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Imitatori e falsari nella storia

Storia dell’Arte

Imitatori e falsari nella storiadell’arte. Parte quarta

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Giovan Giuseppe MENNELLA

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La fruizione dell’opera d’arte nell’età contemporanea si va caratterizzando sempre più come un feticcio. Chi ha mezzi economici tende a investire in opere d’arte come se lo facesse in case d’abitazione, ma deve stare molto attento, e non sempre basta, perché le falsificazioni sono all’ordine del giorno. Tutte le transazioni ruotano su giudizi di accertamento dell’autenticità delle opere. Il caso del Salvator Mundi è emblematico. Si tratta di una immagine di Cristo su tavola, dipinta a olio nel 1499, presumibilmente da Leonardo Da Vinci per un privato, poco prima che il grande artista toscano fuggisse da Milano quando Ludovico il Moro fu spodestato dai francesi. Il successo dell’opera fu all’origine della produzione di numerose copie. Alcune fonti riportano che, dopo l’occupazione di Milano da parte dei francesi, il dipinto originale sarebbe finito in un convento di Nantes. L’artista Wenceslaus Hollar nel 1650 ne fece una copia, precisamente un’incisione, quando il quadro si trovava nella collezione del Re d’Inghilterra Carlo I Stuart. Dopo la decapitazione del sovrano, le sue grandi raccolte d’arte furono disperse in varie aste. Dopo diverse vicende, durante le quali si perse la traccia dell’originale, riapparve un Salvator Mundi nelle raccolte del gentiluomo inglese sir Francis Cook. Era forse un lavoro dell’allievo di Leonardo, Francesco Melzi, ma fu attribuito anche a Boltraffio o a Marco D’Oggiono, come un manufatto derivato dall’originale leonardesco. I curatori del Metropolitan Museum di New York e quelli del Fine Arts di Boston, interpellati sul dipinto, non si pronunciarono. Nel 2010 fu portato alla National Gallery di Londra e sottoposto a un restauro che eliminò vecchie ridipinture facendo apparire colori vivissimi e una qualità pittorica alta come quella dell’Ultima Cena. Il direttore della National, Nicholas Penny, invitò quattro studiosi per valutarlo, precisamente Pietro Marani e Maria Teresa Fiorio, studiosi di Leonardo, Carme C. Brambach, e Martin Kemp, professore emerito16

di storia dell’arte a Oxford. Dopo il loro parere positivo sulla mano di Leonardo, il quadro è stato esposto al pubblico in una mostra su Leonardo alla National dal novembre 2011. Tuttavia, altri studiosi hanno contestato l’attribuzione. Nonostante i dubbi, il dipinto è passato di mano in varie aste, incrementando vertiginosamente il suo valore, fino a essere venduto in un’asta di Christie’s per 450 milioni di dollari, più 40 per diritti d’asta, dal miliardario russo e presidente della squadra di calcio del Monaco Dmitrij Evgen'evič Rybolovlev al Dipartimento della cultura degli Emirati Arabi Uniti. E così, sull’onda della moderna frenesia per gli investimenti in opere d’arte, è stato venduto e rivenduto, a cifre sempre più colossali, un quadro dall’attribuzione incerta, se non sospetta. Nel 2018 la mostra sui falsi al National Museum di Taipei, con 1.585.000 visitatori in sei mesi, è stata la più vista in tutto il mondo. Secondo il Comando Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri, si falsifica soprattutto l’arte contemporanea, mentre è più difficile falsificare l’arte antica. Nel 2018 sono stati individuati 1.230 pezzi di arte contemporanea falsificati, a fronte di 90 pezzi di arte antica. Il volume di affari della vendita di falsi è stato calcolato nel 2018 in 400 milioni di euro. E’ un mercato insidioso che va fronteggiato con indagini e sequestri. Il circuito dei falsi si può valere di tre ingranaggi: le case d’aste, le gallerie private e le collezioni private. Spesso i compratori non hanno le idee chiare su cosa occorra chiedere ai venditori, che si trovano a essere facilitati nelle loro eventuali velleità di falsificazione. Una regola per mettere in sicurezza gli acquisti dovrebbe essere quella di pretendere il timbro e la firma del venditore sul retro dell’opera, se si acquista da casa d’aste o galleria private. Un pericolo da cui guardarsi è quello di acquistare l’opera autenticata su foto inserita nel catalogo ufficiale generale che però potrebbe rivelarsi una foto del falso, mentre l’originale è rimasto nel cassetto.

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Per ovviare a questo problema, il compratore dovrebbe pretendere per l’autentica dell’opera originale e non la foto. In un laboratorio di un falsario gli inquirenti trovarono un’opera originale mentre la foto del falso era già stata mandata per l’autentica alla casa d’aste. Piero Manzoni è il più falsificato tra gli artisti moderni perché i suoi manufatti acquisirono subito valore ed erano facili da riprodurre. Nei tardi anni ’70 già circolavano falsi fatti dalla stessa mano e con gli stessi errori. Oggi ci sono falsi venduti on line a prezzi bassi. La sua opera “merda d’artista” è una scatoletta con dentro non si sa cosa, forse gesso, forse veramente feci. Il suo “fiato d’artista”, un palloncino gonfiato, anche negli autentici ormai non c’è più, perché è rimasto solo il palloncino rinsecchito. Nelle opere con materiali organici è difficile ridare vita a qualcosa di concreto, resta solo da dare vita a un’idea. Lo statuto identitario di un oggetto d’arte ha a che fare con tutta la sua storia, anche con la morte, la fine dell’oggetto organico. La morte stessa dell’oggetto può essere parte dell’oggetto d’arte, cioè può mostrare con efficacia cosa sia l’effimero, la contingenza. Occorre accettare che l’opera è costruita per un’esistenza e quindi deperisce. Se i materiali dell’opera sono messi lì per deperire, vuol dire che l’opera è fatta per documentare la deperibilità della vita autonoma dell’oggetto d’arte. L’acquirente dell’oggetto d’arte compra un’idea o un’opera per la sua consistenza materiale? Nell’epoca del fake, la reazione degli artisti è di appropriarsi del falso. La provocazione del falso può essere un modo per fare una critica sociale che denuncia gli altri tipi di menzogna del mondo contemporaneo. Gli artisti vogliono dire e fare menzogne sempre più grandi per smascherare quelle davvero enormi dell’attuale società, soprattutto quelle della politica e dell’informazione. Per gli artisti contemporanei, la sovrapproduzione di immagini e di informazioni

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che condiziona il nostro modo di vivere non è più un limite ma un bagaglio, un e- cosistema culturale, da cui trarre spunto. L’operazione è portata avanti con il falso, con la citazione, con l’imitazione. Si sfrutta nel contemporaneo l’informazione che è preda di internet e dei media di massa. Anche nel falso, l’arte contemporanea può trovare riflessioni interessanti. Credere nel falso è quasi meglio che credere alla realtà come è descritta e posta all’attenzione dagli odierni mezzi di comunicazione di massa. Il fotografo Thomas Stemman ha indagato il rapporto tra la realtà e la rappresentazione della realtà. Ha fotografato l’ufficio in cui Donald Trump mostrava i documenti con cui aveva delegato i suoi affari ai figli, ma la foto mostrava che erano solo fogli bianchi. L’orinatoio di Marcel Duchamp era un oggetto non solo prosaico ma anche prodotto in serie. L’artista ne prese uno solo dei tanti e lo pose in un museo. L’operazione si potrebbe configurare come un doppio inganno, realizzato agli albori della produzione in serie dei manufatti. Dopo quell’episodio, e fino ai nostri giorni, l’artigianato artistico, cioè il manufatto unico, è diventato man mano sempre più obsoleto ed è andata sempre più in crisi l’unicità del gesto. Gli artisti si sono presi una sempre maggiore libertà di azione e quasi non fanno più caso alla distinzione tra originali e riproduzioni seriali. Giorgio De Chirico ha mescolato nella sua arte vari stili di artisti del passato, come se non volesse più inventare nulla, quasi che l’invenzione portasse alla morte, come l’invenzione di nuovi strumenti bellici aveva portato alla morte di massa della Grande Guerra. Falsificava e duplicava anche se stesso. Non rivoluzionava le forme, ma il senso e il significato delle cose, ricercava ciò che non si vede, l’inafferrabilità dell’essere. Andy Warhol realizzò oltre cento versioni dell’Ultima Cena. Disse che il suo mae-

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stro era De Chirico che copiava una immagine che era l’immagine di se stesso, mentre lui ne copiava tante in un unico quadro, come le tante Marylin di un suo lavoro. Damien Hirst nel 2017 finse di aver copiato gli oggetti e le statue recuperati da una nave di un liberto romano affondata nel primo secolo dopo Cristo. La mostra si intitolava “Treasures from the wreck of the unbelievable” a Punta della Dogana e a Palazzo Grassi a Venezia. Narrava che quello esposto era un tesoro vecchio di duemila anni, ritrovato in fondo all’oceano indiano nel 2008, appartenente a Cif Amoton II, un liberto e collezionista romano originario di Antiochia, vissuto tra la metà del Primo e l’inizio del Secondo Secolo dopo Cristo e destinato al tempio dedicato al dio Sole che aveva fatto costruire. Ma, a causa del naufragio, l’Apistos (“Incredibile” in greco) andò perduto fino ad allora e poi ritrovato. Foto e filmati del rinvenimento del tesoro dimostravano la sua veridicità e le sculture erano adornate con coralli e creature marine per dare l’impressione che fossero state dimenticate in fondo al mare per millenni. La pluralità dei soggetti raffigurati era strabiliante, da capogiro, da Buddha a Baloo, da Medusa a Mickey Mouse, la mostra si configurava come un viaggio psichedelico tra le icone che hanno segnato la storia dell’umanità. Hirst prendeva in giro i visitatori con un gioco sottile. Le opere non portavano fisicamente la sua firma, ma l’attenzione maniacale ai dettagli, la lavorazione minuziosa delle sculture, soprattutto le concrezioni marine che le ricoprivano offuscando gli oggetti “originali”, portavano la sua chiara impronta. Le dee greche avevano le proporzioni di “Barbie”, dietro una statua c’era la scritta “made in China” e un’altra, chiamata “The Collector”, il collezionista, pure incrostata di concrezioni marine, era un chiaro autoritratto di Hirst stesso. Eredi Brancusi sono un gruppo italiano di artisti, attivo dal 1992, che, partendo dal tema della storia e della memoria, portano in primo piano il concetto

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dell’autenticità dell’opera e del rapporto con la storia dell’arte, giocano col verosimile visto come collante tra reale e immaginario e recuperano con la memoria le avanguardie. Utilizzano per le loro installazioni i resti, gli scarti, le scorie di lavorazione degli artisti del ‘900 storico o anche memorie o scritti che siano legati a oggetti deperiti o semidistrutti. Così hanno proposto un’opera intitolata “Lascito Stegermann” avente a oggetto pagine bruciacchiate del diario di Else Magdalene Stegermann, una abitante di Berlino che aveva annotato in un diario sensazioni e osservazioni dei giorni tragici della caduta della città nel maggio del 1945, tra cui il raccapriccio suscitatole dall’incendio della Flakturm di Friedrchshain, una torre in cui, nei giorni successivi all’entrata dei sovietici in città, erano bruciate centinaia di opere d’arte di inestimabile valore che vi erano custodite, tra cui la prima versione del San Matteo e l’Angelo per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi di Caravaggio. L’installazione di Eredi Brancusi comprendeva brandelli delle pagine del diario e frammenti bruciati delle opere andate perdute. Altra opera è “Lasciti di scarti”, in cui sono assemblati resti di materiali manipolati ma non utilizzati da artisti quali Brancusi, Duchamp, Matisse, Arp, Calder, Man Ray, Pino Pascali, Picasso, Burri, Piero Manzoni. Ma l’opera più curiosa del gruppo italiano è la dedica, a partire dal 1999, di un terreno boschivo di 60.000 metri quadrati alla commemorazione, con relative lapidi, di personaggi romanzeschi morti nel racconto o a personaggi storici senza tomba. La motivazione è che ci sono persone che provano dolore per la morte di personaggi di un romanzo o di un film e desiderano una lapide mortuaria dove andare a omaggiare i personaggi immaginari, nati dalla fantasia di scrittori o registi, morti nelle finzioni di cui sono parte. Si tratta di luoghi di sepoltura che consentono di abituarsi a piccole morti immaginarie, in attesa di vere morti di parenti o amici. Un posto che custodisce dolore in senso generale. Nel bosco ci sono le lapidi di Anna Karenina, Dorian Gray, la Marinella della canzone di Fa-

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brizio De Andrè, la Pina di Roma città aperta interpretata da Anna Magnani, Obi- Wan Kenobi di Guerre stellari e di Roy Batty, il replicante di Blade Runner, quello che pronuncia le famose parole “ho visto cose che voi umani…” E allora, dove si situa il vero? Ma il vero ci rispecchia? Esiste una linea di demarcazione tra vero e falso? Se esiste, nel ‘900 è molto affievolita, come testimonia l’interrogativo su quale destino possa essere mai toccato alla bicicletta cui Duchamp aveva staccato la ruota per comporre la sua opera o a un sacco scartato da Burri. Matteo Ferrero del gruppo Eredi Brancusi ha esposto 30 o 40 tele quasi completamente consumate, di proprietà dell’artista e collezionista Carrucci e i visitatori della mostra tendono a chiedersi cosa sia successo loro. Le risposte possibili sono le più varie, dal fatto che Carrucci possa essere diventato cieco o che abbia toccato le tele talmente tante volte da deteriorarle. La situazione può magari insegnare che la ricerca del vero o del falso esime dalla ricerca del senso. L’arte contemporanea nuota nel labirinto della verità. Gabriele De Matteo, artista e performer campano, autore di mostre come “Evacuare Napoli”, dotatosi di un alter ego fittizio chiamato Armando Della Vittoria, pensa che i copisti e le copie siano più importanti degli originali. Salvatore Russo, maestro dei copisti d’arte napoletani, si rivolse a lui portandogli in visione la copia, da lui dipinta, di un pittore fiammingo del ‘600. Né Di Matteo, né il gallerista cui era stata affidata l’opera riuscirono a capire da quale fiammingo fosse stato dipinto l’originale. Russo rispose che, oltre a quello in visione, aveva fatto lui le copie di molti altri quadri antichi ma senza sapere assolutamente a quale maestro si riferissero. Negli anni del secolo scorso, dai ’70 ai ’90, c’erano moltissimi abili copisti napoletani che dipingevano quadri commerciali. Il mercato ne era pieno, ogni volta partivano da Napoli interi TIR con i quadri commerciali, che si vendevano molto bene.

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Poi arrivarono i cinesi che invasero quel mercato a prezzi bassi. Di Matteo ha invitato i copisti napoletani, rimasti disoccupati, a copiare a loro volta i quadri cinesi più importanti e di valore. Così ha voluto dimostrare che la copia è un work in progress infinito. Ogni volta che una pittura è venduta e poi rifatta, può essere a sua volta venduta e poi ancora rifatta, quasi all’infinito. Di Matteo ritiene che le copie finiscano per essere più preziose e di valore degli originali. In fondo, nelle accademie d’arte del mondo occidentale si è sempre copiato. Moira Ricci è un’artista e fotografa italiana, i cui lavori, foto, video e installazioni spesso autobiografici, sono riferiti a storie identitarie, singole o collettive, storie di famiglia, legami con il territorio. Utilizza mezzi tecnologici per riscoprire e interpretare tradizioni e storie popolari, in genere del territorio toscano. In particolare, ha costruito un archivio per immagini (foto e video) e documenti, come ritagli di giornale, per rendere verosimili alcune leggende tramandate oralmente nella campagna toscana, legate a tre personaggi, la bambina cinghiale, l’uomo sasso, l’uomo lupo mannaro. L’unico elemento reale è costituito dalle interviste audio fatte a persone che ne narrano la storia, tutto il resto è una documentata illusione, la pura fantasia delle credenze popolari attorno al bizzarro, all’oscuro che attrae per la sua forza selvaggia. In particolare, è interessante quella della bambina nata metà bambina e metà cinghiale a Magliano in Toscana, nel grossetano; nessuno l’ha vista, solo il presunto fotografo e i parenti, nemmeno i vicini, non si sa quando sia morta, ma non sarebbe morta a sei anni come dicono i parenti. E’ un cortocircuito attraverso cui si può indagare la realtà. Qualcuno ha detto che una mappa del mondo in cui non si contempla l’utopia non è guardabile, e il lavoro di Moira Ricci produce una mescolanza tra realtà e utopia, come la ricostruzione sulla storia fantasiosa del bambino che aveva nella pancia un gemello che gli mangiava gli organi. O come la storia del lupo mannaro che ululava ai bordi della stra-

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da per cercare un lago o un fiume in cui bagnarsi per evitare la trasformazione. Moira Ricci nelle sue installazioni indaga, o meglio finge di indagare, se le storie in questione siano vere o false. Comunque, dalle parole di quelli che le avrebbero osservate, salta fuori che ognuno ci aggiunge sempre qualcosa di nuovo e di diverso. Nell’arte, dall’800 in poi si è guadagnata molta più possibilità di libertà espressiva, ma ciò può portare a confondere le idee su ciò che è arte da ciò che non lo è. Dico che ti faccio il ritratto e poi intingo il pennello mulinandolo a casaccio sulla tela. E’ una realtà espressiva artistica o è l’unica modalità tecnica che posso padroneggiare per fare un ritratto? Nella società algoritmica, l’artista reagisce come reagivano alle novità tecniche i pittori del ‘500 dipingendo corpi distorti e contorti, come i manieristi italiani ed El Greco. Una domanda che oggi si affaccia, fatalmente, è se il medium esprima arte in se stesso. Si può immaginare un prodotto artistico senza autore? Oggi ci sono melodie create in maniera autonoma da algoritmi. L’oggetto d’arte fatto dall’essere uomo può rappresentare lo sforzo struggente degli umani di comprendersi, di rappresentarsi e di immaginarsi per come potrebbero essere. Con tanta tecnologia a disposizione, la consapevolezza di essere soli e mortali rende più urgente la sensibilità rispetto a che cosa significa essere umani e avere senso come umani. Moira Ricci racconta la storia che lei ha elaborato nella sua infanzia, come è arrivata a lei e come l’ha rielaborata. Matteo Ferrero e Eredi Brancusi con le tombe per i personaggi immaginari dei romanzi tendono pure a far appropriare le persone di loro sentimenti ed emozioni. Molti artisti si sono assunti il compito di svelare le mistificazioni della società di un internet impazzito e dei suoi fakes molto meglio di ogni demistficazione fatta

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razionalmente, ma da altre branche della stessa società dell’informazione. Dal Cupido di Michelangelo all’algoritmo capace di produrre immagini e arte, nell’epoca della post-verità, forse il falso può costituire il vero svelamento della verità.

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