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Il Nazismo, il rogo dei libri e il controllo della cultura

Storia e Politica

Il Nazismo, il rogo dei libri e ilcontrollo della cultura

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Giovan Giuseppe MENNELLA

Poco tempo fa a Roma sono state appiccate le fiamme ed è stata completamente bruciata la libreria indipendente “La pecora elettrica”, luogo di riunione e di cultura che era stata oggetto di attacco anche sei mesi prima. L’episodio non è rimasto isolato, seguito poco dopo da nuovi tentativi di mettere a tacere con la violenza altre voci culturali libere. Nella storia si sono susseguiti roghi di libri e messe al bando di arte e cultura che furono considerate scomode.

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Durante il nazismo i roghi dei libri e della cultura e dell’arte furono all’ordine del giorno, con un programma ben studiato e applicato che veniva da lontano, dalla nascita stessa del Partito nazista. La sera del 10 maggio del 1934, con l’organizzazione e la supervisione del Ministro della Cultura Goebbels, nella piazza del Teatro dell’Opera di Berlino furono date alle fiamme 25000 opere d’arte e libri che secondo il nazismo avevano lordato la vera cultura tedesca. Quella sera furono bruciati i libri in altre trentaquattro città tedesche, grandi e piccole. Quelli di Brecht e Marx perché comunisti, di Hemingway e Jack London perché esponenti della cultura liberale anglosassone, quelli di Max Brod, Stefan Zweig, Franz Kafka e altri perché ebrei. Tutto era stato orchestrato da Goebbels, con la partecipazione di intellettuali e professori che spiegarono le ragioni di quella messa al bando dalla cultura tedesca. Hitler aveva dato carta bianca ai suoi seguaci di bruciare il passato per giungere a una rinascita culturale nel nome della Germania. In realtà si attuò una paurosa regressione nell’incultura e nell’illiberalità. L’opera di cancellazione della cultura non conforme alle visioni nazionalsocialiste continuò negli anni, interessando anche i Paesi stranieri che furono via via conquistati alla grande Germania. Oltre che gli uomini, si dovevano bruciare le loro idee, la loro cultura, la loro memoria. Dovevano essere eliminate tutte le caratteristiche sociali e culturali che avevano caratterizzato l’odiata Repubblica di Weimar. Fu bruciato l’Istituto di Studi delle problematiche sessuali, un’istituzione del tutto particolare, contro cui si accanì la violenza nazista come simbolo della degradazione dell’epoca di Weimar. Per il nazismo, la liberalità in campo sessuale che si era vissuta durante il periodo precedente, con rapporti liberi, omosessualità alla luce del sole e così via, era bolscevismo morale e culturale che minava la purezza della

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razza ariana tedesca. Si giunse ad acquisire ed esaminare minuziosamente gli elenchi dei frequentatori di quell’Istituto per perseguitarli e incarcerarli. La messa al bando della cultura degenerata che poteva minare le cosiddette tradizioni del popolo tedesco era già contenuta nel programma del Partito nazista del 25 febbraio 1920. Nel 1928 Alfred Rosenberg, l’ideologo del Partito sui temi razziali, aveva fondato un Istituto per la tutela della purezza della razza ariana. Tutto ciò accadde nel solco della cultura tedesca guglielmina tra i due secoli, che era stata autoritaria e conservatrice, in opposizione a quella liberale, rivoluzionaria ed ebraica. L’iniziativa di bruciare i libri sulla piazza dell’Opera di Berlino, pur orchestrata e guidata dal partito nazista, fu presa da giovani studenti fanatici. Su quella piazza sorgeva anche la prestigiosa Università Humboldt, sulla cui facciata era scritta una frase di Karl Marx in cui era detto che i filosofi nel passato si erano limitati a descrivere il mondo, ma era tempo che lo cambiassero. E quei pensatori fanatici del partito nazional-socialista si stavano davvero dando da fare per cambiarlo. Ma in un peggio che ben presto si sarebbe tinto dei colori dell’incubo. Quella mobilitazione di studenti aveva un precedente storico. Negli anni successivi alla sconfitta di Napoleone, il giorno dell’anniversario della battaglia di Lipsia, nel castello di Wartburg, gli studenti bruciarono i libri legati alla Rivoluzione francese e alla cultura rivoluzionaria e progressista e, comunque, tutto ciò che era degenerato, nel senso di non tedesco. Nel rogo delle opere d’arte degenerata di quel 1934, gli studenti furono sostenuti da moltissimi professori che illustrarono con dotte argomentazioni la differenza tra la cultura degenerata e quella ariana e tedesca. Sul rogo dei libri Bertolt Brecht scrisse una famosa poesia, su un poeta che scoprì che i suoi libri non erano stati bruciati e invitò i potenti a farlo, perché vi aveva

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sempre scritto la verità e quindi meritavano di essere bruciati. Fu ostracizzato, tra gli altri, soprattutto il romanzo di Erich Maria Remarque “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Infatti, metteva in risalto l’inutilità e l’assurdità delle sofferenze e della morte, patite nella Grande Guerra dai giovani soldati tedeschi, ingannati dai loro insegnanti, dalla classe dirigente guglielmina e spinti al massacro in nome di ideali di patria, di gloria e di onore che si erano rivelati fasulli. Il nazismo invece aveva considerato la guerra una cosa giusta e patriottica che era stata perduta solo per la pugnalata alle spalle inferta all’esercito dai disfattisti, dai pacifisti, dagli ebrei e dai bolscevichi. Chi attaccava la giustezza e la santità della guerra commetteva un sacrilegio. Secondo i nazisti non era la barbarie che distruggeva quei libri, ma erano proprio quei libri che provocavano una barbarie contro la razza e la cultura tedesche. Hitler pretese l’allineamento della cultura con il regime per estirpare dalla Germania ogni forma di tolleranza, liberalismo, socialismo, internazionalismo. La condanna si estese all’arte figurativa, travolgendo in un unico mucchio cubismo, dadaismo, espressionismo, forme di espressione artistica non figurative che pertanto agli occhi dei nazisti minacciarono la distruzione dei principi della sana e incontaminata cultura tedesca. Furono perseguitati e le loro opere messe al bando, quando non distrutte, Edvard Munch, Vassily Kandinsky, Franz Marc, molti altri artisti non classicisti e tutti quelli ebrei. Anche la musica e i musicisti soffrirono persecuzioni di ogni genere. Paul Hindemith e Arnold Schonberg furono banditi e costretti all’esilio, fu proibita l’esecuzione di brani di musicisti ebrei come Felix Mendelssohn e Gustav Mahler. Il caso del grande direttore d’orchestra Wilhelm Furtwangler fu alquanto diverso. Dopo la guerra fu accusato di collaborazionismo con il Regime e sottoposto a un processo che si concluse con l’assoluzione. Il caso fu raccontato in un film in cui

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Harvey Keitel interpretò il ruolo dell’ufficiale americano che sostenne l’accusa. In realtà, è stato dimostrato che Furtwangler aiutò alcuni orchestrali ebrei della Filarmonica di Berlino, di cui era il direttore, non fece mai il saluto nazista, si rifiutò sempre di eseguire gli inni nazisti e si scontrò con Hitler le due volte che lo incontrò, tanto che si minacciò di sostituirlo nella direzione della Filarmonica con il giovane Herbert von Karajan. Probabilmente le accuse di collaborazionismo nacquero dalla circostanza che non andò in esilio come molti degli intellettuali e artisti tedeschi. Ma lo fece per difendere ciò che rimaneva della cultura e della musica tedesche, la stessa ragione per cui Benedetto Croce era rimasto in Italia sotto il fascismo. Il 21 luglio 1937 fu organizzata la mostra dell’arte degenerata, un’esibizione pubblica del nemico modernista che il popolo doveva conoscere per evitare di farsi coinvolgere. Fu divisa in varie sezioni, dai nomi deliranti, come “Disgregazione del senso della forma e del colore”, oppure “Degenerazione dell’arte figurativa” e così via. Le opere furono accostate a foto di malati e di ebrei, con professori di antropologia culturale che pretendevano di spiegare scientificamente gli aspetti di similitudine tra l’arte moderna e le malattie fisiche, morali e le presunte degenerazioni razziali. Tutto sommato, la mostra si ritorse contro gli organizzatori e a favore degli artisti, in quanto il clamore suscitato si trasformò in pubblicità per le opere. Il filosofo Martin Heidegger fu tra quegli intellettuali che tentarono di dare al nazismo una giustificazione ideologica e un significato filosofico. Accettò integralmente il concetto che il Fuhrer incarnasse l’idea stessa di autorità e la sua politica fosse giusta e utile per la grandezza della Germania. Da poco tempo sono stati scoperti i suoi cosiddetti “diari neri” in cui riteneva gli ebrei responsabili dell’oblio dell’essere. La rivoluzione nazista non si limitò a stroncare ogni forma di arte e di cultura con-

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traria ai principi a cui si ispirava, ma creò anche una nuova produzione artistica di regime, in tutto consona a quella che poi era la visione di arte e cultura borghese, classicista, tradizionalista, propria della classe dirigente guglielmina alla svolta dei due secoli e coincidente anche con le personali opinioni artistiche piccolo borghesi del Fuhrer e dei gerarchi. Gli artisti diventarono pubblici funzionari che furono incaricati di promuovere le idee del nazismo in termini di cultura e di arte. Così Goethe e Schiller furono arruolati in retrospettiva come veri precursori del nazismo, Bach e Beethoven come i veri musicisti tedeschi nazionali, l’architettura si ispirò a quella monumentale dell’impero romano, con la costruzione di giganteschi edifici in cui si celebrassero i riti e le adunate del Regime. Hitler era sempre presente al festival wagneriano di Bayreuth, poiché Wagner fu osannato come il perfetto musicista antisemita e tra le sue opere furono predilette soprattutto Parsifal e il ciclo del Ring, l’anello del Nibelungo, celebrative degli antichi miti germanici e della purezza del sangue ariano. Anche il cinema fu costretto a ispirarsi alle vedute ideologiche correnti, con pellicole che ricalcavano le tradizioni semplici e popolari della vecchia Germania. Nello stesso anno del rogo dei libri e delle opere d’arte fu curata una rassegna di opere perfettamente ariane, con la solita fissazione della purezza razziale. Il risultato fu che, nei dodici anni del regime nazista, l’arte tedesca scomparve, di fatto, dalla storia. Il paradosso della storia è che nel dopoguerra si corse il rischio di un ostracismo uguale e contrario da parte degli individui e delle nazioni che avevano subito la violenza fisica e morale del nazismo. Il fatto è che il concetto di arte degenerata in quanto non consona a determinate vedute politiche e ideologiche non era certo nato con il nazismo, ma fu sempre una costante nel corso della storia, anche se il nazismo per la verità lo portò a livelli di patologia e di paranoia difficilmente eguaglia-

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bili. Così nel dopoguerra in Israele fu proibito eseguire le opere di Wagner, l’ebreo sionista Max Nordau aveva già introdotto per conto suo il concetto di arte degenerata, includendovi appunto Wagner. D’altra parte, tutta la cultura istituzionale tra ‘800 e ‘900 considerò con disprezzo tutta l’arte d’avanguardia. In genere tutte le dittature hanno sempre prediletto un’arte classicheggiante e facile da comprendere da parte delle masse, considerate semplici e manipolabili. Anche il bolscevismo e il fascismo lo fecero, basti pensare al bruttissimo quarto d’ora fatto passare da Stalin a Shostakovich all’indomani della prima esecuzione dell’opera “La lady Macbeth del distretto di Mcensk”, accusata di essere atonale e incomprensibile per i bravi lavoratori socialisti dell’Unione Sovietica. O anche alle vedute di un’arte e di un’architettura retorica e monumentale proprie del fascismo italiano e anche dell’Unione Sovietica dove gli artisti di avanguardia furono quasi tutti liquidati nei gulag. Spesso anche le democrazie non sono immuni dal pericolo di infliggere colpi durissimi all’arte e alla cultura, come per esempio si vide nella seconda guerra del golfo quando gli statunitensi a Bagdad lasciarono mano libera al saccheggio e alla distruzione di moltissime opere d’arte. Il nazismo era irrazionalismo e nichilismo, come del resto paradossalmente anche l’arte di avanguardia, ma il primo ritenne di incarnare l’ordine, la normalità, la sanità mentale (!), in contrapposizione alla seconda che era bollata di degenerazione, vizio, incomprensibilità. Tutto ciò che era arte dovette rispecchiare il concetto di arte di Hitler, borghese e classicheggiante, di ispirazione ellenistica, condizionata dall’insegnamento settecentesco di Winckelmann. Da questo punto di vista vanno ricordate le opere cinematografiche della regista Leni Riefenstal che mise in scena la bellezza e la perfezione dei corpi maschili e femminili, una mascolinità e femminilità che dovevano rispecchiare la perfezione e la classicità della razza tedesca. Tornando infine al luogo, la piazza dell’Opera di Berlino, in cui avvenne il rogo

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delle opere di cultura in quel 10 maggio 1934, si nota che, accanto alla targa che ricorda l’avvenimento, è stata posta un’opera d’arte dell’artista israeliano Micha Ulmann, composta di vuoto e di silenzio, vuoto perché è una libreria vuota di libri, silenzio perché è sotterranea.

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