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Il giro del mondo in barca a vela

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Oroscopo

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La storia della spedizione Milanto

di Matteo Chiapponi

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Valerio Bardi e Lorenzo Cipriani, due skipper toscani, hanno compiuto una vera e propria impresa: sono riusciti a portare a termine il World ARC (una sorta di rally transatlantico per imbarcazioni a vela) riuscendo a percorrere con la barca Milanto; il giro del mondo in un anno e qualche mese: unica barca a esserci riuscita, nonostante la pandemia. Salpati dall’isola caraibica di Santa Lucia, non avevano la minima idea di ciò a cui sarebbero andati incontro. Alla baia di Atuona nel marzo 2020, si rendono conto che il mondo è cambiato. Le autorità locali intimano loro di non avvicinarsi e, anche se le altre imbarcazioni espongono la classica bandiera gialla che significa che l’equipaggio è in salute e non ci sono epidemie a bordo, non hanno il permesso di attracco. È l’inizio di una storia diversa, un viaggio inaspettato, fatto di porti chiusi e ancoraggi proibiti. “L’Oceano Pacifico è il più grande del pianeta. Più di due volte la grandezza dell’Atlantico, copre quasi un terzo della superficie della Terra. L’attraversamento sembra non finire mai, si perde la dimensione del tempo”. Una vera e propria Odissea, ci racconta Lorenzo, in una realtà non più programmabile. “Avessimo dovuto scegliere usando la ragione, sarebbe stato sensato fermarci, mettere al sicuro la barca e prendere un volo di rimpatrio per l’Italia… L’Australia non concedeva nessuno scalo, neanche per il solo approvvigionamento alimentare; quindi dalle isole Fiji abbiamo dovuto raggiungere l’Indonesia, attraverso lo Stretto di Torres, navigando per una lunga tratta di più di 3.000 miglia. Così come per l’Oceano Indiano, che abbiamo traversato senza soste fino alla Reunion. Ogni volta che salpavamo o che raggiungevamo terra dovevamo sottoporci a un nuovo Covid test”. Il sogno di infondere speranza in un momento in cui tutto si chiudeva a riccio ha vinto sulla paura di non farcela. Negli occhi rimangono solo i volti amici, il mare che raccoglie tramonti mozzafiato e il rumore delle vele scosse dal vento.

Il marchio Bemer, da Hollywood all’Oriente

di Michele Baldini

La storia è nota: era il 1999 e Daniel Day Lewis scelse di prendersi una pausa dal cinema per imparare a fare il calzolaio. Lui, un inglese sbarcato a Hollywood che amava e ama Firenze (come molti compatrioti d’Oltremanica, che nel capoluogo danno il nome anche a un cimitero), in cerca di un’esperienza in più sul CV alla voce “altre esperienze”. E siccome il parallelismo tra artigiano e toscano fa pendant oltreché rima, scelse come luogo per il proprio apprendistato una bottega di un calzolaio in Oltrarno, che si chiamava Stefano Bemer. Pare che sul lavoro non abbia usato “il suo piede sinistro” (parafrasando il titolo del film con cui aveva già vinto un Oscar nel 1990) ma che si sia applicato con impegno certosino. Già allora la bottega vantava tradizione e riconoscibilità, ma è forse proprio grazie all’attore che ha ricevuto quel pitch che, a distanza di più di vent’anni, ne ha fatto croce e delizia del Made in Italy del mondo. Oggi il marchio Bemer è cambiato e parecchio. Non è più in via Maggio ma in via San Niccolò, all’interno di una preziosa cappella barocca. I pezzi prodotti non sono più solo calzature ma anche abiti. La clientela principale è quella straniera e il listino ha i prezzi medi della mensilità di un operaio o di un impiegato. Ma si va oltre. Intanto il titolare non ha più lo stesso cognome, perché un evento infausto (cioè la morte suicida di Stefano nel 2012) ha stroncato la discendenza. L’attuale CEO si chiama Tommaso Melani e gira il mondo – soprattutto New York – per il follow up dei buyer. “A bottega” (che fa anche corsi di shoes making) si rimane invece sorpresi di trovare solo facce orientali, pur in possesso di un italiano invidiabile e qualche cliente d’alta fascia in completo spezzato. C’è da chiedersi se esista ancora il mondo forse un po’ pittoresco che conquistò il buon D.D.L. (furono solo lo zelo di Martin Scorsese e l’amore della moglie a dissuaderlo dal rimanerci, per fargli interpretare il macellaio di Gangs of New York). È forse l’America che ha preso di più il “puzzo” fiorentino o viceversa?

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