivo del solito e aveva passato tutto il tempo a rifornirsi di munizioni, riuscendo a preparare settantaquattro palline insalivate. Mentre la maestra spiegava la Quaresima, Dario sferrò uno degli attacchi migliori di tutti i tempi: riuscì a infilare cinquantadue palline nei capelli, prima che Silvia se ne ac-

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corgesse e schifata per quel groviglio, non riuscendo a rimanere calma e indifferente come faceva di solito, si voltò verso Dario e lo avvertì: “Smettila cretino, smettila o lo dico alla maestra”. Dire una cosa del genere a Dario Braccino non era certo il modo migliore per farlo smettere, così il bambino continuò. Mancavano cinque minuti alla fine della lezione e Silvia si alzò in piedi dicendo: “Maestra, Braccino mi disturba, è tutta la lezione che mi tira pezzi di carta.”


La maestra umiliò il piccolo Dario davanti a tutti dicendo che avrebbe dovuto pregare molto quella notte per redimere i suoi peccati, e lo punì con una nota di demerito sul registro. Per alcuni giorni Dario non osò puntare la cerbottana contro Silvia. Il nuovo bersaglio erano altre due compagne della fila accanto che però non provocavano nel bambino la stessa soddisfazione, avevano i capelli lisci e non erano carine come la compagna del banco davanti. Con il passare del tempo Silvia notò allo stesso modo che le attenzioni del compagno di classe seduto dietro di lei, le iniziavano a mancare. Così quando Dario ricominciò a prenderla di mira (e dovette passare una settimana prima che ciò accadde) lei non disse nulla, solo si voltò e gli sorrise. Dario ricominciò a bombardare Silvia ogni mattina. Un lunedì, prima di uscire da scuola, Silvia non passò le mani tra i capelli e non scrollò la testa ma con tutta la delicatezza che possedeva coprì il capo con un ampio cappello facendo attenzione a non far cadere le palline di carta. Il giorno dopo quando tornò in classe e si tolse il cappello, quasi tutte le palline erano ancora infilate nel groviglio di capelli. Dario, divertito dalla cosa, s’impegnò per piazzarne ancora. La bambina iniziò anche ad annodare i pezzi di carta intrecciandoli ai capelli durante le ore di lezione. I giorni passavano e i pezzi impastati nei capelli di Silvia iniziavano a diventare tanti, la bambina faceva attenzione a non rovinare l’opera, cercava di nasconderla e preservarla sotto il cappello. Il venerdì evitò anche di fare lo shampoo, dicendo che si sentiva raffreddata. Il giorno seguente, poi, andò a scuola senza problemi. Era sabato e ormai i capelli di Silvia, presi di mira da una settimana da Dario Braccino, erano diventati quasi delle treccine, di cui lei andava molto fiera. Così si decise, prese un foglio e ci scrisse sopra “Ti vuoi mettere con me?” e fece tre caselline Si, No, Forse. Si voltò e diede a Dario il bigliettino, ritornando a sedersi composta il più velocemente possibile. Dario rimase un attimo interdetto, aprì il foglio, lesse e subito interpellò il suo compagno di banco. Quando anche l’ultima ora di

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lezione stava per finire Dario gettò il biglietto ai piedi di Silvia, che si piegò e lo raccolse all’istante. La bambina aprì il biglietto sotto il banco, lo tenne lì per un po’ e alla fine lo richiuse. Suonò la campanella e lei saltò all’aria dallo spavento, gli altri compagni andarono via correndo e urlando, anche Dario. In classe era rimasta solo lei, si fece coraggio e riaprì il biglietto: era spuntata la casella del No e in più c’era scritto, “Sei pazza e puzzi, lavati i capelli che fanno schifo.” Il padre la aspettava sotto il porticato d’ingresso della scuola elementare e stava chiedendo alla bidella come mai Silvia non fosse uscita con tutti gli altri bambini, che lei apparve in fondo al corridoio. Indossava il suo solito cappello e camminava a testa bassa. Nel viaggio in auto non riuscì a spiccicare parola e trattenne le lacrime. Il rumore dell’aria condizionata le dava fastidio, quello del tergicristalli la distraeva e suo padre che continuava a chiederle “Com’è andata a scuola tesoro?” era il peggior tormento. Appena il padre spense il motore, Silvia si precipitò fuori dalla macchina e corse fino al portone d’ingresso. La madre era in casa e aprì distrattamente, tornando subito in cucina a preparare il pranzo. Silvia entrò nello studio del padre, rubò l’accendino che stava sulla scrivania e si diresse in bagno. Chiuse la porta a chiave e si guardò allo specchio, allora le lacrime iniziarono a scendere lungo le guance e lei diede fuoco ai capelli.

Giuseppe Bisceglia

bio

Nasco a Cosenza un’afosa giornata di fine luglio del 1985. Inizio all’età di quattro anni a viaggiare con una piccola valigia rossa fino a casa di mia zia Teresa. Con il tempo diveno girovago di professione e di professioni: durante gli anni di studio mi occupo di immigrazione e legalità, mi laureo in giurisprudenza e divento pubblicista scrivendo per carta stampata, radio e tv locali. Dal 2010, trasferitomi a Torino, abbandono la cronaca per la narrazione: firmo la regia dei miei primi cortometraggi, pubblico racconti brevissimi e passo la maggior parte del tempo a raccogliere i peli del gatto e le briciole di tabacco che ovunque semino.


IL PESCATORE SCOMPARSO di Andrea Amadei

La fine di maggio era il periodo migliore per andare al mare. Ancora non c’erano turisti da fuori, e solo verso le cinque, quand’era bello, arrivava qualche signora a leggersi un libro, portandosi una seggiola sottobraccio. Dopo scuola tornavo a casa a mangiare e poi presto, prima delle due, andavo al canale che scorreva dietro il paese e portava al mare. Ci si trovava lì, eravamo sempre almeno una dozzina e si faceva il bagno in una pozza che avevamo fatto saltar fuori sistemando i sassi più grossi che riuscivamo a trasportare. L’acqua era fredda e giocavamo a chi riusciva a tenere la testa sotto più a lungo, prima che cominciasse a fare male, come quando mangi il gelato in fretta. Era pieno di girini scuri ma le rane erano sempre poche, e non sapevamo capire perché. Io andavo in acqua coi sandali di plastica, quelli gialli, perché avevo paura di scivolare sul muschio viscido che cresce nei fondali dei fiumi. Poi verso le quattro seguivamo il corso dell’acqua e andavamo in spiaggia, quando il sole era ancora alto ma già dava le spalle al mare. Avevamo costruito una piccola capanna appoggiandoci ai sassi grandi che facevano l’argine del canale, con le assi lasciate in spiaggia dal mare d’inverno. Il tetto lo avevo trovato io, un pezzo di ondulato che qualcuno aveva scaricato in strada dietro casa mia. Ci tenevamo le fiocine, il pallone e le maschere per vedere sott’acqua, quelle che avevano regalato a Luca e Giovanni per il compleanno.

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Prima che venisse la sera ci mettevamo a pescare. Avevo portato una rete vecchia dalla barca di mio nonno e ne avevamo tagliato un pezzo. Avevamo annodato i fili tagliati tra di loro, a farne un’orlatura stabile, e poi una volta ricavata questa cuffia retata larga circa un metro, l’avevamo legata a una corda. Era la nostra nuova tecnica di pesca. Io e Luca ci si metteva le maschere e andavamo a sistemarci con la rete a largo, poco distante dalla scogliera. Gli altri andavano sugli scogli con calma e cercavano di trovare qualche banco di pesci, saraghi e occhiate il più delle volte. Quando li avvistavano andavano in acqua e li spingevano nella nostra direzione, tenendoli verso gli scogli per impedir loro la fuga. Poi arrivavamo io e Luca con la rete bella aperta e cercavamo di tirarne dentro qualcuno. E a volte ci riuscivamo. Tornavamo a riva, facevamo un semicerchio coi sassi e poi accendevamo il fuoco. Infilzavamo i pesci con le fiocine e li facevamo arrostire così, poi li mangiavamo. Una sera che avevamo pescato tanto, e ai saraghi avevamo poi aggiunto un paio di polpi, i ricci di mare e un sacchetto pieno di cozze belle grosse che aveva raccolto Giovanni, la notte arrivò prima che ce ne fossimo accorti. Eravamo troppo orgogliosi per preoccuparci dell’ora, e la nostra impresa era talmente eccezionale da mandare in secondo piano ogni regola, ogni abitudine. Nessuno aveva un orologio, ma quando il buio arrivò capimmo che sarebbero stati guai per tutti, perciò ci sbrigammo a finire e sistemammo poi le nostre cose nella baracca, chiusa con il lucchetto della bici di Pasquale. Mentre stavamo uscendo dalla spiaggia per tornare a casa arrivò però mio padre, insieme al padre di Luca, che avevano la barca vicina al porto e si conoscevano dai tempi della scuola. Non ricordo d’aver mai visto mio padre più arrabbiato di quella volta. Erano le dieci passate e ci avevano cercato lungo tutto il canale, perché là avevamo detto saremmo andati. Le nostre madri erano rimaste a casa a piangere, continuavano a ripeterci. Ci sentimmo subito molto in colpa, ma non era importante ormai, era troppo tardi. Presi un paio


di schiaffi in testa ancor prima di poter parlare, con la promessa che non avrei scampato il resto una volta arrivati a casa. - Abbiamo pescato pa’ – disse poi Luca – Non sai cosa abbiamo tirato su! - Ma suo padre non era interessato a quel che avessimo fatto. – Se vuoi pescare lo fai di mestiere come faccio io, e domani esci in barca con me, così vediamo se ti diverti ancora – Così gli disse, mentre io non trovai nemmeno il coraggio di accennare una difesa. Per qualche giorno nessuno andò più al canale. Erano gli ultimi giorni di scuola e Luca non si vedeva più. Suo padre aveva davvero cominciato a farlo uscire in barca con lui, - così almeno s’imparava il mestiere -. Mio padre invece non mi portava in barca perché non voleva che io diventassi un pescatore come lui, anche se mi piaceva - che a chiedere di che vivere al mare, è come fare l’elemosina ogni giorno – mi diceva sempre. Forse per quello si era così arrabbiato, quella sera. Quando la scuola era ormai finita ottenni il permesso di tornare al canale. Ero contento, ma quando arrivai non c’era nessuno. La nostra pozza quasi era sparita perché era piovuto forte e il canale s’era ingrossato, portando via i nostri sassi. Aspettai un po’, giocai coi girini e vidi almeno un paio di rane. Cercai d’avvicinarmi a loro, e poi di toccarle con un bastone lungo e mezzo marcio che avevo trovato in acqua, ma una rana se ne andò, saltò via veloce e si perse tra l’erba lunga che cresceva lungo il canale, e quando mi girai anche l’altra era sparita. Allora mi decisi ad andare verso il mare. Faceva molto più caldo di qualche giorno prima, e mi fermai a metà strada all’ombra di un fico. Tenevo chiuso un occhio e guardavo in direzione del sole con una foglia che lo copriva, per vedere tutti i raggi che si disperdevano intorno. Quando sbucai in spiaggia mi misi in piedi sopra una sasso grande dell’argine e vidi che c’erano già molte persone, anche se era presto. I baracchini avevano cominciato ad aprire e vendere i panini e qualche gelato e avevano messo fuori gli ombrelloni e i tavolini di plastica. Il sole era caldissimo. Saltai giù e la sabbia bollente s’infilò dentro i sandali

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gialli, bruciava e mi rimisi sopra un sasso. Era una bella giornata e volevo andare a vedere i pesci alla scogliera. Feci il giro per andare alla nostra capanna ma quando scavalcai l’altro argine vidi che non c’era più niente. Corsi là e trovai solo le nostre fiocine tutte rovinate, le assi bruciate. Qualcuno aveva dato fuoco alla capanna. Tirai su l’ondulato per cercare le maschere, ma erano sparite, non c’era più niente.

Andrea Amadei

bio

Nato a Busto Arsizio, laureato in filosofia teoretica presso l’Università degli Studi di Milano, ha insegnato storia e filosofia presso diversi Istituiti Superiori. Dopo aver frequentato la Scuola Holden a Torino ha lavorato come aiuto regista per “Biografia della peste” (Indyca, 2013). Attualmente lavora come production manager presso Stefilm, si occupa di formazione presso l’Associazione Documentary in Europe, tiene corsi di scrittura in cui si educa al silenzio. Si è appena fatto un tatuaggio che doveva farsi da 15 anni.


GIURA MATILDE di Sara Benedetti

Ho sei anni. I teschi sono esposti in una piccola teca di vetro a forma di parallelepipedo e la loro altezza corrisponde proprio alle nostre teste di bambini. Una targhetta bronzea racconta l’era in cui sono vissuti e il nome scientifico dello stadio evolutivo dei proprietari. La guida ci spiega con grande accuratezza che il teschio di destra, quello che da subito ha calamitato la mia attenzione per il foro che ospita poco più indietro della tempia, è probabilmente appartenuto a un ominide che soffriva di lancinanti dolori al capo per via di un cancro al cervello. Si suppone che un altro ominide della sua tribù avesse cercato di liberarlo del male improvvisando un intervento che necessariamente si era concluso con la morte del soggetto per dissanguamento. Siamo nel Museo Pigorini di Roma ed è la nostra gita di prima elementare. La sera stessa torno a casa e mia madre, che mi aspetto curiosa di ascoltare i miei racconti, è nella sua camera, distesa in un letto immerso nel buio, dilaniata dal dolore alla testa. Mia sorella non ha voglia di nessun racconto, disegna sul suo diario di adolescente, con le cuffie del walkman alle orecchie. Mio padre è impegnato in cucina a preparare l’unico piatto di cui è capace. Non ha mai cucinato e prepara la cena solo quando mia madre è a letto, inabile a fare alcunché. Fette di pane tagliate spesse su cui fa cadere un giro d’olio, d’aceto, sale e pepe. A volte, quando ne trova nel

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frigo, completa il piatto con fettine di mozzarella. Ci chiede di andarci a lavare le mani senza dolcezza, con l’espressione severa che assume sempre quando la mamma sta male. In bagno l’unico confidente che trovo è il sapone. Lo passo un paio di volte sul palmo delle mani e mi riesce di farlo approdare nel portasapone prima che, viscido com’è una volta bagnato, mi schizzi via dalle mani e finisca sul pavimento. Frego forte le mani e alle bollicine che si creano tra un palmo e l’altro confido le mie speranze. “Se resistete cinque secondi la mamma non morirà di cancro al cervello”. Uno, due, tre… Arrivo a tre secondi e mezzo, poi un getto d’acqua calda caduto sulle mie mani scioglie le bollicine e la risposta dell’oracolo. “Sbrigati, è la seconda volta che papà ci chiama.”


Mia sorella si lava le mani con la secchezza di gesti e il senso pratico che le invidierò sempre. Poi ci asciughiamo entrambe allo stesso asciugamano e raggiungiamo nostro padre a tavola. Non parlo a nessuno del foro nel teschio. Quella notte piango molto prima di addormentarmi e quando scivolo nel sonno, il teschio mi segue e si deposita da qualche parte dentro di me germogliando un’idea che da allora non mi abbandonerà più, quella che non c’è scampo, quella di un’umanità che nel tentativo di salvarsi si perde per sempre. Non riesco a raccontarli a nessuno i miei pensieri, neanche a Don Ferdinando, che è il parroco della chiesa dove faccio catechismo. A maggio del prossimo anno riceverò la Prima Comunione e trascorro due pomeriggi la settimana in Chiesa. Don Ferdinando è un tipo placido, anziano, ancora energico per certe

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cose. È stato lui a volere un ampliamento dei locali parrocchiali: tre locali molto luminosi posti sopra la chiesa in uno spazio creatosi tra l’edificio sacro, a cui si accede tramite scale che scendono, e il livello stradale posto più in alto. Una stanza per il catechismo, una per lo studio e una con il biliardino per i momenti di svago. Il sabato pomeriggio, giorno in cui il calendario del catechismo prevede l’incontro con Don Ferdinando, lo trascorriamo nelle stanze nuove. La luce entra e si stampa sulle pareti dei colori chiari, dalla strada arrivano le grida di bambini che i pochi anni lasciano ancora al gioco libero. Dalle finestre a forma di arco si vedono i pini che sono ancora così presenti nel quartiere. Invece il martedì pomeriggio, le catechiste pretendono di svolgere l’incontro in Chiesa perché pare loro che il buio, l’odore di incenso, la presenza delle sacre immagini ci aiuti a concentrarci e risparmi loro lo sforzo di zittirci e rimproverarci spesso. Una parte della navata di sinistra, quella su cui mi cade più naturalmente lo sguardo dal posto che mi è assegnato (terzo banco, apro la fila a sinistra) è occupata da un crocifisso di dimensioni quasi naturali. È un’opera imponente e sproporzionata per una navata non troppo ampia. A noi bambini hanno raccontato che due artisti locali anni prima si siano sfidati per compiere l’opera che sarebbe stata alloggiata dietro l’altare. Don Ferdinando avrebbe scelto l’opera vincitrice con giudizio insindacabile. Dietro l’altare è finito un mosaico che ritrae sempre lo stesso soggetto ovvero il Cristo crocifisso in uno stile vagamente ispirato ai bizantini. L’altro, lo scultore del crocifisso in legno, ha perso la sfida ma, ferito, ha deciso di liberarsi in un sol colpo di orgoglio e crocifisso. Non lo ha voluto indietro e lo ha donato comunque alla parrocchia. Il Cristo in legno sembra in qualche modo portare segno del livore che la sfida ha generato. Oltre al dolore della passione e dei chiodi, nella fronte si coglie un moto di insofferenza. Con uno sguardo ancora nuovo e sinceramente interessato all’altro, studio a lungo quell’espressione di Cristo sofferente. Poi vago con gli


occhi nel buio della Chiesa fino a posarli su un’altra statua, questa raffigurante la Madonna in un atteggiamento trattenuto e poco naturale. Siamo immersi in un silenzio freddo e scuro, le pareti spesse in pietra ci isolano e ci fanno dimenticare gli alberi, i bambini più piccoli, il pallone, gli uccelli, i pini. E così, un martedì pomeriggio, mentre le catechiste ci dettano le domande da scrivere sul quaderno, a me ne viene in mente una, una domanda tutta mia. Mi chiedo perché ci viene chiesto di lodare un Dio che ha permesso agli uomini di crocifiggere suo figlio e, cosa ancora peggiore, ha permesso al figlio stesso di morire così, con la carne straziata e la mente alla deriva, cosa questa che il mosaicista ha reso meglio dello scultore e che forse gli è valsa la vittoria. Alzo la mano, per prendere la parola che mi viene concessa, e faccio tutte le domande che ho nella testa. Parlo veloce, come farò per tutta la vita, e con le farfalle nello stomaco: “Perché invece di essere lì fuori ad ascoltare la vita, ad annusarla, a sorridere, dobbiamo stare qui seri e zitti a lodare chi l’ha creata? Perché dobbiamo imparare i comandamenti se Dio non ha rispettato le regole e ha fatto morire suo figlio e ha chiesto ad Abramo di sacrificare il suo e ha ordinato alle nuvole di far piovere sulla terra per annegare tutti gli esseri viventi tranne uno e la sua famiglia? Perché dobbiamo inginocchiarci, battere la mano sul petto e chiedere perdono per i nostri peccati che non sarà mai niente di così grosso?” La mia insolenza fa infuriare la catechista. La vedo diventare rossa, prendermi per un braccio e portarmi in punizione: devo trascorrere il tempo restante in ginocchio nel banco proprio davanti al Crocifisso in legno che conosco così bene per averlo tanto osservato. È in questo pomeriggio, dopo una mezz’ora circa in cui sono inginocchiata davanti a lui, che il Cristo crocifisso, spostando di poco la testa in modo da potermi guardare, si mette a parlarmi. Con i lineamenti resi più inquietanti dalla luce proveniente dal basso,

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dalle candele di diverse dimensioni che si consumano ai suoi piedi, trova parole dure come pietre per rivolgersi a me. “Matilde, sai perché sei qui?” “Sì, sono in punizione perché mi sembra che tuo padre non sia infinitamente buono e non meriti tutto questo.” “No, sei qui perché ho un messaggio per te.” Mi guardo intorno per controllare se qualcuno si è accorto di quello che sta succedendo. I bambini sono seduti al loro posto, una catechista continua a spiegare con convinzione, mentre l’altra, in piedi accanto al tavolo, mi sorveglia. Quando mi vede girata, mi lancia un’occhiataccia e mi fa cenno di voltarmi verso il Cristo, il quale nel frattempo è tornato immobile. “Quale messaggio? Cosa devi dirmi?” gli sussurro, nel tentativo di rianimarlo. Ma lui è immobile, la mia distrazione mi è costata cara. Dopo più di mille anni, di nuovo una romana, io, ha ucciso Gesù. “Ti prego, parlami.” Ho gli occhi lucidi e il senso di colpa, che la punizione della catechista non ha generato, mi prende con forza dopo quello che ho fatto. Sfocato dal velo di lacrime, lo vedo riaprire lentamente gli occhi. “Tua madre, Matilde, tua madre.” Mi sforzo di raccogliere tutta l’attenzione di cui sono capace. “Tua madre è il nuovo agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, perché altrimenti soffre tanto?” “Non saprei...” “Per questo. Beati coloro che crederanno. Tu devi salvarla, questa è la tua missione.” Allora è vero che Gesù ci legge nel pensiero. Perché effettivamente io ho sempre pensato a mia madre come a una bambina e a me come la persona che deve prendersi cura di lei. Strano, però, perché per prima cosa io sono la figlia, la bambina sono io.

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Ma immagino che questo mi succede perché lei mi racconta sempre cose della sua infanzia che io non voglio sapere. Chissà dove guarda allora perché se guardasse me, sarebbe lampante che non sono una bambina fatta per quei racconti. Una volta per esempio mi ha raccontato che il nonno ebbe un piccolo aumento di stipendio e allora comprarono varie cose per la casa e per lei uno scendiletto di moquette per posare i piedini al risveglio. Ebbene lei non lo usava mai. I piedi li posava accanto o davanti, comunque sempre sul pavimento e mai sullo scendiletto finché una volta i nonni se ne accorsero e le dissero che i piedi doveva poggiarli sopra, che l’avevano comprato per quello. Ma di fatto anche dopo il discorso dei nonni, lei continuava a poggiare i piedi da un’altra parte perché lo scendiletto le sembrava troppo bello per lei. Un altro giorno invece mi ha raccontato delle cose che le aveva fatto uno zio in una camera da letto nella penombra, cose che non ha mai detto a nessuno degli altri adulti che nella stanza accanto finivano il dolce e bevevano il caffè. Quell’uomo ormai riposa al Verano, è uno scheletro come quelli che ho visto nel Museo preistorico, non può più pagare, scusarsi o chiedere perdono. Ma lei, la bambina, è ancora qui


che piange e racconta, anche se è tardi. “E cosa devo fare?”, chiedo a Gesù. “Sacrificare la tua vita così come io ho sacrificato la mia per tutta l’umanità”. Mi giro per guardare se Lucia, la mia amica del cuore, stia vedendo. Rischio di perdere di nuovo il contatto ma ho bisogno di un testimone per un momento tanto importante. Lucia, sentendosi osservata, mi fa ciao con la mano e io con un cenno della testa la invito a guardare più in alto. Lei sposta gli occhi e poi li riporta su di me, con aria interrogativa. Cosa voglio dirle? Nulla, scuoto la testa e lei si volta di nuovo verso le catechiste. Stavolta, quando torno composta, Gesù mi guarda ancora. “Devi rinunciare alla tua felicità, ammalarti e soffrire come lei, solo così le dimostrerai il tuo amore. Il sacrificio, Matilde, il sacrificio è l’unica cosa che conta.” Annuisco obbediente, mentre mando a memoria le parole, una per una. Sento i bambini vociare, mi volto e vedo che si stanno alzando perché la lezione è finita. Al Cristo tornato legno dedico un segno della croce e la promessa silenziosa che non mancherò, ha la mia parola. Giuro

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solennemente, nei secoli dei secoli. Quando mi alzo, trovo gli occhi della catechista che mi scrutano dall’alto. “Hai capito, Matilde?” “Sì, ho capito. Grazie.” Lei chiude gli occhi e abbassa la testa soddisfatta. “Ora vai.” Qualche anno dopo verrò a sapere che quella di mia madre non è un’espiazione per i peccati di tutta l’umanità ma una malattia. Si chiama emicrania, ne soffre il 20% della popolazione mondiale, per la maggior parte donne. Ma sarà troppo tardi e ne soffrirò anch’io. La mia sarà un’emicrania secondaria incurabile perché la causa non sarà la dentizione o una postura errata, ma un’empatia radicale che si sintonizza sullo stato d’animo dell’essere umano più vicino e questo creerà interferenze continue nella mia fisiologia e nella mia psiche. Forma rara iniziata presumibilmente in età infantile. In un certo senso io reciterò ancora la parte dell’agnello di Dio che invano tenta di togliere il dolore dal prossimo. Per questo si dovrebbero portare al parco i bambini, non in Chiesa.

Sara Benedetti

bio

Sono nata a Roma e ho vissuto in provincia. Dopo un’infanzia simbiotica con una sorella non gemella, i cartoni giapponesi, le manifestazioni pacifiste, la laurea, gli innamoramenti felici e gli amori infelici, il primo impiego, ho capito che non volevo passare in un ufficio le mie giornate. Io volevo scrivere. Sempre di stare davanti a un computer si trattava ma il fine era diverso. E quindi io e la mia Fiat600 celeste nel 2002 siamo approdate a Torino. Per arrivare al punto, ora scrivo, ho un bimbo, un marito pazzo, la pergamena buddista, qualche guaio, la 600 celeste. E mi piace da matti.


redazione

Andrea Tomaselli Giuseppe Bisceglia Roberta Carbone Valentina Rivetti

immagini

dai lavori di Greta Canalis

grafica

Valentina Rivetti

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