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Arte e società negli anni ’60 e ‘70 e

Arte e Politica

Arte e società negli anni ’60 e ‘70 edintorni

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Giovan Giuseppe MENNELLA

Negli anni ’60 e ‘70 del Novecento vennero al pettine nella società italiana molti nodi irrisolti dei periodi precedenti. La ricostruzione post-bellica e il miracolo economico erano stati compiuti grazie ai bassi salari e agli scarsi diritti dei lavoratori. Inoltre, la società ancora fortemente gerarchizzata non aveva riconosciuto sufficienti diritti a molti gruppi e categorie, come i giovani, gli studenti, le donne, i fedeli cattolici delle comunità di base, che iniziarono a pretenderli con azioni collettive. Si aprì quindi una stagione di forti rivendicazioni, dagli operai, agli studenti, alle donne, ai cattolici di base, cui le classi egemoni risposero con una altrettanto11

forte repressione. Da una parte scioperi, lotte sociali, occupazioni di scuole e università, cortei, dall’altra l’azione di contrasto della polizia e la violenza dei gruppi neofascisti schierati in difesa dell’ordine gerarchico e antidemocratico preesistente. Ben presto comparve anche la strategia della tensione, innescata da complotti e attentati fomentati dai servizi segreti e dalle organizzazioni sediziose neofasciste come Avanguardia nazionale e Ordine Nuovo. Di queste lotte e tensioni si fecero interpreti i gruppi artistici di avanguardia, con mostre, performances, prese di posizione, manifesti ideologici. Essi teorizzarono e poi misero in pratica l’apertura e la partecipazione dell’arte e degli artisti alle tensioni e alle rivendicazioni esistenti nella società. L’esperienza delle mostre fu ibridata a eventi di partecipazione popolare che in quel periodo si consolidarono sulle piazze e sui litorali delle coste italiane. Il giornale L’Unità del 24 giugno 1968 riportò che la Biennale d’arte di Venezia era stata inaugurata in un clima di imbarazzo, impotenza e tensioni. Nella città lagunare i fascisti avevano scagliato bombe contro l’Accademia di Belle Arti occupata ormai da quattro mesi dagli studenti. Durante l’inaugurazione della rassegna, nei padiglioni della Biennale si svolsero manifestazioni di protesta: il grido “Vietnam libero” risuonò alto nel padiglione degli Stati Uniti. Al sestiere di Castello si svolse una grande manifestazione unitaria dei gruppi di contestazione, studenti, artisti, lavoratori, gruppi politici antifascisti. Lo schieramento delle forze dell’ordine durante tutto l’arco temporale di quell’evento veneziano fu talmente grande che quella del 1968 fu definita come la “Biennale poliziotta”. L’esposizione d’arte avvenuta ad Amalfi all’inizio dell’ottobre 1968 fu definita “un vivace week-end in costa d’Amalfi”. La gloriosa repubblica marinara ospitò numerosi artisti dall’Italia e dal mondo venuti a portare il movimento dell’Arte Povera nella mostra dal titolo “Arte Povera+Azioni Povere”. Le opere d’arte furono instal-

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late nell’Antico Arsenale della città costiera e unite a spettacoli ed eventi che si dispiegarono per le piazze, le stradine e persino tra le barche tirate in secco sulla spiaggia. Quell’evento fu il terzo e ultimo di una serie di mostre organizzate dal giovane collezionista Marcello Rumma che stimolò in prima persona gli eventi. E- ra la terza mostra organizzata da Rumma ad Amalfi, dopo quella del 1966 “Aspetti del ritorno alle cose stesse” curata da Renato Barilli e quella del 1967 “L’impatto percettivo” con Alberto Boatto e Filiberto Menna come curatori. Marcello Rumma era un giovane salernitano, collezionista e gallerista, che con quell’evento riuscì a cambiare il corso dell’arte contemporanea a soli 25 anni, cosa impossibile oggi, e che sarebbe morto prematuramente a soli 28 anni. Il detonatore di quella svolta furono gli arredi e gli spazi esterni di Amalfi, dove si concentrò l’azione di un gruppo di artisti guidati da Germano Celant. Lo spirito era quello della “guerrilla” teorizzato dal critico genovese che, tra oggetti e “comportamenti”, decretò la nascita dell’arte povera. Il concetto era quello della liberazione dell’arte dalla mostra, la dematerializzazione dell’estetica e l’abbattimento delle convenzioni spaziotemporali, anche per quanto riguarda l’esposizione. Un’esemplificazione dettata anche dalla stagione storica che l’Italia stava vivendo, sulla spinta dei sessantottini. Parteciparono artisti come Yannis Kounellis, Michelangelo Pistoletto, Mario Merz, critici come Gillo Dorfles e Filiberto Menna. Richard Long stringeva le mani ai passanti, Paolo Icaro restaurava l’angolo di un palazzo, Anne Marie Boetti metteva sulle onde una zattera in polistirolo, John Dibbets provava a sistemare una linea bianca in mare, Pietro Lista seppelliva un neon acceso sotto la sabbia, Michelangelo Pistoletto suonava il fischietto con Ableo, Alighiero Boetti realizzava l’installazione Shaman-Showman, in cui l’artista torinese, accampato davanti all’ingresso, metteva insieme una trentina di gadget su una tela stesa a terra. Un ricordo di quelle performances e di Marcello Rumma è proposto in questo peri-

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odo nella mostra “I sei anni di Marcello Rumma 1965-1970”, inaugurata a Napoli al Museo Madre il 17 dicembre. Il 21 settembre 1969 si svolse a Como l’evento “Campo aperto”. Nel suo ambito ci furono eventi estetici nella dimensione collettiva urbana che videro coinvolti creativi di varie discipline, tra cui Bruno Munari, Ugo La Pietra, Enrico Baj, Gianni Colombo, Gianni Pettena, Dadamaino e Ugo Mulas. L’obiettivo era di portare la riflessione dell’arte, dell’architettura, del design, della musica, in mezzo alla gente attraverso interventi radicali partecipativi che coinvolgessero la collettività, proprio negli spazi in cui quotidianamente essa viveva. Fu memorabile la performance di Bruno Munari che visualizzò l’aria di Piazza Duomo invitando la popolazione a piegare e tagliare pezzi di carta e a lanciarli dalla torre. Dadamaino gettò quadrati di materiale fluorescente nell’acqua del lago. Gianni Pettena allestì delle clothesline di bucato violando l’ufficialità della piazza. Nell’aprile del 1971 Fabio Mauri presentò l’evento chiamato “Cosa è il fascismo?” Si svolse il 2 aprile 1971 negli studi cinematografici Safa Palatino di Roma, con la partecipazione degli allievi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, a conclusione del seminario “Gesto e comportamento nell’arte di oggi” curato da Giorgio Pressburger. Lo spunto storico fu la visita di Adolf Hitler a Firenze nel 1938, in occasione della quale la squadra degli studenti bolognesi, di cui faceva parte lo stesso Fabio Mauri con l’amico Pier Paolo Pasolini e altri giovani, vinse la competizione dei “ludi juveniles”, sorta di olimpiade culturale e sportiva che veniva organizzata periodicamente dai gruppi giovanili del Partito fascista, tra cui la GIL, Gioventù italiana del Littorio. Nel corso dell’evento di Fabio Mauri si susseguirono saggi ginnici, incontri di scherma, esibizioni di pattinaggio, sbandieramenti, inni, dibattiti culturali sull’argomento della “Mistica fascista”. L’intera a- zione della performance ideata da Mauri si svolse su di un tappeto rettangolare con

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il simbolo della svastica posto al centro di un tappeto rosso, fra tribune nere suddivise per corporazioni fasciste degli Ingegneri, Artisti, Edili, Agrari e così via, dove fu fatto sistemare un pubblico affine alle categorie. Due piccole tribune con la stella di Davide, dove erano confinati ebrei e donne, stavano a significare la discriminazione razziale del tempo fascista, che era presentata in Italia come innocua e abituale. Le musiche del repertorio classico del tempo fascista precedevano e accompagnavano lo svolgimento delle azioni. Dal podio di comando era diretta la grande adunata della GIL. Alla fine della competizione erano proiettati su uno schermo d’epoca i filmati dell’Istituto Luce, cinegiornali di notizie, pieni delle evidenti falsità della propaganda del tempo del regime. In “Che cosa è il fascismo?” il contrasto tra l’apparente normalità degli eventi e la presenza di segnali negativi generava un senso d’inquietudine progressiva e di evidenza dell’improntitudine mortale della “Bugia di Stato”, così come dell’ottimismo infondato di un popolo. Nel 1972 si svolse a Venezia la Biennale d’Arte moderna che fu detta “Biennale del comportamento”. Con il termine comportamento ci si riferiva all’insieme di e- sperienze con cui si era espresso lo spirito rivoluzionario del ’68: Minimalismo, Body Art, Land Art, installazioni, performances, Arte concettuale. Renato Barilli chiamò in totale sei artisti a esporre al padiglione Italia della rassegna veneziana. Il comportamento era caratteristica della cosiddetta Arte povera. Ci fu Mario Merz con il suo igloo e la sequenza di Fibonacci. Poi Gerry Schum, padre della videoarte, con le sue registrazioni dedicate alla Land Art, con il suo camper-laboratorio da cui trasmetteva sui monitor il meglio del suo repertorio. E ancora, altro esponente dell’arte povera, Luciano Fabro che partecipò al “comportamento” con la sua opera Piedi, cioè zampe di qualche gallinaccio, ma di puro cristallo per le zampe e preziosa seta per i gambali. Gino De Dominicis volle dare esempi di immortalità, e da

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questo la sua scelta, casuale, di ricorrere come soggetto a un ragazzo affetto dalla sindrome di down che incontrò ai giardini della biennale. Il ragazzo, piazzato in mostra, fu fatto oggetto di scherno, ma anche di benevola protezione, così come le persone usano fare verso i down. L’intenzione di De Dominicis era di fare di quell’esistenza un campione di serenità, già pervenuto in una specie di paradiso, in quanto sottratto ai problemi di tutte le persone comuni. Però, in seguito allo scatto di un fotografo, la performance fu interrotta, anche se ci resta una fotografia che testimoniò l’avvenimento. In genere, il down di De Dominicis fu purtroppo considerato come un atto di violenza dell’artista. Recentemente, alla Fondazione Prada dal 9 maggio al 24 settembre 2017, Francesco Vezzoli ha presentato la mostra “TV ’70. Guarda la RAI”. Il progetto, in collaborazione con la RAI, traduceva lo sguardo di Vezzoli in una forma visiva che e- splorava la produzione televisiva degli anni ’70, quando in Italia esisteva ancora solo la Tv pubblica. La Televisione era osservata dall’artista come una forza di cambiamento sociale e politico in un paese sospeso, in quei ’70, tra la radicalità degli anni 60 e l’edonismo degli anni ’80 e come una potente macchina di produzione culturale di identità. Considerava la televisione dei ’70 come il nostro Beauburg, l’age d’or della produzione televisiva, non a caso erano gli anni di Paolo Grassi alla direzione della RAI. Ricordiamoci che viceversa negli anni ’70 Pasolini accusò la TV di essere specchio del fascismo, non certo del cambiamento del costume. Durante quel decennio dei ’70, la RAI ripensò il proprio ruolo pedagogico e si contraddistinse per l’alto livello culturale dei prodotti, come la collaborazione con i registi Bernardo Bertolucci, Federico Fellini, Paolo e Vittorio Taviani. La televisione, divisa tra austerità formale e spinta innovativa, amplificò lo sviluppo dell’immaginario collettivo in una molteplicità di prospettive, anticipando le modalità di racconto tipiche di quella che sarebbe stata la televisione commerciale del

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decennio successivo. Diventò un medium specifico e i suoi programmi subirono una progressiva mutazione: dalla cultura transitarono nell’informazione e infine nella comunicazione. Secondo Vezzoli, la televisione degli anni ’70 produsse riti e, di conseguenza, miti assoluti e duraturi che ancora oggi, riproposti in mostra, possono ispirare scelte non convenzionali. Con una successione di documenti immateriali delle teche RAI, accostati alla materialità di dipinti, sculture e installazioni, la mostra di Vezzoli si articolava in tre sezioni: relazioni della televisione pubblica italiana con l’arte, con la politica, con l’intrattenimento. Si concludeva, all’interno della sala cinematografica della Fondazione Prada, con una sua nuova opera, intitolata Trilogia della RAI, costituita da un montaggio di estratti televisivi. L’artista inseriva icone che avevano segnato la sua infanzia e la sua adolescenza all’interno del flusso televisivo dai generi e registri diversi, trasformando i filmati d’archivio in una materia viva e la memoria personale intima in una narrazione condivisa. Mescolava in un palinsesto serrato le tracce di contraddizioni e aspirazioni di un Paese che si specchiava nella sua produzione mediatica. Nella sala cinematografica era esposta l’installazione di Gianni Pettena del 1968 dal titolo “Applausi”, un invito ironico rivolto al visitatore che viveva la doppia e ambigua condizione di spettatore televisivo e nello stesso tempo spettatore di una mostra d’arte. Nel 1972 Fabio Mauri propose una performance all’interno della trasmissione Happening per il secondo canale della televisione italiana, dopo una esemplificazione storica dei primi happening statunitensi di Allan Kaprow e altri. Nella performance comparivano le immagini dell’autore di fronte a uno schermo con la scritta “The End”. Quindi la trasmissione si interrompeva, come per un guasto, producendo circa 60 secondi di vuoto. Sotto l’immagine bianca si sentiva un pianto dolente. Tornava sullo schermo la scritta “il televisore che piange” e quindi la telecamera

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inquadrava di nuovo la scritta “The End”. Molti utenti telefonarono alla RAI per chiedere il motivo dello strano e prolungato guasto e chi era quel personaggio che piangeva nel vuoto dello schermo. Il pianto, nell’intenzione di Mauri, era politico, addolorato per le contraddizioni della vita e per la situazione politica molto problematica in Italia. Invita lo spettatore a chiedersi che cosa possa succedere con quel mezzo di comunicazione. Ketty La Rocca (1938-1976) fu un’altra artista che indagò sul rapporto dell’arte con le manifestazioni più evidenti della vita sociale e delle sue evoluzioni e contraddizioni. Aderì al Gruppo ’70, artisti e poeti visivi che decisero di creare un moderno volgare, il cui lessico proveniva dall’ambito della comunicazione di massa, cioè dai quotidiani, dai rotocalchi, dalla pubblicità e dai fumetti. Utilizzò e miscelò i più svariati media, dal collage poetico-visivo, alla fotografia, al libro d’artista, al video. Il suo lavoro, nella sua breve vita durata trentotto anni, si pose in un punto di connessione e di passaggio tra le ricerche primo-novecentesche di un’arte “totale” alle contemporanee pratiche multimediali. Già verso la metà degli anni ’60 produsse lavori che rilevavano con incisività e sarcasmo la reificazione del corpo femminile nella società consumistica, come nel caso di “Dolore…come natura crea”, in cui il volto compunto di una donna era attorniato da dettagli corporei seduttivi o “Non commettere sorpassi impuri”, dove la classica bionda provocante era circondata dalla sagoma ripetuta di un borghese letteralmente “piccolo”, cioè minuscolo (un montaggio, forse ispirato dalle “Tentazioni del dottor Antonio”, l’episodio con regia di Fellini e interpretazione di Peppino De Filippo del film Boccaccio ’70 ). Queste composizioni per frammenti, tipiche delle ricerche verbovisuali dell’epoca, in cui era visibile il prelievo diretto da giornale o da rotocalco, erano affiancate da pannelli più ampi in cui il connubio si fondeva in un’unica immagine, quasi a voler raggiungere un grado di compiutezza.

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Un’altra riflessione artistica sulla donna nella società dei consumi fu fatta da Giosetta Fioroni. Nel 1968 a Roma, alla galleria La Tartaruga di Plinio De Martis, dove si erano formati gli artisti della scuola di Piazza del Popolo, la Fioroni ideò l’installazione “Spia ottica”. In una stanza chiusa della galleria di De Martis, un’attrice, Giuliana Calandra, amica dell’artista e sua alter ego, mimava la giornata di una donna annoiata nella sua camera. Si truccava, si vestiva, si metteva il cappotto, usciva, rientrava, guardava una rivista, spegneva la luce, riaccendeva la luce, il tutto secondo un rituale ideato, sceneggiato e diretto dall’artista stessa. Una parte dell’arredamento della stanza era proprio quello della camera da letto della Fioroni, precisamente la testata arancione del letto. L’originalità risiedeva nel fatto che i visitatori potevano guardarla solo da uno spioncino, perché la porta era chiusa. Il visitatore come spettatore-voyeur che entrava in uno spazio privato e lo osservava senza essere autorizzato. La spia ottica rimpiccioliva l’immagine, per cui si vedeva tutto come in una sorta di lanterna magica e tutti i movimenti sembravano lievemente più lenti. La spia ottica, con la sua piccola lente, raccontava una visione resa più irreale e magica. Secondo una sua testimonianza recente, Giosetta Fioroni a- vrebbe voluto dare all’installazione il titolo “Una donna sola che si annoia”, ma poi lo cambiò in “Spia ottica”, ritenendolo più rappresentativo. Per la cronaca recente, va sottolineato che Francesco Vezzoli, nella sua già sopracitata mostra del 2017 “TV 70 guarda la Rai”, ha voluto ricostruire e citare proprio quella installazione del 1968. Nel 1978 ci fu la concomitanza tra il rapimento Moro e il grande successo della proiezione del film “La febbre del sabato sera”. L’anno successivo, il 1979, aumentarono a dismisura le discoteche e l’esigenza del divertimento puro, come se si passasse dalla solidarietà all’egoismo. Dalla cupezza dei colori degli anni di piombo si passava alla fantasmagoria dei vestiti di Fiorucci. Alcuni osservatori hanno notato

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acutamente che la vicenda di Moro chiude il ‘900 con la sua violenza e “La febbre” preconizza il futuro. Ancora una volta Francesco Vezzoli nella sua mostra TV 70 ha colto l’ambivalenza della società italiana in quello snodo decisivo, mettendo l’accento sull’importanza socio-culturale del successo, in quella fine dei ’70, di trasmissioni televisive come “Mille Luci” e “Ma che sera”. Nel suo film sul rapimento di Aldo Moro, “Buongiorno, notte”, Marco Bellocchio filma i rapitori mentre guardano alla televisione proprio “Ma che sera” con Raffaella Carrà. E il cerchio, forse il corto circuito, tra società e arte si chiude davvero.

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