VIVA POMPEI!
Viva Pompei! Mille giorni di Cantiere Evento Tesi di laurea Luca Semenzato 815542 Milano, il 5 Ottobre 2016. Politecnico di Milano Scuola di Architettura, Urbanistica, Ingegneria delle Costruzioni Anno Accademico 2015 - 2016 Relatore: Davide Fabio Colaci 2
VIVA POMPEI! Mille giorni di Cantiere Evento
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Milano
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“Progettare non vuol dire per forza costruire come fare l’amore non necessita di fare figli” . La cultura del progetto insegna che la morte dell’oggetto architettonico non corrisponde alla morte del progetto stesso, essa è solo una fine parziale,può rappresentare anche una possibile rinascita, perché dai resti, fisici o emotivi che siano, noi andiamo a costituire la nostra storia; L’esperienza nata e formata con il progetto continua ad esistere e getta le basi per il progetto futuro, il nostro lavoro si basa sul lavoro di altri, nulla viene creato dal nulla. Si procede quindi in un continuo riciclare, rubare, sostituire ciò che sembra aver terminato la propria funzione. Giunti ad un momento in cui si calcola la durata di vita di un edificio il tempo del progetto ormai è contato, tutto è temporaneo, solo il nuovo sembra avere la precedenza sul vecchio. La città continua la sua vita, crescendo e modificandosi, abbandonando e dimenticando ciò che non gli serve più. E’ necessario a questo punto rafforzare il significato dei luoghi che abitiamo dato che la nostra vita è una collezione di esperienze, di luoghi che viviamo ogni giorno, che sogniamo, che il mondo dei media ci mostra e ci impone, ognuno riscostruisce il suo mondo, utilizzando e ricomponendo quei frammenti che costituiscono la propria giornata. Il progetto viene spesso inteso come soluzione per cristallizzare un momento, catturare l’attimo fuggente nel turbinio degli eventi quando invece non è in grado di dare soluzioni permanenti per via della rapidità con cui cambiano le nostre necessità ed abitudini. La rovina o quanto rimane può perciò non essere intesa come oggetto della memoria, che testimonia la necessità di un riferimento concreto e fisico per poter ricordare il passato e sconfiggere l’oblio, ma rappresentare un nuovo punto di partenza da cui, attraverso il progetto si possano amplificare, metabolizzare e reinterpretare tutte le attività quotidiane ormai banali e riconsiderarle come eccezionali, inversamente conferire carattere di quotidianità a tutte quelle attività che sono considerate oggi eccezionali. Allestendo un grande Cantiere Evento si attinge ai rituali della festa, elevando le abitudini e manie di una comune visita turistica a fenomeno mediatico e collettivo, un avvenimento non più visto come routinario e sistematico bensì come opportunità di aggregazione e relazione. Ciascuna visita assume quindi carattere dinamico grazie alle molteplici possibilità di relazione tra dispositivi, utenti, eventi e le rovine che lo ospitano.
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Morte sostenibile per un futuro accettabile
LO SPAZIO E LA NECESSITA’ “L’architettura come linguaggio pubblico è già morta”. E’ quanto afferma Branzi 2 , confermando il pensiero di Loos riguardo al fatto che l’unico campo veramente produttivo e sperimentale è rimasta l’architettura degli interni dato che “L’architettura civile non è più una struttura culturale attiva della città”. Si è perso difatti l’intento sociale, la necessità di progettare per rispondere a problemi concreti, non si pensa più al progetto come cura, soluzione a problemi sociali, istituzionali, religiosi che dall’antichità sono sempre state le ragioni basilari. Sembra quasi che quanto affermato da Loos si sia profetizzato: non esiste (più) nessun riscatto sociale attraverso l’Architettura. I temi della vita come morte, sesso e religione sono stati abbandonati e ci siamo rinchiusi in spazi sempre più miseri ed insignificanti, fino ad abitare luoghi che hanno perso la loro identità. Un tempo i luoghi erano caratterizzati dalle attività che vi venivano svolte, ciascuno di essi era pensato per il ruolo che doveva ricoprire e quindi aveva una forte identità, anche simbolica che lo caratterizzava. Si parla infatti di Alti-Luoghi 3, per definire quegli spazi della città che sono significativi perché vi si celebrano diversi culti dal forte coefficiente esteticoetico come i culti del corpo, del sesso, dell’amicizia, dello sport; d’altra parte come afferma Michel Maffesoli “La festa è senza dubbio la cosa più condivisa al mondo” 4 . E’ infatti questo il momento che più ci fa vivere e condividere lo spazio, che lo rende vivo. I luoghi di celebrazione, dove ci si riunisce, ci si osserva e ci si fa vedere e poi da li può nascere qualcosa, possono rappresentare la scintilla che accende un nuovo inizio, nuove relazioni, nuovi luoghi dove ci si conosce o riconosce. E’ proprio questo che intende Maffesoli quando sostiene che: “Il luogo si fa legame – il luogo è legame”, gli spazi sono vivi se sono abitati dalle persone, se sono vuoti cessano di esistere. Nella nostra vita accumuliamo quindi tutta una serie di Alti-Luoghi che vanno a costruire una geografia immaginaria caratterizzata da questo incessante viaggiare attraverso spazi di relazione collettiva. Per questo Italo Rota giunge alla conclusione che “l’architettura non è più necessaria. L’autentico mestiere dell’architetto risiede nel rivelare lo spazio della mente umana” 5 . Bisognerebbe tornare a progettare con la mente, con le emozioni e pensando all’uomo che le vive, invece si è arrivati a degli spazi che sono di pura contemplazione estetica, white cubes, che creano un distacco tra lo spettatore e l’espositore tali da incutere reverenza anziché empatia. Siamo giunti a un’architettura che allontana e non avvicina. Oramai l’architettura ha perso la sua aura salvifica e svuotata dei suoi significati e delle sue emozioni è divenuta un gesto gratuito, casuale; avvenimento pericoloso perché corre il rischio di condurre a un futuro indesiderato frutto di scelte inconsapevoli e non condivise. MEMORIA E RELIQUIE
2 Andrea Branzi. Scritti pressocratici. FrancoAngeli, Milano, 2010. 3 Alti-Luoghi: ripreso da Maffesoli questo termine biblico sottointende i luogi di adorazione, di celebrazione dei riti religiosi e non del quotidiano. 4 Michel Maffesoli. Note sulla Postmodernità. Lupetti, Milano, 2005. 5 Italo rota. Cosmologia portatile. Quodlibet, Milano. 6Paul Valery. Regards sur le monde actuel et autres essais.Adelphi Edizioni, Milano, 1994.
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Viviamo in luoghi impersonali, asettici, che hanno perso qualsiasi connotazione che li renda unici, tali da essere ricordati e da andare a comporre i tasselli della nostra Storia. Senza questi non possiederemo mai una memoria personale e non apparterremo mai ad un luogo definitivo. Di colpo ci ritroveremo senza un passato, senza una Storia. La storia serve a capire il presente e di conseguenza a costruire l’avvenire, è un passo fondamentale che però non va intesa come riparo e conforto di una grandezza passata. Paul Valery difatti ci mette in guardia perché la storia si presta ad essere manipolata e distorta per i propri scopi: “La Storia è il prodotto più pericoloso che la chimica dell’intelletto abbia elaborato. La Storia giustifica quel che si vuole. Non insegna nulla, perché contiene tutto e dà esempi di tutto... Fa sognare, inebria i popoli, produce in loro falsi ricordi, esagera i loro riflessi, mantiene aperte le loro vecchie piaghe, li tormenta nel riposo li conduce al delirio di grandezza o di persecuzione” 6 .
Il passato invece va inteso come fondamenta su cui costruire il futuro, solo l’uomo che scopre in sé una passione per il futuro l’idea del passato assume senso e valore. Si corre il rischio altrimenti di incorrere in reazioni dannose tra presenza della Storia e la città del futuro dove: “ hanno sede nel modo più efficiente persone e processi e, nella maggior parte dei casi, la presenza della storia non fa che peggiorarne le prestazioni” 7 . La Storia può diventare addirittura un intralcio per lo sviluppo quando invece dovrebbe essere un serbatoio infinito d’immagini e suggestioni da cui gli architetti possono recuperare forme e stilemi 8. Pare che non ci sia altra possibilità che cercare di recuperare quanto perso attraverso la ricerca di equilibrio mentale e progettuale. Freud stesso collezionava oggetti archeologici perché sosteneva di poter studiare la mente solo attraverso la ricostruzione del passato, i più di duemila oggetti raccolti con ossessione ed esposti nello studio formavano una costellazione di spunti a cui il paziente poteva aggrapparsi per disseppellire i ricordi più remoti praticando una vera e propria archeologia dell’inconscio. Così l’Uomo, per Italo Rota, deve ritrovare un orientamento, una stabilità nel cosmo contemporaneo, ambiente caotico e incomprensibile. Attraverso il progetto tenta di creare nuove possibilità di vedersi identificato nello spazio e negli oggetti, produrre una nuova forma di riconoscimento per rispondere alle inquietudini contemporanee; l’Uomo d’oggi ha bisogno di sicurezza e certezze che solo l’Architettura gli può dare. Sembra scontato, a volte impossibile, altre inutile ma l’architettura cambia ed influenza il nostro modo di vivere, positivamente o negativamente, certo è che non è irrilevante il peso che si riflette nelle nostre azioni quotidiane senza che noi ce ne si accorga, è insita in ogni gesto proprio perché noi viviamo in quegli Alti-Luoghi, noi li viviamo e facciamo parte di essi in una relazione biunivoca tale da generare una risposta sulla struttura degli spazi e sulle persone tale da non poter più essere sottovalutata od ignorata. Bisogna tornare a costruire per le persone, a ricordare quali sono i veri bisogni della vita umana, il perché progettiamo e costruiamo. Ecco che allora torna in mente Alain De Bottom: “Il motivo che ci spinge a costruire, sia per i vivi sia per i morti, è il desiderio di ricordare. Allo stesso modo in cui innalziamo le lapidi, mausolei e tombe per commemorare i nostri cari scomparsi, costruiamo e decoriamo edifici perché ci aiutino a ricordare le nostre qualità più importanti ma fuggevoli” 9. SARA’ LA NOSTRA ROVINA
7 Rem Koolhaas. Junkspaces. Quodlibet, Milano, 2001. 8 Paolo Portoghesi alla Biennale di Venezia del 1980 intitolata la presenza del passato invita a riflettere sul movimento Postmoderno. Tale movimento mette in discussione il Moderno, con i suoi miti legati al nuovo, alla tecnologia e alla purezza delle forme geometriche. Poiché il presente sembra non offrire ormai nulla di nuovo rispetto al passato, ecco che il Postmoderno suggerisce una nuova visione sincronica della Storia. 9 Alessandro Mauro. Tra virgolette. LetteraVentidue, Siracusa, 2010. 10 Citazione che si ritrova nel Canto di Ulisse, capitolo del romanzo di Primo Levi Se questo è un uomo, 1947. 11 M. Barbanera e A. Capodiferro. La forza delle rovine. Mondadori Electa, Milano, 2015.
Il progetto viene quindi inteso come soluzione per cristallizzare un momento, catturare l’attimo fuggente nel turbinio degli eventi. Questo avviene sia con il nuovo ma anche con l’esistente, è possibile scegliere tra quanto già abbiamo e riscoprirne il significato, rivelarne il valore per dargli nuova vita ed accendere il ricordo. La rovina o il frammento può perciò essere inteso come oggetto della memoria, che testimonia la necessità di avere qualcosa di concreto e fisico per poter ricordare il passato e sconfiggere l’oblio. Luis Sepulveda diceva “Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro” 10 proprio per intendere il peso che può avere ciascun ricordo a fronte dell’abbandono della memoria. La sopravvivenza della rovina - scrive Starobinski - è sempre anche dimenticanza: la poetica della rovina è una meditazione davanti all’avanzare dell’oblio, la rovina per eccellenza è testimone di un racconto abbandonato e dimenticato. Il monumento antico diventava quindi un memoriale monito che perpetuava il ricordo. Quanto rimane continua però a conservare aspetti ambivalenti: “è un custode al confine del tempo, il quale ci sfugge a causa della sua fluidità e rapidità: da un lato (le rovine) stanno di fronte al tempo che le ha investite, modellate, riducendole a muro crollato, fantasmi di un edificio un tempo integro; Dall’altro lato, proprio questa resistenza caparbia al trascorrere del tempo, testimoniata dalla presenza fisica della costruzione conferisce alle rovine senso della durata rendendole un ancora per la memoria” 11. Contemplare le rovine non equivale a fare un viaggio nella storia, ma a fare esperienza del tempo.
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TEMPO E NATURA
12 Marc Augé. Rovine e macerie. Bollati Boringhieri, Milano, 2009.
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Restaurate o meno che siano, le rovine sono contemporaneamente una sorta di sintesi o di compromesso, siti e monumenti; informazioni dettagliate, brochures, documentari e libri di scuola le inscrivono in uno scenario che non è dissociabile, l’ambientazione si incolla all’oggetto. Quando quindi l’elemento rovina + paesaggio risponde all’aspettativa dei visitatori, quando la somiglianza con l’immagine che avevano rivela anche altri aspetti non considerati prima, l’informazione restituita è maggiore perché si colgono particolari che prima non si erano notati. Si arriva a percepire un altro livello esplorazione, una sorta di approfondimento grazie al quale si notano dettagli in aggiunta che fanno parte della sfera naturale e paesaggistica che le contiene. Le rovine hanno sempre una componente naturale che permette allo sguardo di osservare lo spettacolo del tempo nelle sue diverse profondità, “aggiunge al tempo geologico i tempi dell’esistenza umana e della riproduzione vegetale” 12. Si tratta del tempo che sfugge alla storia: il paesaggio, unione di natura e cultura, che si perde nel passato ed emerge nel presente come segno di continuità, il riferimento temporaneo della vita umana unito a quello illimitato della natura. Portare alla luce delle rovine, la scelta di cosa valorizzare o meno, sistemarle, anche sommariamente, sono processi che non obbediscono ai meccanismi della memoria, ma il paesaggio risultante ha l’aura di un ricordo, è come se fosse insita quell’atmosfera romantica un po’ patinata che si applica automaticamente ogniqualvolta facciamo uso della memoria. Ecco che allora quest’abitudine odierna di tramutare i non-luoghi, spazi di circolazione comunicazione e consumo, in singolarità affidando l’incarico della progettazione ad archistar produce un declassamento del vero paesaggio e dei monumenti ad una sorta di sfondo, scenario arcaico che contribuisce all’esaltazione della grandiosità del contemporaneo. Le rovine aggiungono alla natura qualcosa che non appartiene più alla storia, ma che resta temporale. Contemplare rovine non equivale a fare un viaggio nella storia, ma a fare l’esperienza del tempo. Il tempo non si abolisce completamente nel paesaggio se la presenza delle rovine impedisce di perdersi nell’indeterminatezza di una natura senza uomini, senza quindi un punto di riferimento che ne dia l’unità di misura. Ma afferma Augé “la storia è troppo ricca, troppo profonda per ridursi al segno di pietra, oggetto perduto e ritrovato da archeologi che scavano le loro fette di spazio tempo”. Tanto che limitarsi a contemplarle come segno del tempo trasformato a monumento sarebbe riduttivo e non corretto. Già il portare alla luce è di per sé un evento architettonico, per esempio disseppellire le rovine sepolte sotto la periferia romana contribuirebbe alla riqualificazione e all’integrazione di questi quartieri introducendo nuove attività, nuovi flussi, nuova economia e qualità dello spazio. Va tenuto conto però che ogni intervento archeologico è in verità uno sventramento del suolo ed una distruzione che stravolge completamente qualsiasi cosa vi sia di mezzo, basti pensare agli sventramenti per Via dell’Impero a Roma sotto il Fascismo o la distruzione del paesaggio vinicolo sulle sponde del Vesuvio per Pompei. Se si sacrifichi il passato o il presente non è ancora chiaro, certo è che con i ritmi odierni quasi perde di rilevanza, perché si può stare certi, che in massimo cento anni verrà rimpiazzato da qualcos’altro, di più nuovo o più vecchio che imporrà la propria supremazia su di esso. L’aspettativa di vita di un edificio può oggi essere stimata, calcolata, a quel punto non avverrà altro che la sostituzione con un altro edificio. La città attuale è così l’eterno presente, edifici sostituibili gli uni con gli altri che si susseguono in un ordine variabile e non fondamentale. Le sostituzioni sono agli antipodi delle rovine, generano o rispondono ad una funzionalità presente e cancellano il passato in maniera irreversibile. Ma le macerie pongono subito dei problemi partici: come sbarazzarsene cosa ricostruire? All’uomo spetta il delicato compito di decidere. E sarebbe finito qui il problema se non fosse che applichiamo alla natura lo stesso trattamento che infliggiamo alle città: ne preserviamo alcuni settori per lo spettacolo, ne eliminiamo altri per comodità e convenienza.
Ma la natura è feroce, attiva, viva e reagisce. I ghiacciai si ritirano, i mari si prosciugano, i deserti avanzano e le specie scompaiono. L’uomo torna a scoprire di dipendere dalla natura quando deve fuggire dai siti che aveva creato per dominarla, ne è un sottoposto e non un superiore come invece crede. Solo le catastrofi sono in grado di produrre effetti paragonabili alla lunga azione del tempo o alla mania distruttrice dell’uomo. NON PIU’, MA ANCORA
13 Marco Tullio Cicerone. Tusculanae III Libro. 45 a.C. 14 Marc Augé. Disneyland e altri non luoghi. Bollati Boringhieri, Milano, 2009. 15 Walter Benjamin. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Einaudi, Milano, 2000.
Cicerone nelle Tusculane 13 racconta la commozione nel vedere le rovine di Corinto. La potenza espressiva di città morte tutte intere come Elice, Pompei ed Ercolano che ci ricordano di tenere sempre a mente la condizione effimera delle cose umane e la loro volatilità. È proprio questo il sentimento che invade gli antichi davanti alle rovine quando si fermano a contemplarle; il valore delle rovine per l’uomo antico è quello di un memento mori niente di più. Camminare fra le rovine è come camminare fra due eternità, tutto perisce, tutto passa, soltanto il mondo resta, soltanto il tempo dura. Ecco quindi perché conservare i frammenti, perché significa conservare la memoria; i frammenti suggeriscono il non più – ma ancora, sono il punto di partenza per costruire il futuro, teniamoceli ben stretti perché presto ne avremo bisogno e ne saremo sprovvisti, Marc Augé ci avverte: “la storia futura non produrrà più rovine, non ne hai il tempo” 14. Forse allora sarà come dice P. B. Shelley che su Roma contrappone la città, opera dell’uomo e pertanto soggetta a declino e la natura, l’unica cosa che non muore. Basta pensare ai pittori paesaggisti del XIX secolo come Corot, Poussin, che in Italia ritraevano le campagne del Mezzogiorno contaminate da frammenti di acquedotti romani ed archi di trionfo, rovina e natura diventavano una cosa sola. Il fascino della rovina consiste proprio nel fatto di essere opera dell’uomo che viene percepita come il prodotto della natura. Tenendo conto che la rovina, antica o moderna che sia, è da considerarsi prevalentemente un frammento essa continua a conservare dentro di sé l’idea di intero. Bisogna fare in modo quindi che il relitto ravvivi la memoria fino a farla diventare storia senza però incorrere in quel bombardamento mediatico subdolo e crudo iniziato con l’11 Settembre 2001, tanto che alcuni artisti come Duncan Wylie e Larry Towell si sono sentiti spinti ad indagare la strana relazione tra società ed immagini in questo sistema osceno in cui si ostenta la rovina per stimolare il pathos tramutando questo “accanimento terapeutico” della rovina in opera d’arte. Questo era già successo nel XIX secolo quando in seguito alle scoperte dei resti di città sommerse si era affermato un crescente interesse nei confronti delle rovine. I frammenti andavano assumendo l’identità di una reliquia dove l’evidenza del martirio esaltava la potenza miracolosa dell’intero perduto ancora prorompente grazie alle tracce superstiti. Pare infatti che non sia necessaria la ricostruzione fisica dell’intero, per Walter Benjamin 15 infatti l’elemento chiave per la comprensione di tutto è la forza immaginativa dell’osservatore che è in grado di percepire la forza di espansione del ricordo trattenuta nel frammento. Altrettanto illuminante è la lettura di André Malraux sulla Nike di Samotracia: “la vittoria di Samotracia non è un’invenzione umana. Noi potremmo immaginarla intatta e supporla meravigliosa: ma cambierebbe la sua natura (…), la mancanza della testa le dona un movimento che non ha relazione con le altre sculture antiche. Si arriva quindi a definirla il capolavoro del destino”. Il fato assume il ruolo di scultore, diviene un personaggio protagonista del racconto tanto quanto l’artista in sé. Ogni pezzo mancante è segno di un avvenimento, cela una storia che l’intero non sarebbe in grado di raccontare. Il frammento mostra le fatiche sopportate. Si deve stare attenti però a non incorrere nell’architettura della nostalgia, leziosa e nociva che rischia di sfociare in una nuova Disneyland. Queste fatiche possono non essere lette e apprezzare il pezzo in sé, oppure se ne può cogliere il potenziale per un eventuale sviluppo, intellettuale o fisico che sia.
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Già nell’antica Grecia si rinunciava a riedificare i santuari danneggiati dalle guerre e dagli invasori. Gli spazi, al contrario, vengono recuperati subito dopo gli eventi distruttivi, secondo una prassi rituale che porta alla purificazione di essi tramite un trattamento specifico non solo delle strutture coinvolte dalla distruzione, ma anche delle stesse offerte votive; queste offerte vengono distrutte ritualmente in modo tale da non essere più impiegate. Nella maggior parte dei casi sono decapitate, ridotte in frammenti per poi essere interrate all’interno dello spazio sacro e utilizzate come base da costruzione per il nuovo tempio. Si può perciò affermare che la memoria del monumento diventa più importante del monumento stesso, la cui esistenza non era legata alla sua forma concreta ma all’idea che rappresentava. GENESI E MORTE Quello che manca a noi oggigiorno è il significato delle cose, la motivazione, non esiste più il gesto ragionato, si procede senza criterio senza necessità, senza le opportune verifiche di fattibilità. Sin dall’antichità invece si progettava la fondazione della città o di un singolo edificio come un momento sacro, importante che segna uno spartiacque tra un prima ed un dopo. Marca un segno nella linea del tempo che evidenzia il cambiamento dello status quo attraverso l’intervento, era necessario perciò che un gesto tanto significativo godesse dei migliori auspici ed avvenisse con grande cura ed attenzione, da terra e dal “Cielo”. Così ci racconta l’Alberti in merito alle cerimonie di augurio: “In altri luoghi siamo informati che avevano l’usanza di tracciare la linea dove si sarebbero costruite le misure disseminando della sabbia composta di una terra bianca, ti chiamano puro. Sicché Alessandro, nel fondare il faro, mancando tale sabbia, al suo posto sparse della farina. Tale fatto diede modo agli indovini di predire il futuro. E giacché si pensava che il tener conto di presagi di questo genere durante il giorno natale di ciascuna città permettesse di svelarne il destino” 16.
Ma pure l’atto stesso di fondazione era una cerimonia: “Narrano Varrone, Plutarco e altri autori antichi che maggiorenti della città nel tracciare il perimetro delle mura seguivano una cerimonia religiosa: aggiogavano un toro e una vacca, e dopo aver lungamente tratto gli auspici tracciavano il succo con un aratro di rame, solco che forniva la delimitazione originaria della cerchia muraria. E, la macchina era giocata all’interno il toro all’esterno. E, seguivano l’aratro i coloni più vecchi rigettando nel solco appena aperto le zone rimosse dall’intorno, raccogliendole affinché non andassero disperse; quando si giungeva ai luoghi destinati alle porte, sollevavano l’aratro con le mani, per lasciare intatta la loro futura soglia. Per tale motivo era stimato sacro l’intero circuito delle mura e le mura stesse, ad eccezione delle porte che era lecito non considerare tali”.
16 Leon Battista Alberti. L’architettura. Edizioni Polifilo, Milano, 1989.
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Aspetto importante del progetto non è solo la costruzione, non è solo un inizio e quindi un elemento finito limitato nel tempo e nella forma, ma è parte di un processo. Va inteso, infatti, che la fondazione è solamente un capitolo della narrazione, un frammento della storia dell’Oggetto che ha una sua vita che non finisce con la nascita, ma che cresce, si trasforma e muore. La morte di una città è quindi un momento altrettanto importante e fondamentale e come nella vita umana è una cerimonia che va celebrata, organizzata e gestita. Il momento della distruzione è quindi parte integrante del processo, perché un progetto non è necessariamente costruire un edificio ma può essere anche la pianificazione di un gesto magari non tanto costruttivo ma altrettanto concreto e significativo come lo smantellamento. Va tenuto conto che ogni gesto, come costruire o distruggere, per quanto delicato che sia è comunque un atto drastico che andrà a modificare in modo irreparabile l’ambiente. Ogni scelta va motivata, anche la più minima, dal tempio per il popolo all’abitazione minima per il singolo. Per Fustel de Coulanges la storia antica era una storia sacra e locale proprio perché ponderata e analizzata con la massima perizia e riguardo nei confronti di esigenze e contesto. Essa “cominciava con la fondazione della città, giacchè ogni fatto antecedente era privo di interesse. Chi sceglie un sito lo isola dalla natura: (…) l’atto di impiantarla,
17 Fustel de Coulanges La Città Antica, Parigi, Durand, 1864. 18 Italo rota. Cosmologia portatile. Quodlibet, Milano. 19 Antonio Sant’elia. Manifesto “L’ architettura futurista”, 11 Luglio 1916, Milano. 20 Corriere della Sera. 17 Aprile 2015. 21 Rem Koolhaas. Junkspaces. Quodlibet, Milano, 2001.
differisce dalla scelta del nido o della tana fatta da un animale; (…) sono atti che devono includere in sé una spiegazione e anzi, trattandosi di atti contro natura, una giustificazione” 17. Oggigiorno non siamo più nelle condizioni per scegliere un terreno vergine su cui edificare; non abbiamo più la possibilità di individuare un sito con qualità di risorse perché essi sono già occupati. Si potranno però modificare le condizioni del luogo insediandosi su di un altro, alterandone la struttura, l’organizzazione e la forma secondo uno schema più consono al momento, conforme ai nuovi usi costumi e tecniche, migliorandone le caratteristiche; Rota sostiene infatti che “Con coraggio costruendo e demolendo si modella anche l’aria” 18. Ciò vale a dire che ogni gesto se ragionato e virtuoso può dare risvolti benefici inaspettati e apparentemente slegati dal tema architettonico ma che son strettamente legati alla vita quotidiana, dalla circolazione dell’aria, l’esposizione al sole che possono avere effetti climatici evidenti. Per fare ciò bisognerà quindi “Ritrovare il senso delle cose, capire come un aeroporto può convivere con la torre di Pisa senza nascondersi, una linea di alta velocità con San Giminiano, tutti insieme in un territorio di nuovi siti”. Sarà necessaria perciò non poca lungimiranza ed intraprendenza per saper capire cosa sia meglio, a fare la scelta giusta anche se essa comporta qualche sacrificio o qualche convivenza alla quale ancora non siamo abituati, bisogna osare. Già Antonio Sant’elia aveva visto lungo, tanto da affermare nel suo Manifesto: “Sentiamo di non essere più gli uomini delle cattedrali, dei palazzi, degli arengari; ma dei grandi alberghi, delle stazioni ferroviarie, delle strade immense, dei porti colossali, dei mercati coperti, delle gallerie luminose, dei rettifili, degli sventramenti salutari. Noi dobbiamo inventare e rifabbricare la città futurista simile ad un immenso cantiere tumultuante, agile, mobile, dinamico in ogni sua parte, [...] La casa di cemento, di vetro, di ferro deve essere sull’orlo di un abisso tumultuante: la strada, la quale [...] sprofonderà nella terra per parecchi piani che accoglieranno il traffico metropolitano, e saranno congiunti, per i transiti necessari, da passerelle metalliche e da velocissimi tapis roulants” 19. Visioni da “Metropolis” mai raggiunte. Bisogna quindi diffidare della “rispettosa distanza” che le archi-star mantengono nei confronti del Passato. Questo comportamento sta diventando ormai sempre più consueto tanto da potersi riassumere in un convenzionale processo di mummificazione della storia. Ordine imperativo: lasciare intatto l’originale, a prescindere che prima fosse considerato un residuo, uno scarto, esso di colpo subisce una promozione. Ne ha ben chiara l’idea il presidente del consiglio superiore dei beni culturali Giuliano Volpe, a capo della commissione paritetica Mibact-Roma capitale, che si è detto contrario all’idea di trasformare l’area centrale in un grande parco archeologico: «Sarebbe visitato soprattutto dai turisti e rischierebbe di diventare un non luogo che espelle i cittadini. L’area archeologica centrale romana, che è la più grande d’Italia e non solo, deve essere un luogo vitale e vivo» 20. Finalmente in Italia si dice no a quella cattiva abitudine di mummificazione delle rovine, ormai così consueta da poter essere quasi catalogata in un processo scientifico secondo cui terminata l’inumazione in uno spesso strato di “commercio e catering” si procede con l’esasperazione del riferimento progettuale alla mummia accentuando nel progetto del nuovo qualsiasi tipo di allineamento, simmetria o parallelismo per poi trionfare con la riesumazione di tecniche costruttive ormai abbandonate e dimenticate ma che possono essere anche lontanamente riconducibili a quelle originali e quindi giustificate. Il delirio poi prosegue con ostentazione dei gesti benefattori, perché nulla si fa per nulla, e col condizionamento degli spazi che provvedono a dare quella patina sintetica pronta a risplendere per l’eternità come se fosse la cera finale sul volto della salma. Risultato? “Il Junkspace (…) distrugge il luogo dove eri” 21. Questo a ribadire poi quanto risultino impersonali e asettici i luoghi dopo gli interventi, spaesati in un luogo che non riusciamo più a riconoscere.
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PRIMA DI SOMMINISTRARE CONTATTARE IL MEDICO La soluzione a tutto ciò sembra manifestarsi per Rem Koolhaas nella cosiddetta Bigness, ad essa è affidato l’incarico di “ricostruire l’unità”, “risorgere la realtà” “reinventare il collettivo e rivendicare il massimo di possibilità”. Questa sembra l’unica possibilità di riscatto dai movimenti ideologici e artistici del modernismo e del formalismo, per tornare all’Architettura come “veicolo di modernizzazione”. Perché: “la Bigness distrugge, ma è anche un nuovo inizio. Può ricomporre ciò che spezza”. La sfida si sposta quindi su un altro campo, la rinascita, raccogliere le forze, le idee e ripartire. Secondo quanto afferma Rem Koolhaas in Junkspaces riguardo all’evoluzione permanente della città rispetto alla sua versione architettonica “originale”, l’unica certezza è la riconversione, seguita, in rari casi, dal “restauro”, il processo che reclama sempre più nuove porzioni della storia come estensioni del Junkspace”. Ma ci avverte: “i verbi che cominciano con ri – producono junkspace… il junkspace sarà la nostra tomba”. Non si allontana molto dalla visione di Marinetti 22 , secondo il quale le città non sono fatte per durare, il suo sogno è che ogni generazione costruisca ex-novo la propria città. Si assisterebbe quindi ad un continuo fare e disfare attraverso una sovrapposizione di layer “generazionali” da identificarsi come la città del futuro, un processo infinito in cui di finito c’è solo lo spazio. Possiamo perciò prendere spunto dai giapponesi 23, secondo i quali anche un terremoto, un tifone, un incendio, un’alluvione, un attentato, possono e devono essere occasioni per metabolizzare riflessioni critiche su difetti del passato e utilizzare questa saggia filosofia di progetto per soppesare opportunatamente le proposte. Per Branzi siamo giunti ad un momento di svolta, in cui dovremmo cogliere queste occasioni più o meno sfortunate per concentrarci sulle nuove tecnologie ambientali di tutti i campi in modo da compiere l’aggiornamento necessario al nostro nuovo modo d’uso della città. Sostiene che “si tratta di mettere a fuoco il ruolo che le tecnologie ambientali svolgono oggi nel sistema urbano, garantendone il funzionamento e soprattutto permettendogli di assorbire le continue trasformazioni delle modalità produttive ed abitative , messe in crisi dall’avvento di nuove tecnologie e di nuovi modi d’uso della città stessa”. Si tratta di aggiornare il patrimonio, questo potrebbe comportare qualche sacrificio necessario al risultato finale ma d’altra parte “il distruggere e il costruire hanno la stessa importanza, servono anime per l’uno e per l’altro” 24, perché come sostiene Maffesoli in un momento di rinnovamento e riaffermazione è importante “aderire alla necessità di comprendere ciò che sta terminando e morendo” per “poter meglio apprezzare e cogliere ciò che sta nascendo al suo posto”. TABULA RASA
22 Filippo Tommaso Marinetti. Zang Tumb Tumb. Edizioni futuriste, Milano, 1914. 23 Andrea Branzi. Scritti Pressocratici. FrancoAngeli, Milano, 2009. 24 Paul Valery. Eupalinos o l’Architetto. Mimesis, Milano, 2011. 25 Colin Rowe. L’architettura delle buone intenzioni, verso un visione retrospettiva possibile. Pendragon, Bologna, 2005.
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La mancanza di conoscenze a priori porta alla totale potenzialità di acquisizione da parte del soggetto di qualsiasi conoscenza. Già con Aristotele, si è espressa l’idea che l’essere umano nasca senza conoscienze innate, tesi contrapposta a quella che attribuisce più importanza alla componente biologica nella formazione dell’intelletto e della personalità. Tutto ciò, in seguito alla distruzione portata dalle due Guerre, non ha potuto fare a meno che essere relazionato alla città; gli urbanisti modernisti degli anni Sessanta hanno approfittato di questa Tabula rasa concreta per ricostruire da zero le proprie città senz’anima. Con il brusco cambiamento delle condizioni di vita e con l’arte a riflesso della società – si pensi alla psicanalisi, la relatività, il cubismo il jazz – pareva inevitabile che anche l’architettura imponesse le proprie nuove regole 25. Il background intellettuale è composto dai riferimenti più intimi delle nostre professioni, che sono molto antichi, spesso millenari. Questo li rende inadatti accogliere gli accadimenti attuali e la rapidità degli avvenimenti fa sì che qualsiasi azione che abbia la pretesa di dare una regola allo sviluppo urbano in base a problemi sociali o etici sia destinata al fallimento per via della sua arcaicità e
lentezza. Tutto l’insieme degli antichi valori è oggi inutile e controproducente. E, non solo non funziona più, ma paralizza chi deve pensare, come se fossimo programmati per bloccare noi stessi. Questa strategia è a volte limitante, una volta applicata alla città, dimostra che non solo sono sacrificabili le precedenti posizioni, ma anche quelle future sono provvisorie, in fin dei conti temporanee. Questo rende la rivendicazione del definitivo – l’illusione su cui si è fondata anche la più mediocre architettura 26 – impossibile. L’Architettura è resa impossibile perché quasi non le si da il tempo di consolidarsi. La nostra professione è vincolata a valori affermati, dogmi, preconcetti imposti che ci portano a rifiutare indistintamente tutto ciò che accade. Ogni soverchiamento dello status quo viene così vissuto come un dramma perché pensato come un gesto totalizzante da cui niente può fuggire. Gli architetti agiscono su basi folli, credendo ogniqualvolta sono chiamati in causa di dover modificare tutto in maniera irreparabile, come se per disegnare servisse necessariamente un foglio bianco anziché farlo su uno già iniziato. In preda ad un raptus animale ci si fa prendere la mano e si fa pulizia sul campo. Strategia rischiosa se si pensa all’Europa, culla di innumerevoli siti Unesco, città e paesaggi di inestimabile valore che sono una macchina da turismo per il mondo intero. E’ chiaro che con la strategia dell’azzeramento assoluto la pressione si farà via via opprimente su questo mega centro turistico e ci ritroveremo a dover considerare il valore delle cose e l’uso che se ne intende fare, valutando un possibile equilibrio tra i due mondi prima di arrivare ad una Roulette Russa storica autodistruttiva. I centri dovranno assolvere una miriade di nuove funzioni che si sommeranno a quelle precedenti necessitando una continua trasformazione e modernizzazione, più simile a un aggiornamento però che a un vero e proprio re inizio. SINGA(POOR)
26 Rem Koolhaas. Singapore Songlines. Ritratto di una metropoli Potemkin. Quodlibet, Milano, 1995. 27 Rem Koolhaas. Singapore Songlines. Ritratto di una metropoli Potemkin. Quodlibet, Milano, 1995.
Singapore può ritenersi il primo esempio di Tabula rasa vera e propria considerata totalmente trasformabile proprio per via della sua conformazione di isola tanto che le manie di grandezza della burocrazia di Singapore sembravano limitate solo dalla sua dimensione. “E’ un impresa concepita come l’apoteosi dell’azzeramento: la tabula rasa come base per un autentico inizio” 27. Essendo l’isola stessa l’unica risorsa di Singapore l’intervento si concentro direttamente su di essa manipolando e stravolgendo la morfologia del luogo, l’orografia fu praticamente azzerata e la linea di costa spostata più avanti per guadagnare terreno; intere isole e litorali vennero strappati al mare proprio come avevano fatto in Olanda. Questo processo di chirurgia plastica inizia addirittura prima dell’indipendenza della Repubblica di Singapore del 1965, con il sistema delle new town, poi autenticato dal rapporto Onu del 1963 redatto da Charles Abrams, Susumu Kobe e Otto Koenigsberger. Quando si insediò Lee Kuan Yew nel 1959 l’isola verteva in uno stato di semi abbandono, insediamento coloniale britannico ormai quasi dimenticato era caratterizzato prevalentemente da basi militari, un porto, gremite chinatowns, giungle, paludi e coltivazioni abusive. Era necessaria quindi una piano decisivo, una ventata di novità, il regime si incarica perciò di un importante campagna di modernizzazione. Subito una parte dell’isola viene denaturata per fare spazio a un nuovo insediamento industriale, urgono nuove città sussidiarie, grandi infrastrutture ed un nuovo porto. La rinascita inizia con l’impianto di strutture strategiche. Sorgono città per centinaia di migliaia di abitanti su terreni raschiati dai precedenti insediamenti abusivi. Una miriade di stecche residenziali invadono l’isola accerchiando le aree comuni: centri commerciali, parchi giochi e luoghi di culto, così si impianta una città dal nulla, necessitavano di alloggi urgentemente, non c’era il tempo per dedicarsi alla ricerca sociale. Questo rinnovamento urbano, come viene chiamato dalla missione Onu è un sistema estremamente ambiguo che lascia ad architetti, urbanisti e burocrati del tempo un ampio margine di interpretazione raccomandando l’identificazione
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dei punti di pregio ed i punti deboli delle aree esistenti, il rafforzamento e la costruzione dei punti di pregio e la rimozione dei punti deboli; il criterio di valutazione però rimane oscuro e perciò arbitrario, concedendo quindi grande libertà al regime. Vista l’urgenza demografica si reputa necessario un incremento del numero degli alloggi attraverso nuovi interventi più che di interventi di rinnovamento; si condanna la mentalità conservatrice come obsoleta a favore di un piano più flessibile…più positivo. Si pensa perciò ad un Manifesto più che ad un piano regolatore, che attraverso un concetto guida come il rinnovamento urbano proponga programmi d’azione che ricoprano l’intera isola. Ad aiutare ciò entra in campo un vecchio emendamento inglese che conferisce al governo il potere di acquisire qualsiasi governo necessario allo sviluppo del Paese anche a favore di privati, qualsiasi proprietà è resa quindi provvisoria, essendo l’isola trasformabile nella sua interezza nessuno versione può ritenersi definitiva. I terreni coltivati vengono dismessi e convertiti in terreni edificabili pronti ad ospitare miriadi di stecche residenziali, i contadini spinti verso il mare convertiti in allevatori ittici. La condanna di Fumihiko Maki 28 sulla dannosità del sistema “Rimuovere, distruggere, rimpiazzare” viene presa dal regime come uno slogan. Le demolizioni e i livellamenti non risparmiano nemmeno le colline, tutto è spazzato via in nome dell’esperimento della tabula rasa. L’intervento dello Stato ha avuto lo stesso effetto fisico e morale di una guerra, annientamento totale della preesistenza in virtù di dogmi dettati da organizzazioni mondiali, ambizione economica, pressione demografica e credo religioso. MARE-MOTO
28 “ niente è meno urbano, niente produce meno mescolanza cosmopolita del rinnovamento totale, il quale rimuove, distrugge, e rimpiazza, seguendo proprio questo ordine meccanicistico” Fumihiko Maki. Investigations in collective form. 1964.
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Dopo lo tsunami che ha colpito il Giappone nel Marzo 2011 il Paese ha mostrato come reagire in maniera non comune ad un’improvvisa catastrofe. La cultura di questo Paese ha senz’altro influito sull’approccio d’intervento in termini di progetti, strategie ed iniziative pubbliche. Si tratta di piccoli progetti realizzati da circoscritti gruppi di persone composte da architetti, anche di fama internazionale e da discreti collettivi delle cittadinanze locali. Il governo centrale ha imposto un piano di ricostruzione strutturato con una logica gerarchica piramidale dove dall’alto vengono imposti vincoli finanziari che instaurano una struttura burocratica che priva della loro autonomia le varie comunità estromettendo completamente le prefetture dal progetto. Questa strategia si rivela fallimentare, specie se applicata ad una scala così vasta perché non tiene in considerazione le esigenze specifiche di ciascuna comunità; aspetto fondamentale per garantire un’identità ed una continuità agli insediamenti distrutti, se si considera che l’area colpita si estende per più di 500 km sulla linea costiera con una profondità verso l’interno di 10 km ed un totale di più di 400’000 edifici distrutti. La politica di intervento adottata rischiava di azzerare le peculiarità di ciascuna comunità andata distrutta, fornendo soluzioni di ripiego inadeguate, anonime e con tempistiche incerte. Si è reso necessario perciò creare una rete di supporto alla ricostruzione del Paese formata dagli architetti giapponesi che meglio trasmettono l’idea di “Giapponesità”, ArchiAid. Le misure provvisorie predisposte dal governo sulla base di modelli precostituiti non consentono infatti di prendere in considerazione le future esigenze della regione e di prevedere una visione futura comune. Per puntare al futuro occorre riorganizzare la regione e le sue attività produttive insistendo sulle specificità di ogni luogo e sul dialogo con la popolazione locale. Gli architetti di ArchAid hanno perciò affrontato il problema con un approccio insolito, quasi di guerriglia contro i diktat del governo ed hanno organizzato una cooperazione con le comunità locali mettendosi anche nel ruolo di consulenti, aiutanti, operai per meglio esprimere il Know How di ogni regione. Questa missione è nata con l’intento di pianificare e concretizzare un sistema d’interventi particolareggiato creando una piattaforma di risorse ed idee che permettesse di condividere le conoscenze individuali per ottenere un risultato più ampio, in termini spaziali e temporali.
In tutto ciò non sono esclusi nemmeno gli studenti universitari che, coinvolti in ogni fase del progetto forniscono dalla forza lavoro alla freschezza intellettuale per incentivare l’interesse giovanile al processo di ricostruzione del Paese ed andando quindi a delineare cinque differenti approcci di intervento: ascolto delle comunità e delle loro esigenze; ripristino delle vecchie attività produttive e l’introduzione di nuove per far si che gli abitanti rimangano sul luogo e non emigrino in cerca di lavoro altrove, le strategie di ricostruzione stesse possono essere a loro volta il principio di nuove forme di attività; le strutture pubbliche, centro della vita e base per la ricrescita; necessità di restituire a tutti un alloggio più che dignitoso, non soluzioni sommarie e provvisorie; necessità di tramandare le conoscenze precedenti ed acquisite e conservare la memoria del disastro che oltre a trattenere il ricordo delle cose e persone perdute dovrebbe farci entrare nella logica di ricostruire per prevenire il futuro e dare una soluzione quanto più permanente e sicura, per interrompere questo processo del riparare provvisorio, della soluzione tampone che ha una durata temporanea, limitata fino alla prossima catastrofe. L’AQUILA CHE NON VOLA
29 L’associazione Off Site Art (OSA)
La città rimane gravemente distrutta e spopolata dopo il sisma che la colpì nell’Aprile 2009. Il centro storico, ora messo in sicurezza ma pesantemente puntellato traforato e fasciato non è altro che una quinta cinematografica composta prevalentemente dalle facciate dei vecchi palazzi ormai vuoti. Le macerie, in questa scenografica immobilità precaria esprimono senza volerlo le fragilità del mondo contemporaneo confermando ed enfatizzando la perdita di potere dell’Uomo sul territorio. La Zona Rossa, così è chiamato il centro storico, è completamente inaccessibile a chiunque, transenne e recinzioni invalicabili anche da proprietari ed ex abitanti cinge la zona come se fossero le nuova mura della città. Solo in occasione del G8 di Luglio 2009 è stato riaperto un piccolo pezzo di Corso Vittorio Emanuele fino alla piazza del Duomo, per poi essere aperto completamente, il Cardo s’intende, dopo un anno. Questo varco che attraversa i ruderi è ora percorso da turisti che fotografano gli scheletri degli edifici e sbirciano tra i teli delle impalcature in cerca di qualche segno qualche indizio che li aiuti a ricostruire gli ambienti e la vita prima del sisma, di immaginare come possa cambiare la propria esistenza dal giorno alla notte. I turisti rappresentano ormai l’unica forma di vita tra contafforti, tiranti, contrafforti e centine in legno, si aggirano in un turismo macabro in un centro medievale diroccato il cui destino è proprio forse di monumento alla fragilità dell’uomo e delle sue imprese di fronte alla potenza della natura. Pensare che questi corpi, queste rovine riprenderanno vita un giorno come quanto è successo per Gemona del Friuli sembra ben difficile, al momento si è rimasti alla fase delocalizzazione e numerosi borghi sono ormai sorti nei dintorni ma quanto sarà della Zona Rossa a nessuno è dato saperlo. Non è certo facile affrontare un evento cosi disastroso, che colpisce un centro storico così grande e per di più un capoluogo di regione, compromettendo così il governo e la gestione della ricostruzione. Difficile quindi imbastire un piano di ricrescita, una strategia che stabilisca gli edifici da ricostruire e quelli da demolire fornendo un ordine di avanzamento dei lavori secondo i gradi di priorità decisi da un ente competente in grado di valutare rischi e il potenziale degli edifici rimasti. Si è riusciti comunque grazie alla Protezione Civile a classificare gli edifici in base all’agibilità e a censirli in base alla tipologia di intervento che necessitavano, la città ora è quindi un manufatto urbano in continua trasformazione “in bilico tra l’elaborazione della perdita di ciò che è stata e la spinta creativa del domani” 29 per via dei molti cantieri che vi sorgono all’interno volti a consolidare ricostruire o demolire gli edifici pericolanti del centro. Vista la crescente attività edilizia l’associazione OSA con il desiderio di fare del capoluogo abruzzese un nuovo centro di contaminazione artistica coinvolgendo differenti linguaggi, culture e nazionalità. Le impalcature ed i teloni che rivestono gli edifici sotto intervento prendono vita grazie all’esposizione di macro stampe fotografiche di opere di artisti da tutto il mondo facendo delle strade del nucleo storico una galleria d’arte a cielo aperto. Si presenta così una nuova chiave di lettura dello spazio vuoto, un nuovo modo di abitare quelle rovine che prima erano solo ciò che rimaneva di una vita
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precedente. L’iniziativa riporta così lo sguardo su cosa si sta facendo per riparare al disastro, come risponde l’essere umano ai disastri, e lo fa certamente in maniera inusuale, introducendo una nuova funzione che riporta i cittadini a passeggiare per le vie del centro. Nonostante i 19 aggregati residenziali di nuova costruzione predisposti dal piano C.A.S.E. siano ben progettati e forniti di aree verdi, garages coperti e fondazioni antisismiche che li rendono sicuramente migliori dei quartieri residenziali della campagna aquilana costruiti a partire dal Dopoguerra, essi vengono comunque vissuti come una situazione provvisoria, la popolazione insediatavisi continua a vivere gli spazi come non propri, trattandoli come se dovessero sgomberarli da un momento all’altro. Questo fa capire quanto possa essere dannosa la mancanza di attività o servizi in grado di trattenere ed intrattenere la popolazione; è fondamentale capire come hanno fatto i giapponesi quanto sia importante nella ripresa introdurre e/o aggiungere nuove funzioni ed interessi che attirino la popolazione e la invoglino a rimanere, scongiurando il rischio dell’emigrazione in altri luoghi che poi porta alla creazione di città fantasma. GIBELLINA, Tp La nuova Gibellina rappresenta uno dei rari casi di città d’arte realizzata da zero in Italia nel secondo Dopoguerra. La ricostruzione resa necessaria non dalle distruzione della guerra bensì dalla devastazione del terremoto del Belice del 1968 permise all’amministrazione comunale di sperimentare una pianificazione per così dire virtuosa del nuovo insediamento urbano. Dall’insegnamento di Ivrea si progetta una città con una forte componente di edifici di carattere culturale e sociale disseminata nel reticolato urbano. Già a Noto, tre secoli prima, dopo il terremoto che la distrusse ricostruì la città su un nuovo sito e con un nuovo linguaggio consono al momento con l’intento che la ricostruzione d punto e a capo volesse segnare un rinnovamento e miglioramento nella storia della città. Gibellina segue questo ragionamento e si va a collocare a diciotto chilometri dal luogo originario scegliendo un luogo pianeggiante meno remoto e più connesso alle infrastrutture che riflettesse il riscatto della classe sociale ed economica del feudo che da sempre aveva caratterizzato la vecchia Gibellina, dalle baronie di contrada si passa ai piccoli proprietari e coltivatori diretti. Ludovico Corrao, il sindaco di allora, cercherà di ricostruire l’idea di comunità più che di città per far vivere ai cittadini privati di ogni cosa una nuova forma di partecipazione che restituisse loro quel senso sociale che avevano perso con la perdita della vecchia vita. Gli artisti ed architetti chiamati a dare il proprio contributo spinti ad interpretare proprio il tema di una città che risorge hanno immaginato e costruito una città utopica con interventi di grande intensità formale che però sono visti troppo distanti dalla cultura degli abitanti. Ancora una volta si afferma l’estraneità dell’intervento all’umanità dei suoi abitanti, un progetto calato dall’alto che non è nato dal progressivo sviluppo della popolazione e che di conseguenza non può averne lo stesso valore, non è ugualmente sentito; seppure inizialmente ben accolto ed accettato, il workshop Belice 80 30 è andato via via perdendo attenzione e partecipanti. Le modalità di ricostruzione, offrono un interessante caso studio sia dal punto di vista artistico-architettonico che personale e morale ma a quanto pare non sufficiente. Da Luglio a Settembre vanno in scena le Orestiadi, rappresentazioni teatrali ad alto livello e di fama internazionale, Hugo Santiago, Emilio Isgrò e John Cage sono solo alcuni dei nomi passati per Gibellina. PARCHI A TEMA E TEMI A PARCO
30 Maurizio Oddo. Gibellina la Nuova, attraverso la città di transizione. 131. Testo&immagine, Roma, 2003.
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Gli outlet village costituiscono ormai un fenomeno di grande successo e in continua espansione, e con la loro dimensione urbana stanno modificando il paesaggio e le abitudini degli italiani. In un unico nucleo si concentrano i migliori marchi della moda, ma anche caffetterie ristoranti ed attività per tenere occupati anche i non interessati alle
spese; il tutto in un parco tematico che sostituisce il reticolo di vie e piazze cittadine ed i relativi negozi al dettaglio con monomarca di ogni genere, una versione esplosa a scala urbana dello shopping mall. Il modello commerciale è vincente perché attraverso lo stratagemma della città a misura d’uomo, curata e pulita ricrea quell’ideale utopico di paesino farloccamente bucolico in grado di far perdere la cognizione del tempo agli avventori. Queste “Gardaland” dello shopping offrono uno scenario alternativo alla città trafficata o al sobborgo di periferia, con colori vivaci, piante, panchine e spettacoli ricreano uno scenario così piacevole da suggerire ai consumatori di portare l’intera famiglia, compresi nonni e animali. Spesso non lontano da località turistiche l’outlet si trasforma in una piacevole meta di transito anche nei periodi di villeggiatura tanto da sostituire la gita fuori porta al borgo di pescatori puzzolente o alla scampagnata all’agriturismo pieno di chiassosi animali da cortile. Ripulite di tutte le imperfezioni ed impurità queste città di cemento armato dipinto e cartongesso diventano una realtà più vera della vita reale. Questi borghi così “tipicamente italiani” rappresentano in una volta sola l’insieme di tutti i cliché sullo stereotipo del Belpaese; ecco allora che queste casette col primo piano invaso da splendide finestre finte infestate da gerani che nemmeno gli OGM sono in grado di creare diventano gli scenari delle nostre vacanze. Ecco allora che l’innovazione tecnologica e la sperimentazione di concentrano sulla produzione di rocce finte più vere del granito con magari all’intero gli altoparlanti per la filodiffusione oppure cariatidi di cartapesta più autentiche di quelle dell’Eretteo. CREAZIONE DI UN CENTRO MONDIALE DI COMUNICAZIONE Lo scultore norvegese Hendrik Christian Andersen era un visionario, così lungimirante per il suo tempo da ideare e progettare, nel 1913, in collaborazione con il noto architetto francese Ernest Hébrard, una “Città mondiale”. Tale città doveva essere destinata ad essere la sede di un laboratorio di idee nel campo delle arti, delle scienze, della filosofia, della religione e della cultura fisica in continuo fermento. Danno segno di questa ricerca anche tutte le sue opere scultoree: figure classiche slanciate, trionfanti e pervase da una dirompente energia, trasudano romanticismo ed utopia. Riassumibile come la sommatoria di due visioni contrapposte ma, spesso, complementari: il rigore classicista e l’estetica romantica si fondono in un’unica opera. Hendrik inizia la sue esperienza lavorativa nei cantieri navali e, grazie ad una borsa di studio, intraprende il viaggio di formazione in Europa, nel 1894. Dopo alcuni mesi trascorsi a Parigi, si stabilisce definitivamente a Roma, ma con gli Stati Uniti Andersen mantiene sempre contatti importanti. Non a caso la sua visione è una commistione tra sperimentazione tecnica, slancio verso il futuro ed ispirazione classica. Al progetto della città ideale e alla sua diffusione Andersen dedica, oltre che gran parte della sua vita, un voluminoso atlante, intitolato “Creation d’un Centre Mondial de Communication” corredato da tavole, piante prospetti e sezioni, descrizioni e fotomontaggi che descrivono il “Centro” sotto ogni suo aspetto che, sulle basi delle concezioni urbanistiche delle antiche civiltà, indica la via per la nuova “Città”. Il piano è così dettagliato da essere sottoposto persino a Benito Mussolini che trarrà ispirazione per le sue “città di fondazione”. E’ sulla costante riflessione sulla realizzazione di un luogo ideale ove celebrare la modernità in equilibrio col passato, che si manifesta l’avanguardia dell’artista da cui prenderà spunto il fascismo negli anni Trenta del Novecento, seppur con presupposti completamente diversi, per la realizzazione dell’E42, il quartiere capitolino che doveva ospitare l’Esposizione Universale, mai realizzata a causa del secondo conflitto mondiale. Un altro sogno infranto, come quello di Christian Hendrik Andersen che, per fortuna, però, rivive nelle ampie sale della sua dimora. Villa Helene difatti, il suo studio-abitazione di via Mancini vicino al Tevere, appena fuori Piazza del Popolo è essa stessa prototipo e collezione di sculture di grandi, medie e piccole dimensioni, dipinti e opere grafiche quasi interamente incentrate attorno all’idea ossessiva di quella città utopica tanto anelata.
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CITTA’ DI FONDAZIONE Gli insediamenti di nuova fondazione in epoca fascista erano spesso di moderata estensione territoriale e demografica e uno specifico carattere rurale, non proprio assimilabili, né per dimensioni né per caratteristiche progettuali, ad una vera e propri città, da intendersi come conglomerato di insediamento urbano, campagna, attività economiche, crogiuolo di integrazione ed interrelazione tra le varie funzioni ed istituzioni. La tipologia più comune corrispondeva infatti ad un centro di servizi posto al centro di un’area agricola, in cui le case rurali sono poste direttamente sull’appezzamento di terra assegnato alla famiglia colonica. Il centro di aggregazione non aveva carattere residenziale, ma comprendeva edifici pubblici (chiesa, casa del fascio, ambulatorio, caserma della milizia e scuola) e servizi (consorzio agrario, spaccio, barbiere, locanda), organizzati intorno ad una piazza o ad un asse viario principale 31. Il fascismo interpretò a modo suo le relazioni tra metropoli ed impero, città e campagna,, industria e agricoltura, pubblico e privato, piegandole a servizio di una scenograficità urbana in grado di esaltare qualsiasi momento dell’attività sociale, commerciale e militare creando coni ottici e piazze immense ideali per “adunate oceaniche” e parate militari. ARCHEOLOGIA TAKE-AWAY
31 Alberto Mioni. Urbanistica fascista, ricerche e saggi sulle città e il territorio e sulle politiche urbane in Italia tra le due guerre. Franco Angeli, Milano, 1986.
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Da più di cinquant’anni si pratica la rimozione di affreschi, pitture murarie e mosaici per permettere la conservazione e l’esposizione dell’opera. Molto contrastanti sono le opinioni a riguardo per via di temi come l’integrazione col contesto, i rischi che si corrono ed i possibili danni alla struttura originale. Certo è che senza queste tecniche probabilmente oggi non ci sarebbe possibile godere di gran parte del patrimonio recuperato; questa pratica è si invasiva e non permette la lettura dell’opera nel suo contesto oltre che a lasciare incompleta la X originaria ma consente di eliminare e prevenire le cause di degrado che sicuramente avrebbero avuto conseguenze più disastrose mettendo senza dubbio in pericolo l’integrità dell’opera. Ovviamente sono diverse le pratiche di rimozione, ciascuna con i suoi pro e i suoi contro, ma lo “strappo” è considerata la tecnica più moderna; essa comporta la rimozione della pellicola pittorica dell’affresco, senza però asportare la porzione di intonaco sulla quale è stesa il risultato è un sottile strato di calcare colorato ottenuto grazie alla carbonatazione della calce, legante della malta di intonaco. Per fare ciò è necessario applicare sulla superficie dell’affresco delle tele sottili e resistenti, su cui si stendono colle reversibili che si legano allo strato pittorico senza che ne danneggino l’integrità né l’aspetto. L’operazione più delicata resta la rimozione delle tele dalla parete e occorre usare ogni cautela affinché lo strato dipinto rimanga attaccato ad esse. Le altre tecniche di intervento per distaccare un affresco dalla parete sono più invasive, quella dello stacco, che prevede l’asporto dell’intonaco e quella dello stacco a massello che prevede il distacco di una parte della muratura su cui l’affresco è stato dipinto comportano senz’altro un danno maggiore e più visibile. La rimozione di un affresco è sempre un intervento complesso: esso è particolarmente invasivo e va realizzato solo quando tutte le altre possibilità di intervento sono da escludere ed è necessario allontanare gli affreschi dalla loro sede originaria, non è certo una scelta da prendere con leggerezza, occorre prima valutare un’alternativa più delicata. Ci sono però situazioni in cui l’asporto rappresenta l’unico modo per poter usufruire di quel bene ed anzi è esso stessa l’unica possibilità per mantenerlo, perché tra non rimuovere e perdere e, asportare e salvare spesso la domanda non si pone nemmeno ma se se si escludono casi molto particolari da valutarsi di volta in volta come calamità naturali, possibilità di perdita irrimediabile, lo strappo e lo stacco sono due operazioni per rimuovere dipinti murali deontologicamente scorrette. Si tende chiaramente a fare tutto ciò che è possibile per mantenere un affresco o un mosaico lì dove è nato per evitare di impoverire il patrimonio architettonico. Ma considerando i moderni studi sui materiali che hanno portato un notevole miglioramento e fornito un valido aiuto per questa tipologia di restauro, la gravità di certe conseguenze è stata sminuita. Come queste tecniche vengono utilizzate per rimuovere dipinti murali su ruderi
di scavi archeologici da abbandonarsi o in caso di mura pericolanti in seguito a calamità come crolli, terremoti, ed alluvioni, meno drastico dovrebbe sembrare asportare l’edificio intero, così da mantenere intatte le condizioni di integrazione. Questo darebbe al frammento la possibilità di continuare a convivere con la propria madre, il luogo natio per cui era stato pensato, facendo fronte al contempo ai problemi derivanti dalle offese del clima umido e salmastro, da assestamenti e cedimenti della struttura architettonica. GIUDIZIO DELLA CRITICA Il concetto di conoscenza sensibile sviluppata dalla nascita della teoria dell’estetica di Kant 32 mette in luce la dimensione critica soggettiva dei giudizi estetici secondo cui l’osservatore esamina e seleziona in base alle proprie conoscenze personali. Da qui il controverso dibattito su cosa sia effettivamente meritevole di attenzione, cura, valori di pregio, che cosa meriti visibilità o abbia la priorità di intervento. Si può pertanto sviluppare un sistema di giudizi di valore che permetta di stabilire un criterio di analisi quanto più oggettivo e critico in modo da considerare i vari casi secondo un filtro imparziale.
32 Immanuel Kant. Critica del Giudizio. UTET, Milano, 2013.
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Si è quindi reso necessario organizzare un sistema per recuperare questi manufatti architettonici dimenticati , quali colonie, ville, castelli, città, in una sorta di ufficio oggetti smarriti dove raccogliere e collezionare tutti i monumenti e le bellezze italiane ormai abbandonate e cadute in rovina. Si verrebbe a costruire un paese degli edifici dimenticati, una vera città divisa in settori, con cardo e decumano che s’incarichi a custode della cultura; tutti gli edifici e i monumenti in abbandono o a rischio demolizione a causa di nuovi interventi potrebbero ottenere una nuova vita finendo in questo ricovero architettonico. In questo modo si potrebbe pianificare una struttura efficiente che vista comodità e praticità data dalla vicinanza dei reperti, potrebbe prendersene cura permettendo quindi di essere visitata e vissuta. Nulla andrebbe perso, nulla distrutto, né finirebbe nel dimenticatoio, anzi sarebbe sottoposto alle cure necessarie e a opportune visite così come un paziente umano. La città si conformerebbe come una Wunderkammer di memorabilia architettonici straordinari per caratteristiche intrinseche ed estrinseche.
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Ianobia : / Ian - obia / s. m. da|Ianus, Iani | Giano, antica divinità italiaca rappresentata con due facce ( bifronte ) per guardare il futuro e il passato ma anche perché, essendo il dio della porta, può guardare sia all’interno sia all’esterno. Il suffisso -obia conferisce il carattere di città, polis.
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Ianobia è il parco a tema che ci meritiamo Scendendo dall’appennino il viaggiatore si imbatte nella vista di una strana città, fatta di muri diroccati, chiese scoperchiate, torri smerlate, templi peripteri ormai senza cella, essa è Ianobia, la città del riscatto. Qui, tutti i siti storici ed archeologici abbandonati o in via di distruzione della penisola italica conquistano una nuova vita, smontati dal luogo originale vengono trasportati fino a Ianobia, dove vengono catalogati ed assegnati al proprio quartiere di appartenenza; lì vengono quindi rimontati, restaurati e resi accessibili a visitatori e studiosi. Se da lontano sembra un centro disabitato per via dell’incompiutezza dei suoi edifici, addentrandovi il visitatore scoprirà che vi è un’attività febbrile e che i muri non sono incompleti bensì distrutti. Ianobia è la città che da vita a città morte. Un Aldilà architettonico che permette alle rovine d’Italia una nuova vita. L’insediamento si sviluppa come una sorta di grande archivio di oggetti smarriti dove però gli oggetti sono architettonici; l’enorme patrimonio storico ormai caduto in rovina, abbandonato, maltrattato e saccheggiato dall’uomo viene ricoverato in questo ospizio per edifici, dove finalmente può essere curato e gestito da squadre di restauratori, architetti, archeologi che grazie alle virtù della vicinanza e dell’efficienza possono prendersene cura. Camminando per le strade ci si accorgerà che non si tratta di uno scenario apocalittico, che non è esplosa alcuna guerra né bomba, che nessun cittadino è fuggito per via di qualche calamità, si tratta si di un panorama metafisico abitato! Uomini donne e bambini affollano le vie e dagli edifici sbucano persone e non più erbacce o parassiti. Si tratta di una vera e propria città di fondazione, costruita, o meglio, ricostruita non secondo le regole canoniche con diversi nuclei insediativi, quartieri con piazze, servizi pubblici, parchi e residenze omogeneamente disposte, bensì secondo le categorie di appartenenza; vi è perciò la contrada delle chiese e luoghi di culto, dei palazzi del comune, dei templi e così via. Il forestiero si imbatte quindi, man mano che si addentra nella città in quartieri costituiti interamente da torri campanarie una accanto all’altra in base ad una
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classificazione di ordine qualitativo e non più secondo uno schema strategico. L’immagine che si delinea è di un luogo assurdo, inconcepibile per una mente umana abituata a strade dove si alternano chiese, palazzi, piazze, fontane e torri. Ogni volta che si gira l’angolo in questo reticolo viario ci si imbatte in una visione che sembra essere stata rubata a de Chirico, una moltitudine di battisteri si staglia a perdita d’occhio, una miriade di fontane monumentali ammassate come in un capriccio piranesiano creano affollati coni ottici verso un orizzonte infinito. Perché Ianobia è in continua espansione, Ianobia non ha fine. L’avventore allora non può fare a meno di immaginarsi la cerimonia di fondazione, il giorno in cui un moderno Romolo tracciò il solco delle mura nel suolo, avranno forse seguito un rituale? Interpellato degli aruspici, interpretato qualche segno dal Cielo? E quanto fermento nel cantiere dove impalcature e rovine si confondono, cortei di camion carichi di colonne doriche, cupole, campane e metope fanno il loro ingresso trionfale in città. Quasi si può palpare l’entusiasmo di quelle giornate di attività frenetica. A volte succede che arrivi in città un nuovo arrivato, ecco allora che una piccola folla si raggruppa subito in prossimità degli autocarri, curiosi di scoprire se si tratti di un mulino, una tomba etrusca o dell’ennesima chiesetta di campagna. Visitati e visitatori troveranno finalmente il loro equilibrio, turisti, archeologi ed esperti del settore riusciranno finalmente a convivere grazie ad una serie di “macchine di esplorazione” che permettono di penetrare in sicurezza anche negli angoli più impervi. Le rovine brulicheranno di vita e torneranno ad essere vissute, abitate, incastonate in un groviglio gotico di ponteggi ma conservando al contempo il loro fascino decadente.
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Tenuto conto della rilevanza dei temi precedentemente trattati e dello stato di abbandono e degrado in cui versa gran parte del patrimonio storico italiano si è reso necessario un intervento che indichi un metodo di azione secondo modalità sostenibili in termini ambientali, conservativi, economici e di divulgazione. Si è pertanto proceduto con l’elaborazione di alcuni giudizi di valore che potessero analizzare in maniera razionale e sistematica i casi da rivitalizzare attraverso l’uso e il progetto.
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Giudizi di valore
VALORE PAESAGGISTICO Peter Zumthor 1 ammette la presenza nel paesaggio di edifici che risultino fortemente ancorati ad esso, di quelli che sembrano semplicemente essere lì e non facciamo caso a loro bensì all’insieme, tanto che diventa virtualmente impossibile immaginare tale spazio senza di essi. Il paesaggio contiene la storia, il cielo, i profumi, i colori, la luce e le forme e tutto questo assieme compone un paesaggio personale che è quello dei ricordi, il cultural landscape, un territorio fatto di ricordi e di emozioni lontane. Entrando in contatto con uno di questi fattori ci si sente parte della natura, parte della storia. Osservando i paesaggi culturali tradizionali, dove la terra è trattata con cura e sapienza, Zumthor intravede una meravigliosa unione tra lavoro umano e natura. Dal 1500 troviamo tante analogie tra paesaggio agricolo e paesaggio pittorico tanto che è difficile stabilire se sia il primo ad influenzare il secondo, o viceversa. Soprattutto per i vedutisti nell’Italia del Grand Tour, il paesaggio dell’arte coincide con l’arte nel paesaggio perché così volutamente non curato da essere studiato e costruito; al punto da essere paragonato al paesaggio del giardino, differenziandosi solamente per un cambio di scala, di quantità e non di qualità, così che le differenze macroscopiche si riflettano solamente nei metodi operativi. Ultimamente però, non si entra in sintonia con il paesaggio tanto quanto si dovrebbe e si finisce per costruire senza valore intrinseco. Alcune volte si ha la sensazione che il paesaggio non accetti il nuovo edificio. Ogni tanto avviene la sintesi tra paesaggio e architettura, si crea un’armonia che le fa crescere assieme creando un luogo inimitabile ed armonioso , un’aura, di luogo come casa. Ci si accorge che il paesaggio non ha solo una funzione mediatrice ma costituisce il sostrato dell’ambientazione: precede l’architettura e ne condiziona gli impianti, è un ingrediente fondamentale della città e la connette nei panorami urbani 2. Bisogna ricordarsi che “Agricoltura e architettura sono le uniche arti che trasformano la crosta terrestre” 3; si prende invece il valore della natura naturale come patrimonio da lucrare, partendo dalla riduzione dell’importanza del luogo per arrivare alla costruzione del valore, attraverso l’antropizzazione del paesaggio, ossia la riduzione della sua tipicità ad opera di processi relativamente differenti dal carattere operativo tipico del luogo 4. Le città prevaricano i paesaggi perché sono aggressive e l’unica resistenza che incontrano è soltanto patetica e nostalgica. Non si tratta solo di leggi e di interessi economici, ma del potere culturale dei paesaggisti e della loro capacità di produrre una nuova immagine del territorio che persuada l’opinione pubblica. Le campagne per difesa dei cosiddetti beni naturali troppo spesso falliscono perché sono settoriali, vittimistiche, combattute in virtù di valori romantici, di bellezze panoramiche o di varie tesi sociologiche secondo le quali, nelle zone rurali, si verificherebbe un numero minore di nevrosi e stati depressivi. Ma per vincere, gli architetti paesaggisti devono acquistare una maggiore forza propulsiva incentivando un’inversione dinamica della loro disciplina e puntando non su generici atteggiamenti nazionalistici ma su incisivi programmi d’azione. Nel 1987 con l’introduzione del concetto di ambiente 5 si inizia ad allargare gli orizzonti della storia dell’architettura per includervi la storia del paesaggio. Da un limitato background composto da una sequenza di capolavori artistici siamo passati ad una storiografia che considera vitali anche le strutture minori, quali case rurali e fattorie. VALORE STORICO
1 Peter Zumthor. Thinking Architecture. Birkhauser, Basel, 2006. 2 Bruno Zevi. Saper vedere l’architettura. La Feltrinelli, Milano, 1948. 3 William R. Letharby. Architettura, misticismo e mito. Pendragon, Bologna, 2003. 4 Vittorio Gregotti. Il territorio dell’architettura. Feltrinelli, Milano, 2008. 5 Rapporto Brundtland. Our Common future, 1987. 6 Bruno Zevi. Architettura in nuce. Sansoni Editore, Firenze, 1994.
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Da sempre tema controverso e dibattuto, la consapevolezza organica della storia e la sua lettura sul costruito, si divide tra chi la coltiva senza riuscire però a tradurla in strumento metodologico e chi la usa come consolazione o pretesto per atti evasivi e discutibili. Si assiste pertanto ad una crisi della critica della storia dell’architettura perché sempre ritenuta una branca dell’arte, un’arte diversa, che necessita di conoscenze e strumenti particolari; si rimproverano gli storici dell’arte di non intendere la complessità del fenomeno architettonico, da sempre ricchissimo di riferimenti e suggestioni di ingannevole lettura. Si rischia quindi di giudicare, sostiene Bruno Zevi 6, in base ad un’astratta figuratività gli aspetti superficiali e decorativi, trascurandone invece i contenuti
sociali e gli organismi costruttivi. L’architettura stessa è storia, imprigiona in sé tracce delle vite che la vivono, ci dice che cosa erano i popoli, dove e come abitavano e pregavano, le loro abitudini domestiche e sociali, le loro aspirazioni, le loro conquiste 7. Saper decifrare il valore storico di un manufatto vuol dire capire il valore della società che l’ha prodotto, l’architettura dipende non solo dalle sue forme ma è un tutt’uno con la sua stessa esistenza dell’organizzazione e della condotta della società. Durante la sua esistenza l’oggetto architettonico si impregna dell’essenza di tutto ciò che gli passa attraverso, diventa lo specchio della storia e della cultura sociale. VALORE SIMBOLICO
8 M. Heidegger. Bauen, Wohnen und Danken, in Vortràge und Aufsàtze. Pfullingen 1954. 9 Robert Venturi, Denise Scott Brown, Steven Izenour. Learning from Las Vegas. Quodlibet Abitare, Roma, 2010. 10 Gio Ponti. Amate l’Architettura. Rizzoli, Milano, 1957. 11 Gillo Dorfles. Scritti di architettura, 19301998. Accademia di architettura Università della svizzera italiana, Mendrisio, 2000. 12 Peter Zumthor. Thinking Architecture. Birkhauser, Basel, 2006. 13 Robert Venturi, Denise Scott Brown, Steven Izenour. Learning from Las Vegas. Quodlibet Abitare, Roma, 2010.
È difficile sapere se simbolo abbia determinato la forma o se la forma è simbolo e quali siano le relazioni tra le idee e i fatti. Un’idea può riferirsi a una forma preesistente ed arricchirla, modificarsi sotto l’influenza della forma stessa. Il processo talvolta può essere contrario: una forma suggerisce una metafora, un paragone, un simbolo che poi esercita il suo potere su di essa; da qui parte l’interpretazione personale o collettiva del valore simbolico dell’elemento che va poi a ricondurlo ad una classe di valore. Come disse Pascal: “toutes choses sont causées et causantes, aidées et aidantes”, generando una relazione causa ed effetto che scatena un susseguirsi di immagini, figure retoriche, ricordi e stereotipi. L’interpretazione simbolista dell’architettura tende a trasferire la storia su un terreno trascendentale, mistico, impersonale ma al contempo riconoscibile da tutti. Heidegger sgombera anche in buona parte il campo dalla polemica esistente tra coloro che, privilegiando la funzione tendono a leggere o a progettare l’architettura, come semplice strumento per assolvere i bisogni dell’uomo, e coloro invece che, privilegiando la forma intendono caricare l’architettura di una serie di significati consci o inconsci, individuali o collettivi che esprimono il senso dell’operare dell’uomo 8. L’architettura può essere quindi al tempo stesso funzione e simbolo, aspetti indissolubilmente legati l’uno all’altro. Fare architettura difatti vuoi dire da una parte organizzare lo spazio fisico per assolvere determinate funzioni sociali o biologiche, ma dall’altro vuoi dire rappresentare il modo in cui quelle funzioni vengono espletate in un certo contesto culturale, cioè rappresentare il valore di quelle funzioni, il senso che esse rivestono per l’individuo e per il gruppo che dovrà usarle. Lo spazio generato, se studiato in maniera razionale è esso stesso simbolo dell’attività da svolgere. Il simbolo domina lo spazio, l’architettura non basta, le relazioni spaziali sono stabilite da simboli più che da forme e l’architettura diventa così un simbolo nello spazio più che forma nello spazio 9. Ma l’architettura nel passato era espressione di una politica, aulica per vocazione, celebrativa del trionfo di una politica che procedeva per monumenti 10, monumenti che altro non erano che l’esemplificazione dell’evento traslato in architettura sotto forma di un elemento simbolico. Perché architettura spesso non è più espressione di una politica ma segue una politica propria espressione del suo proprio vocabolario di immagini. Da qui l’architettura può essere intesa come un insieme organico di simboli la cui lettura complessiva può avvenire in maniera istintiva o attraverso l’acquisizione di conoscenze tecniche specialistiche oppure come simbolo essa stessa nel suo complesso 11. Ma il carattere di linguaggio deriva all’architettura dall’ammettere un rapporto tra i “segni” architettonici e gli individui che si servono di essi, è la lettura d’uso che ne fanno gli utenti che conferisce il valore simbolico a posteriori. Il mondo è pieno di segni e a volte si subisce un sovraccarico di informazioni che stanno per cose che nessuno comprende appieno e quindi finiscono per non essere più simboli ma semplicemente segni, così che gli aspetti reali rimangono nascosti senza che nessuno li raggiunga 12. Non è sempre facile leggere correttamente i simboli, ecco perché bisogna diffidare del simbolismo della forma come espressione o rafforzamento del contenuto; il significato non va inteso attraverso l’allusione a forme già conosciute, ma tramite la lettura delle caratteristiche intrinseche, fisiognomiche della forma stessa 13. La creazione della forma architettonica dev’essere invece un processo logico
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svincolato dalle immagini dell’esperienza passata proprio per evitare una lettura equivoca dettata dall’interpretazione più facile e rapida. Perché il simbolismo non è mai ovvio, anzi è così difficile discernere la sua stessa presenza che rimane opinabile come nelle opere d’arte più chiare e genuine. Come accertare se l’associazione con lo stemma araldico sia il punto di partenza o l’esito di un riferimento non intenzionale e rilevato a posteriori. Può capitare così che il simbolismo vincoli e corrompa il linguaggio schiacciando i gesti spontanei. Capita che gli architetti cessino di poetare schiacciati dal programma metaforico 14. Succede che si rompe la poesia architettonica, schiacciata da un obbligo insistente che impone il suo programma metaforico fino ad arrivare a dei manufatti che non sono più degli edifici ma delle metafore edilizie. VALORE DI UNICITA’ Walter Benjamin sostiene che anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata manchi sempre un elemento: l’hic et nunc. Proprio in quest’esistenza irripetibile nient’altro si è compiuta la storia cui essa è stata sottoposta nel corso del suo perdurare. In quest’ambito rientrano sia le modificazioni che essa ha patito nella propria struttura fisica nel corso del tempo ed i mutevoli rapporti di proprietà in cui può essere capitata. “L’hic et nunc dell’originale costituisce il concetto della sua autenticità” 15. Ciascuna copia diventa così originale ma al tempo stesso, per quanto identica non ne sarà mai comparabile. La pittura non è in grado di proporre la stessa percezione collettiva simultanea come invece da sempre risulta vero per l’architettura anche perché spesso il quadro che noi osserviamo è rimosso dal suo contesto originale. E così come molte forme d’arte sono sorte e poi passate, gli edifici accompagnano l’umanità fin dalla preistoria senza conoscere pause, il bisogno umano di una dimora è permanente. La tecnica mantiene la sua piena autorità di fronte alla riproduzione manuale che diversamente viene bollata come falso, questo invece non è il caso della riproduzione tecnologica perché si dimostra più autosufficiente di quella manuale e capace di rilevare aspetti dell’originale che sono accessibili soltanto all’obiettivo ma non all’occhio umano. Parte del valore manuale però si identifica con la sua integrazione nel contesto in cui è nato che è senza dubbio a sua volta qualcosa di vivente, di mutevole, ma che al contempo lo rende unico: gli conferisce la sua aura. Così come la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte modifica il rapporto delle masse con l’arte lo stesso può considerarsi vero anche per le opere architettoniche dato che la tecnica di esecuzione può modificare l’uso e la percezione tattile visiva 16. VALORE DI ANTICHITA’
14 Bruno Zevi. Editoriali di Architettura. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1979. 15 Walter Benjamin. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Einaudi, Torino, 2011. 16 Gio Ponti. Amate l’Architettura. Rizzoli, Milano, 1957. 17 Gio Ponti. Amate l’Architettura. Rizzoli, Milano, 1957.
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Gio Ponti sostiene che il concetto di antichità non esista, tutto nasce soltanto al momento in cui lo conosciamo: se uno di noi conoscesse Picasso prima di Giotto, Picasso lì sarebbe più antico nella simultaneità nella quale tutto coesistere noi 17. Senz’altro una visione un poco estremistica e paradossale che riflette una percezione del mondo personale ed intima in contrapposizione con una invece oggettiva e convenzionale. Non esiste il passato, tutto è simultaneo, nella nostra cultura esiste solo il presente, nella rappresentazione del passato, e nell’intuizione del futuro, perché in ogni situazione si fa riferimento ad un’esperienza presente e recente. Secondo questo criterio tutta l’arte è presente e passata nella nostra cultura: dobbiamo pensare di essere contemporanei anche di Raffaello perché egli è contemporaneo alla nostra cultura. Si fa strada quindi una nuova concezione della temporaneità degli oggetti che rende molto soggettivo il concetto di antichità. Tutto sta nel limite temporale che si pone e dell’uso che si fa del presente. Perché dobbiamo misurarci col passato, ma anche tenere conto del futuro per essere all’altezza delle profezie. Ciò che importerà di noi nel futuro sarà estraneo a noi, quel che ci interessa del passato è estraneo a quel che era concepito nel passato: in questo ciclo perpetuo di passato e futuro tutto si trasforma in simultaneo.
Da sempre l’architettura usa dei riferimenti del passato che a loro volta erano stati dei riferimenti; diventa difficile quindi ricondurre precisamente un elemento alla sua collocazione temporale d’origine. Questo ragionamento non serve più che altro a datare un oggetto antico ma a dire che per questa proprietà commutativa dell’antichità anche un elemento moderno o contemporaneo può considerarsi antichissimo. Ogni riferimento agli antichi non può che essere che di valore perché nella nostra cultura è un fatto contemporaneo che è la somma di tutto il passato. Gio Ponti arriva ad una visione quasi nichilista e si domanda se ci serva effettivamente il passato per costruire scuole ospedali stadi dato che tutto è mutato in questi campi, le tradizioni sono transitorie, tradizioni formali ed accademiche. Le nostre abitudini e necessità sono così cambiate che ci sono edifici che un tempo non esistevano nemmeno, pertanto non esistono tradizioni da seguire per costruirli pur essendo al tempo stesso la sintesi di tutte le passate tradizioni. VALORE DI DURABILITA’ L’architettura dura, in relazione al tema dell’antichità crea le basi per l’avvenire, a parere di molti architetti non è concepita per noi ma per il futuro. Con la massima palladiana: “L’architettura vuole perpetuità” 18 assume un carattere di obiettivo imposto, un imperativo con carattere di eternità. Kazuyo Sejima invece considera la durabilità un parametro concordato con il committente, come uno dei tanti aspetti tecnici del progetto 19. Oggigiorno però è possibile determinare l’aspettativa di vita di un edificio; con programmi e tecniche si può individuare quasi con precisione la durata del manufatto. Paradossalmente però gli oggetti che costruiamo oggi durano di meno di quelli costruiti nel passato. Se noi ne vediamo le rovine esse sono solamente il risultato dell’azione dell’uomo. Pensando alle insulae di Ostia si potrebbe quasi dire che durino di più di certi palazzoni del Piano INA Casa, tanto da far pensare che il valore di durabilità sia un concetto antropocentrico più che legato ai materiali o ai fattori climatici. Ma l’importante in un progetto sono le attività che svolgono le persone che utilizzano l’edificio, la sequenza temporale delle azioni e degli eventi prodotti dal vivere in quel fabbricato, il valore di durabilità perde così la sua connotazione tecnico-materiale per assumerne una utilitaristico-sociale. VALORE DI AUTENTICITA’
18 Andrea Palladio. I Quattro libri dell’Architettura. Edizioni Studio Tesi, Venezia, 2008. 19 Yuko Hasegawa. Kazuyo Sejima + Ryue Nishizawa: SANAA. Electa Architecture, Milan, 2006. 20 Gio Ponti. Amate l’Architettura. Rizzoli, Milano, 1957. 21 Adolf Loos. Architettura e civilizzazione. Mondadori Electa, Milano, 2006.
Il tempo completa, trasforma, lavora fisicamente l’architettura conservandone ed estraendone solo arte pura: le stesse accade di fronte a certe vecchie opere d’arte ripulite, dove si è cancellato il tempo esse ci paiono che sono meno veritiere ma non sono certo meno autentiche, continuano a conservare la loro essenza. L’autenticità è data dall’oggetto in associazione al tempo e ai fatti che lo hanno colpito, come se la patina del tempo fosse un certificato di garanzia; e quindi se una copia ha subito le ingiurie del tempo e gli avvenimenti della storia allora può considerarsi essa stessa originale di sé stessa. Secondo Gio Ponti ripulire un’architettura antica, per quanto restaurata esattamente come sui documenti e disegni originari, tale e quale al principio, con rigore estetico, il risultato sarà sempre un falso, sarà come togliere vita e veridicità storica, sarà depredata della bellezza. La vera architettura greca e non greca e quella consegnataci del tempo diroccata ma spiritualizzata e viva perché vissuta 20. Il tempo conferisce così quella patina di rovina e manomissione che paradossalmente dona autenticità all’oggetto, quasi come se fosse che più è compromesso più è vero. In poesia ed in pittura le violazioni della verità disonorano il risultato, sono quindi per la maggior parte limitate al modo di trattare i soggetti, ma in architettura, un’altra violazione della verità, meno sottile e più deprecabile, è possibile; tuttavia bisogna non confonderla con l’esplicita falsità della natura materiale che secondo Loos è nel vero senso del termine una colpa, un delitto 21. Sostiene: “Si può perdonare la secchezza di ciò che è povero, si può rispettare l’austerità di ciò che è utile, ma cosa vi può essere se non disprezzo per la meschinità di ciò che è falso?”
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Diversa è il punto di vista del duo Venturi-Scott Brown che vedendo l’oggetto architettonico come una somma di altri oggetti afferma in “Learning from Las Vegas” 22 che per creare il nuovo significa scegliere il vecchio o l’esistente andando a rimarcare il fatto che qualsiasi sia il “pezzo” preso in considerazione ve ne sarà sempre uno anteriore a cui si è ispirato, difficile e controversa è pertanto la categorizzazione di ciò che è autentico o meno; diventa così o tutto falso o tutto vero a seconda se lo si considera un insieme o un tutt’uno. VALORE MATERIALE Gio Ponti nella sua carriera di sperimentatore di materiali e tecniche industriali giunge a sostenere che non sono il cemento né legno e la pietra o il ferro le materie prime più durevoli: ma l’arte, nel costruire essa è la materia prima più durevole, da sempre la materia prima. I pezzi senza arte, in pietra o in cemento, l’uomo le abbandona al tempo ed esse decadono, diventando rudere. Mentre gli oggetti più fragili come la pittura, la seta, i cristalli durano di più perché l’uomo le conserva le restaura le aggiusta, non le vuole perdere. “L’arte ha protetto Venezia, il cemento non ha protetto Milano: il miglior rifugio antiatomico e l’arte” 23. Si scredita il valore materiale e fisico a discapito dell’uso effettivo e del risultato, tenendo conto che le materie che non invecchiano sono materie moderne, e tutte le materie possono essere definite tali se impiegate con gusto e con espressioni moderne. I materiali sono meravigliosi di per sé, è l’impiego che se ne fa che compromette il risultato ma per un’edilizia onesta e bella non servirebbe aggiungere altro, solo un uso sapiente e appassionato. Persino i materiali plastici, che verrebbe da definire più poveri e freddi hanno finalmente incontrato le prerogative dell’uso dell’uomo, forme, colori, dimensioni; finora si è preferito il prodotto naturale non artificiale ma un domani si preferirà quest’ultimo perché possiede, su richiesta, tutte le qualità che necessitiamo, come se si piegasse alle esigenze dell’uomo al momento della sua creazione. Ma viene fuori che la definizione di architettura come arte è indipendente dai materiali usati. Poiché da sempre quest’arte era stata praticata utilizzando creta pietra o legno il risultato è stato che il senso delle proporzioni e le leggi della struttura sono state basate sulle necessità conseguenti l’impiego di tali materiali 24 derivanti da una storia millenaria di cultura materiale. L’importante per Ruskin 25 è che almeno il risultato ottenuto non sia contaminato, pazienza se non è possibile costruirla bella, la falsa rappresentazione del materiale è un gesto spregevole ed una colpa inammissibile. Perciò piuttosto diviene più raccomandabile seguire la visione di Zumthor, che, affascinato dall’Arte Povera, arriva ad ammirare non tanto la preziosità dei materiali quanto la precisione e sensualità con cui vengono usati, un’antica ed elementare conoscenza di cui l’Uomo si serve per esaltare, mettere in luce la vera essenza dei materiali. Questi trascendono dalle semplici regole di composizione e trasmettono molto di più, tatto odori e suoni 26. VALORE FUNZIONALE
22 Robert Venturi, Denise Scott Brown, Steven Izenour. Learning from Las Vegas. Quodlibet Abitare, Roma, 2010. 23 Gio Ponti. Amate l’Architettura. Rizzoli, Milano, 1957. 24 Adolf Loos. Architettura e civilizzazione. Mondadori Electa, Milano, 2006. 25 John Ruskin. Le sette lampade dell’architettura. Jaka Book, Milano, 1981. 26 Peter Zumthor. Thinking Architecture. Birkhauser, Basel, 2006. 27 Gio Ponti. Amate l’Architettura. Rizzoli, Milano, 1957.
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Il compito dell’architettura negli anni ’60 ritorna ad essere la soddisfazione dei bisogni della sfera umana. La professione dell’architetto deve servire la società futura sul piano funzionale, tecnico, produttivo, economico: deve servire la felicità e le esigenze degli uomini sul piano del quotidiano. Aria, sole, salute, assistenza e lavoro. Deve nutrire l’intelletto degli uomini agevolandone lo stile di vita con ordine ed essenzialità; al contempo come arte deve nutrire l’anima degli uomini, i loro sogni, i loro desideri, le loro passioni. Tutto ciò non è solo compito di mattoni e cemento, rientrano nell’ambito dell’architettura sociologi, medici, agricoltori, industriali, ingegneri e politici; tutti devono pensare architettura e sentirne il dovere, superarne i limiti, partecipare alle sfide, perché tutti grandi architetti hanno impiegato una tecnica sublime pensando all’uomo, dedicandosi allo spirito dell’uomo, alla sua vita e al misterioso e meraviglioso destino 27.
Si arriva a supporre l’inutilità dell’architetto e del programma architettonico vista la crescente efficacia della flessibilità dell’utente e del progettista. Scompare il concetto stesso di architettura e di destinazione d’uso. E’ nell’indole delle persone reagire a qualsiasi restrizione imposta, bisogna pensare spazi stimolanti, capaci di produrre nuovi programmi sulla base delle risposte del pubblico. Bisogna considerare il comportamento umano nel programma come una variabile imprevedibile e dal potenziale illimitato 28, inconcepibile porre paletti o restrizioni. Si pensi alla scenografia che non a caso adotta spesso motivi architettonici per graduare l’atmosfera emotiva 29. Se un senso di frustrazione in sicurezza può essere provocato da un mero apparato scenico, perché gli architetti non fanno tesoro di questa esperienza provano ad utilizzare l’architettura per gestire le emozioni o i pensieri? L’architettura può addirittura precisare una partecipazione politica attraverso una sua destinazione d’uso, obbedendo ad un atto di volontà, imporre una sua destinazione sociale compatibile con il regime. In più si afferma che il funzionalismo non è mai stato considerato un processo semplicemente razionalista ma abbia abbracciato anche problemi psicologici e compreso le esigenze emozionali che non sono meno imperative di quelle utilitarie. VALORE SOCIOLOGICO Lo storico Gillo Dorfles sostiene l’importanza del senso bati estetico, cinestetico, stereognostico in architettura per una giusta ed efficace pianificazione architettonica: il fatto, cioè, che il senso della profondità, del movimento, della dimensione spaziale, siano elementi determinanti nei nostri - spesso inconsci apprezzamenti di un ambiente esterno o interno è indiscutibile 30. E’ ormai certo che forme, colori e luci siano a pieno entrati a far parte di quell’alfabeto tridimensionale che ha un forte potere sulla mente e la sensorialità. La Sejima interpreta il rapporto tra spazio fisico e architettonico attraverso il suo atteggiamento aperto e privo di difese, ereditando da Ito uno stile effimero, sviluppa un approccio fuori dal contesto storico ma ugualmente legato alla realtà; lo spazio non necessita di un riferimento storiografico bensì una percezione della realtà fisica priva di presupposti ideologici, desiderio di creare e senso di libera relazione fisica con lo spazio 31. Non si attinge ad un bagaglio storico culturale ma ad uno pratico, fatto di esperienze fisiche personali. Attraverso un approccio più moderato non si vede una influenza sui comportamenti sociali indotta dall’architettura in modo imperativo, bensì permissivo, c’è molta fluidità tra gli spazi, libertà di manipolazione ed appropriazione, l’architettura non deve costringere ma permettere. Essa non penalizza, non vincola, semmai corregge. VALORE ICONICO
28 Yuko Hasegawa. Kazuyo Sejima + Ryue Nishizawa: SANAA. Electa Architecture, Milan, 2006. 29 Bruno Zevi. Editoriali di Architettura. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1979. 30 Gillo Dorfles. Scritti di architettura, 19301998. Accademia di architettura Università della svizzera italiana, Mendrisio, 2000. 31 Yuko Hasegawa. Kazuyo Sejima + Ryue Nishizawa: SANAA. Electa Architecture, Milan, 2006. 32 Anna Barbara. Sensi tempo e architettura. Spazi possibili per umani e non. Postmedia books, Milano, 2011.
Fino agli anni ’50 la produzione e la rappresentazione delle icone in architettura erano controllate dagli stessi che controllavano lo Stato o la religione, oggigiorno invece le forme dominanti dell’iconicità architettonica sono sempre più spesso richieste da chi possiede e controlla le grandi aziende; l’autorità è passata da campo politico ad economico dato che l’iconicità dell’architettura costituisce una potente risorsa nelle lotte per il significato e, di conseguenza, per il potere 32. Difatti il valore iconico di un’opera è sempre più comune tra chi opera nell’architettura e ha una notevole copertura mediatica. Questo concetto si caratterizza per due aspetti: innanzitutto comporta celebrità, e si sa, comporta notevoli ripercussioni, soprattutto di carattere pecuniario; in secondo luogo, un giudizio di iconicità è anche un giudizio simbolico/estetico, ovvero si impregna di un particolare significato che è caratteristico per una determinata cultura o epoca. L’icona è un sunto di fama, simbolismo e qualità estetica. Mentre prima degli anni ’30 iconicità era sinonimo di localismo, con tecniche costruttive tramandate da maestranze e materiali autoctoni che rimandano al linguaggio vernacolare, Mies Van der Rohe adotta uno stile in cui l’iconicità diviene un soprannome alle suo opere, una sorta di titolo, trasferendo il fattore di riconoscibilità da un piano stilistico geografico ad uno fenomenologico.
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Non è più il comune denominatore il tratto distintivo, ma la singolarità del pezzo, si pensi alla denaturazione dell’uso dei materiali effettuati da OMA, Herzog e de Meuron o Frank Gehry, i mattoni sono sempre i mattoni così come lamiere e assi di legno ma subiscono una reinterpretazione tale da divenire ciascuna volta la caratteristica che connota il manufatto come unico nel suo genere; questa a sua volta può esprimersi in fattori di fisicità o di tempo, l’iconicità ha una durata, non è necessariamente per sempre 33. Può succedere che perda la sua singolarità perché, presi come siamo in questa architettura sommersa e distorta di simboli, se ne accumulino sempre di nuovi e più adatti, andando a spodestare il ruolo della precedente. AURA Un buon edificio deve essere capace di assorbire sorbire le tracce della vita umana e quindi arricchirsi pensando alla pagina degli anni si materiale alle crepe e alle schegge alle imperfezioni che crescono e che si amplificano nei bordi consumati dall’uso mi accorgo di trovare un’impressione più profonda un sentimento una consapevolezza del tempo che passa e della rendersi conto delle vite umane che agiscono su questi posti se queste stanze E che li caricano una aura speciale 34. FLUIDITA’ La Sejima studia in che modo l’edificio modificherà le persone che lo fruiscono e allo stesso tempo come esso verrà modificato da esse 35. Si ritiene infatti che mezzo ed utente non si comportino in maniera rigida e statica ma che entrambi i soggetti animati o inanimati che siano portino i segni dell’uso e dell’abuso l’uno dell’altro. Alcuni luoghi progettati per una determinata attività subirebbero delle modifiche o manomissioni nel caso l’attività o le necessità degli utenti cambiassero. Allo stesso modo la vita dell’utente o la giornata, a seconda del tipo di contatto, possono subire delle influenze, piacevoli o meno che alterano il normale comportamento del soggetto. COMPIUTEZZA Il non finito michelangiolesco, il metodo di una formazione che rifiuta di serrarsi dentro una forma oggettiva, e si affida alla crescita organica, ad una legge di sviluppo aperto di cui ha fornito la matrice 36 questo è quanto afferma Giulio Carlo Argan in merito al concetto di opera finita. Ciascun manufatto è infatti da considerarsi incompiuto, perché anche se apparentemente terminato potrebbe conservare all’interno delle proprie potenzialità decine di altri progetti, esso non sarebbe altro che solo l’inizio di un processo progettuale che vede il progetto di partenza come un embrione da cui far nascere od evolvere svariate dinamiche. Tutto ciò può dipendere dalla natura del progetto, dall’attività a cui è destinato ma anche dal rapido modificarsi delle necessità d’uso della società contemporanea, così irrequieta che non permette di considerare un progetto eterno né tantomeno definitivo. IDEOLOGICO
33 Leslie Sklair. Architettura iconica e globalizzazione capitalista. In: Dialoghi Internazionali: Citta Nel Mondo. Bruno Mondadori, Milan, 2009. 34 Peter Zumthor. Thinking Architecture. Birkhauser, Basel, 2006. 35 Yuko Hasegawa. Kazuyo Sejima + Ryue Nishizawa: SANAA. Electa Architecture, Milan, 2006. 36 Bruno Zevi. Saper vedere l’architettura. La Feltrinelli, Milano, 1948. 37 Marco Biraghi, Giovanni Damiani. Le parole dell’architettura - Giulio Carlo Argan. Einaudi, Torino, 2009.
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Nel momento stesso in cui l’arte ha rinunciato ad essere rappresentativa di una confessione religiosa o configurazione formale di un dogma, la compromissione politica era molto più che un’eventualità: “l’architettura razionale non è stata che l’ultimo tentativo di portare nella società, elevando al mito, una religiosità che non poteva più soddisfarsi nella contemplazione della natura creata” 37. Con la crisi della fede e l’avvento di nuove ideologie, effimere o frivole che siano, è mutato il carattere ideologico generalmente associate agli edifici, in particolare ad uso pubblico o religioso. Siamo giunti ad un momento storico in cui per pregare ci si può mettere in un parco e per avere un contatto con i ministeri basta un dispositivo elettronico, non abbiamo quindi più bisogno di luoghi con una finalità d’uso evidente o univoca.
TECNICO Come il valore di un diamante sta nel tempo che si impiega per trovarlo, il valore di una decorazione sta nel tempo che ci vuole per intagliarla. Il valore qualitativo conferito dalla mole di lavoro e dal tempo è indifferente dal valore del pezzo in sé 39. In un mondo computerizzato e standardizzato il valore delle cose è rappresentato solamente dal prodotto finito ma è un tutt’uno con il processo necessario per crearlo. Nanotecnologia e lavoro di artigianato sono da porsi al medesimo livello perché nessuno dei due è imprescindibile dall’altro, sempre sarà che uno ha generato l’altro o viceversa.
38 John Ruskin. Le sette lampade dell’architettura. Jaka Book, Milano, 1981.
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Pompei
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Nel 1980 di tutti gli apparati decorativi rinvenuti fino ad allora se n’era conservato solo il 20%. Bombe degli alleati alla fine della II Guerra Mondiale. La biglietteria affidata ad un gestore privato grazie alla legge Ronchey ( L. 14.1.1993, N. 4 ) che ha permesso una gestione efficiente. Sacchetti tecnici per reperti scambiati per mutande appese. 23 sigle sindacali e camaleontismo dilagante. Agguerrita lobby dei bancarellari. Tra gli obiettivi bisogna fare in modo che i nuovi assunti non richiedano presto il trasferimento ad un’altra sede per invivibilità del sito. Mancano tutt’ora alcuni servizi perché mai pervenuti o danneggiati come il sistema di illuminazione notturna con pali esterni agli scavi che contemporaneamente montavano telecamere di videosorveglianza. Il Foro di Pompei è il più bello e il più completo foro delle antiche città italiche. I crolli sono l’effetto combinato di due fattori ineliminabili: prima di tutto le rovine non durano, è una regola ferrea che vadano sempre più in rovina e alla fine cadono completamente. L’essere in rovina non è uno stato naturale stabile. Tenere in piedi Pompei è una lotta contro i processi della natura. Già nell’antica Pompei gli edifici erano costruiti per durare al massimo cent’anni non di più non c’è da meravigliarsi dunque che abbiano difficoltà a durarne 2000. La tanto millantata Casa dei Gladiatori crollata nel 6 novembre 2010 era uno dei siti che furono colpiti dai bombardamenti alleati. Nel 62 d.C. ci fu un violento terremoto che distrusse gran parte della città. Il fascino di Pompei per i visitatori è proprio quello di potersi muovere all’interno di un’antica città girovagando a piacere.
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I resti
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TUTTI I NUMERI DI POMPEI Cifre che fanno girare…la testa
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1 archeologo in tutto lo scavo 2 accessi al sito archeologico 3 uscite 5,50 euro costo del biglietto giornaliero ridotto 9 indagati per gestione fraudolenta e clientelismo 10 cmq di Pompei che scomapiono ogni giorno 11 euro costo del biglietto giornaliero intero 22 ettari di terreni non scavati-discariche abusive 30 pullman lasciati fuori dai cancelli a Capodanno 30 custodi previsti per il turno di notte 55 cani randagi censiti 60 custodi previsti per il turno di giorno 66 ettari di estensione per la città antica 98 isolati 150 mq di affreschi perduti ogni anno 300 euro chiesti per la corsa napoli-pompei scavi 400 custodi 1500 domus 3 000 pietre sbriciolate l’anno 5 000 visitatori al giorno 12 000 mq di rivestimenti pavimentali 17 000 mq di dipinti 60 000 euro per la mancata visita di Berlusconi 102 963 euro spesi per il progetto (c)ave canem 242 000 mq di superfici murarie 548 000 euro per il restauro della Casa dei Vettii 6 000 000 euro confiscati a Marcello Fiori 18 000 000 euro costo medio annuo dei dipendenti 22 000 000 euro l’incasso annuale del sito 35 000 000 euro programmati per l’hub ferroviario
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Un’eruzione di scandali
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Pompei è ormai tristemente note per i disservizi, più che per i servizi che è in grado di fornire. Le continue liti tra sovrintendenza e comune fanno si che si perda di vista il vero obiettivo, lasciando così i turisti in balia di segnaletica contraddittoria, incapaci di comunicare con il personale che parla solo italiano e incapaci di pagare se non con contante preventivamente prelevato. Tutto ciò provoca solamente arrabbiature ed è inevitabile quindi il turismo “mordi e fuggi” a cui si è praticamente costretti ammesso che si abbia la fortuna di trovare il treno alla stazione. Ormai l’unico modo di accedere agli scavi è quello di presentarsi come ministri o assessori o grazie ad uno dei celebri concerti tenuti nell’arena specie se ci si è imbucati, ma attenzione a non scatenare una rissa con i paganti, potreste essere la causa dell’annullamento dello spettacolo. Ahimè non è solo la reputazione italiana a crollare, ma anche muri, tetti, pilastri, travi colonne…in pratica tutto. Una dopo l’altra le domus vanno in frantumi, i mosaici si ricoprono di muschio, gli affreschi si stingono. Pompei ha iniziato veramente a distruggersi quando è stata scoperta, nel momento in cui l’Uomo è tornato a metterci le mani, o meglio, a non mettercele. E quello che non distrugge il crollo lo distruggono i ladri, innumerevoli sono i casi dei furti, da briciole di affreschi a tessere di mosaico fino addirittura ad una vera da pozzo! Non poi così maneggevole ne facile da nascondere, eppure è avvenuto anche questo. E se siete fortunati potreste imbattervi su un’asta online dove vengono battuti pezzi originali, è successo su Ebay. Il tutto è possibile perché i furti avvengono sotto un sistema di videosorveglianza assente, spento, rotto o bruciato. Molti sono gli indizi che fanno pensare ad una complicità interna per i furti più grossi, i minori, per dimensioni ma non per importanza, sono invece ad opera degli stessi turisti che poi si indignano delle condizioni in cui l’Italia tiene il sito. Perché, ebbene si, il mondo ci giudica, e lo fa in maniera molto severa, chiedendosi addirittura se sia giusto che il sito sia ancora competenza italiana. Il New York Times nel 2008 titolava “Salvare Pompei dalla ferocia del tempo e dei turisti” ma si associava al resto della stampa nazionale e non che condannava la negligenza italiana secondo cui, l’allora Ministro dei beni Culturali, Sandro Bondi si sarebbe dovuto dimettere per aver trascurato la tutela del patrimonio in favore di una valorizzazione mediatica e commerciale mai avvenuta. Sappiamo tutti quanto sarebbe altrettanto utile risolvere tutti quei casi di mala gestione come per esempio l’assenza di parcheggi, l’inadeguatezza dei custodi, la scarsa professionalità con cui approcciano il visitatore, solo per chiedere una mancia in cambio di informazioni che dovrebbero essere invece un diritto del turista. Gli scavi pullulano di queste nuove figure ed abitudini che si stanno delineando da un decennio e forse più e che si sono insediate nella quotidianità a tal punto da divenire dei caratteri ordinari. Aggirandoci per gli scavi ci imbatteremo difatti in parcheggiatori abusivi, bagarini, guide abusive, turisti stranieri smarriti, custodi, cani randagi, piccoli truffatori e turisti che consumano il pranzo al sacco seduti su rovine di duemila anni. Si chiede a gran voce un manager, una figura esterna e professionale, anche straniera che sia in grado di garantire l’efficienza del sito, gli scavi dovrebbero essere gestiti come se si trattasse di un’azienda, che deve essere competitiva, soddisfare il mercato ed essere in regola. Invece ci ritroviamo con una processione di commissari e super commissari, quasi fantozziana, che non fanno altro che gettare altro fango su quelle rovine crollate e coperte da cellophane. Non a caso il New York Times definisce Pompei come la metafora dell’instabilità della politica italiana. Perché sono sotto gli occhi di tutti le infiltrazioni mafiose e le gare d’appalto truccate e vinte sempre dagli stessi con una logica alquanto insolita per delle offerte al ribasso. Ci sono così tanti interessi attorno ai possibili enormi introiti che gli enti locali si contendono ferocemente le competenze tanto dal perdere di vista le priorità e il bene comune. Basti solo pensare a quanto fruttino in genere tutte le attività correlate al turismo, come bookshop, merchandising, alloggi e ristorazione.
Tutti gli altri Paesi sono in grado di ottenere profitti fornendo servizi di qualità mentre noi non ci rendiamo nemmeno conto di cosa abbiamo in magazzino. Esempio eclatante è la mostra su Pompei ed Ercolano tenuta al British Museum, allestita solo con pochi pezzi ottenuti peraltro a prestito gratuito da noi. La vera Pompei invece non riesce a ottenere la gloria necessaria e viene surclassata per colpa nostra da mostre ed esposizioni che ne rappresentano solo un’infima percentuale. Ma basta guardarsi intorno e notare le condizioni in cui versa il nostro patrimonio per capire le cause dell’insuccesso. Cellophane da scena del crimine, cemento brutalista e tufo da trattoria finto rustico hanno invaso gli scavi in sella a imponenti destrieri, quali ruspe, bob-cat e trattori. La delicatezza richiesta per ovvi motivi è stata messa da parte e sostituita dall’irruenza di un toro da rodeo che ha fatto sì che cadessero travi, il Cave Canem finisse sotto vetro e che la strada lastricata venisse in un tratto ricoperta da un manto di cemento. Potreste imbattervi in immondizia nascosta dietro un muro, rottami di videoinstallazioni abbandonate in un prato, e didascalie sbiadite. Senza contare poi gli orti abusivi e le discariche che giacciono sui quaranta ettari non ancora scavati. Tant’è che verrebbe da pensare che gli innumerevoli scioperi ed assemblee dei dipendenti fossero per protestare contro la mala gestione ma invece queste assemblee distruttive lamentano arretrati non pagate e ferie non fatte, il sito archeologico diventa così facile vittima degli umori dei sindacati che ogni volta lasciano fuori dodici mila turisti. Questi turisti fruttano un introito considerevole per gli scavi, considerando pure i fondi messi a disposizione della sovrintendenza dall’unione europea e dall’Unesco Pompei disporrebbe di un discreto tesoretto, di cui spende però in maniera pressoché utile solo un cento sessantottesimo. Molti soldi invece, denunciano i giornali, spariscono senza lasciare traccia grazie ad un’organizzazione più marcia delle rovine che protegge. Ci sarebbe stata anche un’offerta francese ma la mancanza di progetti concreti ha fatto ancora una volta fuggire gli investitori. Le uniche spese di cui possiamo avere la certezza ormai sono quelle folli della gestione, quelle per cui Marcello Fiori è stato sanzionato per gestione fraudolenta e sistema di potere clientelare. Ci dimentichiamo spesso quindi che chi investe in cultura investe due volte, lo disse l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ignaro del fatto che la nuova norma sulla gestione del patrimonio dei ministeri avrebbe poi previsto la possibilità al Ministero dei Beni Culturali di spostare i fondi da una sovrintendenza all’altra, per esempio toglierli a Pompei per sanare il bilancio in rosso di Napoli. Quello di cui non ci si rende conto è che Pompei non è per nulla una città morta, è vissuta ed ha le stesse necessità di una città viva, ha bisogno di sicurezza, luce, acqua, strade e per fare questo avrebbe bisogno di una gestione capace e responsabile che con fare esperto e professionale provvederebbe alla sua resurrezione. Nel frattempo rimaniamo in attesa.
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L’eco del vulcano
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Lo “Sterminator Vesevo” de La Ginestra di Giacomo Leopardi dopo la sua visita agli scavi pompeiani nel 1836.
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SERVIZI E DISSERVIZI
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Corriere della Sera, 2010.
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Corriere della Sera, 10 Luglio 2010.
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Corriere della Sera, 27 Luglio 2012.
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Prospect, 28 Aprile 2010.
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Corriere della Sera, 3 Maggio 2013.
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Corriere della Sera, 4 Gennaio 2016.
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Corriere della Sera, 2014.
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Corriere del Mezzogiorno, 2015
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Corriere della Sera, 28 Settembre 2012.
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Corriere della Sera, 27 Luglio 2012.
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Il Tempo, 7 Agosto 2015.
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ANSA, 24 Marzo 2016.
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Corriere della Sera, 16 Gennaio 2016.
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PANEM ET CIRCENSES
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1971
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Corriere della Sera, 11 Agosto 2000.
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Corriere della Sera, 20 Luglio 2001.
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Corriere della Sera.
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Corriere della Sera, 28 Luglio 2013.
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Corriere della Sera, 4 Marzo 2016.
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Corriere della Sera, 2016.
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Corriere della Sera, 2016.
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CROLLA LA REPUTAZIONE DELL’ITALIA
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Corriere della Sera, 23 Ottobre 2011.
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Ansa, 26 Gennaio 2000.
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Ansa, 22 Ottobre 2000.
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Corriere della Sera, 12 Novembre 2010.
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Corriere della Sera, 14 Luglio 2013.
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Corriere della Sera, 6 Novembre 2010.
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Corriere della Sera, 2013.
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Corriere della Sera, 23 Dicembre 2011.
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Corriere della Sera, 1 Dicembre 2012.
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Corriere della Sera.
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Ansa, 23 Gennaio 2016.
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ANALISI DEL DEGRADO
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Corriere della Sera.
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The New York Times, 26 Luglio 2006.
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Corriere della Sera, 26 Febbraio 2012.
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Corriere della Sera, 23 Maggio 2012.
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Corriere della Sera.
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IN CASO DI EMERGENZA ROMPERE IL VETRO
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Corriere della Sera, 22 Agosto 2000.
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Corriere della Sera, 30 Agosto 2007.
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Panorama.
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Corriere della Sera, 5 Luglio 2008.
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The New York Times, 5 Luglio 2008.
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Corriere della Sera, 7 Ottobre 2010.
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Ansa, 29 Febbraio 2016.
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AL LADRO! AL LADRO!
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Corriere della Sera, 2000.
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Corriere della Sera, 2000.
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Corriere della Sera.
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Corriere della Sera, 20 Ottobre 2003.
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Corriere della Sera, 1 Agosto 2014.
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Corriere del Mezzogiorno, 12 Ottobre 2015
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SI GRIDA ALLO SCANDALO
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Corriere della Sera, 5 Luglio 2008.
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Corriere della Sera, 7 Ottobre 2010.
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The New York Times, 13 Dicembre 2010.
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Corriere della Sera, 9 Novembre 2010.
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Corriere della Sera, 7 Novembre 2010.
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The Guardian, 11 Novembre 2010.
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Corriere della Sera, 19 Agosto 1989.
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Corriere della Sera, 18 Aprile 2014.
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Corriere della Sera.
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Corriere della Sera, 7 Novembre 2013.
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Corriere della Sera, 16 Novembre 2010.
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Corriere della Sera, 13 Settembre 2013.
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The New York Times, 20 Aprlie 2010.
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Corriere della Sera, 13 Ottobre 2014.
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Corriere della Sera, 7 Dicembre 2010.
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MARKET(T)ING
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Corriere della Sera, 7 Giugno 2003.
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Corriere della Sera, 7 Marzo 2007.
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Corriere della Sera, 9 Febbraio 2009.
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Corriere della Sera, 10 Marzo 2010.
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Corriere della Sera, 8 Novembre 2010.
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L’Espresso, 11 Novembre 2010.
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Corriere del Mezzogiorno, 28 Settembre 2013.
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Corriere della Sera, 11 Gennaio 2013.
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Corriere della Sera, 8 Ottobre 2013.
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Corriere della Sera, 28 Gennaio 2011.
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Linkiesta, 30 Marzo 2013.
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Corriere della Sera, 3 Agosto 2013.
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Corriere della Sera, 10 Agosto 2014.
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Corriere della Sera, 5 Luglio 2014.
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Corriere della Sera, 7 Agosto 2015.
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Corriere della Sera, 6 Marzo 2014.
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Il Mattino, 1 Marzo 2015.
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POLVERE SEI E POLVERE RITORNERAI GEN 3,9-24
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Corriere della Sera, 10 Agosto 2000.
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Corriere della Sera, 15 Luglio 2001.
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Corriere della Sera, 6 Ottobre 2010.
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Corriere della Sera, 7 Novembre 2010.
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Corriere della Sera, 25 Maggio 2010.
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Corriere della Sera, 25 Giugno 2011.
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Corriere della Sera, 17 Giugno 2009.
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Corriere della Sera, 20 Luglio 2015.
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Corriere della Sera, 6 Febbraio 2013.
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Corriere della Sera, 9 Novembre 2010.
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SCIO’(PERO)
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Corriere della Sera, 10 Luglio 2000.
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Corriere della Sera, 2 Luglio 2002.
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Ansa, 11 Febbraio 2016.
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Corriere della Sera, 25 Luglio 2005.
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Corriere della Sera, 11 Ottobre 2010.
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“PRENDI, SPANDI E SPENDI NON DOMANDARE DA DOVE PROVENGONO”
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Corriere della Sera, 25 Novembre 2010.
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Corriere della Sera, 21 Novembre 2010.
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Corriere della Sera, 4 Marzo 2014.
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Corriere della Sera, 30 Luglio 2011.
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Corriere della Sera, 30 Luglio 2011.
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Corriere della Sera, 24 Maggio 2012.
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Napolitoday, 7 Gennaio 2016.
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Corriere della Sera, 9 Dicembre 2013.
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Corriere della Sera, 5 Marzo 2015.
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Corriere della Sera.
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PER MOTIVI DI SICUREZZA
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Corriere della Sera, 4 Agosto 2001.
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Corriere della Sera, 5 Luglio 2008.
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Corriere della Sera, 20 Gennaio 2013.
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Corriere della Sera, 23 Gennaio 2012.
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Ansa, 23 Febbraio 2016.
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DE VIRIS ILLUSTRIBUS
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Corriere della Sera, 8 Febbraio 2010.
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Corriere della Sera, 4 Aprile 2014.
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Corriere della Sera, 14 Aprile 2014.
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Pompei affitasi. Pompei Location.
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Pompei affittasi. Pompei location. Si rende necessaria una valorizzazione per una miglior tutela del sito, affinché con i ricavati delle vendite si possa procedere con scavi e restauri. Sarebbe il caso che la città diventasse lo scenario di una intensa attività culturale, sviluppando un’offerta di attività didattico-turistiche e di svago. Sono proprio spettacoli come quello di Francesco Siani, svolti in luoghi scenografici come tra l’anfiteatro e la palestra che dovrebbero rendere Pompei viva. Insieme alla tutela, per rendere i visitatori più consapevoli delle sue necessità, sarebbe utile che Pompei si raccontasse meglio, perché a volte la narrazione è meglio dell’oggetto in sé, figuriamoci quando la materia prima ha una qualità tale. Bisogna trasformare il piacere della visita in elemento di conoscenza. Ideare itinerari tematici, legati magari ad una tipologia architettonica o ad un ciclo di pitture. Didattica più che intrattenimento per far guadagnare in tutela, agevolata dal supporto della gente che vive il territorio, vive gli scavi fino ad immedesimarsi nella custodia di un bene collettivo. Rendere accessibili i cantieri anche solo ad una parte delle masse permetterebbe ai lavori di procedere ed al contempo consentire la visita altrimenti impossibile; i proventi di queste visite speciali consentirebbe agli scavi di avere delle entrate maggiori e farebbe si che i turisti si potessero “spalmare” su un numero maggiore di domus. E’ accessibile solo il 14% dei 44 ettari scavati, questo comporta un affollamento indicibile in alcune domus e accresce la velocità del degrado soprattutto per gli apparati decorativi e per il mosaici. Non occorre scavare ancora, bisogna rendere disponibili anche altre zone della città chiuse per distribuire meglio i visitatori. In passato fioccarono fior fior di proposte: una volta il sindaco Claudio d’Alessio se ne uscì immaginando che nell’area archeologica si potessero organizzare concorsi ippici; Claudio Velardi assessore regionale in una giunta presieduta da Antonio Bassolino candidò Pompei come set cinematografico. Perché l’immagine di Pompei deve essere lanciata proponendo se stessa e i valori espressi dal suo patrimonio. Da bene culturale a bene merce tanto che si arriva a definirli giacimenti culturali, il patrimonio che produce reddito, una macchina da soldi come ammortizzatore sociale per il tasso di disoccupazione in Italia. La soluzione si delinea perciò come un CANTIERE EVENTO, dapprima usato come avvenimento esclusivo e limitato nel tempo ora potrebbe essere la svolta per la rinascita degli scavi. Pompei è morta due volte, la prima fu la morte improvvisa causata dall’eruzione, la seconda fu la morte lenta che la città subì da quando cominciarono gli scavi a metà del settecento. La vita delle rovine infatti è determinata dal tipo di turismo e dall’uso che ne fanno i visitatori che percorrono le strade e si siedono sui gradini. Potremmo proteggere i resti dell’antica città avvolgendolo in un drappo “alla Christo” e permettere ai visitatori di visitare l’area lungo percorsi obbligati appositamente disegnati e incoraggiare la maggior parte di loro a visitare una realtà virtuale o addirittura ricoprire alcuni resti per preservarli meglio. Ci si riapproprierebbe così del significato di scoprire e coprire, l’eccezionalità della scoperta, il fascino della scoperta ed il gesto di coprire e scoprire.
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“Pompei trae dalla sua morte violenta la ragione essenziale della sua bellezza ed il fascino grande della sua resurrezione.� Amedeo Maiuri I nuovi scavi e la villa dei misteri, Roma 1931
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Viaggio in Italia
“Molte sciagure sono accadute le mondo, ma poche hanno procurato altrettanta gioia alla posteritĂ â€?.
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Johann W. Goethe Napoli, 13 marzo 1787 Frammento tratto da Viaggio in Italia in riferimento alla visita agli scavi di Pompei.
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armarsi di scarpe comode e belle munirsi di una buona guida e partire spediti
se sarete fortunati ci sarĂ poca gente
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potrĂ venirci sbarrata la strada
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L’eco del vulcano
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Senza trovare nessuno che vi dia spiegazioni riuscirete a scorgere qualcosa
e finalmente troverete una strada libera
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Christo e Jeanne Claude per Pompei
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vi troverete di fronte a numerosi cantieri
l’attività è febbrile
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Bisogna sapere che alcune domus sono chiuse
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dopo qualche istante di smarrimento ci si informa e ci si consulta
Poi si riparte... spediti
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Si scopriranno anche domus aperte con interni grotteschi
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Con giardini segreti tenuti con cura e la ricostruzione delle antiche pompeiane
Avvolte da una natura lussureggiante
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Il turista è curioso e farebbe di tutto pur di affacciarsi
Per ottenere la vista migliore e rubare qualche scatto
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I pionieri della fotografia colgono ogni occasione per mettersi in posa e scattare qualche selfie
Pronti a condividere wireless lo scatto migliore incorniciato dalla storia
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Con un po’ di fortuna incontrerete dei guardiani vigili e sempre a disposizione
Che sotto un’attenta direzione illuminata vi sapranno dare ottimi consigli
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Potrete cosĂŹ scoprire meravigliose architetture di ogni materiale e colore
Dimensione o forma
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Magari imbattervi in qualche reperto nascosto o abbandonato
Portato alla luce nel cantiere proprio sotto i vostri occhi e senza veli
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Ma c’è un momento per unire l’utile al dilettevole fare un giro ai grandi magazzini poi un dejeuner sur l’herbe
E perchè no, una piccola siesta in qualche angolino bucolico
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Ma bisogna darsi un contegno fermatevi non si può toccare tutto
Non tutto è stabile, potreste farvi male e rischiare la morte
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Ecco allora che sarebbe il caso di aprire le porte di un nuovo cantiere con contenuti innovativi
Permettere ai visitatori di vedere il cantiere senza oltrepassare barriere o passare per vie traverse
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Il progetto
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“Viene naturale, forse, [...] riportare in vita la città della morte”. Edward George Bulwer-Lytton
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Scoperte su prenotazione
SCOPRIRE E RISCOPRIRE In molti hanno raccontato la vertigine provata davanti alla città sepolta dal Vesuvio e richiamata alla vita; la riscoperta di Ercolano e Pompei ne ha rivoluzionato la cultura, l’arte e la vita. Questo evento ha contribuito alla definizione di nuove tecniche di indagine scientifica con la stratigrafia ed i calchi in gesso. Ci ha permesso di comprendere le dinamiche quotidiane di una metropoli antica più di quanto le monumentali rovine di Roma riuscissero a fare. Ci sono state svelate l’intimità più segreta e le abitudini di una vita cristallizzate da una rovinosa fine. Possiamo perciò immaginare la notevole suggestione esercitata dalla scoperta di Pompei nell’immaginario europeo dall’inizio degli scavi nel 1748 al bombardamento del 1943. Si scatenò una profonda rivoluzione del gusto della cultura e delle arti in un’epoca di rottura fra tardo 700 e il primo ottocento che stava assistendo alla genesi del mondo moderno. I viaggiatori provenienti da tutti i Paesi d’Europa affluirono in massa per prendere visione dei prodigiosi rinvenimenti, tra questi spiccano le visite di personaggi illustri, nel campo dell’arte, l’architettura, la letteratura e la vita mondana, che ritraggono l’emblematico rapporto dell’antico col turismo d’élite. Secondo gli studiosi i reperti avrebbero dovuto essere lasciati dove erano riportati alla luce. per permettere questo si sarebbero dovuti rifare i tetti, pavimenti e finestre delle case per salvaguardare gli affreschi. Pompei sarebbe divenuta così un meraviglioso museo. Per la Casa Reale che promuoveva gli scavi le scoperte erano unicamente indirizzate ad arricchire la propria collezione personale di opere d’arte. Cresce l’interesse verso il presagio pompeiano che subito si riversa nelle opere del francese Michallon, a Pompei nel 1819, dell’olandese Pitloo a Napoli dal 1815, del danese Kobke che visita lo scavo nell’estate del 1840, grazie al loro lavoro Pompei diventa il soggetto di numerosi quadri che testimoniano il successo iconografico del sito. Meta preferita del moderno viaggiatore, l’ Italia ha cristallizzato nel settecento le utopie di tutti coloro che affascinati dallo svolgersi della storia videro in essa la terra promessa dell’arte. Gli addetti del Gran Tour avevano compreso come nelle assolate terre del Bel Paese l’evocazione di un mito riesca a rievocare la memoria dell’antico, rinnovando, nella comune emozione della scoperta, il legame tra natura e storia. Passato e presente coesistono in un luogo impregnato di poesia che non si può visitare senza entusiasmo, né lasciare senza rimpianti. LO SCAVO
1 William Beckford, Dreams, Waking thoughts and Incidents, London 1783.
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La ricerca dei luoghi adatti per scavare dipendeva dalle notizie raccolte e dalla disponibilità dei proprietari dei poderi. Questo il motivo per cui si scelgono aree distaccate, sia dentro che fuori dal recinto urbano di Pompei. Si trattava sempre di esplorazioni tese alla ricerca di affreschi, mosaici, strutture oggetto immobili destinati al museo reale, si scavava infatti per arricchire la collezione reale e non per conoscere la città romana. Quindi, una volta raggiunto questo obiettivo si procedeva a riseppellire gli edifici per restituire le terre ai loro precedenti proprietari. Da un lato, gli ingegneri militari avrebbero voluto tracciare la planimetria della città, cercare nelle strade, fare rilevamenti topografici, piante degli edifici principali e delle mura. D’altro canto il re li spronava affinché entrassero nelle case principalmente per trovare oggetti di valore. Solo quando l’affluenza di visitatori aumentò si finì per lasciare gli edifici esposti o protetti da qualche tipo di tettoia come nel caso del Tempio di Iside. Le persone che visitavano Pompei coprendosi con il para sole per proteggersi dalla canicola rimasero affascinate dalla vivacità degli affreschi ma anche colpite dal contrasto tra le sublimi rovine e i rigogliosi vigneti che ancora dominavano la zona. “Che vista insolita per occhi svedesi e che contrasti ci sorprenderà Pompei, alla vista del Tempio di Iside e subito accanto terreni consentì ricoperti da Pergole da
cui prendono grappoli dura che avvolte finiscono direttamente nella bocca già spalancata del visitatore”. 1 E ci raccontano di come “il Conte Carlo Augusto di Svezia rimase affascinato dal contrasto tra la bellezza dei luoghi della possibile imminenza di una catastrofe constata che l’intera Napoli sorge proprio sul tetto dell’inferno”. 2 Il segretario di gabinetto Adleberth racconta poi della visita di Gustavo III il 12 febbraio 1784 : “gli scavi vengono portati avanti lentissimamente da 34 persone che lavorano quotidianamente. Durante la nostra visita sono stati rinvenuti alcuni vasi di terracotta abbastanza comuni, forse mesi sottoterra a bella posta per dare al signor conte di caga il piacere di assistere a un fortunato scavo”. Gustavo III visiterà con il suo seguito quella che era la Casa di Diomede dove consumerà una colazione al sacco. Si narra poi che uno dei membri della corte avesse sottratto alcune tessere di mosaico del Tempio di Iside senza subire nessuna ripercussione. Ma la tentazione di portarsi a casa qualche souvenir è irrefrenabile per tutti, per fortuna alcune di esse sono lecite, come quando fu fatto vedere al Conte in occasione della sua visita al museo di Portici il grande plastico di Altieri del Vesuvio in fiamme. Decise quindi in seguito di acquistare cinque modelli di sughero: del tempio di Poseidone, del Mausoleo di Cecilia Metella, del Tempio di Minerva a Roma e il Tempio di Vesta a Tivoli. Un altro personaggio che per quanto abbia attraversato in modo fugace la storia napoletana, ha lasciato un’impronta duratura sulla storia degli scavi di Pompei è il Generale Championnet , tanto che una domus rinvenuta sotto la sua direzione, situata a sud della Basilica, porta il suo nome. 3 Non dei più edificanti, comunque Championnet è descritto come tutti i gentiluomini del suo tempo da ammiratore dell’antichità, ma se fece riprendere gli scavi di Pompei fu soprattutto per recuperare opere d’arte da imballare e spedire a Parigi. Il 7 gennaio 1804 si decide di inaugurare un piccolo scavo alla presenza della famiglia reale borbonica al fine di trovare se possibile qualche monumento antico. In effetti, dopo che gli operai prepararono il terreno asportando gli strati accumulatisi sulla pomice, pare che alla presenza di Sua Maestà Ferdinando I di Borbone, si rinvennero delle monete e vari utensili che il direttore, in qualche caso ebbe difficoltà ad identificare. Si annotano prima gli oggetti d’argento poi quelli di bronzo e ferro e poi ancora quelli di piombo, il vetro, la terracotta, le ossa, il marmo e le cose naturali. Ovviamente si battezzò la casa “Casa della regina Carolina” 4. Dopo la Restaurazione i Borboni tornarono sul trono di Napoli e il fenomeno della riscoperta delle città vesuviane come momento del viaggio in Italia si avvia in una fase di sensibile mutamento, soprattutto per l’ingresso nella dimensione sociale del Gran Tour del nuovo ceto borghese creato in molti paesi europei dalla rivoluzione industriale in oltre vent’anni di economia di guerra. Le visite si fecero meno “nobili” e più borghesi. La maggior parte dei visitatori di Pompei ora non è più l’élite di nobili o intellettuali, ma una schiera, sempre più numerosa e meno culturalmente motivata di imprenditori e banchieri, commercianti, cadetti militari, fanciulle di buona famiglia e giovanotti di belle speranze che dovevano assolvere al dovere di un viaggio fatto ormai sempre più spesso per moda e per affermazione di status sociale. Tanto che Alexandre Dumas descrive nel suo racconto Il Lazzarone e l’Inglese, del suo Corricolo 5, il visitatore di Pompei come “prototipo del turista dell’epoca”, si raccontano le furberie di un popolano napoletano ai danni di un turista che si presumeva scaltro. L’IMPRESA DEL SETTORE TURISTICO
2 C.A. Ehrensvard a Louis Masreliez, 28 Dicembre 1781. 3 Casa di Championnet (VII, 2, 1). 4 Casa della Regina Carolina (VIII, 3, 14). 5 Alexandre Dumas, Le Corricolo, vol. 1, Bruxelles 1843, pp. 165-183.
Al servizio del crescente turismo di Pompei i Borboni misero anche la loro precoce politica dei trasporti ferroviari. Realizzato dalla società francese Bayard, la linea Napoli-Portici fu inaugurata il 3 ottobre 1839 e, il 18 maggio 1844 fu aperto il tratto da Torre Annunziata a Nocera inferiore. La fermata di Pompei dotata di una piccola stazione in stile neoclassico scavi di Pompei accoglierà il 22 ottobre 1849, il Papa Pio IX esule a Gaeta e ospite del re di Napoli venuto in visita agli scavi.
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Dopo di lui un fiume copioso di visitatori d’ogni tipo. Con lo sviluppo delle ferrovie e della navigazione a vapore, il turismo era intanto diventato fenomeno di massa in tutta Europa. Nel 1855 la Cook and Sons Company fondata da Thomas Cook nel 1845 lanciava i suoi Grand Tour d’Europa e nei primi anni 60 iniziarono a comprendere Napoli e Pompei. Per i nuovi turisti si stamparono a Napoli nuove guide della città descritta da Carlo Bonucci e una descrizione delle rovine di Pompei di Gaspare Vinci. Queste guide si nutrivano delle pubblicazioni scientifiche che davano conto del procedere degli scavi. Fu questa infatti un’epoca particolarmente felice per gli studi su Pompei, sia a Napoli che in Europa; si produssero opere spesso rivolte non so agli antiquari ma anche al pubblico delle persone istruite. A metà tra la guida e il saggio scientifico fu La Pompeiana, la topografia degli edifici e degli ornamenti di Pompei, la prima esaustiva guida in inglese della città antica di William Gell, archeologo ma anche ricercato “Cicerone” dai suoi compatrioti in visita a Pompei. Le nuove generazioni di viaggiatori in visita avevano un atteggiamento nei confronti dell’antico ben diverso da quelli del Settecento. Gli edifici antichi non sono più visti come monumenti, ma come rovine. L’atteggiamento didascalico, che ha fatto prendere nota, ai viaggiatori del Settecento, di tutti gli elementi del paesaggio di Pompei cedeva ora il posto a una percezione romantica e ad un gusto pittoresco. Non cessarono tuttavia le visite aristocratiche, che con il loro collaudato rituale, potevano anche prevedere il sottile piacere del dejeuner tra le rovine, quasi una privilegiata trasgressione nel luogo sacro oltre che necessario sollievo dalla fatica della visita. Per gli ospiti più importanti, che per evitare il caldo visitava spesso Pompei di sera s’imbandivano mense perlopiù nella Villa di Diomede o all’ombra del salice che cresceva nel Quadriportico dei Teatri. Il Principe di Danimarca chiederà di passare negli scavi la notte del 7 settembre 1821 con la sua rispettabile compagnia, quindi provvisto di magnifica cena e fuochi d’artificio. Il 27 febbraio 1829 tornò per la seconda volta Ludwig di Baviera che era già stato a Pompei nel 1818. Si racconta che volle maneggiare lui stesso la zappa, il piccone e la terra, “quasi riconoscente a tanta premura della gusto ospite del nostro sovrano, profonde, sotto i di lui colpi più abbondanti e più leggiadri suoi favori”. Pochi giorni dopo fu la volta della Granduchessa Elena di Russia, che consumò una magnifica colazione all’interno della Caserma dei Gladiatori. Nel gennaio del 1833 il nuovissimo Re di Grecia appena liberata, Ottone, il fratello maggiore del principe ereditario di Baviera Massimiliano, decise di fare una visita notturna, durante la quale, si eseguì uno scavo in suo onore. Nel 1837 si registrò l’arrivo di Vittoria, prossima Regina di Inghilterra ed esattamente un anno dopo il 7 novembre 1838 anche la Regina Madre inglese Adelaide seguì il suo esempio. Come si può notare la storia delle visite è ben ricca di personaggi illustri che hanno segnato il tempo della storia europea ma anche di quella pompeiana. In questi secoli non ci si è fatti mancare teste coronate, pittori, poeti ed industriali di ogni dove e merita di essere ricordato anche il servizio di accoglienza che fu riservato a ciascuno di loro, motivo per cui esso non può essere dimenticato o sradicato dal costume del sito perché profondamente radicato nella sua storia.
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CRONOLOGIA DEGLI EVENTI 23.03.1748 Carlo di Borbone Re di Napoli avvia gli scavi di Pompei. 1754 Scoperta e riseppellimento della Villa di Cicerone e dei Praedia di Iulia Felix. 1758 Winckelmann visita per la prima volta gli scavi. 1759 Con Ferdinando IV gli scavi proseguono a velocità spedita grazie ad una più attenta pianificazione. 1762 Winckelmann ritorna a Pompei e scrive la Lettera sulle scoperte. 1764 Terza visita di Winckelmann. 1765 Comincia lo scavo dell’area dei teatri, del foro triangolare e del tempio di Iside; vengono esplorate la Casa del Chirurgo e la Villa di Diomede dove vengono rinvenuti diciotto corpi e un tesoro di monete di oro ed argento. 1764-1780 Francesco La Vega direttore degli scavi. 1767 Ultima visita di Winckelmann. 1769 Mozart visita il Tempio di Iside a Pompei. 1770 Giovanni Battista Piranesi compie il primo viaggio a Pompei accompagnato dal figlio Francesco e dall’architetto Benedetto Mori. 1787 Goethe visita Pompei. 1799-1802 Sospensione degli scavi. 1804 Chateaubriand Visita Pompei. 1808 Gioacchino Murat Re di Napoli; la Regina Carolina Bonaparte fa ripartire gli scavi 1813-1819 Scavo della Basilica. 1815 Con il ritorno di Ferdinando di Borbone sul trono di Napoli dopo il Congresso di Vienna si rallentano i lavori; lo scarso interesse del Re per l’archeologia porta alla rivendita dei terreni espropriati e la riduzione del numero del personale degli scavi. 1817 Stendhal visita gli scavi. 1819 Percy Byssie Shelley e sua moglie Mary visitano Pompei. 1817-19 Scavo del tempio di Apollo.
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1820 Scavo del Macellum, del Foro e dell’edificio di Eumachia 1824 Scavo del Tempio della Fortuna Augusta, delle Terme del Foro e della Casa del Poeta Tragico. 1825 Scavi in via di Mercurio. Il 19 novembre dello stesso anno l’opera L’ultimo giorno di Pompei di Giovanni Pacini con Andrea Leone Trottola debutta al teatro San Carlo di Napoli. 1826 Scavo della Casa della Fontana Grande. 1828 Scavo della Casa dei Dioscuri. 1829 Scavo della Casa di Meleagro. 1830 Scavo della Casa del Fauno e della Casa dei Capitelli Figurati. 1832 Scavo della Casa dei Capitelli Colorati. 1834 Edward Bulwer-Lytton pubblica il Best Seller The last days of Pompeii. 1835 Scavo della Casa del Labirinto e della Casa di Apollo. 1836 Giacomo Leopardi scrive La Ginestra ispirandosi alla sua visita a Pompei.
1857 Il fotografo tedesco George Sommer trasferisce il suo studio a Napoli e nel mese di Aprile ottiene dal Re il permesso di eseguire delle vedute di Pompei, permesso riconfermato dal nuovo Regno d’Italia. 1858 Scavo nella Casa del Citarista. 1860 Alexandre Dumas per brevissimo tempo direttore del museo e degli scavi incaricato da Giuseppe Garibaldi in settembre appena dopo l’unità d’Italia Garibaldi visita agli scavi di Pompei. 1860 Giuseppe Fiorelli direttore degli scavi. 1862 Scavi del Tempio di Venere, della Casa di Epidio Savino, Casa del Citarista, Casa di Epidio Rufo, scavo della Casa di Sirico e della Casa del balcone pensile. 1863 Scavi Porta Marina e del vicolo del Lupanare. Fiorelli ha l’idea di riempire le cavità lasciate dal disfacimento delle materie organiche ottenendo l’ immagine degli ultimi istanti di vita dei pompeiani, degli elementi dell’arredo e delle strutture deperibili. 1875 Michele Ruggero collaboratore di Fiorelli direttore degli scavi. 1876 Scavo della Casa di Lucio Cecilio Giocondo. 1877 Scavi nelle Terme Centrali.
1837 Pietro Bianchi architetto direttore.
1879 Scavo della Casa del Centenario.
1839 Ludwig I di Baviera visita Pompei in compagnia dell’architetto von Gårtner che progettò per il Principe una replica della Casa dei Dioscuri terminata nel 1850.
1881 Renoir visita Pompei.
1843 Scavo della Casa di Orfeo. 1849 Giuseppe Settembre architetto direttore. 22.10.1849 Visita di Pio IX agli scavi, “Non poteva andare a vuoto uno scavo alla presenza del Papa” dopo il rinvenimento di alcuni bronzi nel cantiere aperto per l’occasione. 1850 Sangiorgio Spinelli soprintendente. 1851 Charles Garnier visita Pompei con il pittore William Bouguereau. 1852 Guglielmo Becchi architetto direttore.
1891 Scavo della Casa delle Nozze d’argento. 1887 Scavi nella Necropoli di via Nolana. 1893 Giulio de Petra a direttore degli scavi. 1894 Scavo della Casa dei Vettii. 1895 Scavo della Casa degli Amorini Dorati. 1897 Primi scavi nella Casa dei Gladiatori. 1899 Scavo nella Casa di M. Lucrezio Frontone. 1901 Ettore Palace direttore degli scavi e del museo.
1852 Gaetano Genovese architetto direttore.
1905 Scavo del castellum acquae presso Porta Vesuvio.
1853 Scavo delle Terme Stabiane.
1902 Paul Klee visita Pompei.
1903 Scavo della Casa dell’Ara Massima.
monete d’oro, la scoperta ha riacceso l’interesse dei ricercatori attorno a Pompei.
soccorsi di arrivare in tempo, il turista è morto di infarto.
1905 Antonio Sogliano direttore degli scavi.
29.03.1951 Rinvenuti i corpi di due custodi morti a causa delle esalazioni di un braciere a carbone nella loro casina attigua a Villa dei Misteri.
11.07.2000 Sciopero dei dipendenti degli scavi, 12000 turisti rimasti fuori.
1907 Freud scrive il saggio Delirio e sogni della gradiva portando il mito di Pompei nel cuore del ragionamento psicanalitico. 1910 Primi scavi nella Villa dei Misteri da parte del proprietario del terreno. 1911 Vittorio Spinazzola soprintendente degli scavi. 1911 Scavo della Casa di un Obellio Firmo. Nel mese di Ottobre Le Corbusier visita Pompei che influenzerà profondamente la sua formazione artistica. 1915 Scavo della Casa di Aulo Trebio Valente. 1916 Scavo nella Casa del Criptoportico e nella Fullonica di Stephanus. 1917 Pablo Picasso visita Pompei con Jean Cocteau, l’incontro con la pittura antica influenza il suo periodo neo-classico. 1924 Amedeo Maiuri soprintendente degli scavi. Scavi nella Casa di Fabio Amandione e nella Casa del Sacerdote Amadio e dell’Efebo.
9.12.1951 Liberata dal suo sepolcro di cenere la bottega di un vasaio 31.08.1952 Rinvenuta la splendida pittura di una Venere che esce da una conchiglia. 23.01.1954 Nuovi ritrovamenti di antiche case negli scavi. 26.01.1954 Ritrovamento di una Venere in “bikini”. 18.03.1954 Rinvenuta a Pompei una grossa Bomba 27.06.1954 Scoperto il sepolcro del più ricco patrizio della città. 23.04.1957 Vengono alla luce i corpi di un uomo ed una donna inceneriti dal vulcano nella loro fuga fuori dalle mura. 19.12.1959 Sfregiato da ignoti l’affresco della venere in Conchiglia. 25.10.1961 Affiora lo scheletro di uno schiavo in catene.
1927 Scavo nella Casa dei Quadretti Teatrali.
12.08.1957 Scoperta la Necropoli di porta di Nola.
1828 Scavo della Casa del Menandro e della Casa degli Amanti.
1971 Concerto rock di Elton John a Pompei.
1929 Ripresa degli scavi nella Villa dei Misteri. 1931 Arturo Martini visita Pompei. 1935 Scavi nella Palestra Grande. 1937 Scavo nella Casa dei Quattro Stili. 24.8.1943 Bombardamento dell’area archeologica di Pompei da parte di truppe alleate che sospettano di una postazione tedesca altri bombardamenti sei dal 13 al 26 settembre. 14 giugno 1948 Bicentenario degli scavi e riapertura dell’Antiquarium. Luglio 1949 Apertura notturna degli scavi su idea di Amedeo Maiuri.
10.03.1978 Un altro tesoro è affiorato, una statua in bronzo dell’altezza di un metro e sessanta nella casa di Giulio Polibio. 10.06.1978 Rubate cinque preziose statuette dalla casa dei Vettii. 26.07.1978 Arrestato uno studente americano mentre rubava due anfore dagli scavi. 13.10.1980 Per la visita della Regina Elisabetta d’Inghilterra saranno coperte le pitture erotiche del lupanare. 01.08.1983 Cinque giorni di jazz nel Teatro Grande degli scavi, si sono alternati 130 artisti da tutto il mondo, tra cui Dizzy Gillespie. 28.06.1987 Riaperto per mezza giornata il sito.
3 maggio 1949 La principessa Margaret visita gli scavi.
10.06.2000 Incendio nella Casa di Ifigenia. Complotto o sabotaggio.
16.12.1949 rinvenuto un corpo con un gruzzolo di
10.07.2000 Un morto per malasanità, incapacità dei
29.10.2003 Trafugato manufatto in marmo dalla Casa dei Ceii. 05.07.2008 Indetto lo stato d’emergenza a Pompei. 06.11.20010 Crollo della Scuola dei Gladiatori. 12.11.2010 Crollo di un muro appena restaurato della Casa del Moralista. 25.06.2011 Sequestro del cantiere del Teatro Grande. 23.12.2011 Crollo nella Casa di Loreio Tiburtino. 01.12.2012 Crollo di un muro sulla via Stabiana. 08.02.2013 Leonardo DiCaprio visita gli scavi. 13.09.2013 Blitz dei carabinieri della direzione investigativa antimafia nei cantieri di tre domus per sospette infiltrazioni camorriste. 14.04.2014 Angela Merkel visita gli scavi con il marito e paga l’ingresso alla scorta. 01.08.2014 Finiscono all’asta su Ebay alcuni frammenti di affreschi. 20.07.2015 Il mosaico del Cave Canem conservato sotto vetro. 25.07.2015 Cancelli chiusi per protesta turisti in coda. 26.07.2015 Matteo Renzi visita Pompei. 12.10.2015 Dei croceristi francesi rubano dei frammenti di affreschi da una domus. 26.01.2016 Cede un pezzo di colonna del portico di ingresso della Casa di Romolo e Remo. 29.02.2016 Crollano due alberi sulle rovine nei pressi del Tempio di Venere, causa maltempo. 24.03.2016 Aperte le case del Cinghiale, della Regina Carolina e della Calce, l’Orto botanico, l’Odeion e la Casa del Medico.
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Il Grande Progetto Pompei, attraverso l’ adozione di una metodologia di elaborazione e gestione del Progetto e della realizzazione dei lavori fortemente innovativa, di una metodologia scientifica di conservazione che privilegia l’ approccio sistematico e “manutentivo” per ripristinare le condizioni di conservazione, in coerenza con le “ Linee guida per la conservazione del patrimonio archeologico” del Consiglio Superiore per i Beni culturali e paesaggistici, si sviluppa in 5 Piani Operativi: • Piano della conoscenza: prevede interventi di rilievo, indagine e diagnosi, individuazione analitica dei fabbisogni (criticità, problemi strutturali e di restauro) per tutte le insulae e progettazione degli interventi prioritari. Indagini diagnostiche funzionali agli interventi per la mitigazione del rischio idrogeologico • Piano delle Opere a progettualità avanzata: prevede la realizzazione dei 39 progetti già redatti dalla SANP relativi alla mitigazione del rischio idrogeologico, messa in sicurezza, restauro architettonico e restauro decorativo e un “Piano delle nuove opere da progettare” che interessa le aree complementari a quelle degli interventi delle opere con progettualità avanzata e riguarda il lavoro di messa in sicurezza restauro architettonico e decorativo per interventi progettati con il Piano della Conoscenza • Piano per la fruizione, il miglioramento dei servizi e della comunicazione: lavori di ampliamento, recupero, valorizzazione e qualificazione dei percorsi di visita e delle aree verdi; il miglioramento della segnaletica, dell’informazione e della promozione dell’area archeologica • Piano della Sicurezza: prevede lavori per il potenziamento e l’estensione del sistema di videosorveglianza e per la messa in sicurezza degli impianti • Piano di rafforzamento tecnologico e di capacity building: prevede l’adeguamento delle dotazioni e delle attrezzature tecnologiche funzionali alle indagini e al monitoraggio del sito e delle sue strutture ed il miglioramento delle capacità gestionali, organizzative, operative e delle competenze tecniche della SANP
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Piano delle Opere. I cantieri aperti: 1. GPP 1 - Lavori di messa in sicurezza previo assetto idrogeologico dei terreni demaniali a confine dell’area di scavo - Regiones III-IX 2. GPP 8 - Lavori di messa in sicurezza della Regio VIII 3. GPP 10 – Restauro architettonico e strutturale della Casa di Sirico ( Regio VII 1, 25.47) 4. GPP 11 – Restauro e consolidamento delle strutture della Casa del Marinaio (Regio VII 15, 2) 5. GPP 12 – restauro architettonico e strutturale della Casa dei Dioscuri (Regio VI 9, 6.9 ) 6. GPP 7 - Lavori di messa in sicurezza Regio VII 7. GPP A1 - Adeguamento e revisione recinzione perimetrale degli Scavi di Pompei 8. GPP A2 - Adeguamento e revisione dell’illuminazione perimetrale degli Scavi di Pompei 9. GPP Italia per Pompei-Reg. I,II,III Eliminazione presidi temporanei PUNTELLI 10. GPP 23 + 24 - Lavori restauro consolidamento-Vicolo di Championnet-Terme del Sarno (escluse) 11. GPP 25 - Apparati decorativi della Casa di Giulia Felice 12. GPP N - POMPEI PER TUTTI - Percorsi accessibilità e superamento delle barriere architettoniche 13. GPP 5 + 9 - Lavori di messa in sicurezza delle Regiones IV - V e IX in Pompei Scavi 14. GPP E - Lavori di restauro degli apparati decorativi della domus dei Dioscuri (Regio VI) 15. GPP Italia per Pompei:Regio I,II-Riqualificazione, manutenzione, reg. COPERTURE 16. GPP Legni - Restauro dei Legni di Moregine 17. GPP 39 - Lavori di adeguamento case demaniali a servizio dell’area archeologica di Pompei (Lotto 2)
Cantieri in attesa di avvio: • GPP G - Lavori di restauro degli apparati decorativi della casa del Marinaio (VII 15, 2) • GPP 2+3+4 - Affidamento progettazione esecutiva ed esecuzione dei lavori per la messa in sicurezza delle Regiones I, II e III http://www.pompeiisites.org/Sezione/Cantieri.in.corso
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Analizzata la politica di intervento adottata negli anni dalle differenti gestioni che si sono succedute nella storia degli scavi, emerge che ad una più lungimirante strategia di lungo termine si è sempre preferita una di breve termine che portasse risultati evidenti e rapidi. Anziché prediligere una linea d’azione che redigesse una lista di priorità, senza trascurare una manutenzione continua di quanto già in sicurezza, è stato scelto un metodo che si concentrava su un unico manufatto, nel tentativo di ridurne i tempi limite con cui si sarebbero visti i primi risultati. L’intenzione è quella di dare il prima possibile la notizia di un risultato raggiunto, pura propaganda politica quindi, distogliendo così l’attenzione da quanto invece non funziona. Ogni inaugurazione diventa perciò un grande evento, un’occasione più unica che rara, per celebrare il successo di una gestione virtuosa, le squadre di archeologi votati alla loro missione hanno strappato ancora una volta le rovine dal fango e dalle muffe. Si aprono tutti questi cantieri evento che consentono ad un numero limitatissimo di partecipanti ( e per un periodo ristretto ) di essere i fortunati vincitori di una visita a Pompei. Questo aspetto eccezionale, ha però un rovescio positivo della medaglia, meriterebbe di essere potenziato e sfruttato, permettendo in contemporanea i lavori di manutenzione e la visita agli scavi, bisognerebbe alleggerire l’affluenza alle domus aperte sempre più usurate dalla massa di turisti. Sarebbe bene seguire il modello tipico della società americana invece, dove per ogni minima risorsa naturale e culturale vengono correlate una moltitudine di attività sussidiarie che sono quelle che portano effettivamente un guadagno economico e la capacità di mantenere il sito. Dovremmo farci carico di un cantiere che sia davvero un evento capace di raccogliere al suo interno una moltitudine di servizi ed offerte per addetti ai lavori e profani. Il progetto prevede pertanto una serie di Dispositivi integrati o esterni che consentano un’esplorazione del tutto nuova, rivoluzionando il ruolo del turista attraverso l’amplificazione delle sue necessità d’uso.
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Comunicazione, ostentazione e narcisismo
LA COMUNICAZIONE DI MASSA Con le abitudini frenetiche ed ossessive odierne assistiamo ogni giorno all’aumento della velocità in cui avvengono i fatti. Se n’era già accorto Manuel Castells, che con la sua frase divenuta ormai celebre, mette a confronto la velocità odierna con il ritmo di cambiamento degli anni passati: «negli Stati Uniti la radio ha impiegato trent’anni per raggiungere sessanta milioni di persone, la televisione ha raggiunto questo livello di diffusione in quindici anni; internet lo ha fatto in soli tre anni dalla nascita del world wide web» 1. La velocità di cambiamento del mondo dei mass media ha raggiunto picchi incredibilmente elevati e fino ad ora impensati. Questa osservazione può essere estesa a tutte quelle innovazioni tecnologiche che si sono succedute nell’ultimo ventennio, rivoluzionando l’intero ambito dei mezzi della comunicazione di massa, inclusi quelli che sembravano più accettati e radicati nelle abitudini odierne. L’evoluzione dei mezzi della comunicazione di massa può essere letta come una evoluzione continua e senza significative interruzioni. Nei primi anni della comunicazione di massa, che corrispondono più o meno per tutta la prima metà del Novecento la trasformazione è stata graduale e sofferta. Recentemente, il motore di questo processo di mutamento, che ha coinvolto l’intero sistema della comunicazione di massa, è stato indubbiamente la televisione e la comunicazione elettronica più in generale, quale internet e tutti i social media. Si possono individuare tre principali cause scatenanti che per gli anni a noi più vicini, hanno introdotto mutamenti significativi nella struttura del sistema della comunicazione di massa e nel suo funzionamento: 1. la commercializzazione del sistema televisivo che ha avuto luogo in tutta Europa, e non solo, nel decennio 1980-90; 2. l’avvento della digitalizzazione e del satellite che segue a ruota questo periodo, tanto da sovrapporsi, in alcuni paesi, alla commercializzazione; 3. la nascita di internet e delle ICT (Information and Communication Technology) La conseguenza principale, riscontrabile a diversi livelli della struttura sociale riguarda l’accezione delle società e di una comunicazione cosiddetta ‘di massa’ da cui si passa progressivamente a un sistema di mezzi della comunicazione estremamente frammentato e finalizzato a raggiungere sempre più spesso ‘segmenti’ specifici della società; si avvia una forma di comunicazione mirata e settoriale che torna nuovamente a ridimensionare il pubblico destinatario. Gli anni Ottanta del secolo scorso sono stati gli anni del cosiddetto «diluvio commerciale», come lo definì uno dei principali studiosi della comunicazione di massa, Jay Blumler 2 (1992). In gran parte delle democrazie liberali, quindi non solo in Europa o in Italia, nascono una moltitudine di radio e televisioni private che determinano la fine del monopolio pubblico, che fino a quegli anni era stato organizzato attorno all’idea di servizio pubblico. Essendo poche in quel periodo le frequenze utilizzabili per la trasmissione televisiva, lo Stato, in quanto garante di tutti i cittadini, assumeva su di sé la responsabilità della trasmissione via etere con il compito di offrire un servizio ‘universale’, diretto a tutti i cittadini, alle stesse condizioni, all’interno dei confini nazionali. DALL’INTERESSE PUBBLICO A QUELLO COMMERCIALE
1 M. Castells (1996) The Rise of Network Society, New York; trad. it. La nascita della società in rete, Milano 2002. 2 J. Blumler (1992) (a cura di) Television and the Public Interest. Vulnerable Values in Western European Broadcasting, London. 3 A. Pilati (1987) Il nuovo sistema dei media. Come cambia la comunicazione negli anni Ottanta, Milano.
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Antonio Pilati, in un libro dei primi anni ’90 3, sostiene che il principale mutamento di natura economica che influisce sulla diversa struttura del sistema dei mass media riguardi la distribuzione commerciale. Il cambiamento drastico perciò avviene quando si passa da un sistema di distribuzione commerciale imperniato sulla piccola distribuzione a un sistema organizzato sulla grande distribuzione. In particolare quando i consumatori iniziano a poter trovare in tutti i negozi lo stesso prodotto, vale a dire la stessa marca. La nascita della marca necessita obbligatoriamente di conoscenza, intesa come divulgazione: la marca infatti deve essere conosciuta e deve essere promossa. Ne deriva quindi una sempre crescente domanda di spazi per inserzioni pubblicitarie che non trova, agli inizi degli anni Ottanta, adeguata risposta
nell’offerta di spazi proposta dal servizio pubblico radiotelevisivo, l’unica vera organizzazione radiotelevisiva allora autorizzata alla trasmissione via etere. Questa non corrispondenza tra domanda e offerta genera una spinta crescente che, unita all’innovazione tecnologica, sancisce la fine del monopolio pubblico radiotelevisivo. Nascono, il più delle volte clandestinamente, nuove emittenti, prima radiofoniche e poi televisive, che si affiancano alle emittenti pubbliche già esistenti. Si crea così una sorta di secondo mercato di mezzi della comunicazione di massa pubblici e privati che agiscono nel nuovo scenario competitivo prendendo progressivamente il posto di tutte quelle istituzioni – la scuola, la famiglia, la Chiesa, i partiti politici – che prima dispensavano conoscenza e informazione, e rappresentavano i principali depositari dei processi di costruzione del consenso e del senso di appartenenza a una comunità. Comunità che può essere una o molteplici a seconda della realtà a cui ci si sente più affini o con cui si ha più da condividere ed assorbire. Tutte queste comunità necessitano di un numero elevato di stimoli, prodotti, immagini ed idee che rappresentano quasi il pane quotidiano di cui si cibano e la loro linfa vitale. CIBO PER L’ANIMA? Così come il mercato dei beni di consumo ha bisogno ogni anno di una nuova moda da consumare, anche il mercato dei beni culturali richiede in continuazione nuove immagini nelle quali identificarsi. E ogni volta in un tempo sempre più ridotto, il ritmo è frenetico ossessivo tale da ricordare una dipendenza da farmaci o droghe. Con il fatto che si può trasmettere un numero infinitamente maggiore di informazioni rispetto a quanto si poteva fare nell’era della trasmissione analogica il pubblico è sempre più affamato ed entusiasta dell’aumento delle opportunità di trasmissione. Soprattutto nel campo della comunicazione elettronica, ma non solo in questo, si accresce sensibilmente il numero dei messaggi in circolazione: aumenta, per quanto riguarda la televisione, il numero delle reti televisive a cui ogni cittadino può connettersi, aumenta la scelta, aumentano le ambizioni. Nasce la multimedialità: uno stesso contenuto può essere veicolato da una pluralità di mezzi che agiscono in sinergia tra di essi. Mentre l’era della comunicazione di massa era caratterizzata dall’unidirezionalità del messaggio, il ricettore infatti non ha alcuna possibilità di risposta, l’era delle ICT è caratterizzata dall’interattività. Emittente e ricevente passano ad avere la stessa possibilità di interloquire e, appunto, il ricevente può abbandonare quel ruolo meramente passivo che gli assegnava la comunicazione di massa. Il ricevente può rispondere al messaggio, può scegliere tra una pluralità di prodotti offerti dalla stessa emittente, può, in altre parole, diventare esso stesso emittente. Questo il momento il cui noi, gli spettatori prendiamo il potere, la possibilità di scelta, di manipolazione, di influenza a nostra volta su altri spettatori. SIAMO IN ONDA Ci siamo trasformati noi stessi in insaziabili emittenti di notizie, spesso legate alla nostra vita personale che di conseguenza passa dalla sfera privata a quella pubblica senza l’apporto di alcun filtro. Si assiste, o meglio ci si fa impossessare dal oversharing, ovvero la necessità di condividere sul web ogni minimo dettaglio della propria vita privata davanti ad una platea spesso sconosciuta ma potenzialmente illimitata. Ecco allora l’aspetto fascinoso della condivisione, un tempo di dominio di enti pubbliche ora dominio del pubblico stesso, la possibilità di allargare il proprio audience è irresistibilmente golosa. Per questo non riusciamo a staccarcene mai, siamo sempre iper connessi, controllori e controllati. Il report annuale di We Are Social del gennaio 2015 afferma che, in Italia, per più di due ore al giorno uomini e donne restano collegati ai social network. Una dipendenza, riconducibile secondo Maria Claudia Biscione all’incapacità di stare da soli. Costantemente alla ricerca di un’esposizione pubblica ci ha reso sempre più dipendenti da un’apparente bisogno di una vetrina mediatica, che
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sembra essere luogo imprescindibile in cui rispecchiarsi, per vedersi, riconoscersi e soprattutto definire chi si è 4. Gli studi riscontrano come sia indispensabile il proprio bagno di folla, virtuale, giornaliero. E’ visibilmente aumentato il numero di comportamenti egocentrici, intesi come il bisogno impulsivo di attirare l’attenzione per sentirsi riconosciuti e apprezzati, siamo spettatori quotidianamente di citazioni e ostentazioni ego riferiti. L’estraniarsi dalle situazioni che ci circondano, viverle attraverso i social porta questi soggetti affetti da “Phubbing” a un distanziamento emotivo dal mondo e da sé stessi; si perde o confonde la percezione della vita reale, e si vive in un costante stato di ansia per la ricerca della giusta immagine che si vuole trasmettere di sé. Questo, nel tempo, porta tali individui a vivere in un mondo parallelo e immaginario 5. Ad ufficializzare questo nuovo trend c’è il fatto che anche molti personaggi dello spettacolo, importanti e conosciuti manager e politici di spicco hanno aperto la loro pagina personale su Facebook e su altri diffusissimi Social Networks. In tal modo si è ancor più acceso ed alimentato l’interesse e l’adesione a tale forma di collegamento e condivisione sociale, che viene vista come una fusione tra l’autorizzazione e l’ambizione. WANNABES Viviamo esperienze che, talvolta hanno una carica emotiva tale da spingerci a condividere il nostro vissuto con qualcun altro. Condividere questi momenti è per noi fondamentale e diventa una forma di autenticazione dell’attività stessa, che senza la pubblicazione non esisterebbe. Sembra quasi esistano dei “benefici soggettivi”: gli individui per il solo fatto che hanno condiviso le proprie emozioni si percepiscono più rilassati, più soddisfatti e maggiormente compresi dagli altri. Una sorta di effetto terapeutico! I social networks, permettono all’utente più o meno narcisista di controllare come il proprio ego viene presentato e percepito dagli altri. Ci consente di costruire e perfezionare l’immagine di sé che si vorrebbe gli altri vedessero creando così una realtà virtuale e fittizia che non corrisponde al vero ma ai propri desideri. Il primo a parlare di comunità virtuale fu Howard Rheingold in un libro del 1994, in cui documentava lo sviluppo di quello che egli definiva ‘The Well’ (Whole Earth ‘Lectronic Link): una comunità nata da un’iniziativa di cittadini residenti nell’area di San Francisco. Essa si è poi allargata, grazie al web, a una comunità planetaria, all’interno della quale prendono corpo interazioni che definiscono, pur senza possibilità di incontro reale, una comunità di appartenenti allargatasi fino a diventare quel world wide che conosciamo ora.
4 Maria Caludia Biscione 5 Policlinico Gemelli di Roma
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Il Cantiere Evento
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Viva Pompei!
1 L’apertura di uno scavo o di un restauro come era ai tempi delle prime visite reali nel Settecento e così come era previsto dai passati Cantieri Evento prevedeva infatti l’inaugurazione di uno scavo in concomitanza con la visita di ospiti illustri programmando scoperte ad hoc per un numero limitato di spettatori.
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I cambiamenti della società contemporanea e il rapido modificarsi delle nostre abitudini umane, spingono sempre più la nostra cultura del progetto a interrogarsi su questi fenomeni, dalle trasformazioni spaziali, alle variazioni culturali , si apre un territorio di ricerca capace di travolgere anche il nostro patrimonio storico e architettonico. Si nota infatti come l’approccio con le rovine sia cambiato nel corso dei secoli, dal momento della riscoperta di Pompei ( 1748 per volere di Carlo III di Spagna ) fino ai giorni nostri, ed in particolare nell’ultimo ventennio. In principio era visitata solamente dalle famiglie reali europee seguite da pittori e scrittori di corte, questi erano incaricati di riprodurre le rovine ed i momenti salienti della visita con incisioni, schizzi o saggi; con l’avvento del turismo di massa invece si è ampliato notevolmente il pubblico che prende d’assalto Pompei, muniti di pranzo al sacco i turisti contemporanei vivono la propria esperienza del sito attraverso lo schermo dei loro dispositivi elettronici. É quindi necessario adattare e calibrare gli strumenti del progetto non per risolvere i problemi in maniera definitiva ma per dare una risposta transitoria alle necessità dell’uomo contemporaneo. E sono proprio gli strumenti dell’allestimento, della scenografia, dell’architettura degli interni che, con i loro carattere reversibile e temporaneo, riescono a interpretare questi principi di “attivazione esperienziale” dello spazio. Pompei è una città viva, con esigenze e problemi analoghi a una normale città turistica ( il caso di Venezia dovrebbe far riflettere sul valore d’uso del patrimonio storico ) , senza dimenticare il fatto che il sito archeologico spesso non basta a sé stesso ma necessita di nuova linfa vitale che lo rivalorizzi e lo porti ad una nuova riscoperta negli usi e nei significati. Il mondo dei “social-media “e della “festa” ci aiutano a rielaborare questo nuovo approccio verso il patrimonio di Pompei e le sue attività proprio perché sono senza dubbio il contesto più condiviso, aperto e pieno di risorse dei giorni nostri. Oggigiorno infatti siamo abituati a ricevere notizie ed informazioni attraverso l’uso di dispositivi elettronici, questo ci permette di poter controllare in tempo reale cosa accade attorno a noi; essendo il mondo dei social esteso e di facile accesso permette di rimanere collegati a contesti fisicamente non vicini ma ugualmente prossimi alla nostra cultura e alle necessità. Si restituisce così ai luoghi della vita pubblica la loro antica funzione, quella di punti nevralgici della socialità, delle relazioni umane, degli scambi di idee, informazioni e quindi di emozioni. Le terme, i teatri, il foro e le palestre torneranno a essere lo scenario della convivialità, reinterpretando il significato di visita turistica ; riscrivendo così l’esperienza, che non si limiterà alla visione più o meno passiva delle rovine, ma muterà da una fruizione statica ad una dinamica grazie ad una serie di attività e facilities che si distribuiranno nel tempo e nei luoghi, consentendo una esperienza sempre nuova ed attraente. Nascerà un palinsesto di eventi trasversale per genere e dimensione, sarà il nuovo format del Cantiere Evento : un festival rivoluzionario; composto da punti di ristoro, aree di sosta per il riposo, servizi di biglietteria e di pronto soccorso, punti di informazione, percorsi naturalistici e servizio di mini club. Il turista non sarà più tale, ma si rivestirà così di un ruolo del tutto nuovo, quasi un esploratore, quasi un cittadino di Pompei, sarà il protagonista di questo nuovo palinsesto, e i dispositivi di varia natura amplificheranno le sue possibilità d’uso e di gestione della visita, come nella familiare modalità d’ uso dei social media e dei suoi devices. Il palinsesto sarà composto da concerti e spettacoli di danza e teatro itinerante, da attività culturali come tavole rotonde, cineforum installazioni artistiche temporanee, il tutto tra le rovine della città Pompeiana. Alle attività si aggiungono dispositivi per attività collaterali indispensabili come servizi e ristorazione o di supporto ad attività sportive all’aria aperta. Così facendo si consentirà la possibilità di differenziare e personalizzare le visite per tutta la durata del Cantiere in qualsiasi stagione dell’anno e al variare di tutti quei parametri: luoghi, giorni, ed età del visitatore, permettendo diverse modalità di visita, senza però interrompere od ostacolare in alcun modo le attività di ricerca e sviluppo, esponendole anzi alla vista e al controllo dei visitatori. Il Cantiere Evento avrà dunque una durata limitata nel tempo per via dell’impossibilità di dare una soluzione definitiva alle problematiche e alle esigenze di una nuova Pompei e dei suoi visitatori , articolando il progetto su un intervallo di tempo di mille giorni, tempo necessario alla conclusione dei cantieri attivi 1.
Conclusioni
Viva Pompei è dunque un progetto che vuole riflettere criticamente, attraverso gli strumenti del progetto, sul mutato rapporto tra turista contemporaneo e patrimonio storico. Ci si interroga sul tipo di contatto e di uso che avviene nell’ambito di una visita culturale, su come il mondo dei social media e dei dispositivi elettronici ci abbiano portato ad una esperienza sempre più passiva. Il rapporto tra persone e patrimonio storico si è incrinato sempre di più, quest’ultimo sta difatti vivendo un periodo di crisi a causa della scarsa valorizzazione e del conseguente mancato interesse del pubblico. Spesso è lo stesso sistema espositivo ad amplificare le distanze tra utente ed oggetto esposto a causa di una visione statica del museo, ormai obsoleta e non più adatta ai nuovi usi e necessità della società contemporanea. La società contemporanea è abituata a vedere il mondo attraverso uno schermo, pretende di accedere a qualsiasi contenuto attraverso il proprio telefono, ci si accorge quindi che gli strumenti stessi sono cambiati, dai taccuini, gli acquerelli e le guide stampate si è passati a smartphones e tablet, con supporto di app interattive. Il progetto si propone di avvicinare il pubblico ad una visita dinamica attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e delle soluzioni architettoniche completamente reversibili. Si usa il linguaggio del disegno degli interni e dell’ambiente allestitivo per ristrutturare il percorso espositivo, calibrandolo sulle misure e necessità umane e ripristinando l’immagine di Pompei, città viva, come un grande interno urbano. Questo darà modo al Cantiere Evento di cambiare la propria configurazione nel tempo, adattandosi al meglio alle esigenze d’uso degli utenti. Si impone questa flessibilità come condizione necessaria temporanea nell’impossibilità del progettista contemporaneo di fornire delle soluzioni attraverso l’architettura.
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Il portale. L’ingresso monumentale ricorda le luminarie delle sagre paesane del sud Italia, una struttura di tubi innocenti e sfavillanti lampadine accognieranno i turisti all’inizio della visita.
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La biglietteria ausiliaria Per far fronte al problema dei rivenditori abusivi di biglietti si predispongono delle biglietterie ausiliarie in maniera da combattere il fenomeno. Ciascuna di esse è dotata di telecamera a circuito chiuso che vigila le possibili attività illecite. La cabina è rivestita di una lamina specchiante in maniera da confondersi tra i bagarini quasi fosse in attività in incognito.
Il prelievo Col tempo si sono rivelate necessarie delle stazioni Bancomat perchè le biglietterie del sito erano sprovviste di circuito POS. Alcune verranno collocate all’esterno del Parco archeologiche per sostenere le biglietterie, altre invece sarann posizionate all’interno degli scavi a sostegno delle attività ausiliarie come ristorazione e bookshop.
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La coda Nelle calde giornate estive può essere sfiancante fare la coda sotto il sole, ecco che allora si provvede ad allestire un percorso ombreggiato con un telone sintetico, tubi d’acciaio ed un tubo per l’acqua nebulizzata.
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Il circolo Qualora fosse difficile individuare i guardiani assenteisti per chiedere informazioni ed avere delucidazioni su orari e chiusure si possono ritrovare nelle Tholos, un misto tra un punto informazioni ed un circolo della briscola per pensionati.
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L’eco del vulcano
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I soccorsi Il pronto soccorso attuale è difficilmente raggiungibile ed obsoleto; si è pensato di fornire un punto ambulatoriale aggiuntivo più facilmente accessibile e visibile.
Il guardaroba Potrebbe tornare utile uno scoparto armadietti per depositare zaini e borse durante la visita o lo svolgimento di attività all’interno del parco. Ecco che un sistema interattivo ed automatizzato ci permetterà di aprire il proprio armadietto dopo magari essersi cambiati nel camerino.
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La gabbia Ormai si sa che i turisti non sanno resistere alla tentazione di toccare, rubare frammenti, appoggiarsi ai resti della città ; ecco che La gabbia, una struttura in tubi d’acciaio e maglia metallica mantiene le distanze tra i vandali e i tesori.
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Il mini club Può essere che non tutti i bambini siano interessati a visitare Pompei con mamma e papà o che i genitori preferiscano una visita su misura per i propri figli; Il Cantiere Evento fornisce un’attività di mini club redatta da professionisti, scienziati e studiosi di vario genere, il tutto all’interno del giardino del Foro Boario con dispositivi che riproducono in scala gli elementi caratteristici di una città romana.
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Il sipario Con cosÏ tanti spettacoli ed inaugurazioni non si poteva fare a meno del palco. Uno sfolgorante scanario di bulbi luminosi incornicia portali e ospiti d’eccezione come un vecchio palco da festival della canzone.
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Il refrigerio A Luglio e ad Agosto l’ombra degli alberi, presenti solo lungo la cinta muraria potrebbe non essere sufficiente per ottenere un poco di refrigerio, si ricorre quindi a giochi d’acqua di fontane e nebulizzatori per rinfrescare gli accaldati turisti.
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Il riposino Dati tutti gli eventi è necessario fornire agli spettatori delle sedute da cui godere lo spettacolo. Si ricorre perciò a delle mini tribune d’onore, in legno e dotate di tendalino e tubi al neon per l’illuminazione di eventi notturni.
Il vulcano Un aspetto molto importante nel programma del Cantiere Evento è l’organizzazione e la predisposizione di facilities per la ristorazione; Come per esempio il Forno per il pane e la pizza con i tavolini sotto le frasche.
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L’eco del vulcano
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La tavolata Numerosi sono i turisti che si portano il pranzo al sacco, per risparmiare o per gusti e capricci di vario genere si rende utile fornire delle aree pic nic attrezzate con microonde e lavandini per consumare il proprio pasto come se si fosse sotto una pergola di una festa di paese.
Gli alloggi Il programma di studio e ricerca mette a disposizione delle strutture modulari che possano ospitare gli studiosi, con alloggi, studi, servizi e cucine.
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Le macchine Alcuni spettacoli teatrali saranno itineranti e non si sa mai che ci sia bisogno di sorgenti luminose per performances improvvisate. Le macchine sceniche potranno perciò accorrerein soccorso grazie alla loro conformazione a portantina dato che le ruote non sono consigliate per le antiche strade basolate.
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La giostra La giostra è un altro dei dispositivi strutturati per la ristorazione. Allestito nel Cortile delle Terme Stabiane consentirà grazie alla sua pedana rotante una visione completa della corte rimanendo fermi al proprio tavolino.
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Gli avamposti Non calcolare i 22 ettari di terreno non scavato sarebbe un errore dato che raccolgono al loro interno numerose specie di flora e fauna tipiche dell’area vesuviana. Si rivela quindi un nuovo volto di Pompei aumentando la sua potenzialità attrattiva.
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La segnaletica Come in ogni cantiere c’è bisogno di attrezzature accessorie che consentano una visita in agio e in sicurezza. Si predispongono transenne con buchi per sbirciare, coni fluorescenti e totem con prese elettriche per ricaricare i propri devices.
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INDICE
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Milano
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Morte sostenibile per un futuro accettabile
25 Ianobia 30 Giudizi di valore 40 Pompei 42 I resti 45 Tutti i numeri di pompei 46 Un’eruzione di scandali 48 L’eco del vulcano 51 Servizi e disservizi 71 Panem et circenses 81 Crolla la reputazione dell’Italia 97 Analisi del degrado 105 In caso di emergenza 117 Al ladro! Al ladro! 127 Si grida allo scandalo 155 Market(t)ing 183 Polvere sei e polvere ritornerai 197 Sciò(pero) 207 Prendi, spandi e spendi non domandare da dove provengono 227 Per motivi di sicurezza 237 De viris illustribus 246 Viaggio in Italia 282 Il cantiere evento 288 Scoperte su prenotazione 292 Cronologia degli eventi 298 Comunicazione, ostentazione e narcisismo 302 Il Cantiere Evento 304 Viva Pompei! 327 Bibliografia
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