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Il filo rosso
Il filo rosso di Gian Nicola MAESTRO
Cultura e Società
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"Tutto cio' che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione" – Guy Debord, ‘La societa' dello spettacolo’
È finito il tempo delle maschere. Dal gotico cerone di Alice Cooper alla vitrea fissità dell'occhio in smoking dei Residents, attraverso il travestitismo dei Tubes e l'inquietante pittura di guerra dei Killing Joke, pochi hanno resistito alla tentazione di giocare con l'apparenza e l' i- dentità e così saltare il labile confine tra l' esecuzione musicale e la performance teatrale (il percussionista del buonanima Frank Zappa che sfoggia corna d'alce marciando con un grottesco "passo dell'oca" nazista, ridicoleggiando nostalgie passate e future). Alcuni hanno fatto della maschera una definitiva scelta stilistica, scivolando nel profondo kitsch glitter come i Kiss o elevandosi a astrazione totale come i già citati Residents (non si conoscono le loro identità, le loro facce, il numero dei componenti): gli esempi sono molteplici.
Ma ora esiste una maschera differente, sottile, velata, che si sviluppa senza bisogno di artefici estetici.
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Una maschera fatta di ipocrisia, di patetica rincorsa delle mode, e il più delle volte incollata così bene al volto da far dimenticare a chi la indossa la sua vera pelle. Un travestimento gemello del nostro, una maschera con un sorriso imbelle o un ghigno fintamente cattivo e (ah,ah) alternativo. In questi grami tempi di tecnologia leggera, arte effimera, pensiero debole, di supermercato del villaggio globale è difficilissimo scampare dall'indossarne o applaudirne una. Il rock "cattivo" dei punk da centro commerciale (tutti bei bimbi americani), i rapper sintetici di casa nostra (quanti sono?, come si riproducono?, per fortuna la genia è in declino), le etno bande che non sanno più a quale minoranza etnica andare a rompere i coglioni, i raggamuffer in ciabatte conditi di machismo di bassa lega. E questo senza sparare sulle ambulanze della musica da classifica. La maschera che spiaccica anime e cervelli, e che tutti, me compreso, alimentiamo è evanescente e viscida. Sotto le scritte al neon di "alternativo", "controcorrente", "arte", "impegno", "ribellione" maturano gli stessi meccanismi della finzione tipici del resto della stracitata società dello spettacolo. Solo che non vogliamo accorgercene. Un processo quasi impossibile da evitare. La nostra maschera è un volto vacuamente sorridente. C'è più onestà nella retorica trash del festival di Sanremo, dove le maschere sono maschere enormi, assurde, stereotipi totali - dai metallari da cortile alla ragazzina tutta voce e 'ccore - che nel cantore dell' ingiustizia che vende i cd a 40 sacchi.
Tutta l'estetica della musica, la fascia esterna, la pelle, infine la "maschera" dell' underground nei suoi mille pezzi di specchio è ormai surclassata dalla maschera neutra dell'uniformità', mischiata a estetizzanti e innocue ribellioni. I segni, i marchi, gli emblemi che romanticamente si fondevano con i suoni di Japan, Devo o Sex Pistols (mascherati anche loro, ma con segnali estetici nuovi e forti) sono annientati da imitazioni infinite e ripetitive, fino alla perdita di senso degli originali stessi. Un affascinante percorso semantico, la codificazione di tratti estetici nuovi e l'attuale banalizzazione in una specie di grossa lavatrice-tritarifiuti musicale. Maschere-mode musicali sfogliate ad una velocità vertiginosa - è appena finita l'ondina del pop britannico, preceduta dal velocissimo revival punk, che seguiva il grunge, che soppiantava l'acid jazz, che saltava fuori dall' hiphop e via' così - senza nulla togliere alla buona fede ma tutti con il giusto corredo di simboli, estetismi, cliché. Tutti a fondersi in quell' unica , grigia, neutra maschera grondante noia. Spero solo che il bruciore dei nostri cuori riesca ancora a scioglierla via dalla nostra pelle. Questi sono i veri suoni in maschera dei nostri dolci giorni... a fare da contrappunto esiste invece una musica che è stata creata per essere l' esoscheletro, il travesti-
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mento , il contorno e la maschera di qualcosa d'altro.È IL S U P E R M E R C A T O, BABY!
Viviamo di consumi, di solito splendidamente sintetici, plasticosi, industrialmente prodotti e riprodotti (un lisergico incubo che W. Benjamin quando scrisse il suo saggio sulla riproducibilità non poteva neanche immaginare) e dei riferimenti che il Gigantesco Supermercato Che Sta Diventando Il Mondo ci inculca gentilmentesubliminalmente. Il supermercato è la chiesa moderna, dove tutti, eretici o credenti vanno (per fortuna che qualcuno ruba ancora le elemosine!) in funzione di una religione-shopping superiore a qualsiasi definizione di classe, razza, gusto o cultura. E' possibile estrapolare dai gorghi dei consumi di massa i canoni di una nonestetica che avvolge - o meglio maschera - 40 anni di produttività occidentale (mondiale, ormai) accompagnati dalla musica adeguata. Attenzione, non si parla qua del vero trash, tipo mutande di leopardo o coprisedili in peluche con la voce testicolare di Barry White in quadrifonia, ma di prodotti che attraversano quotidianamente le nostre faticose vite di consumatori. I colori sono festosi, lampi, stelle fluo oro argento, i caratteri tipografici sono quantomeno improbabili, gli slogan capaci di suscitare reazioni di pura violenza, i materiali usati offendono ogni logica di risparmio e infine il tipo di ammiccamento al cliente è – ovviamente - americaneggiante. Quest'ultimo meccanismo produce effetti irresistibili specie nell'oriente industrializzato, dove le confezioni mostrano, ad esempio, allegre massaie di Chiang Mai usare inutili contenitori Tupperware, oppure paffuti
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signori di Bangalore impiastricciarsi di Aqua Velva (citazioni su citazioni tutti gli spot Diesel). Il rito del supermercato, nato negli Stati Uniti, prevedeva l'uso di una musica creata ad hoc, proveniente dritta dritta dal cuore della Space Age Bachelor Pad Music, ora resuscitata nel revival Exotica (date una occhiata alla rubrica di F. Adinolfi su Ultrasuoni, alla domenica ne Il Manifesto) che negli anni 50/60 imperversò negli usa. La musica dell'era spaziale, moog, teremin, hifi, Esquivel, P. Prado, Martin Denny, Henry Rene, etc. La musica da supermercato apparteneva ad un sottogenere Exotica, chiamato Mood Music, musica per cene, cocktail, aerei, supermercati e anche ascensori (cfr. J. Lanza "Elevator music" Picador Press ).
Combinando Mantovani, Laurence Welk, Percy Faith e Ray Connif, xilofoni e canti gregoriani, fino ad acquisire con Brian Eno una valenza "alta" (la nota ambient music) uscendo definitivamente dagli ascensori e dai supermercati. Un continuo gioco tra identità e apparenza, tra maschera e mascherato. Ormai, nei centri commerciali nostrani si sente la radio, tranne che in qualche Standa mal messa (una era la Standa di corso Regina Margherita a Torino, perennemente puzzosa e squallida, ma ora è chiusa) dove girano ancora bobine di mood music mediterranea di cui un micidiale esponente era Fausto Papetti, più famoso per le tette in copertina che per le tragiche versioni di successi altrui. Di conseguenza, le nostre affaticate cortecce cerebrali accoppiano Dash e Zucchero Fornaciari, Lines Ultra e Pittura Freska, maionese Calve' ai Green Day: la tristezza insita nelle luccicose confezioni di prodotti si mischia con le risate idiote di disgraziati deejays e a suoni, al di là della levatura artistica (sia rock duro o musica da camera, non importa ) che diventano solo puro involucro delle merci.
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Tutta questa salsa estetico-musicale per fortuna ogni tanto viene ri-rovesciata addosso al mercato da qualche ribelle: in Gran Bretagna nei tardi '80, i cosidetti bedroom mixers (cioè chi remissava piratescamente hits altrui) spopolano, i giovani designers mixano vestiti con i rifiuti del consumismo (Creative Salvage, Economy Ecology, Trash Fashion) e i grafici si danno lo stesso daffare: Trevor Jackson miscela icone religiose e commerciali sulla copertina del remix pirata di Sweet Dreams degli Eurythmics, Blame estrapola dai pittogrammi delle toilettes la grafica del singolo Daydreaming dei Massive Attack, Ian Swift pirata il logo Chanel negli inviti dei clubs e mille altri riutilizzano referenti estetici presi dalla strada o dai prodotti piu' famosi e ne fanno di nuovi, dissacranti e moderni.
Tornando a prodotti e musica, una meravigliosa simbiosi si è creata nell'ex Europa dell'est, dove (sempre più raramente) è possibile entrare in tristissimi supermarket con ancora molti prodotti delle industrie nazionali, dall'aspetto retrò e quasi commovente, contornati però dalla musica "amerikana". Assolutamente magnifico, una sorta di nemesi (o apoteosi) per la musica commerciale. Il connubio tra grafica insulsa (brutta?) e musica brutta (insulsa!) passa sugli scaffali del supermercato vicino a casa e aumenta la certezza un po' snob che la distanza che ci separa dal mondo così rappresentato è siderale, perché qui non si parla degli abissi trash delle pieghe del consumismo (la tazza kitsch di Gillo Dorfles o i già citati slip-tanga da uomo maculati ) e della muzak (Popmuzik, ve la ricordate?) o dell' Exotica – magari – qui abbiamo il vero specchio della mediocrità, del quotidiano, niente abissi, niente trash. Solo il mondo così com'è e la grafica e la musica che ci accompagnano nello shopping, sotto le luci al neon, sotto l'allegria sgargiante e forzata, formano lentamente il sorriso neuro-sedativo del Grande Fratello. L'unico problema è alzare, anche solo per un attimo, la maschera.
Buona Spesa.
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