* Nicola Calzaretta
ALLA RICERCA DEL CALCIO PERDUTO
GOALBOOK
Demetrio Albertini I illustrazione di Marco Finizio
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Demetrio Albertini << Finale di Coppa dei Campioni contro il Barcellona. In fila nel sottopassaggio, prima di entrare in campo. Tra di noi, i piu` bassi eravamo io e Donadoni. Di la` erano tutti piccolini: da Romario a Ferrer ad Amor. Ci guardammo e si disse: perderemo anche, ma li facciamo saltare per aria questi qua ! >>
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hissà, forse non ci pensava neanche lui che a carriera finita gli si sarebbero aperte le porte del governo del calcio. L’idea, dopo venti anni di pallone ad altissimo livello, era quella di non andare troppo lontano da quel mondo, muovendosi magari per le linee orizzontali. Invece, specie dopo gli sconquassi di Calciopoli, per Demetrio Albertini, nato a Besana in Brianza il 23 agosto 1971, l’ascesa è stata repentina. Vice presidente della FIGC, ruolo vero, incarico operativo, non di facciata come talvolta è capitato a qualche glorioso ex. Dal 2007 vice di Abete in federazione e tre anni dopo nominato presidente del Club Italia, struttura che ha come compito istituzionale quello di “unificare e coordinare la gestione di tutte le squadre nazionali”. Un presente impegnativo per Albertini, figlio di un recente passato giocato a testa alta e con il coraggio delle proprie idee. Centrale di centrocampo, tempi e ritmi comandati da lui, non a caso ribattezzato “metronomo”. Cresciuto nel vivaio del Milan e con il Milan arrivato sul tetto d’Europa. Il rossonero come seconda pelle e, lui ci sperava, come unica maglia. Non sarà così. Il pallone rotola da altre parti, perfino oltre confine. Esperienze formative, che si innestano su un tronco ben radicato. E che lo portano, dopo appena due anni dal ritiro, alle cariche dirigenziali di oggi.
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Da dove partiamo Demetrio con l’amarcord? Dalla stagione 1993-94, credo l’annata più significativa della mia carriera. Titolare nel Milan, in pianta stabile nel giro della Nazionale. E alla fine vinsi scudetto e Coppa Campioni, la mia prima vera Coppa dei Campioni. Per wikipedia sono tre. Ero nella rosa del Milan nel 1989 e anche l’anno dopo, ma in realtà non ho mai giocato, non posso dire di averle vinte. Semmai io c’ero nel 1993, quando perdemmo con il Marsiglia. Una gran-
dissima delusione. Mi capitò per la prima volta di piangere. Cosa non funzionò quella sera? In Champions non avevamo mai perso. Arrivammo alla finale come favoriti e questo, però, ci fece più male che bene. Non stavamo bene. Van Basten era a mezzo servizio. In più sbagliammo dei gol, e quando fai tanti errori, alla fine paghi. E ci resti malissimo. Il pianto, a quel punto, è lo sfogo naturale. Volevo anch’io, come i miei compagni, la foto mentre alzo la Coppa. Loro ce
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l’avevano, io ancora no. Ma furono proprio loro, i più anziani, a tranquillizzarmi. Soprattutto Franco Baresi. Cosa insegnano questi momenti? Sono lezioni di vita. Questo è lo sport, con il suo vero messaggio. Poi c’è l’elaborazione del messaggio: resettare per ripartire. Qui sta la chiave del successo. E in questo il Milan di quegli anni era maestro. L’operazione di reset vale anche per continuare a vincere? Sì. Il vincere aiuta a sapere cosa si prova quando raggiungi un obbiettivo. Conosci la strada. Ma per rivincere, devi fare piazza pulita e liberare la mente. Per fare questo occorrono costanza e passione. E una base solida, aggiungerei. E’ così. Io devo ringraziare i miei genitori. Ho imparato strada facendo a dare peso alle cose veramente importanti. Sono andato via da casa presto, ho continuato a studiare fino al diploma di geometra. In questo percorso mi ha aiutato molto guardare i compagni più grandi. Si impara tantissimo da chi ha più esperienza di te. Tu, comunque, sei stato molto precoce. A 17 anni debuttavi già in Serie A. Sacchi mi fece esordire il 15 gennaio 1989. Feci una partita anche nella stagione successiva. Mi dicevano tutti che ero bravo, però, di fatto non giocavo mai. Si parlava tanto di futuro e non di presente. E questo un po’ mi pesava. Così, quando è arrivata l’occasione del Padova, l’hai presa al volo. La stagione 90-91 era già iniziata. A novembre ecco la richiesta del Padova che faceva la Serie B. Avevo troppa voglia di confrontarmi, di mettermi alla prova. Andai contro persino al presidente Berlusconi che si era raccomandato con
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me perché non lasciassi il Milan. “Sono andati via in tanti e quasi nessuno è tornato. Rimani qua. Giochi un po’ meno, ma almeno non rischi di perderti”. Hai avuto ragione tu: non ti sei perso. (ride) Direi proprio di no, anche se l’impatto con il calcio vero è stato forte. Passare dalle poche centinaia di persone che seguivano le partite della Primavera ai quindicimila dell’Appiani non è stato semplice. Ho provato per la prima volta l’emozione vera. Ma me la sono cavata bene, l’anno di Padova è stato fondamentale per la mia carriera. Arrivò anche la prima convocazione in Under 21. Prova superata e ritorno al Milan. Dove non c’è più Arrigo Sacchi, ma Fabio Capello. Sacchi o Capello, non faceva differenza. Dovevo dimostrare di poter giocare con il Milan. Come è stato il tuo rapporto con gli allenatori? Ci ho sempre discusso. Anche duramente, lontano dalle telecamere e dai taccuini, però. Poi alla fine si andava in campo e ci si allenava. Ho sempre preso di petto le situazioni. Credo che le tue ragioni vadano sempre dette, con lealtà e fermezza e al momento giusto. Ho fatto così con tutti gli allenatori, nessuno escluso. Sempre al chiuso dello spogliatoio. E lì sono rimaste. Adesso potrebbero essere tirate fuori, che ne dici? Per il Guerino dico di sì. Non l’ho mai fatto prima. Mi confido volentieri anche perché non c’è nessun rammarico, ma grande serenità. Come tutte le cose della vita, anche queste situazioni vanno contestualizzate e viste nell’ottica del giocatore. L’altra cosa bella è che i rapporti con quelli che sono stati i miei
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allenatori sono tutti positivi. Raccolta la dichiarazione d’intenti, partiamo con Arrigo Sacchi. Con lui lo scontro ci fu durante la stagione 96-97. Ero uno dei più anziani, avevo già delle responsabilità non da poco, ero in Nazionale. Insomma, vengo a sapere che non avrei giocato da un mio compagno. Lo affrontai e gli dissi: me lo devi dire tu che non gioco, direttamente, e non gli altri. Fu un’annata un po’ balorda quella, vero? Una delle peggiori vissute al Milan. Iniziammo con Tabarez, poi ci fu il ritorno di Sacchi. Undicesimo posto finale. Fu l’ultima stagione di Baresi e Tassotti. E’ il turno di Fabio Capello adesso. Con lui ci fu una cosa strana. Un martedì si arrabbia tantissimo con me per una punizione battuta male in partita. Ma io in quel momento ero in panchina e lui lo sapeva benissimo. Allora capisco che, in realtà, invece di prendersela con qualche “anziano”, se la rifà con me. Anche con lui il chiarimento è stato diretto e senza tanti giri di parole. Con Capello hai toccato i tuoi livelli più alti di rendimento e di successi. Dal ‘91 al ‘94 abbiamo vinto tutto, frantumando ogni record. Ci chiamavano il Milan degli invincibili. Capello è stato un ottimo allenatore. A differenza di Sacchi, che appartiene alla categoria di quelli che insegnano a giocare di squadra, Fabio riesce a tirare fuori il meglio da ogni giocatore. Con lui siete ripartiti nell’estate del 1993 dopo la delusione Marsiglia: con quali obbiettivi? Semplice: confermarsi in Italia, ma soprattutto riscattarsi in Europa. La squadra era cambiata, però. Non c’era
più Van Basten. E Capello, ad un certo punto, inventò un modulo senza veri centravanti di ruolo, visto che davanti giocavano spesso Savicevic e Massaro. Fu un’anticipazione del calcio moderno. Il campionato fu vinto a mani basse. La vittoria nel derby di marzo fu l’ultimo strappo decisivo. Lo scudetto arrivò con due giornate d’anticipo dopo il 2-2 con l’Udinese. Nel frattempo Seba Rossi stabilì il nuovo record d’imbattibilità che apparteneva a Zoff dal 1973, a conferma che avevamo una difesa solidissima. Però nell’ultima di campionato perdeste con la Reggiana che si salvò a danno del Piacenza. Fu una partita vera. Le accuse che ci arrivarono erano del tutto infondate. Tra l’altro Taffarel fece grandi parate. Di vero c’è che probabilmente la testa era già alla finale di Coppa Campioni contro il Barcellona in programma quindici giorni dopo. Questo l’unico motivo, in aggiunta al fatto che Capello doveva provare un nuovo assetto difensivo visto che per Atene non poteva contare su Baresi e Costacurta, squalificati. Che soluzioni aveva? Intanto il recupero di Filippo Galli, un vero campione. Poi c’era l’idea di arretrare Desailly. Marcel era arrivato a novembre e Capello lo aveva sempre schierato davanti alla difesa, mentre con la sua nazionale giocava centrale difensivo. Ma con il Milan Marcel era in difficoltà a stare dietro perché non era capace di giocare in linea. E allora? Allora torna il discorso che facevo prima riguardo alle doti di Capello di saper trarre il massimo dagli uomini: spostò Paolo Maldini al centro in coppia con
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Filippo Galli e inventò Panucci terzino sinistro. Il morale com’era? Le assenze erano pesanti, ma c’era molta convinzione. Io mi sentivo bene, motivato. Il gol contro il Monaco nella semifinale secca giocata a San Siro è forse la rete più importante di tutta mia carriera. Sul finire del primo tempo era stato espulso Costacurta. Il mio gol a pochi minuti dall’inizio del secondo tempo fu fondamentale. E fu anche bello, botta di destro all’incrocio. Mancava solo l’ultimo atto. Partiamo dalla vigilia. Il Barcellona era favorito e questo poteva anche starci bene, visto quel che era successo l’anno prima. Ma i giornali spagnoli ci trattarono a pesci in faccia. Cosa accadde nello specifico? Dapprima uscì un’intervista a Cruyff, l’allenatore del Barca, che per rimarcare le diverse filosofie tra la sua società e il Milan, disse in soldoni: loro hanno preso Desailly, noi Romario. Poi, il giorno della finale, fu pubblicata una sua foto con la Coppa dei Campioni, come a dire: è già nelle nostre mani. Le vostre reazioni? Vorrei prima dire questo: fino a qualche anno fa gli spagnoli avevano nei nostri confronti una sorta di complesso di inferiorità. Ricordo che ancora nel 2003 con tre italiane nelle semifinali di Champions, ci furono critiche esagerate e prevenute nei confronti del calcio italiano. La Spagna ha cominciato a vincere a livello internazionale quando è cambiato questo suo atteggiamento. Prima erano molto presuntosi nell’approccio all’evento. Posso dire che anche Guardiola ha imparato molto dalla sua esperienza dalle nostre parti.
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Disamina chiarissima, ma le vostre reazioni quali furono? Noi eravamo carichi, carichi, carichi. Non puoi immaginare quelle parole e quella foto quanta benzina abbiano messo sul nostro fuoco. Ricorderò sempre quando ci trovammo in fila nel sottopassaggio, prima di entrare in campo. Tra di noi, i più bassi eravamo io e Donadoni. Di là erano tutti piccolini: da Romario a Ferrer ad Amor. Ci guardammo e si disse: perderemo anche, ma li facciamo saltare per aria questi qua! E invece finì 4-0 per voi Fu un trionfo, anche superiore alla nostra immaginazione. Eravamo in grande condizione e tranquilli, nonostante le assenze che oggettivamente erano pesanti. La doppietta di Massaro nel primo tempo ci spianò la strada, poi arrivò la magia di Savicevic. Io misi lo zampino nell’ultimo gol, passando il pallone a Desailly mentre stavo cadendo. 4-0 e manca ancora più di mezzora alla fine: che sensazioni hai provato? E’ una cosa particolare. E’ l’attesa, stupenda, di quel che accadrà di lì a poco. Certo, sei sempre concentrato, è una finale, non si può mai sapere. Ma più passano i minuti e più i brividi ti invadono. E quando l’arbitro fischia? Lì ho provato gioia doppia, che ha completamente azzerato la delusione dell’anno prima. Finalmente alzavo anch’io la Coppa dei Campioni, una conquista che mi ha dato un senso di appagamento incredibile. C’è un’altra vittoria che ti ha dato le stesse sensazioni? Lo scudetto del ‘98-99, quello vinto con mister Zaccheroni, al suo primo anno al Milan, dopo la rimonta nei confronti della Lazio.
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E’ vero che Zaccheroni stravedeva per te? Diceva che ero il suo giocatore ideale. Fu un inizio di stagione faticoso per me, al mondiale mi ero infortunato e per questo iniziai a lavorare prima degli altri. Mi curo e nel frattempo parlo moltissimo con Zaccheroni. In effetti la sua è una nuova filosofia di gioco, molto intrigante. Ma alla terza giornata il Milan viene sconfitto in casa per 3-1 dalla Fiorentina. E lì San Siro capì che la squadra aveva bisogno di tempo. I tifosi ci incoraggiarono. Per noi fu una fortissima carica, soprattutto in relazione alle ultime due stagioni precedenti e ai tanti fischi presi. Quali furono le svolte epocali di quella stagione? La prima fu l’inserimento di Ambrosini al posto di Boban, più o meno a metà campionato. Zvone ci rimase male, iniziò a bollire come una pentola a pressione. Fondamentale poi, anche se frutto del caso, la scoperta di Abbiati. Era il terzo portiere all’inizio, finì per diventare uno dei protagonisti assoluti dello scudetto. E poi quali furono gli altri momenti top? Intanto la staffetta Leonardo-Boban, schema fisso delle ultime sei giornate. Fu un’intuizione geniale, sotto tutti i punti di vista. Da quello tattico perché la squadra poteva contare su una maggiore varietà di soluzioni, tutte di altissima qualità. Sul piano psicologico, aver recuperato un fuoriclasse come Boban alla causa, fu un giovamento per tutti. C’è dell’altro? Beh, sì. Ad un certo punto la Lazio che sembrava irraggiungibile, era a vista.
Zac volle parlare con Maldini, Costacurta e il sottoscritto. Dopo quel confronto, il mister decise di cambiare lo schema offensivo: dai tre larghi, si passò a due punte (Weah e Bierhoff ), più una mezzapunta. Per il traguardo finale manca solo un pizzico di fortuna. (ride) Che arriva con il 3-2 alla Sampdoria del 2 maggio 1999. Siamo sul 2-2, in pienissimo recupero. Loro sbagliano e noi attacchiamo. Ne viene fuori un corner. Va stranamente Ambrosini, uno che non arrivava a due metri dalla lunetta. Pallone che, invece, vola fino a Ganz, tiro loffio, nessuna speranza di far male. E invece Castellini, un difensore della Samp, lo tocca e fa autogol. L’apoteosi è a Perugia, ultima di campionato, 23 maggio 1999. Una partita straordinaria, bellissima. Vincemmo 2-1. La Lazio che avevamo superato la domenica prima, non ci prende più. A Perugia non c’è stata solo la gioia per la conquista del campionato. E’ stato anche il giorno che ha sancito la riconciliazione tra i tifosi e noi della vecchia guardia dopo la clamorosa contestazione dell’anno prima. Quello del ‘99 è stato uno scudetto con un sapore del tutto particolare, tra i più festeggiati della mia carriera. Ma con Zaccheroni tutto liscio? No. Anche con lui non è mancato lo scontro. E’ successo l’anno dopo, quando per alcune partite sono stato fuori, ed ero nel mio momento migliore. Fu una situazione strana. Si giocava spesso con più di tre attaccanti. Dopo che sono uscito io, Zac ha cambiato schema. Ma come, dico, non potevi cambiare lasciandomi dentro? Il colmo ci fu dopo la partita con la Lazio, il 20 febbraio 2000.
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Ritorno in campo, novanta minuti alla grande e Zaccheroni a fine gara, visto che non ero fra i convocati per l’amichevole contro la Svezia del 23 febbraio, dichiara che Zoff avrebbe dovuto chiamarmi in Nazionale. Ma come faceva se ero stato fuori squadra per alcune settimane? A proposito di Zoff e Nazionale: che ricordi conservi della tua esperienza in azzurro? La prima cosa l’esordio, il 21 dicembre 1991 contro Cipro, mi chiamò Sacchi. Poi la prima grande emozione, il mondiale in USA nel 1994. Non avevo ancora 23 anni. Partimmo con difficoltà, poi siamo cresciuti fino alla semifinale contro la Bulgaria, per me la migliore partita di tutto il torneo, tra l’altro con un mio assist per Roberto Baggio. E della finale di Pasadena, cosa ti è rimasto? Con il senno di poi devo dire che, seppure in maniera strisciante e subdola, era subentrata in noi un po’ la sensazione dell’appagamento. Non te ne accorgi in tempo reale, lo percepisci dopo. E’ un po’ quello che è successo, a mio avviso, alla Nazionale di Prandelli all’ultimo Europeo. Sul dischetto per i rigori finali ci sei anche tu. Beata incoscienza. Prima di quel giorno non avevo mai tirato un rigore in partite ufficiali. So che mio padre che era in tribuna disse: Si rovina la carriera! Io non avevo pensieri. Minotti mi aveva appena detto che Taffarel, suo ex compagno di squadra, si buttava bene sulla sua destra. E io che avevo deciso di tirarlo proprio lì, non cambiai angolo. Anche se la porta dagli undici metri è veramente piccola. Delusione?
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Francamente non tantissima. Una volta segnato il rigore, mi sono placato. Ho provato molto più dolore quando ho fallito dal dischetto nel 1998 e soprattutto quando abbiamo perso l’Europeo nel 2000. Come è potuto accadere? Non lo so. Fu un grande torneo, giocato da leader nel mio periodo migliore. Stampa contro e noi uniti verso l’obbiettivo. Zoff fu bravo, un CT capace di difendere il gruppo dall’alto della sua enorme personalità. Facemmo miracoli contro l’Olanda, in inferiorità numerica e con due rigori contro. Bellissima la battuta di un mio compagno alla fine della partita: “Li abbiamo rinchiusi nella nostra area di rigore e non li abbiamo fatti più uscire!”. Magari il motivo della nostra sconfitta in finale con la Francia sta proprio nella fortuna: quello che ci ha dato in semifinale, ci ha tolto nella finale. La tua avventura con la Nazionale dura ancora per poco. Fino al marzo 2002. Saltai i mondiali per l’infortunio al tendine d’Achille. Recupero, ma Trapattoni mi telefona due volte per dirmi che non mi convoca, con delle motivazioni che non mi convincono. E glielo dico chiaro e tondo. Come sempre Nel frattempo eri già volato in Spagna, giusto? Eh già. Ero entrato al Milan a undici anni. Non avrei mai voluto cambiare maglia, né società. Il Milan dei miei primi anni viveva momenti difficili. Quando c’era Farina presidente e cambiò lo sponsor poco prima che iniziasse la stagione, noi del settore giovanile si giocava con la maglia al contrario. Quanto hai dato al Milan?
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Credo di avere dato molto. Non solo in campo. Quando arrivavano i nuovi stranieri, per esempio, li portavo fuori a mangiare oppure venivano direttamente a casa mia. Visto che mi ero sposato giovane, il frigo era sempre pieno. Io vivevo la società 24 ore su 24. E poi cosa è successo? Intanto c’è stata la frattura con Ancelotti. Con lui ho avuto la litigata più grossa. La cronaca. Vigilia di Juventus – Milan in programma il 14 aprile 2002. Per tutta la settimana Carlo mi dice che è la mia partita, che devo fare gol e poi, un’ora prima della partita, gira la lavagna dove ha scritto la formazione e il mio nome non c’è. Non credo ai miei occhi. Lo stesso capita a Gattuso e Pirlo che vengono a sapere anche loro in quel momento della mia esclusione. Ma porca miseria, se vuoi giocare diversamente, dimmelo, non ci sono problemi. Ma non che pompi per una settimana e poi fai retromarcia senza dirmi nulla. E tu che fai? Dopo l’ho cercato al telefono, ma lui non mi rispondeva. Quando lo becco, gliene dico tantissime. So che Carletto dopo il mio sfogo, sorridendo ha detto “Speriamo che Demetrio mi abbia detto tutto!”. Per colmo di sfortuna, in quella partita sono entrato dalla panchina e mi sono rotto il tendine d’Achille. Rottura insanabile anche con il Milan? Per la società ero un peso. Mi hanno trattato male. La frase più brutta è stata che non avrebbero voluto tra loro il capitano degli scontenti. Pensa te! A Galliani l’ho detto tante volte: la sofferenza passa, l’aver sofferto no. Meglio emigrare a quel punto?
Arrivò l’occasione dell’Atletico Madrid. Un cambio di vita che mi interessava. Andai ad abitare in centro per capire meglio la città, l’ambiente, i tifosi. Un abisso con l’Italia. La sera prima del derby con il Real passeggiavo con la mia famiglia, in tutta serenità. Mi si avvicinarono alcuni tifosi e mi dissero: “Speriamo di avere un po’ di fortuna”. Quando ero alla Lazio, prima del derby, andai al Gianicolo. Mi videro, ma dissero che non ero io. Era impossibile che fossi lì, non ci dovevo essere. Per non parlare degli allenamenti. Qui da noi l’eccezione è l’allenamento a porte aperte, là è la regola. Soddisfatto delle tue esperienze lontano dal Milan? Sì, mi hanno arricchito. Anche dal lato sportivo, con altre vittorie: la Coppa Italia con la Lazio nel 2004 e la Liga con il Barcellona nel 2005 quando ho deciso di smettere. Dura chiudere con il calcio giocato? Ci sono arrivato per gradi, non ho sentito molto il distacco. Merito anche di quel che è accaduto la sera del 15 marzo 2006, la tua partita d’addio: Milan - Barcellona. Una festa senza precedenti. Quella è la perfetta sintesi della mia carriera di calciatore, di quello che sono riuscito a seminare nello spogliatoio. Sono venuti tutti i big con cui ho giocato: a San Siro c’erano otto palloni d’oro. Guardiola si arrabbiò perché era in Messico e non riusciva a venire. Desailly mi disse: “Solo tu potevi organizzare una cosa così”. La conferenza stampa la facesti a Palazzo Marino. Dalla città di Milano ho avuto una risposta incredibile. Il presidente del Bar-
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cellona, quando gli dissi che avrei voluto fare una partita d’addio, mi consegnò le chiavi del Nou Camp. Ma scelsi San Siro, il mio stadio. L’affitto me lo sono pagato da solo, mentre l’incasso, 430.000 euro, è stato devoluto tutto in beneficenza. Il MundoDeportivo che per la sfida di Champions tra Barcellona e Chelsea aveva mandato sette inviati, alla mia gara d’addio ne inviò otto. Qual è stata la cosa che più ti ha emozionato quella sera? Difficile scegliere. Conservo, però, ancora un biglietto di un compagno rimasto anonimo: “Scusami perché solo oggi ho capito quanto eri importante nello spogliatoio”. Parole che hanno un grande peso. E l’Albertini dirigente che messaggio vorrebbe ricevere il giorno del suo addio tra cento anni? Mi piacerebbe che ci fosse un ringraziamento perché ho contribuito a riportare lo sport al centro del progetto calcio. Questo è il mio obbiettivo. Oggi il mercato è predominante, anche nei settori giovanili. Mi chiedo cosa vogliamo essere: se un’officina per gli altri campionati o per il nostro? La ricetta per ripartire c’è, ma ci vuole costanza e pazienza e, soprattutto, occorre andare alla ricerca della verità ed essere disposti ad accettarla, senza dimenticare una prerogativa tutta nostra: il senso di appartenenza del tifoso. Direi che abbiamo finito. Un’ultima curiosità: dove hai appeso la foto che ti immortala mentre alzi la Coppa dei Campioni? Da nessuna parte. Non ce l’ho.
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Enrico Albertosi << Mi piaceva tuffarmi, andare a prendere il pallone con le mani, possibilmente bloccarlo. Respinte di pugno ne ho fatte poche. Ero sicuro dei miei mezzi, avevo una forte personalita`. Non soffrivo la vigilia. E in partita ero sempre spavaldo. Se subivo un gol, la colpa non era mai mia >>
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attina presto, fuori una bella tramontana che pulisce l’aria. Bar nel centro di Forte dei Marmi, cuore della Versilia. Il regno di Enrico Albertosi da Pontremoli, giovane settantenne tornato alla vita dopo il freddo buio di qualche anno fa che aveva fatto temere il peggio. Acqua passata. Ricky da anni ormai ha messo radici in questo angolo di Toscana benedetto da madre natura. Clima eccezionale, cielo azzurro, ampie pinete e spiagge sabbiose accarezzate dal Mediterraneo. Mar Ligure o Tirreno? Le diatribe vanno avanti da secoli e ancora oggi danno da penare ai geografi. Davanti al caffè e al cornetto alla crema ancora caldo, a dire il vero, il problema dei confini marittimi sfiora appena la discussione. Ci sono argomenti di altra natura da trattare con Albertosi, classe 1939, numero uno di ruolo e di fatto per più di venti anni. Portiere del Cagliari scudetto e vicecampione del mondo in Messico ’70. Il naso porta i segni dei mille colpi presi. Sul baffo, qualche spruzzata di sale. Il capello è pettinato all’indietro, più corto rispetto alle sue ultime Panini, fine anni Settanta. Albertosi è al Milan. E’ lui il portiere della squadra rossonera che riesce a tagliare il traguardo del decimo scudetto. Quello della stella.
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Ricky, qual è il primo flash legato al campionato 78-79? La corsa liberatoria che feci per andare ad abbracciare Walter De Vecchi, autore del gol del pareggio contro l’Inter, a pochi secondi dalla fine. Mi feci mezzo campo a cento all’ora. Una gioia unica. Ricordo ancora la data: 18 marzo 1979. Fu la partita della svolta? Sì. Era la ventiduesima giornata, un terzo del campionato in pratica. Perdere terreno in quel momento sarebbe stato pericoloso sotto tutti i punti di vista. E noi, a dieci minuti dalla fine eravamo sotto di due gol. Occorreva un altro miracolo.
Perché “un altro”? Perché all’inizio del secondo tempo, sullo 0-0, io avevo già parato un rigore ad Altobelli. Destro a mezz’altezza, ma angolato e veloce. Mi tuffosulla mia sinistra, e con la mano di richiamo metto il pallone in calcio d’angolo. Venne giù San Siro. Senza dimenticare ciò che disse Ameri in diretta a “Tutto il calcio minuto per minuto”. Cosa disse? “Il vecchiaccio è riuscito a fare una cosa eccezionale”. Aveva ragione. Sia per la prodezza, sia per l’appellativo. Ma se non avevi ancora compiuto quarant’anni!
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(ride) E’ vero, mancavano ancora otto mesi! A parte gli scherzi: l’età c’era tutta. Qualche settimana prima avevo persino tagliato il traguardo delle cinquecento partite in Serie A. Ma io non sentivo alcun peso e vedevo il fine carriera ancora molto lontano. Stavo bene, nel corpo e nell’anima. Tanto da scattare al novantesimo come un centometrista per rincorrere De Vecchi! Ecco, l’altro miracolo lo fece proprio lui segnando una doppietta pesantissima. Primo gol su punizione da fuori area all’ottantesimo. Secondo con un altro destro dal limite un minuto prima del fischio finale. Due bolidi, anche se Bordon un po’ ci dormì sopra. La tua vena polemica non ti ha abbandonato. Nessuna polemica. Su due conclusioni così, per quanto De Vecchi avesse un tiro molto potente, si poteva fare di più. Punto. Di portieri me ne intendo. E tu che portiere sei stato? Contribuivo allo spettacolo. Mi piaceva tuffarmi, andare a prendere il pallone con le mani, possibilmente bloccarlo. Respinte di pugno ne ho fatte poche. Ero sicuro dei miei mezzi, avevo una forte personalità. Non soffrivo la vigilia. E in partita ero sempre spavaldo. Se subivo un gol, la colpa non era mai mia. Mi arrabbiavo con i difensori, li trattavo male. Serviva per disorientare gli avverarsi. E anche i giornalisti. Un grande attore. Faceva parte del pacchetto.Con le mie uscite, volevo suscitare la reazione dei compagni. E poi all’avversario non devi mai dare l’impressione che sei un debole. Devi dimostrare che hai carattere. Come quando mi tiravano da lontano
ed io bloccavo il pallone al volo senza mostrare il minimo sforzo. L’attaccante deve avere vita dura. Curiosità: dei tuoi colleghi di oggi cosa dici? A parte pochi fuoriclasse tra cui Buffon, i portieri di oggi mi preoccupano: vedo errori elementari, la posizione non si sa cos’è. Eppure oggi tutti hanno il preparatore specifico. Mi chiedo: saranno tutti capaci di insegnare? E poi, questa moda delle maniche tagliate… Lo dici proprio tu che sei stato uno dei più trasgressivi anche nell’abbigliamento? La scelta del colore della maglia è un’altra cosa. Rispecchia il tuo essere, la tua personalità. Io per questo non ho mai sopportato il nero, né il grigio, anche se nei primi anni alla Fiorentina si usava, così come in Nazionale dove era impossibile cambiare. Sono stato il primo a indossare maglie colorate. A Cagliari ho portato quasi sempre una divisa rossa. Con il Milan, invece, ho scelto il giallo. Ma alla base c’era anche un motivo strategico. Ossia? La maglia colorata confonde le idee all’attaccante, dà l’impressione che il portiere copra meglio e di più la porta. Le mezze maniche, invece, non servono a nulla. E i guanti? Io li ho usati poco e quel poco sul finire di carriera. Anche perché ormai le dita erano ridotte malissimo. Mi è sempre piaciuto “sentire” il pallone con le mani nude. Ho imparato da Giuliano Sarti. Solo quando pioveva o faceva molto freddo mettevo dei guanti di lana. Talvolta sui palmi erano cucite delle strisce di gomma, come quella delle racchette
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da ping-pong. Quelli professionali sono arrivati a fine anni Settanta. Quel 18 marzo 1979 avevi i guanti? Sì. E anche il maglione giallo, molto sporco di fango, devo dire. Fu una battaglia, un derby vero. E il 2-2 acciuffato nel finale ci fece capire che caratterialmente non ci avrebbe buttati giù nessuno. Nemmeno il Perugia che non perdeva mai? Ma vinceva anche poco. Comunque sia la risposta la dette il campo, tre giornate dopo il derby. Andammo a Perugia e facemmo 1-1. Noi avanti di due punti e con quattro partite da gestire da lì alla fine del campionato. Sentivamo l’aria farsi più dolce. C’è stato un ultimo brivido prima della conquista della stella? Sì, nella partita interna con il Verona già retrocesso. Sbagliammo l’approccio, il primo tempo fu un mezzo disastro e prendemmo un gol da Egidio Calloni. La vendetta dell’ex? Può darsi che avesse il dente avvelenato. San Siro gli ha sempre perdonato poco, ma era un bravo centravanti. Fece l’10 e lo stadio si ammutolì. Per fortuna Rivera e Novellino nel secondo tempo riuscirono a ribaltare il risultato. Per Rivera quello è stato l’ultimo gol della sua carriera. A proposito del Golden Boy: quale fu il suo apporto al successo finale? Non giocò molto, ma il suo peso nello spogliatoio fu determinante. Aveva ancora voglia e, soprattutto, voleva chiudere con lo scudetto della stella, quello che gli era sfuggito sei anni prima proprio sul filo di lana. E questo pungolo funzionò molto. E poi, cos’altro funzionò bene?
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Tutto. Da Bigon a Buriani; da Novellino a Chiodi, rigorista infallibile. E poi la difesa in blocco. Con Franco Baresi al suo primo campionato da titolare. Tatticamente era un mostro. Con gli altri difensori mi capitava spesso di urlare per richiamare le posizioni. Con lui non mi sono mai dovuto sgolare. Come con Cera al Cagliari. Quale fu la carta vincente? Il “3”, il numero di Aldo Maldera. Attaccante mascherato da terzino sinistro. Fece nove reti, quasi tutte decisive. Era la nostra arma letale. Sinceramente: a inizio stagione credevi di vincere lo scudetto? No. Anche perché mi ero ormai convinto di essere arrivato al Milan nel suo momento storico peggiore. Poche le cose da salvare del mio soggiorno a Milano. Tra queste aver conosciuto Betty, mia moglie. Con lei ho aperto il Tatum, il mio ristorante. Ed è lei che mi convinse a farmi crescere i baffi e allungare i capelli. Sul piano sportivo nulla di positivo? Prima dello scudetto, l’unica nota lieta era stata la Coppa Italia del 1977. Per il resto un grande caos, compresa la guerra interna tra Buticchi e Rivera per la presidenza della società. Mai pensato di smettere? Una volta sì. Durante il ritiro estivo nel 1976, con Pippo Marchioro. Non ero abituato a certi carichi di lavoro. Non ce la facevo proprio. Spesso mi tiravano su di peso Turone e Zecchini. Ero sceso di quattro chili dopo la prima settimana. Allora andai dal mister e glielo dissi. O si cambia metodo o smetto. Dì la verità: non è che ti piacesse molto allenarti. Non è vero. Certo non ero maniacale
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come qualche mio collega, ma quando c’era da allenarsi non mi tiravo indietro. Specie quando Liedholm mi bombardava dal limite dell’area con il suo sinistro chirurgico. Già, il Barone. Quanto di suo c’è nello scudetto della stella? Moltissimo. Il boom di Maldera è merito suo. Lo schema con un’unica punta vera (Chiodi) è una sua intuizione tattica. E poi il possesso palla. Un obbligo per tutti, compreso il portiere. Da me, infatti, voleva che rilanciassi con le mani al compagno più vicino. Ma la qualità migliore di Liedholm era la splendida capacità di gestire la squadra. Cosa aveva di particolare? Sapeva come prenderti. A me per esempio piaceva andare all’ippodromo. Vai, Ricky, mi diceva. Sapeva che per me quello era un modo per rilassarmi. Oppure la mattina a Milanello, si avvicinava e mi chiedeva: “Hai fatto tardi ieri sera al ristorante”. Alla risposta affermativa, diceva: “Allora osci (oggi) per Ricky bagni e massaggi”. Più penso a lui e più rivedo Manlio Scopigno, il mister del Cagliari che vinse lo scudetto. Che cosa avevano in comune? Oltre alla capacità tecniche e al sapere tattico, l’intelligenza. Ne avevano in dosi abbondanti. Sapevano come comportarsi con i calciatori. Ne conoscevano la personalità, i punti di forza come quelli deboli. Sapevano trattare con i propri ragazzi per averne in cambio il meglio. Tu che ragazzo eri? Uno che voleva vivere e ha vissuto. Mi piaceva il pallone, ma anche le donne, i cavalli, il fumo, le carte. Tutto ciò che era proibito mi attraeva. Non ero certamente un atleta. O meglio, non facevo
vita da atleta. Ma la domenica ero lì. Sempre in prima fila. Ma se mi mettevano le briglie, scalciavo. Liedholm e Scopigno, invece, che facevano? Semplice: assecondavano, sapevano quando era il momento di allentare la morsa. Magari con una battuta, come riusciva benissimo al Barone o con comportamenti che ti spiazzavano, come sapeva fare il Filosofo. Hai un ricordo in particolare di Scopigno? Vigilia della partita contro la Lazio, anno dello scudetto. Noi del Cagliari siamo alloggiati all’Hotel Quirinale. Io e Gigi Riva, come sempre, siamo in camera insieme e per quella sera è previsto un poker con Domenghini e Gori. In pratica tutta la squadra è nella nostra stanza che ben presto è completamente avvolta dal fumo. Ok, andiamo avanti. Verso le due della notte ordiniamo dei panini perché abbiamo fame. Bussano alla porta, vado ad aprire e davanti mi trovo il mister. Scopigno entra nella camera, dove nel frattempo, è piombato il silenzio. Tutti col fiato sospeso, poi lui fa: “Dà fastidio se fumo?”. Un genio. A uno così non potevi non voler bene. E in campo davi anche l’anima. Con la Lazio come andò? Vincemmo, naturale. Due a zero per noi. Gol di Domenghini e di Riva. E’ ancora molto vivo in te il ricordo di Cagliari, vero? Assolutamente. Sono molto legato alla Sardegna, ai tifosi, ai miei ex compagni. Ci troviamo almeno una volta all’anno. Siamo ancora oggi molto uniti. E pensare che a Cagliari non ci volevo proprio andare.
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Perché? Perché c’era l’Inter che mi voleva. Italo Allodi, allora dirigente nerazzurro, mi aveva già chiamato per avere il mio ok. Insomma era tutto fatto, quando vengo a sapere che Baglini, presidente della Fiorentina e Arrica, dirigente del Cagliari, dopo una serata trascorsa al ristorante con qualche bicchiere di troppo, hanno deciso il mio trasferimento in Sardegna, scrivendo l’accordo su un foglio di carta. Delusione? Non solo, anche rabbia. Il primo anno ho sofferto, oltretutto la Fiorentina vinse pure il campionato. Poi il tempo ha sistemato tutto e a Cagliari ho trascorso la parte più bella della mia carriera. Con lo scudetto come premio sportivo e legami affettivi che durano ancora oggi Uno di questi è senza dubbio quello con Gigi Riva. L’amicizia tra noi è nata subito. Siamo diventati come fratelli. Gigi era un vero trascinatore, ma non andava braccato. Aveva i suoi tempi e i suoi ritmi. E un sinistro che levati. Ti racconto questa: in allenamento non stavo mai in porta quando calciava lui. L’unica volta che mi è successo, mi ha fratturato l’alluce. Con Riva hai condiviso per anni anche la camera: se i muri potessero parlare? Potrebbero raccontare di come mi sono sbattezzato per convincere Gigi a venire con me alla Juventus. Dettagli, prego. Riva era il pallino di Boniperti. Una volta, non ricordo più se nel 1972 o l’anno dopo, le due società furono molto vicine all’accordo. La Juve, oltre al cartellino di Gigi, chiese anche il mio. Passai nottate intere a parlare con lui. Gli dicevo: “Vinciamo, guadagniamo, è il massimo. Dammi retta, andiamo a Torino”. E lui:
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“Ma io guadagno bene anche qui. E ho la mia libertà. Non mi muovo”. Non ci fu niente da fare. Tutto all’aria. E addio Juventus. Rimpianti? Qualcuno sì. Avrei vinto di più e avrei sicuramente giocato molto di più in Nazionale, visto che non ero certo inferiore a nessuno. Quel nessuno porta per caso il nome di Dino Zoff ? Ti dico solo questo: quando Zoff ha debuttato in Nazionale, io ero il titolare e lui non era nemmeno nel giro azzurro. Il suo esordio fu alquanto casuale. Nel 1968 a Napoli c’è da giocare contro la Bulgaria. Io ho un dito rotto e vengo rimandato a casa. Chiamano Lido Vieri, ma si fa male anche lui. Non rimane che chiamare Zoff che gioca a Napoli e dunque è quello che più facilmente può raggiungere il ritiro. Perché allora giocò lui la fase finale degli Europei e non tu? Zoff era bravo, per carità. Decise così Valcareggi che voleva far fare esperienza internazionale a Zoff. Parlò con me e mi disse che io sarei stato il titolare ai Mondiali in Messico. E io credo che questo Zoff non lo abbia mai digerito del tutto. Quando vide che nelle amichevoli premondiali Valcareggi mi aveva riconsegnato la maglia da titolare, ci rimase male. A proposito di Mexico ’70, che cosa rimane di quell’incredibile avventura? Un miscuglio di sensazioni fortissime. La paura di non passare il primo turno. Raggiunto l’obbiettivo ci siamo sbloccati e divertiti. Quindi un po’ di delusione per la sconfitta con il Brasile in finale. Magari non li avremmo mai battuti, ma se la sera prima invece che fare i baga-
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gli per tutta la notte avessimo riposato, chissà. Su tutto, ovviamente, l’euforia pazza dopo Italia-Germania 4-3. Domanda: che c’azzeccava Rivera sul palo sull’azione del 3-3 tedesco? Nulla! Avevo appena fatto una parata eccezionale, alzando sulla traversa un colpo di testa ravvicinato. Corner per loro. Quando vedo Rivera che copre il palo gli dico di no, che non voglio. Poi gli urlo di stare attento. E alla fine, quando la palla sfiorata da Muller, entra in porta, lo copro letteralmente di insulti. “Stronzo, figlio di….. . Ti sei messo sul palo per toglierti dalla mischia e guarda cosa hai combinato”. Ero veramente infuriato. Come è che ti sei calmato? Quando lui, quasi in lacrime, mi ha detto: “Ora posso solo segnare”. Cosa che accadde giusto sessanta secondi dopo. Una partita fantastica ed io sono orgoglioso di esserci stato. In campo. Ma quello di Messico ’70 è stato il tuo ultimo mondiale da titolare. E’ vero. Ma non mi ha dato fastidio rimanere in panchina a Monaco ’74, quanto non aver avuto la possibilità di andare in Argentina per colpa di Zoff. Ci puoi spiegare meglio? Semplice. Bearzot mi chiamò proponendomi il ruolo di terzo portiere. Dissi di sì con entusiasmo. Sarebbe stato il mio quinto mondiale, una cosa eccezionale. Poi che successe? Dopo un paio di settimane il CT mi richiama dicendomi che non se ne fa di nulla perché Zoff non mi vuole. Fine delle trasmissioni. Tu come hai reagito? Criticai di brutto Zoff per i gol presi da lontano. Lui se la legò al dito. Per qual-
che anno non ci siamo più parlati. Poi, un giorno, ci siamo trovati per caso nello stesso albergo. Ci siamo guardati e, un secondo dopo, ci siamo abbracciati. Lo hai mai invitato al tuo ristorante per una cena tra buoni “nemici”? Non ricordo, credo di no. Ti posso dire, però, che al Tatum organizzammo la festa per lo scudetto della stella. Fu una bella serata, tanti sorrisi e buoni propositi per l’anno seguente. Il Milan tornava in Coppa dei Campioni dopo una vita, c’era entusiasmo. A pensare a come sono andate le cose, poi... Partiamo dall’Europa: subito fuori al primo turno e qualcuno dice per colpa tua. Una serataccia quella di San Siro contro il Porto. All’andata facemmo 0-0. In casa si perse 1-0 per un gol balordo. Ma a tale proposito vorrei svelare un particolare curioso. A te il microfono. All’inizio della stagione Rivera fece un accordo per la fornitura di palloni. Non mi piacevano. Erano troppo leggeri. Furono scartati, ma la sera del ritorno di Coppa, non so per quale motivo, da Milanello portarono proprio quei palloni lì. Strano. Il tiro del portoghese si alzò all’improvviso, mi ingannò. Sappi che dopo quella partita, abbiamo sempre giocato con i palloni dell’Adidas: curioso, vero? Manca il capitolo calcioscommesse. Eccomi qua. Ti racconto tutto, tu non calcare troppo la mano, però. Sono passati più di trenta anni. La mia storia inizia con una telefonata di Bruno Giordano ricevuta al Tatum. “Ti passo un mio amico”, mi dice Bruno. Era Massimo Cruciani: “Con 80 milioni, la vittoria sulla Lazio è assicurata”. Io gli dico che
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riferirò tutto al presidente Colombo il quale, però, rifiuta. Quindi? Mi richiama Giordano. Gli dico di no. Silenzio per diversi giorni. Poi sabato 5 gennaio, alla vigilia della partita, Colombo, Rivera e Vitali (presidente, vice presidente e direttore sportivo rossoneri, ndr) dicono che possono arrivare a 20 milioni. Richiamo Giordano che mi dà l’ok. Tutta la squadra sapeva dell’accordo. Solo il mister, Giacomini, era all’oscuro. 6 gennaio 1980: il giorno di MilanLazio. E meno male che c’eravamo accordati! Fu partita vera. Chiodi fece due gol eccezionali. Loro accorciarono e io dovetti fare una paratona su Giordano. Comunque il Milan vinse e, in base agli accordi, andavano portati i soldi a Roma. Chi fece da corriere? Giorgio Morini che tutti i lunedì scendeva a Roma. I contanti glieli consegnò Colombo Poi che cosa successe? Passarono un paio di mesi. Io nel frattempo mi ero già accordato con i Cosmos di New York per giocare con loro. Ma intanto si era alzato il polverone. Il 23 marzo 1980 ero in tribuna a vedere Milan –Torino quando un finanziere mi disse di seguirlo nello spogliatoio. Mi arrestarono. Ancora non sapevo che avevano fatto lo stesso con Colombo e Morini. Poi con cinque auto ci portarono a Roma, neanche fossimo pericolosi banditi. Durante il tragitto ci fermammo ad un autogrill e ci fu anche il tempo per farsi una risata, anche se amara. Cioè? Un maresciallo mi prese da parte e mi disse: ma come si fa a mandare in giro delle banconote ancora legate dalle fa-
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scette della banca? Dopo l’arresto, il carcere insieme a diversi colleghi. Una cosa assurda. Undici giorni dietro le sbarre. L’unica consolazione è che a Regina Coeli ho mangiato i migliori bucatini all’amatriciana della mia vita, cucinati da un compagno di cella. Mancano le sentenze, a questo punto. Con me la giustizia sportiva ha avuto la mano pesante, troppo. La colpa in massima parte è ricaduta su di me. Una cosa è certa: noi vecchietti eravamo un bersaglio facile. Ed io che giocavo, che fumavo, che amavo i cavalli, lo ero ancora di più. Cosa hai fatto dopo aver scontato la squalifica? Sono tornato in campo. Volevo dimostrare a tutti che c’ero ancora. Avevo molte richieste, andai all’Elpidiense in C2. Ho chiuso a 47 anni, ma solo perché un compagno in allenamento mi scassò un ginocchio. Cosa è che, ancora oggi, ti fa più male di tutta quella storia? L’avere chiuso in maniera ingloriosa una carriera gloriosa. Iniziata da bambino, seguendo le orme di mio padre, portiere anche lui e che mi ha trasmesso la passione per il ruolo. Da grande avrei voluto allevare i giovani portieri, ma il calcio mi ha chiuso la porta in faccia.
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Giancarlo Antognoni << Pensando al Mundial provo una sensazione strana, piu` oggi di allora. Guardo la foto della formazione del Bernabeu e mi dico: “E io dove sono?”. La partitala vidi dalla tribuna stampa. Nel primo tempo ci fu il rigore e io ero il rigorista della squadra, magari l’avrei sbagliato anch’io... La Coppa l’ho toccata per ultimo >>
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overciano, piano terra. La finestra del suo ufficio dà su uno dei campi di allenamento del centro tecnico, casa del Club Italia. Il solicchio di primavera esalta il verde intenso dell’erba tagliata a misura, pronta a essere calpestata da una torma di gambe di giovani promesse, sedici anni, buon per loro. In un angolo della stanza, tra foto e cimeli vari, è appoggiato un quadro in attesa di essere appeso. Colori vivaci, e un volto familiare, quello di Giancarlo Antognoni, oggi dirigente accompagnatore delle nazionali giovanili. Iphone sulla scrivania, il fisso che squilla a intervalli regolari e l’amico Nicola che gli porge un sacchettino bianco con una sfoglia alla crema. Coccolato e accudito, come ai bei tempi. Sorride e si stupisce ancora Giancarlo, gli occhi come due fessure, sotto il ciuffo biondastro che resiste agli assalti degli anni che hanno raggiunto la boa numero 58. E’ in grande forma, sorridente e gentile. Giacca blu su pantaloni chiari, colletto della camicia che fa capolino dal paricollo attillato: l’eleganza lo ha sempre contraddistinto. Anche in campo. Testa alta, corsa armonica, e plasticità dei gesti. Una vita per Firenze: molti onori, pochi successi, per una carriera che in alcuni momenti è sembrata obbedire alle regole del gioco dell’oca: sosta per tre turni, sei in prigione, torna indietro.
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Quante volte le è capitato di finire sulla casella sbagliata? E’ successo diverse volte, ma per fortuna ho avuto sempre l’occasione di ritirare i dadi e andare avanti, mettendoci dentro tutto: carattere, cuore, forza di volontà. Ma soprattutto: l’infinita passione per il pallone. Che ha la sua stessa data di nascita, vero? Sì, primo aprile 1954. E’ il segreto di tutto. E’ la molla che ti fa saltare ogni ostacolo. E’ la leva che ti consente di alzare pesi che sembrano schiacciarti.
Compreso le ginocchiate in testa? Non ho ricordi diretti dell’impatto con Martina. Nella mia mente c’è un intervallo di quindici minuti di assoluto vuoto. Prima e dopo è ok, ho tutto stampato nella memoria, anche la data: 22 novembre 1981. Andiamo con il prima allora. Stavamo giocando a Firenze contro il Genoa, 2-1 per noi. Io avevo segnato da poco su rigore il gol del vantaggio.Stavo bene. Così, al 58’, quando Daniel Bertoni ha lanciato un pallone verso l’area di rigore, sono scattato subito in avanti,
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con la convinzione di potere anticipare di testa l’uscita del portiere. Infatti, tocco per primo la palla, ma Martina è già in volo e il suo ginocchio destro si pianta sulla mia tempia sinistra. L’ultima percezione è il sonoro dello scontro. Poi il buio. Quando si è risvegliato? Dopo un quarto d’ora circa. Ero nello spogliatoio. Vidi Rita, mia moglie, il medico e altre persone intorno. Di come ero finito lì e di cosa era successo subito dopo l’impatto, me lo dissero dopo, compreso che mi avevano fatto il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. Quando ha visto le immagini del suo incidente? Poco tempo dopo. E mi sono impressionato, non lo nascondo. La cosa strana è che, per quanto terribile sia stato l’impatto, non ho il ricordo del dolore, perché ho perso i sensi all’istante. Lei ha sempre detto che Martina non lo ha fatto apposta. Credo nella buona fede delle persone. Ho avuto sempre il massimo rispetto per tutti, compagni e avversari, forse anche troppo. Continuo a pensare che lui non sia uscito con l’intento deliberato di farmi male, ma la mano sul fuoco non me la sento di mettercela. Ha mai temuto per la sua vita? No, anche perché fin dall’inizio è emerso che il colpo non aveva provocato lesioni interne e che, dunque, non c’erano rischi in quel senso. Sono stato operato per le fratture e l’intervento è riuscito alla perfezione. Ha avvertito il rischio di smettere con il calcio? Dico di no, anche se la risposta me l’avrebbe potuta dare solo il campo, o
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meglio, la partita vera. Clinicamente ero guarito, psicologicamente c’era da lavorare. Il guaio è che per un certo periodo ho dovuto prendere un sacco di medicinali pesanti. Ero rallentato, i riflessi erano quelli di un vecchietto. Poi, tolte le medicine, sono rinato anche come atleta. Cosa le ha lasciato l’esperienza dell’ospedale? Una ricchezza interiore immensa. Intanto la mia camera era la meta di tutti gli altri ricoverati, tifosi e non. Fuori sapevo che c’era sempre un sacco di gente. Ogni tanto mi dovevo affacciare, con il turbante in testa, per salutare e farmi fare delle foto. La cosa che mi ha toccato di più, però, è l’aver convissuto con alcuni compagni di reparto (neurochirurgia, ndr): ragazzi giovani, molto più sfortunati di me. Nella vita devi sempre avere uno sguardo per chi sta peggio, sia per poter fare qualcosa per lui, sia per trovare la forza di non mollare per te stesso. Operazione riuscita, riabilitazione ok, dopo quattro mesi dall’incidente manca solo il campo. La risposta vera. Contro avversari reali. Quello era l’ultimo ostacolo da superare. Paura di non farcela? Francamente no. Mi ero allenato bene, avevo il calore della gente. E poi l’ambiente era elettrico, dopo tredici anni si tornava a parlare di scudetto con la Fiorentina a contendere il primo posto in classifica alla Juventus. Nonostante l’assenza di Antognoni. Al contrario, in vetta proprio perché non c’era Antognoni (ride). No, scherzo. Però era un dato di fatto che nei quattro mesi senza di me la Fiorentina era cresciuta.
illustrazione di Marco Finizio I Giancarlo Antognoni
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Che squadra era? C’erano tanti nuovi acquisti: gente esperta come Pecci e Graziani e giovani promesse come Massaro e Vierchowod. Davanti Daniel Bertoni, un fuoriclasse, mentre in panchina c’era il mio vecchio compagno De Sisti, uno degli allenatori più bravi che abbia avuto. Quadro perfetto, manca solo il ritorno del capitano. Non era così scontato. Anche perché chi mi aveva sostituito aveva fatto bene. Ma era Luciano Miani, un mediano. Con tutto il rispetto, non c’era paragone. Ciò non toglie che la squadra avesse trovato un suo equilibrio. Mettiamola pure così, ma intanto siamo arrivati al 21 marzo 1982, il suo personale D-day. Fiorentina – Cesena. E’ il grande giorno. Rientro dal primo minuto. Con i capelli più corti, ma senza caschetti o protezioni particolari. Sensazioni? Un frullato di emozioni. Su tutte la gioia per il ritorno e l’enorme desiderio di prendere subito a morsi la partita. Andò tutto bene, feci anche l’assist per il gol vincente di Casagrande. E andò meglio qualche domenica dopo contro il Napoli al San Paolo: tornai a segnare. 1-0 per noi e vetta in tandem con la Juventus a tre giornate dalla fine. C’ero. Antognoni torna e vince. Ma quella Fiorentina era partita per conquistare lo scudetto? Con l’arrivo dei Pontello l’anno prima, finalmente Firenze aveva iniziato a respirare aria nuova. Perché quella di prima com’era? Era un po’ viziata. Le gestioni precedenti erano molto ruspanti e con pochi
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danari. L’avvento della famiglia Pontello fu un salto di qualità al quale ambivo anch’io dopo stagioni di incertezze e sofferenze. In effetti, nei suoi primi otto anni in viola, soddisfazioni poche. Ci fu la Coppa Italia nel 1975, il mio primo vero trofeo da professionista; l’anno dopo la Coppa di Lega italo-inglese e poi il terzo posto nel 1977, staccatissimi però dai mostri sacri Juventus e Torino. Cosa c’era che non funzionava? Forse mancava un po’ di programmazione. Ci furono molti cambi tecnici in pochi anni. Da Liedholm a Radice, poi Rocco, quindi Mazzone. Erano comunque stagioni dominate dalle torinesi, anche Inter e Milan erano in ribasso. In ultimo ci fu anche una buona dose di sfortuna. Si riferisce ai vari incidenti a Guerini e Roggi? Sì. Nel 1973-74 la società puntò sui giovani. Fu, forse, il periodo migliore della Fiorentina, non a caso la Coppa Italia arrivò l’anno dopo. Poi qualcosa iniziò a girare storto e nel 1978 ci salvammo per miracolo. Fu un finale thrilling. Alla penultima giornata andammo a Pescara. Dovevamo vincere, ma io sbagliai il rigore decisivo. Per fortuna Sella al novantesimo segnò il gol della vittoria. A novanta minuti dalla fine, però, eravamo penultimi e ci saremmo giocati tutto la domenica successiva contro il Genoa, praticamente uno spareggio. Facemmo 0-0. Ci salvò solo la differenza reti. Che passione! Hai detto bene! Senza scordare un particolare fondamentale. Che ero da tempo infortunato ad un piede a causa della
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tarsalgia. Ma dovevo esserci per forza, per cui ogni domenica, una puntura e vai. Sono andato in campo anche quando non dovevo e questo mi ha pregiudicato il mondiale d’Argentina che ho giocato con un piede solo. Punture, Fiorentina, il suo malore otto anni fa. Qual è il suo parere? Ci si fidava, il micoren si prendeva, le punture di cortisone si facevano. Al tempo molti medicinali erano leciti. Non credo alla malafede dei medici, certo qualche pensiero oggi ce l’ho. Alcuni dei miei compagni sono morti, altri hanno avuto problemi di salute. Io ebbi un inizio di infarto otto anni fa, durante una partitella: sentii un bruciore all’altezza del petto. Il ricovero tempestivo è stato fondamentale. Ma i dubbi rimangono. Come sul finale di campionato 81-82? C’era il mondiale in Spagna, uno spareggio avrebbe creato problemi. Ma sarebbe stata la fine più giusta visto l’andamento dell’intero campionato. E invece? E invece alla Juve dettero un rigore che c’era, mentre a noi annullarono un gol per un fallo sul portiere inesistente. Ci mettemmo anche un po’ del nostro quella domenica: troppa tensione e lo sguardo rivolto a Catanzaro dove giocavano i nostri rivali bianconeri. Quanta rabbia c’è ancora, nonostante siano passati trent’anni? Più che rabbia, per me c’è il grande rammarico di non aver vinto lo scudetto con la Fiorentina, la squadra della mia vita. Alla quale ho dedicato tutta la mia carriera. Perché quest’attaccamento morboso con Firenze? Perché ci sono arrivato da ragazzo, ap-
pena diciottenne. Perché Firenze mi ha amato, coccolato, mi ha coperto d’affetto. La gente non mi ha fatto mai mancare il suo appoggio e la sua considerazione, specie nei momenti di difficoltà. Come è arrivato alla Fiorentina? Mi videro, proprio qui a Coverciano, i dirigenti viola durante uno stage della Nazionale Juniores. Ero l’unico giocatore di Serie D a far parte del gruppo. Giocavo nell’Astimacobi che all’epoca era uno dei serbatoi del Torino. Mi presero a quindici anni dalla Juventina di Perugia. Ma è vero che il Toro in realtà era interessato ad un suo compagno di squadra, tale Bottausci? E’ vero. I dirigenti della Juventina, però, fecero fare il provino anche a me. E ci presero tutti e due. Io, poi, ho avuto più fortuna: prima la Juniores, poi la Fiorentina. E perché non il Torino? Perché il presidente viola Ugolini dette molti soldi al suo collega dell’Asti. Se non ricordo male il mio cartellino è costato complessivamente 700 milioni di lire ed eravamo nel 1972. Anno magico il 1972: ad ottobre lei debutta in Serie A, e siamo appena alla terza giornata. Liedholm mi apprezzava molto e alla prima occasione (assenza di De Sisti), mi fece esordire. Maglia bianca da trasferta e numero otto. Seppi tutto il giovedì. Ricordo che nei tre giorni che mancavano alla partita, non sarei nemmeno uscito di casa, tanta era la paura che mi potesse accadere qualcosa e rovinare quel sogno. La realtà sorpassò i sogni. Sandro Ciotti alla radio disse: “Oggi ho visto esordire un campione”, mentre
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Gianni Brera mi definì “il ragazzo che gioca guardando le stelle”. Nel mio primo anno con la Fiorentina giocai venti partite, l’anno dopo partii titolare, quindi vincemmo la Coppa Italia nel 1975 e, a ruota, con l’arrivo di Mazzone ebbi anche la fascia di capitano. Fu un gesto notevole: in fondo avevo appena ventuno anni, c’era gente molto più esperta di me. Antognoni e la Fiorentina: le facce della stessa medaglia. Una simbiosi che aveva oneri e onori. Perché Antognoni era sempre il primo della lista, nella buona e nella cattiva sorte. Talvolta questo ruolo mi ha un po’ pesato. Specie nei primi anni non sempre i compagni mi hanno aiutato. Perché non è mai andato via dalla Fiorentina? E’ andata così. Ma era giusto che andasse così. Certo, questo ha chiesto alcune rinuncia e qualche rospo da ingoiare. Partiamo dalle rinunce. La Juventus, per esempio. Nel 1978 sembrava tutto fatto, ma sono rimasto alla Fiorentina. Ricordo sempre i compagni di nazionale della Juve che mi dicevano: “Ma che c…. ci stai a fare a Firenze”. Nel 1980, invece, fu il mio vecchio maestro Liedholm a fare di tutto per portarmi alla Roma. Niente nemmeno quella volta. Avrei vinto di più, senza dubbio. Ma non ho mai voluto tradire la viola. I rospi, invece? Intanto essere sempre nel mirino dei giornali. Brera, De Felice, ma in genere un po’ tutta la stampa. Sono stato bersagliato dalle critiche, specie quando giocavo in Nazionale. Fossi stato in una delle big, sarebbe stato diverso. E poi, troppo spesso, venivo colpito come persona, con giudizi gratuiti e fuori luogo.
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Ma lì sbagliavo io. In che senso? Perché non curavo le pubbliche relazioni. Non avevo rapporti con i giornalisti, ad eccezione di Gian Maria Gazzaniga, con il quale andai una volta a cena e che ebbe così l’opportunità di conoscermi meglio. Per il resto era un fuoco incrociato al quale, talvolta, rispondeva Rita. Per me contava il campo e basta A proposito di campo: dicevano che non aveva tenuta atletica, che soffriva la marcatura stretta e che ogni tanto durante la partita, spariva. Può anche darsi. L’unica critica vera, però, nessuno me l’ha mai fatta e me la faccio adesso da solo io: mi sono allenato poco per migliorare il tiro. E’ una battuta? No, è la verità. Mi sono sempre affidato alle mie doti naturali e ho fatto poco per progredire. La porta non la prendevo sempre. L’istinto mi portava a mirare all’angolino e sai quante volte la palla è andata fuori. Invece, guardavo Di Bartolomei e dicevo: ma come fa a metterla sempre nello specchio? Lui si allenava. E puntava al centro della porta. Avrei potuto fare molti più gol. Paolo Conti non è d’accordo. Poverino, a lui segnai con due punizioni, una a destra, l’altra a sinistra. Non sapeva che pesci prendere. A dire la verità misi lo zampino anche sul terzo gol, ma allora anche le leggere deviazioni degli avversari erano considerate autoreti. Oggi sarebbe stato tutto mio, come il gol contro l’Inghilterra nel 1976, per colpa di un polpaccio di Keegan, gli almanacchi me lo hanno tolto. Torniamo alla lista dei rospi indigesti. La Nazionale. E’ vero che ci sono stato dieci anni, dal debutto nel 1974 con
GS 5 maggio 2012 I Giancarlo Antognoni
Bernardini al 1984 con Bearzot e che ho collezionato 73 presenze. Ma quanta fatica. Mettevo la maglia azzurra e giù botte. In Argentina si è toccato il fondo. Ma anche prima dei mondiali di Spagna mi presero a sportellate fra chi spingeva per Beccalossi e chi faceva il tifo per Dossena. Ma lei aveva dalla sua parte Bearzot. Vero. Una persona per bene. Se abbiamo vinto i mondiali, lo dobbiamo alle qualità umane del nostro ct, prima ancora che alle sue capacità tecniche. A me ha dato sempre fiducia e responsabilità. Che significa aver vinto la Coppa del Mondo senza aver partecipato alla finale? Provo una sensazione strana, più oggi di allora. Quando sono qui a Coverciano e vedo la foto della formazione del Bernabeu, mi dico: “E io dove sono?”. Nel primo tempo ci fu il rigore e io ero il rigorista della squadra, magari l’avrei sbagliato anch’io. La partita, poi, la vidi dalla tribuna stampa. Al fischio finale, arrivai per ultimo in campo, perché non ce la facevo a correre. La Coppa l’ho toccata per ultimo. E pensare che è stata tutta colpa del gol annullato ingiustamente contro il Brasile. Cioè? Sentivo forte il senso di ingiustizia che avevo subito. Volevo il gol, in tutti i modi. E su quel pallone a limite dell’area della Polonia, mi ci lanciai con troppa foga e punto cervello. Ero in ritardo e così presi in pieno la scarpa del difensore polacco che mi aprì il collo del piede. Dovetti uscire. La mattina prima della finale, ricordo che feci una prova, ma il dolore era troppo acuto. Non ce la facevo nemmeno a correre, figurarsi a calciare.
Ancora una volta una delle caselle sbagliate del suo personale gioco dell’oca. Se non altro in palio c’era un mondiale al quale avevo dato tutto me stesso e che, anche senza di me per l’atto conclusivo, mi avrebbe ripagato di tanti sacrifici. In più mi consolarono le parole dell’avvocato Agnelli che incontrai la stessa mattina prima della finale. Mi disse: “Lei è uno dei pochi calciatori che non è voluto venire da noi”. Cos’era, un nuovo tentativo di portarla a Torino? No, solo una sua considerazione che mi lusingò molto. In testa e nel cuore avevo solo la viola. Dovevamo scaricare tutta la rabbia dell’anno prima. Ma facemmo un campionato poco brillante. Quindi la stagione successiva i dadi fanno uscire questi numeri: 12.2.84. E’ il giorno di Fiorentina – Sampdoria. Il giorno della frattura esposta di tibia e perone della gamba destra. Quella volta lì il dolore l’ho vissuto in diretta. Paura di finire così la carriera? Avevo trenta anni e l’infortunio era molto grave. In più ci si mise la prima operazione non riuscita. Ho sofferto veramente tanto, finché Pietro Mariani (ex del Torino, ndr) mi indicò la strada da seguire. Ho impiegato un anno e mezzo a guarire, ma sono tornato in campo, il 24 novembre 1985 contro il Bari. Solo che, nel frattempo, diverse cose erano cambiate. Sentivo che il tempo stava per scadere. Così lei nel 1987 lascia Firenze per la Svizzera. Fu un arrivederci. Confidavo in un ritorno da dirigente, cosa che poi è accaduta. Un’altra parentesi viola per me che, purtroppo, si è chiusa ormai da tanti anni.
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