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Attentati e attentatori contro Mus

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Politica e Storia

Attentati e attentatori contro Mussolini

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Giovan Giuseppe MENNELLA

Gli attentati contro la vita di Benito Mussolini possono essere divisi in due tipologie, corrispondenti a due periodi storici distinti tra loro. Il primo periodo è quello intercorrente tra il discorso pronunciato dal Capo del Governo il 3 gennaio 1925 alla Camera dei Deputati e la promulgazione della legge del 25 novembre 1926 di costituzione del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, che, insieme ad altre leggi cosiddette “fascistissime”, diede un definitivo giro di vite all’abolizione delle garanzie democratiche e all’instaurazione della dittatura.

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Infatti, in quel discorso Mussolini pronunciò le parole: “nelle 48 ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area”. Seguì poco dopo la circolare di Luigi Federzoni ai Prefetti che dispose drastiche limitazioni alla libertà di stampa e la chiusura di tutti i circoli dei partiti di opposizione in tutto il Paese. Il discorso e le misure drastiche che ne seguirono sono ritenuti dagli storici l’atto costitutivo del fascismo come regime autoritario. Infatti, con la predetta legge del 25 novembre 1926 fu istituito il Tribunale speciale. Inoltre, con legge del 24 dicembre 1925 furono aumentati i poteri e le prerogative del Presidente del Consiglio che si sarebbe chiamato Capo del Governo. Con la legge del 3 aprile 1926 fu proibito lo sciopero e solo i Sindacati legalmente riconosciuti, cioè quelli fascisti, furono autorizzati a stipulare i contratti collettivi. La legge del 31 dicembre 1926 limitò la libertà di stampa. E la legge delega del 4 dicembre 1925 autorizzò il Governo a e- mendare il Codice penale allora in vigore, naturalmente con finalità di repressione del dissenso, non ultima la reintroduzione della pena di morte. Il percorso di riforma si concluse con l’entrata in vigore, il primo luglio 1931, del famigerato Codice Rocco, definito tale dal nome di Alfredo Rocco il giurista che lo firmò in funzione di Guardasigilli. Gli attentati di questo primo periodo si caratterizzarono per essere fatti da individui singoli, decisi a liberare il Paese da un tiranno e che agirono sotto la spinta emotiva della mancata caduta di Mussolini in seguito all’assassinio di Matteotti. Furono proprio quegli attentati a far schierare la maggior parte dell’opinione pubblica a favore del fascismo e, in parte, a contribuire alla promulgazione delle leggi che abolirono definitivamente in Italia le garanzie democratiche e la libertà. Il secondo periodo fu quello successivo all’instaurazione della dittatura e del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato. I partiti antifascisti si erano riorganizzati in esilio e i tentativi di uccidere il Duce furono non più a iniziativa di singoli indi-

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vidui, ma in qualche modo organizzati con la partecipazione, o quantomeno lo stimolo, di forze politiche antifasciste o di singoli esponenti dei partiti. Non tutti i Partiti antifascisti furono però favorevoli ad attentati alla vita di Mussolini. In particolare, i comunisti furono sempre molto scettici sulla possibilità di abbattere il fascismo colpendo il suo capo. E comunque, si confrontarono con misure e pene repressive più severe, tra cui la pena di morte ormai prevista dal Codice Rocco. Primo periodo Il 3 gennaio 1925 Benito Mussolini pronunciò al Parlamento il famoso discorso in cui si assunse la piena responsabilità politica, morale e penale dell’assassinio di Giacomo Matteotti e fece capire chiaramente che si avviava all’instaurazione di un regime. Gli attimi cambiano la Storia e la Storia era stata cambiata sia dalla decisione di Vittorio Emanuele III di non costringere il Primo Ministro alle dimissioni in seguito alle sue chiare responsabilità nell’uccisione di Matteotti, sia dall’inerzia politica dell’opposizione parlamentare al governo. Da quel giorno di gennaio fu chiaro che il governo fascista sarebbe durato in carica non per breve tempo e una sorta di sgomento piombò sugli italiani e in particolare sulle forze politiche parlamentari ed extraparlamentari antifasciste. A quella data, l’opposizione, oltre che essere sorpresa, era anche disorganizzata e non aveva le i- dee chiare su quale linea dovesse essere perseguita per combattere il fascismo ormai al governo. Per la verità, in quell’inizio di 1925 non era ancora organizzato neanche il fascismo, che non era ancora capace di controllare tutto e tutti, come sarebbe avvenuto di lì a qualche tempo. La disorganizzazione dell’antifascismo e la non completa organizzazione del fascismo, ma anche il senso di smarrimento politico e psicologico di alcuni oppositori, lasciarono aperto il campo a tentativi individuali di risolvere la situazione sopprimendo colui che si andava caratterizzando come un despota eversore della demo-

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crazia parlamentare. Quei tentativi si sarebbero rivelati come disperati, disorganizzati, anche sgangherati, spesso dalla genesi e dallo svolgimento poco chiari, ma comunque avrebbero denotato anche un notevole coraggio personale da parte di chi li pose in atto. Come se gli attentatori volessero invertire il corso degli eventi giocando il tutto per tutto in un attimo, o in una serie di attimi, uguali e contrari a quegli attimi decisivi che avevano portato il Paese ormai a un passo da una dittatura di un partito e di un solo uomo. Il primo attentato fu ideato il 4 novembre 1925 dal deputato socialista unitario Tito Zaniboni e dal generale Luigi Capello, comandante della II Armata nella Grande Guerra. Zaniboni avrebbe dovuto far fuoco con un fucile di precisione da una finestra dell’albergo Dragoni, situato di fronte al balcone di Palazzo Chigi da cui si sarebbe dovuto affacciare il Duce per celebrare l’anniversario della vittoria. Le forze di polizia, guidate dal Generale Giuseppe Dosi e che stavano già seguendo Zaniboni in seguito a notizie di qualche spia, fecero irruzione nella stanza e sventarono la minaccia. Contro Zaniboni e Capello operò retroattivamente, con una autentica mostruosità giuridica, il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato. Come si è visto, il Tribunale fu istituito con legge del 25.11.1926, più di un anno dopo l’attentato, come organo speciale del regime, competente a giudicare i reati contro la sicurezza dello Stato e del regime. Come scrisse lo storico Aquarone, il Tribunale “con la sua ombra minacciosa contribuì non poco a distogliere molti oppositori del regime da un’azione concreta contro di esso”. Comunque, Zaniboni e Capello furono condannati il 12 aprile 1927 a trent’anni di carcere. Il 7 aprile 1926 Violet Gibson, una donna irlandese risultata essere una squilibrata, esplose un colpo di pistola in direzione di Mussolini, mancandolo per poco. Un improvviso scatto all’indietro della testa per fare il saluto romano salvò il Duce dalla

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morte, lasciandolo solo con una lieve ferita al naso. Essendo la donna una cittadina dell’Irlanda britannica, il governo britannico, per salvaguardare i buoni rapporti con il fascismo, inviò le sue scuse. Dal canto loro, anche le autorità italiane volevano mantenere buoni rapporti con lo Stato d’oltremanica e quindi la Gibson fu assolta in istruttoria per totale infermità mentale e rispedita in patria, dove fu internata in manicomio. L’11 settembre 1926 l’anarchico Gino Lucetti lanciò una bomba contro l’automobile del Primo Ministro. La bomba rimbalzò contro lo sportello della vettura ed esplose in strada ferendo otto persone. Lucetti fu immediatamente immobilizzato da un passante e poi dalla polizia. Dalla perquisizione effettuata fu trovato in possesso di una pistola caricata a proiettili dum dum. Anche lui fu giudicato retroattivamente dal Tribunale speciale e condannato a trenta anni di carcere con sentenza del giugno 1927. La sorte di Lucetti fu particolarmente tragica ma anche curiosa. Dopo la caduta del fascismo e l’armistizio fu liberato dagli Alleati dal carcere di Ponza e il 17 settembre del 1943 si trovava a passeggiare sul lungomare di I- schia, dove aveva preso alloggio, quando fu colpito in pieno, unica vittima, da un bombardamento di aerei tedeschi, quasi che i compari di Mussolini avessero voluto punire proprio chi aveva osato attentare alla vita dell’alleato. A Gino Lucetti fu intitolata una brigata partigiana anarchica che combatté nel carrarese, di cui era originario. Una canzone partigiana dell’epoca cantò “il battaglion Lucetti son libertari e nulla più, fedeli a Pietro Gori noi scenderemo giù”. Di Lucetti parla anche Maurizio Maggiani nel libro “Il coraggio del Pettirosso”. La sera del 31 ottobre 1926, durante la commemorazione a Bologna dell’anniversario della Marcia su Roma, il quindicenne Anteo Zamboni sparò, senza successo, un colpo di pistola verso il Capo del Governo, sfiorandolo. Bloccato dal tenente del 56° Fanteria Carlo Alberto Pasolini, fu ucciso con numerose coltel-

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late dalle camicie nere presenti. Secondo alcune ricostruzioni, l’attentato sarebbe stato il risultato di una cospirazione maturata all’interno degli ambienti fascisti contrari alla normalizzazione inaugurata da Mussolini contro gli eccessi rivoluzionari delle formazioni squadriste. Secondo questa ricostruzione, il colpo di pistola non sarebbe stato sparato da Anteo Zamboni, vittima casuale. Le indagini poliziesche si svolsero in principio negli ambienti squadristi bolognesi e ipotizzarono un coinvolgimento di ras fascisti locali, come Roberto Farinacci e Leandro Arpinati, ma non portarono ad alcun risultato concreto. Si concluse, quindi, che l’attentato doveva essere opera di un elemento isolato. Una successiva indagine promossa dal Ministero dell’Interno e svolta dal Tribunale Speciale non chiarì il caso. Il procedimento del Tribunale Speciale, istituito un mese dopo l’attentato, proprio sull’onda emotiva dei continui attentati a Mussolini, condannò il 7 settembre 1928 il padre e la zia dell’attentatore, sempre con la solita irregolarità giuridica della competenza retroattiva, per avere influenzato il giovane nelle sue scelte. I familiari di Zamboni si rivolsero al gerarca di Bologna Leandro Arpinati per far cancellare le condanne, vista l’assoluta estraneità dei due ai fatti. Arpinati si rivolse al Presidente del Tribunale Speciale Guido Cristini che gli confidò che erano chiaramente innocenti ma che era stato costretto a condannarli su pressione di Mussolini. Quando Arpinati riferì la cosa a Mussolini, quest’ultimo si infuriò e, dopo aver graziato i due condannati, costrinse Cristini alle dimissioni. Un altro attentato, questa volta non contro Mussolini ma contro il Re, fu quello che avvenne nel 1928 a Milano, alla Fiera campionaria, quando scoppiò una bomba che uccise molti cittadini innocenti. L’attentato fu probabilmente una provocazione fascista, o anche una faida interna tra bande rivali di fascisti. Tuttavia, se ne trasse partito per incolpare gli antifascisti e stabilizzare il regime suscitando lo sdegno dell’opinione pubblica contro gli oppositori di sinistra. Quell’attentato è interessan-

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te perché presenta stupefacenti analogie con l’attentato del 12 dicembre 1969 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, a Piazza Fontana a Milano. Per Piazza Fontana è stato accertato storicamente, ma non giudiziariamente per le coperture e i depistaggi di organi dello Stato, che la bomba fu piazzata e fatta esplodere da gruppi neofascisti per far ricadere la colpa sugli anarchici e i movimenti di sinistra, in modo da favorire la nascita di un governo di destra in funzione antipopolare e anticomunista. Nel 1943 anche il governo Badoglio aveva ricordato al Paese l’asserito coinvolgimento degli antifascisti nell’attentato del 1928 alla Fiera di Milano per usarlo contri i Partiti democratici che si stavano riorganizzando. Secondo periodo Dopo la stabilizzazione del regime, con la pervasività del controllo preventivo dell’OVRA di Arturo Bocchini e l’istituzione del Tribunale Speciale, divenne impossibile arrivare ad attentare da vicino alla vita di Mussolini. Il Tribunale Speciale era costituito da giudici militari, il Presidente era un ufficiale del regio Esercito e cinque giudici tutti ufficiali della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, u- na sorta di Esercito del Partito Fascista reso organo dello Stato, e procedeva su denuncia della Polizia politica, l’OVRA, con poche garanzie giuridiche per gli imputati Tuttavia, non cessarono i complotti e i tentativi di avvicinarsi al Duce per eliminarlo. Ma i soggetti che furono catturati e condannati, anche spietatamente, lo furono sulla base della mera intenzione, del mero disegno di colpire il Capo del Governo. Inoltre, dal primo luglio 1931, data di entrata in vigore del Codice Rocco, era possibile la condanna a morte, giacché il Codice aveva reintrodotto nell’ordinamento la pena di morte. Per questa ragione, in precedenza Zaniboni, Capello, Violet Gibson. Lucetti erano stati condannati solo a pene detentive. Michele Schirru era un antifascista sardo che emigrò giovanissimo prima in continente e poi all’estero. Aderì al socialismo e negli Stati Uniti, dove si era trasferito

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prendendone anche la cittadinanza, fu attivo nel movimento anarchico che difese le idee e le figure di Sacco e Vanzetti. Ritornato in Europa con l’intenzione di uccidere Mussolini, a Parigi entrò in contatto con gli antifascisti della Concentrazione democratica e in particolare con Emilio Lussu che lo incoraggiò. Arrivò a Roma il 12 gennaio 1931 e per tre settimane si appostò lungo il tragitto di Mussolini da Villa Torlonia a Palazzo Venezia, senza però avere mai la possibilità di incrociarlo né tantomeno di colpirlo. Probabilmente era già seguito da qualche tempo dalla polizia politica che aveva infiltrato di spie il suo ambiente e fu arrestato il 3 febbraio. Portato davanti al Tribunale speciale, fu condannato a morte il 28 maggio, per la semplice intenzione di attentare alla vita di Mussolini, contro le stesse disposizioni di legge. Fu fucilato il giorno dopo, 29 maggio, a Forte Braschi. Domenico Bovone e Angelo Pellegrino Sbardellotto furono processati e condannati a morte insieme, in un unico processo, dal Tribunale speciale, come esponenti della Concentrazione democratica di Parigi, anche se i loro casi furono dissimili. Domenico Bovone era un anarchico, nella cui casa il 5 settembre 1931 avvenne un’esplosione che ne uccise la madre e portò la polizia a rinvenire altro materiale esplosivo, sia nella casa che in un mulino di sua proprietà a Rivarolo Ligure. Le autorità di polizia ritennero che Bovone fosse implicato in attività terroristiche, che lui stesso ammise, essendo stati anche ritrovati dispositivi a orologeria. Furono anche ritrovati documenti che lo collegavano al fuoruscitismo antifascista e sorse il sospetto che gli esplosivi fossero destinati a un attentato contro Mussolini. Portato davanti al Tribunale speciale, fu condannato a morte per appartenenza a organizzazione antifascista repubblicana e complotto contro il Duce. Angelo Pellegrino Sbardellotto emigrò giovanissimo e nel 1928 rifiutò di tornare in Italia per svolgere il servizio militare. Aderì all’anarchismo e fu posto sotto controllo come pericoloso sovversivo dalla polizia politica del regime che ormai aveva

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disseminato dappertutto le sue spie e suoi provocatori. Dopo aver espresso l’intenzione di rientrare in Italia per vendicare Schirru uccidendo Mussolini, ormai braccato dalla polizia, fu arrestato al terzo tentativo di avvicinare il Capo del Governo in occasione della cerimonia di traslazione delle ceneri di Anita Garibaldi al monumento ai garibaldini sul Gianicolo a Roma. Trovato in possesso di una pistola e di una bomba, fu giudicato dal Tribunale speciale. In quella sede ammise di essere venuto in Italia per uccidere Mussolini. Dopo un processo durato due giorni, fu condannato a morte. Sbardellotto e Bovone furono giudicati insieme e fucilati lo stesso giorno, il 17 giugno 1932, perché ritenuti esponenti di un complotto organizzato dalla Concentrazione democratica antifascista di Parigi, anche se Sbardellotto non aveva attuato alcun atto violento ma espresso solamente l’intenzione di uccidere. Il fatto che fossero legati, sia pure presuntivamente, ai Partiti di opposizione democratica della Concentrazione antifascista di Parigi, li diversifica da quegli attentatori che avevano agito attraverso decisioni improvvise e del tutto individuali nel periodo 1925- 1926 immediatamente successivo al discorso del 3 gennaio. Con la fucilazione di Sbardellotto e Bovone terminò la stagione degli attentati o dei progetti di attentato alla figura del Mussolini uomo e del Mussolini dittatore dell’Italia. Ormai il gioco si era fatto ben più grande, e da allora in poi fu un gioco politico in senso più ampio, con la partecipazione dei partiti organizzati. Ma anche militare, perché fu necessaria una guerra per arrivare a una soluzione. Quella stagione era iniziata con il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925, nel quale, con faconda oratoria e improntitudine degna di miglior causa, si era assunta la piena responsabilità politica, morale, storica di quanto era avvenuto in Italia nei mesi precedenti e specificamente del delitto Matteotti, invitando gli oppositori a tirare fuori il palo e la corda per impiccarlo, nel caso fossero bastate poche frasi per

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impiccare un uomo. Una vivida ricostruzione di quel discorso fu fatta da Florestano Vancini nel suo film “Il delitto Matteotti” in cui Mussolini era interpretato da Mario Adorf. Mussolini sapeva benissimo che non si era reso colpevole di sole poche frasi, ma la lista dei delitti suoi e dei suoi accoliti era già lunga, a quel 3 gennaio 1925. E lo sapevano bene Zaniboni, Gibson, Lucetti, Zamboni, Schirru, Sbardellotto, Bovone che tutto sommato lo avevano preso in parola e lo avevano condannato a morte nel loro tribunale interno, privo dei mezzi di repressione in mano agli sgherri del regime. Ci provarono e pagarono con il carcere e con la vita. Ma l’esecuzione della condanna a morte del dittatore doveva rivelarsi solo differita, sia pure di vent’anni e quattro mesi, perché portata a termine inesorabilmente dai partigiani a Giulino di Mezzegra il 28 aprile 1945. A quella data, a Matteotti e alle migliaia di socialisti, comunisti, popolari, democratici già fatti fuori dai fascisti dal 1919 al 1925, si erano ormai aggiunti Amendola, Gobetti, Carlo e Nello Rosselli e altre centinaia di migliaia di italiani, spagnoli, etiopi, greci, russi, ucraini, croati, sloveni, ebrei, sacrificati all’orgoglio e alla volontà di potenza di un uomo. Tutto sommato, piace pensare che, almeno per qualche momento di quegli oltre venti anni, anche Mussolini si sia sentito rinchiuso egli stesso nel braccio della morte. Viene in mente il film di Marco Bellocchio “Vincere” in cui si descrivono alcune malvagità del personaggio e se ne prefigura la futura giusta punizione. Viene in mente anche il romanzo di Thomas Mann “Mario e il Mago”, scritto negli anni dei primi attentati a Mussolini e che è vagamente ispirato a quella temperie storica e a quegli episodi. In Versilia, in una estate italiana, durante i primi mesi di potere del fascismo, imperversa il mago Cipolla che inganna e truffa tutti. Il cameriere Mario, indignato, lo uccide. La critica letteraria e storica ha identificato nell’uccisione dell’imbroglione un’eco degli attentati contro il dittatore.

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