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Reggio Calabria, la più grande ri

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Storia e Politica

Reggio Calabria, la più grande rivoltaurbana del dopoguerra

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Giovan Giuseppe MENNELLA

La Costituzione italiana, entrata in vigore il primo gennaio 1948, previde all’articolo 22, l’istituzione delle Regioni come massima espressione delle autonomie locali. Tuttavia, per la loro effettiva instaurazione con legge ordinaria, fu necessario attendere molti anni. La mancata attuazione con leggi ordinarie riguardò anche molti altri istituti costituzionali, tanto che si parlò, per i primi due decenni della Repubblica, d’inadempienza della Costituzione. Le ragioni furono molte, dalla difficile situazione internazionale con la Guerra fredda in pieno sviluppo, alla relativa debolezza elettorale della sinistra che era stata la principale fautrice degli i- stituti costituzionali più avanzati, all’intenzione dei partiti centristi al governo di

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non lasciare troppi spazi al Partito Comunista nelle amministrazioni locali, soprattutto in quelle delle cosiddette regioni rosse, Emilia-Romagna e Toscana e, in parte, Umbria. Tuttavia, dopo il 1968 la situazione politica interna e internazionale divenne più favorevole a una maggiore adempienza a quanto previsto dalla Costituzione, soprattutto all’articolo 22 sull’istituzione delle Regioni. Le sinistre si erano rafforzate nell’opinione pubblica e nelle urne, la situazione internazionale era più tranquilla, essendo ormai alle spalle il periodo più duro della Guerra fredda, i cittadini reclamavano maggiori diritti e maggiore partecipazione alla vita pubblica. In tale situazione, il Parlamento approvò la legge che prevedeva dal 1970 l’istituzione delle Amministrazioni regionali. La riforma fu anche l’occasione per far affluire maggiori risorse economiche in periferia, soprattutto nel Sud. Per quanto riguarda la Calabria, i cittadini e i politici di Reggio Calabria erano convinti che il capoluogo regionale dovesse essere situato nella loro città, come previsto da accordi politici risalenti fino al 1948. Invece, per iniziativa politica dei due uomini di partito più influenti della Calabria, Giacomo Mancini del PSI e Riccardo Misasi della DC, fu deciso che il capoluogo della Regione dovesse essere Catanzaro. A Reggio Calabria la decisione fu appresa con costernazione e sgomento e subito cominciarono le proteste e le manifestazioni popolari. Il 5 luglio il Sindaco Pietro Battaglia, esponente politico della Democrazia Cristiana, tenne un infuocato comizio, alla presenza di migliaia di persone e con la partecipazione dei politici della maggioranza di centrosinistra da cui era formata la Giunta comunale. Tuttavia, era evidente la contraddizione insita in quella giunta cittadina, in quanto espressione di una maggioranza di centrosinistra alla quale appartenevano, a livello nazionale e locale, sia Mancini che Misasi, le stesse persone che avevano deciso per il capo-

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luogo a Catanzaro. Conseguenza di questa contraddizione fu la grande e spontanea sollevazione dei cittadini contro i partiti istituzionali, in primis quelli della maggioranza di centrosinistra. Il 13 luglio si svolse a Catanzaro la prima riunione del Consiglio Regionale, ma senza la presenza dei consiglieri regionali eletti a Reggio, salvo quelli del Partito Socialista e del Partito Comunista. Il giorno successivo, 14 luglio, anniversario della presa della Bastiglia e dell’inizio della Rivoluzione in Francia, si svolse a Reggio una grande manifestazione di protesta, all’insegna di un forte campanilismo contro Catanzaro, poiché gli abitanti della città dello stretto si sentivano defraudati non solo del primato regionale come fattore di prestigio, ma soprattutto dell’arrivo delle sperate risorse economiche che sarebbero affluite con la designazione di Reggio a capoluogo regionale. Le polemiche e le proteste erano iniziate fin dall’anno precedente, come le discussioni e le manovre politiche sulla designazione del capoluogo regionale. E fin dal marzo del 1969 era nato il primo comitato popolare di pressione e di agitazione. Il sindaco DC Battaglia prese subito posizione a favore del comitato perché capì che la protesta si andava caratterizzando come trasversale, contro tutti i partiti e, quindi, opporvisi poteva significare alienare al sistema partitico in città l’appoggio della popolazione. Nel prosieguo della vicenda però Battaglia uscì di scena, in quanto non aderì alla fase della rivolta dura ma fu ugualmente abbandonato dalla DC. In quel periodo il PCI era in difficoltà nel Sud perché era abituato a lavorare politicamente più a favore delle masse contadine, o al massimo per l’unione politica tra campagna e città. Era meno preparato a gestire interessi e aspirazioni delle fasce di popolazione che, durante tutti gli anni ’50 e ’60, avevano abbandonato le campagne e si erano trasferite nelle città. Queste ultime avevano visto accrescere di molto

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la loro popolazione. Nella realtà urbana quei ceti diventarono meno sensibili alla presa del partito in quanto attratti dagli impieghi nel terziario e nella pubblica amministrazione, con il conseguente pericolo di cedimento alle politiche clientelari messe in atto dai partiti di governo. Contemporaneamente, nelle aree urbane del Sud andò aumentando la forza del Movimento Sociale italiano, anche grazie all’influenza che i neofascisti riuscirono ad acquistare sul mondo studentesco, in particolare sui gruppi organizzati degli studenti universitari. Quel 14 luglio del 1970 si svolse quindi la prima convinta, massiccia manifestazione di piazza degli abitanti di Reggio Calabria contro la designazione di Catanzaro a capoluogo regionale. Al principio tutto si svolse senza incidenti, poi alcuni giovani più combattivi e decisi si staccarono dal corteo e si diressero alcuni verso la stazione ferroviaria, dove occuparono i binari, altri verso la Prefettura. Immediatamente, la polizia reagì caricando i dimostranti con estrema violenza. Molti furono picchiati duramente. Fu quell’improvvisa violenza esercitata dalla polizia che probabilmente fece degenerare la manifestazione trasformandola in aperta rivolta. Durante l’assalto della folla alla sede del Partito socialista, ci fu la prima vittima, il ferroviere Bruno Labate, un iscritto della CGIL. Il 18 luglio si celebrarono i funerali di Labate, durante i quali si registrò la solidarietà con i dimostranti del mondo cattolico, con alla testa il vescovo che officiò la funzione religiosa. A fine luglio entrò in azione quello che doveva diventare il principale animatore della rivolta dura, il sindacalista della CISNAL Ciccio Franco. Il 28 luglio il Comitato ufficiale di agitazione rifiutò di proclamare lo sciopero generale previsto per il giorno successivo. Si disse che la decisione fu influenzata da forti minacce pervenute al Comitato dalle autorità di pubblica sicurezza. In ogni caso, quell’episodio

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fu decisivo perché Ciccio Franco, uomo deciso, senza scrupoli, populista di destra, prendesse in mano la situazione, indirizzando da quel momento la lotta verso forme più violente. Il Partito comunista e quello socialista presero le distanze dalla radicalizzazione del confronto che si andava minacciando. Come detto, i partiti di sinistra erano politicamente in difficoltà anche prima di quell’emergenza e non vollero prendere posizioni troppo decise, denotando un interesse non particolarmente vivo alla comprensione delle ragioni del malessere dei reggini. Non così i nascenti gruppi politici extraparlamentari di sinistra, che mostrarono un interesse più marcato per le motivazioni alla base dell’agitazione. Per esempio, Lotta Continua seguì con interesse la rivolta e lo stesso Adriano Sofri scese immediatamente a Reggio Calabria per studiare da vicino l’emergenza. Anche alcuni e- sponenti di gruppi di sinistra extraparlamentare si recarono a Reggio per partecipare alle manifestazioni, come il Movimento studentesco milanese, Servire il popolo e gli anarchici. Non si sarebbe mai più vista in Italia una rivolta spontanea non collocata nella geografia sociale della sinistra e comunque fuori da tutti gli schemi politici e partitici cui si era abituati. I dimostranti erano giovani, come lo erano stati i sessantottini, armati di pietre, decisi a battersi. Il 47% dei partecipanti agli scontri furono giovani sotto i venticinque anni, molto urbanizzati, che vedevano lo sbocco nel settore pubblico come unica possibilità lavorativa e quindi erano particolarmente preoccupati e arrabbiati all’eventualità della perdita di opportunità che avrebbe provocato la fissazione del capoluogo regionale, con tutti gli uffici e le sedi istituzionali, a Catanzaro. Partendo da questi presupposti, Adriano Sofri andò subito a Reggio perché capì che, in quella particolare realtà, i giovani si stavano mobilitando per la prima volta a destra.

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Nell’ottobre del 1969, secondo le dichiarazioni di un pentito, Stefano Sesta, ci sarebbe stato in Aspromonte un summit tra la cosca della ‘Ndrangheta dei De Stefano e alcuni importanti esponenti della destra eversiva, Concutelli, Delle Chiaie, Junio Valerio Borghese, in cui si realizzò un patto per favorire la scelta di Reggio come capoluogo. Quindi, anche la criminalità organizzata e la destra eversiva nazionale non sarebbero state estranee alla rivolta. Tuttavia, questa ipotesi non è stata mai provata giudiziariamente. Tuttavia, i reggini che si mobilitarono per le proteste e gli scontri non furono solo tutti giovani e tutti di destra, ma ci fu una partecipazione popolare ampia. Il primo comitato di lotta, quello ufficiale, guidato dal sindaco Battaglia, scelse atteggiamenti pacifici e mantenne buoni rapporti con i partiti nazionali di Roma. Però in seguito prese il sopravvento il Comitato spontaneo guidato da Ciccio Franco. La rivolta durò, con intervalli di calma, alcuni mesi. Durante quel periodo la popolazione soffrì notevoli disagi, per quanto riguarda gli approvvigionamenti di cibo, la circolazione urbana, l’interruzione dei collegamenti tra le varie zone della città. Tuttavia, i sacrifici furono accettati di buon grado da tutti gli abitanti, anche da quelli che non parteciparono direttamente alla lotta, e non ci furono mai furti e saccheggi incontrollati. Tutta la città fu unita e comunque molti reggini testimoniarono che la rivolta non avrebbe attecchito se il 14 luglio la forza pubblica non fosse intervenuta con inaudita violenza a reprimere la manifestazione davanti alla Prefettura e alla stazione ferroviaria. Non fu accettata dalla cittadinanza la modalità violenta e poco professionale dell’azione della polizia, quasi che i reggini tutti volessero rivalersi per una questione di principio contro chi li aveva trattati malissimo senza che ve ne fosse una stretta necessità. Quello della poca professionalità delle forze dell’ordine si evidenziò come un problema serio proprio in quel periodo storico. Negli anni ’60 le forze dell’ordine non

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erano ancora professionalmente preparate a fronteggiare i manifestanti di piazza e tendevano a esagerare nella repressione. Quando nelle strade comparvero le barricate, fu necessario l’intervento dell’esercito per rimuoverle. Gli scontri si susseguirono, a singhiozzo, per tutta l’estate del 1970, con intervalli di calma apparente, tanto che i telegiornali della televisione pubblica posero l’accento sui periodi di calma, parlando degli scontri sempre al passato. La violenza si intensificò il 14 settembre, dopo un altro sciopero generale. Furono appiccati anche incendi e si registrò la seconda vittima, l’autista del trasporto urbano Angelo Campanella. La folla tentò di incendiare la Prefettura e fu ricondotta alla calma solo dall’accorato intervento dell’Arcivescovo. Un aspetto curioso della vicenda fu che, nel periodo più caldo della rivolta, i due quartieri popolari di Sbarre e Santa Caterina si proclamarono repubbliche indipendenti, impedendo sempre alla polizia di penetrarvi. La fase violenta della rivolta durò da luglio a ottobre e nel periodo si registrarono 26 feriti, 5 morti, innumerevoli scontri, 300 persone arrestate e 450 denunciate. Il Governo nazionale apparve sempre lontano, come disinteressato, reagendo solo con la repressione del braccio armato della polizia e dell’esercito. Finalmente, nell’ottobre del 1970, il Presidente del Consiglio Emilio Colombo pronunciò un discorso di carattere conciliante, promettendo contestualmente posti di lavoro per il meridione e per l’area di Reggio in particolare, il cosiddetto “pacchetto Colombo”. Il fronte dei rivoltosi si spaccò perché il comitato di lotta più moderato accettò sostanzialmente la proposta e le offerte di lavoro del premier. Il pacchetto previde che il capoluogo di regione rimanesse a Catanzaro, ma che a Reggio fosse assegnata la sede del Consiglio regionale. Furono previsti 30.000 posti di lavoro a livello nazionale, di cui 15.000 per la Calabria, la maggior parte per Reggio. I posti di lavoro dovevano riguardare i settori della chimica, della siderur-

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gia, del turismo, dei servizi. In particolare Reggio fu designata come sede del V Centro siderurgico nazionale, che però non vide mai la luce per via della grave crisi che attraversò il settore produttivo dell’acciaio. Il 23 febbraio del 1971 reparti dell’esercito entrarono in città con mezzi cingolati per sgomberare le barricate e sedare gli ultimi scontri. Nel maggio del 1972 si svolsero le elezioni politiche e a Reggio Calabria il Movimento sociale italiano ottenne il 36% dei voti. Il capo della rivolta dura Ciccio Franco fu eletto senatore nella lista neofascista, ottenendo il premio alla sua capacità di improvvisarsi forte capo populista. In quel 1972, il 22ottobre, i sindacati nazionali tennero a Reggio una grande manifestazione sindacale e politica, a sostegno delle richieste della città e in funzione antifascista, cui parteciparono moltissimi militanti di base della sinistra provenienti da altre regioni. Le Organizzazioni sindacali CGIL, CISL e UIL si erano da poco unite e scelsero Reggio per favorire uno scatto della politica a favore del Sud. Ma i reggini accolsero la manifestazione con malcelata freddezza, ai confini dell’ostilità, quasi che assistessero a una tardiva calata coloniale da Roma, particolarmente sgradita. La cantautrice folk Giovanna Marini compose una famosa canzone sul lungo viaggio dei militanti dei sindacati e dei partiti di sinistra per giungere in Calabria da varie parti d’Italia. In effetti, anche l’offerta del pacchetto Colombo era arrivata tardi, quasi fuori tempo massimo. Avrebbe potuto avere un successo politico se fosse stata decisa prima, ma ormai l’insoddisfazione dei reggini e le violenze consumate, da una parte e dall’altra, avevano scavato un solco tra le parti. Inoltre, la repentina disillusione sul V centro siderurgico inasprì la situazione, mostrando i difetti e le crepe del modello di sviluppo italiano, soprattutto per quanto riguarda la peculiare situazione economico-sociale del Mezzogiorno.

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Qualcuno disse che quelle del pacchetto furono comunque misure economiche e investimenti sbagliati, però, se il Governo avesse elargito in tempo utile alcune provvidenze economico-sociali e non solo repressione, la situazione non sarebbe degenerata e i neofascisti non avrebbero acquisito tutto quel credito morale ed elettorale in città e nella provincia. Anche le sinistre politiche nazionali si dimostrarono in ritardo sui tempi e la loro azione fu inefficace e sbagliata. La manifestazione unitaria a sostegno della città e delle richieste della popolazione reggina fu decisa tardi, anche se si poteva trovare una giustificazione del ritardo nell’ancora troppo recente unificazione sindacale. L’iniziativa fu soprattutto della CGIL che però si era tenuta essa stessa per troppo tempo lontana da Reggio. Le iniziative unitarie dei Sindacato ebbero un buon successo in tutto il Mezzogiorno, ma non a Reggio Calabria, per la situazione sociale inasprita dalla rivolta. Il popolo reggino, 150.00 abitanti, fu unito nel malcontento, nell’umiliazione, nella rivolta, e i portavoce più seguiti furono i fascisti, per via della lontananza dei partiti nazionali e della sinistra. Il paradosso fu che la più grande rivolta urbana dell’Italia repubblicana si accese sotto la guida politica della destra. Certo, non tutti i reggini erano di destra, ma chi ebbe l’abilità di porsi come guida politica fu la destra, e il personaggio più rilevante fu Ciccio Franco, che assunse la statura di capopopolo capace di scendere violentemente in piazza e di farsi seguire dalla folla. Infine, la sentenza del giudice Guido Salvini sull’eversione nera negli anni ’70 sottolineò che era fortemente sospetta, ma rimaneva avvolta nel mistero, la morte in un incidente automobilistico presso Ferentino di una militante anarchica tedesca, Annalise Borth, e di altri suoi quattro amici. Secondo alcune controinchieste degli anarchici, i cinque stavano portando delle prove al giornale Umanità Nova sul coinvolgimento dei fascisti nel deragliamento nel luglio 1970 del treno Freccia del

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Sud a Palmi Calabro, con sei morti. Sempre secondo le controinchieste anarchiche, mai suffragate da prove in giudizio, i due camionisti responsabili dell’incidente sarebbero stati dipendenti di una ditta facente capo al principe nero Junio Valerio Borghese.

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