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Amir Peretz, il Corbyn israeliano

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Il filo rosso

Il filo rosso

l’Intervista

Amir Peretz, il Corbyn israeliano

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di Umberto DE GIOVANNANGELI

“Una sinistra che rinnega se stessa, che dimentica le proprie radici e insegue la destra sul suo terreno, non è più sinistra e si condanna alla marginalità. Non si tratta di essere nostalgici di un tempo che fu, ciò sarebbe patetico oltre che politicamente inutile. La nostra sfida è coniugare tradizione e modernità, guardando al futuro”. Guai a parlare di lui e con lui come l’uomo del passato. Come una scelta dettata dalla nostalgia di un tempo che fu, quando il glorioso Partito laburista, il partito di David Ben Gurion, Golda Meir, Abba Eban, Yitzhak Rabin, Shimon Peres, identificava se stesso con lo Stato d’Israele. “Avere un passato non è un’onta, l’importante è non rimanerne prigionieri”. E lui, Amir Peretz, neo segretario del Labour, 67 anni, che alle primarie del partito ha sconfitto due avversari che assieme non facevano i suoi anni, considera la sua storia politica come un bagaglio di

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esperienze che può tornare utile per risollevare le sorti di un partito che alle elezioni del 9 aprile ha subito non una sconfitta ma un tracollo senza precedenti, raccogliendo la miseria di sei parlamentari alla Knesset. Già segretario generale, ex ministro della Difesa, un tempo neanche tanto lontano sindaco di Haifa, parlamentare da 31 anni, Peretz si è messo già al lavoro in vista delle elezioni del 17 settembre. Con un obiettivo ambizioso, che va oltre la riconquista di qualche seggio per il suo partito: contribuire alla sconfitta di una destra che, sostiene con forza, “ha radicalizzato le sue posizioni al punto tale da spaventare anche una parte dell’elettorato moderato”.

D) I media progressisti facevano apertamente il tifo per i suoi giovani avversari. Eppure, gli iscritti al Labour hanno scelto Lei come colui che dovrebbe risollevare le sorti di un partito ridotto ai minimi termini. Non sente il peso di quella che appare come una “mission impossible”?

R) Sento il peso di una responsabilità che è grande, ma al tempo stesso penso che non sia una missione impossibile. A patto di saper trarre lezione dalla disfatta subita il 9 aprile.

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D) Lei che lezione ha tratto da quella mazzata?

R) L’importanza di ascoltare ciò che la tua gente vuole dirti. Non sentirti, come gruppo dirigente, al di sopra di tutto e di tutti, cogliere il profondo malessere sociale che segna la società israeliana, non essere subalterno all’agenda politica della destra. Ed evitare personalismi esasperati, perché non esiste un uomo o una donna della provvidenza, in grado da solo di sconfiggere una destra che ha governato 15 degli ultimi 19 anni.

D) Una professione di umiltà, ma sostanziata da quali priorità? Il 17 settembre è dietro l’angolo e Benjamin Netanyahu

è già in trincea.

R) Una cosa è certa: divisi si perde. Il problema non è sommare debolezze ma dare un segnale chiaro ad un Paese che guarda con preoccupazione al futuro. Un Paese spaccato a metà, in cui le disuguaglianze si sono moltiplicate, un Paese che non può rimanere ostaggio di un politico che sta minando le basi stesse del nostro sistema democratico….

D) Un’accusa pesantissima, quella che lei lancia a Benjamin Netanyahu… R) Come altro considerare un primo ministro che sta minando l’autonomia del potere giudiziario, che accusa magistratura e polizia di tradimento perché si sono permessi di indagare su di lui, come se essere primo ministro fosse garanzia di impunità di fronte alla legge. In Israele esiste una emergenza democratica che deve essere messa al centro della campagna elettorale. Da solo, nessun partito di centro e di sinistra riuscirà a essere all’altezza di questa sfida. Non dico che dobbiamo azzerare le differenze, quelle esistono e possono rappresentare una ricchezza dell’offerta politica. Ma le differenze non devono diventare un ostacolo insormontabile per dar vita a un’’alleanza per la democrazia che veda coinvolti i partiti di centro e di sinistra. Uniti, ne sono convinto, è possibile vincere. Divisi, la sconfitta è sicura.

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D) Cosa le fa più paura delle destre che governano ormai da tempo Israele? Il loro estremismo, l’aver radicalizzato le proprie posizioni, l’essere portatrici di una idea stessa di ebraismo che nulla ha a che fare con quell’idea aperta, inclusiva, che fu dei fondatori dello Stato d’Israele. Questa destra sta uccidendo il sionismo, altro che difenderlo dai suoi nemici esterni! La società israeliana si sta sempre più dividendo, la faglia sociale si sta allargando sempre più. In questo senso, le manifestazioni di protesta dei Falascia (la comunità degli ebrei etiopi, ndr) è un campanello d’allarme che va non va sottovalutato. Perché è il sintomo di un disagio crescente di quanti si sentono messi ai margini, considerati dei paria. E lo stesso è avvenuto con la comunità drusa e con gli arabi israeliani. Un Paese che emargina pezzi di società, è un Paese che non ha futuro.

D) Ma la sinistra israeliana ha un futuro? Tamar Zandberg, l’ex leader del Meretz (la sinistra pacifista) , si è pronunciata per una lista unica a sinistra. Qual è la sua risposta?

R) Ho incontrato Tamar, così come Tzipi Livni e altre personalità che ritengo fondamentali nella costruzione di un’alternativa democratica alle destre. L’importante è non credere che l’unione di due debolezze possa fare una forza. Occorre aprire questa costituente democratica alle forze della società civile, a quei movimenti, associazioni, personalità che in questi anni hanno tenuta in vita la speranza del cambiamento, quelle forze che sono state decisive per la vittoria dei candidati progressisti alle elezioni amministrative in città importanti come Tel Aviv, Haifa, Beersheva e altre. Da quelle esperienze occorre ripartire per costruire una proposta di governo alternativa alla destra, capace di conquistare anche quei settori moderati del Likud che guardano con preoccupazione alla deriva estremista di Netanyahu.

D) Nella sua lunga carriera pubblica, Lei è stato anche segretario generale dell’Histadrut, la potente centrale sindacale israeliana. Di quell’esperienza cosa ritiene ancora attuale e utile per costruire un’alternativa di governo in grado di contrastare lo strapotere delle destre? R) L’attenzione per la questione sociale; un’attenzione che si è affievolita nel corso degli anni. Eppure i segnali di un crescente malessere sociale erano evidenti, per certi versi drammatici: la crescita delle famiglie sotto la soglia di povertà, le periferie degradate, giovani che non possono mettere su famiglia per l’impossibilità di

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trovare una casa, il sostegno pubblico alle madri single cancellato, gli investimenti per l’istruzione dimezzati. La destra ha creato questa condizione ma al tempo stesso ha fatto leva su questo malessere per indirizzarlo contro chi sta peggio di te ma che veniva additato come responsabile del tuo star male: penso a come Netanyahu ha rappresentato il problema dei migranti. La destra ha costruito muri di ostilità all’interno della nostra stessa comunità. Quei muri noi dobbiamo abbatterli. E sono “muri” sociali e culturali.

D) Lei parla di un fronte democratico anti-destre. Ma di questo fronte chi dovrebbe esserne il leader? Le elezioni del 9 aprile hanno premiato “Blue and White”, il partito centrista guidato dall’ex capo di stato maggiore Benny Gantz (35 seggi, come il Likud di Netanyahu). È lui il leader designato della coalizione anti -Bibi?

R) Ne è certamente uno dei leader. L’importante in questo momento è sentirsi parte di un campo da costruire, senza pretese egemoniche. Pensare ad un fronte democratico senza il partito di Gantz vuol dire autocondannarsi alla sconfitta, ma ‘Blue and White’ non può guardare ai possibili alleati come a dei satelliti che fanno numero. Ma dagli incontri che ho avuto in questi giorni mi sento incoraggiato: l’unità è possibile. E’ un obiettivo da conseguire, e il tempo non è tanto. Dobbiamo mettercela tutta, perché non avremo un’altra chance.

D) Tra gli incarichi che ha ricoperto c’è quello di ministro della Difesa. La sicurezza è sempre stato il terreno vincente della destra, quello su cui Netanyahu ha dimostrato di sapersi muovere meglio di chiunque altro.

R) La sicurezza è una priorità nazionale e non è né di destra né di sinistra. E non deve coincidere sempre e comunque con l’esercizio della forza. La più grande lezione in questo campo l’ha data un uomo che è tra i Grandi d’Israele: Yitzhak Rabin, un uomo che ha combattuto per la difesa d’Israele molto più di quanto l’abbia fatto Netanyahu. Ma Rabin aveva compreso che la sicurezza d’Israele non può affidarsi solo alla forza militare ma deve investire la politica e ricercare un compromesso con i Palestinesi e i vicini Arabi. Questa lezione non va smarrita, perché è quanto mai attuale e valida.

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D) A proposito di generali vittoriosi. Nell’arena politica è tornato il militare più decorato d’Israele. Un uomo che lei conosce bene, perché nel 2007 lo scalzò dalla guida del Labour: Ehud Barak, l’ultimo laburista ad aver sconfitto alle elezioni Netanyahu. Una risorsa o un problema: cos’è per lei oggi Barak?

R) Un alleato di una battaglia comune: quella contro la destra di Benjamin Netanyahu. Spero che anche lui si consideri tale.

D) Lei insiste sulla necessità di costruire la più ampia coalizione anti-destre. Un discorso che riguarda anche i partiti arabo-israeliani?

R) Un’alleanza non significa una lista comune. Significa trovare punti condivisi che aiutino a unire ciò che la destra ha diviso. Includere, non emarginare: è questo il vero discrimine con le destre. Il mio Labour è in campo per questo. E la comunità degli arabi israeliani è parte di questo discorso.

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