Nuove Capitali della Tipografa

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A coloro che, proprio con noi, hanno voluto condividere le loro idee, un ringraziamento particolare.



Marco Agosta Diego Enrico Barbolini Andrea Castoldi Lorenzo Fantetti

Giancarlo Iliprandi Enrico Tallone Rudy VanderLans James Clough Giangiorgio Fuga Jonathan Barnbrook Michele Patanè OFFICINA TIPOGRAFICA NOVEPUNTI Paul Felton



Lo stato delle cose (digitali) I docenti conoscono poco gli studenti con i quali lavorano, per ruolo e per distanza. E loro (gli studenti) seguono per forza; più o meno convinti della compagnia (un periodo breve), eseguono ciò che “noi riteniamo” sia utile che facciano. I risultati arrivano sempre: più o meno interessanti o interessati, per loro e per noi. Quest’anno invertiamo la tendenza, ci siamo detti. Lasciamoli parlare e fare, accompagnandoli senza chiusure didattiche preconfezionate. Proviamo. Ci vuole però un tema comune, che riguardi tutti, e da vicino. Scegliamo così qualcosa di apparentemente semplice: il rapporto tra noi e il computer. Sembrerà banale; e lo è, da un certo punto di vista. Tutti ne parlano con gran soddisfazione, e soprattutto è un gran “fare”. Mai come oggi (e chissà domani) sembra proprio che questo strumento lavori nel profondo, accompagnando e scandendo le nostre vite. Per questo ci pare un argomento tanto legato all’abitudine che valga la pena farne tema di ricerca. Al di là dei satrapi che ne tessono solo e sempre lodi (vedi Wired), ovunque avvenga un cambiamento legato all’introduzione dei computer (cambiamento di ruoli, di attitudini e comportamenti), nel mondo alcuni ricercatori attenti lavorano sul campo (non “in vitro” ma nel quotidiano) per valutarne l’impatto. C’è chi si occupa degli effetti dei giochi in rete sul comportamento degli adolescenti, chi di quelli sugli scienziati che guidano una sonda su Marte. Un monitoraggio continuo (e il lavoro dell’equipe di Sherry Turkle al M.I.T. rappresenta bene questa impresa) affianca la ricerca e tiene il passo con l’innovazione. Non si tratta di un atteggiamento antitecnologico, anzi; piuttosto di attenzione e cura. Ecco il perché del tema: far uscire, rende esplicite e consapevoli alcune pratiche quotidiane, che stanno per diventare falsamente “naturali”. Dall’inizio ci siamo convinti che gli studenti avrebbero apprezzato. Decidiamo di chiedere loro di rendere esplicite le sensazioni che accompagnano la loro vita “con il computer”. La nostra invece, di adulti professionisti, è stata scandita da un passaggio traumatico (una rottura del modo di produzione) perché veniamo, se abbiamo più di quarant’anni, da esperienze analogiche, neppure coadiuvate dal digitale, e abbiamo vissuto uno strappo forte tra il prima e il dopo. Naturalmente, come tutti (chi più, chi meno), abbiamo abbozzato o ne abbiamo fatto tesoro. Ma di questo gli studenti non sanno né sono tenuti a sapere. Ci vedono solo lenti e impacciati. Quindi la prima comunicazione da fare è raccontare di sé.

Anche storie legate al prima: grafici senza computer, manualità, stili, autori; poi il passaggio: i grafici di mezzo, quelli “bitmap”. E chiedere: ma voi “integrati”, come ve la passate? Una mattinata in Facoltà e un incontro in forma di assemblea: l’impatto della domanda produce i suoi effetti. Si comincia balbettando, impossibile sentirsi pari. Qualcuno dice che non se ne può fare a meno (del computer), altri che è possibile “snobbarlo”, o spegnerlo. Tutti (o quasi) ammettono di sentirlo invasivo. Doveva essere uno strumento di lavoro e studio ma è diventato altro: ricerca, gioco, amici, posta, chat, download, musica, cinema… E soldi, succhia i soldi. Qualcuno è infastidito. Perché mettere in piazza una storia così personale? Sembra che a domanda inauguri un rito: non è una confessione ma poco ci manca. Alla chiacchierata della mattina segue una nostra richiesta: mettete nero su bianco i vostri pensieri. Le risposte scritte della settimana successiva sono forti e chiare. Tutti identificano il computer con un “lui”, un soggetto (quasi) paritario; qualcuno addirittura gli ha dato un nome. Non proprio un’inversione soggetto-oggetto, ma poco ci manca. C’è chi se lo porta a letto (sic), lo lascia sempre acceso per sentirsi collegato. Tutti sono “nati con”, hanno cominciato alle elementari e, grazie a padri giovani, sono cresciuti con. C’è chi si incazza perché “lui” non fa quello che deve. Tutti hanno paura: di perdere dati, lavoro soprattutto. Qualcuno ha sofferto, come per un lutto. Altri chiedono uno strumento “solo” professionale, che non mischi troppe offerte e richieste di abilità. Ci sembra di aver aperto una diga! Il passo successivo è più pratico ma occuperà tutto il percorso del laboratorio: divisi in gruppi di lavoro, tutti si sono occupati dell’impatto del computer sui mestieri e sulla vita; di com’è vissuto il “vantaggio” digitale; un progetto comune fatto tramite molte interviste a persone scelte e a professionisti di vari settori. I campi d’indagine sono stati: musica, fotografia, tipografia, simulazione e trasparenza, ricerca, viaggio, giornalismo, identità, lettura, pirateria... Quest’idea di uscire e guardarsi intorno, incontrare persone, cercare di capire, restare anche delusi, ha fatto breccia. Più di cento interviste (lasciate com’erano, editate, parziali, gettate via) oggi sono raccolte in dieci pubblicazioni tematiche. Di cui adesso ne avete tra le mani una sola, parte del tutto. Sono diseguali ma converrebbe leggerle tutte. Per intuire lo stato delle cose e la nostra consapevolezza. Mauro Panzeri PierAntonio Zanini Marco Moro C1 / 1.LM / a.a. 2010-2011 Laboratorio di progettazione di artefatti e sistemi complessi Communication Design Scuola del Design - Politecnico di Milano


A cura di:

Marco Agosta, Diego Enrico Barbolini, Andrea Castoldi, Lorenzo Fantetti Š 2011, Politecnico di Milano Il materiale visivo e fotografico è stato concesso dai soggetti intervistati. Dove non specificato le fotografie sono state scattate dagli autori. Carattere utilizzato nella composizione dei testi: Adobe Caslon Pro Carta: Mohawk Fine Papers, ecologica-riciclata - Mohawk Via Felt, warm white.




Sommario Introduzione:

Rivoluzione digitale nella tipografia

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Giancarlo Iliprandi Leggere il cambiamento

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Enrico Tallone

Il mistero dei caratteri

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Rudy VanderLans

Un’epoca di libertà e di “nuove regole”

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James Clough Safari tipografico

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Giangiorgio Fuga

Coltivare e trasmettere la manualità

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Jonathan Barnbrook Lucida ribellione

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Michele Patanè

Vecchie e nuove possibilità

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OFFICINA TIPOGRAFICA NOVEPUNTI Ritorno alla fisicità

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Paul Felton

Tipografia dal purgatorio

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Rivoluzione digitale nella tipografia L’avvento del digitale ha rivoluzionato il rapporto tra l’uomo e la realtà, influenzando ogni campo della vita quotidiana e modificando profondamente le tecniche, le procedure e il modo di confrontarsi con la dimensione lavorativa, filtrandola sempre più secondo un aspetto virtuale. Questo fenomeno è quantomai vero per il mondo della tipografia, in cui una generazione intera ha dovuto sostanzialmente reinventare il proprio lavoro sulla spinta di un’autentica innovazione tecnologica, passando dalle forbici al computer. Certo, già il transito dal piombo delle vecchie tipografie alla fotocomposizione aveva implicato un primo salto tecnologico, ma il gap originato dalle tecniche digitali ha costituito una svolta davvero epocale. Abbiamo scelto di addentrarci nel settore della tipografia (sentendoci attratti in particolare dalle tecniche tradizionali) innanzitutto per approfondire le nostre conoscenze in tale ambito e per capire come un mondo fatto di macchine, composizione manuale e tanto lavoro, abbia dovuto e saputo adattarsi alle trasformazioni. Quali sono stati principalmente questi cambiamenti? È ancora possibile conciliare questi metodi di lavoro quasi anacronistici con la contemporaneità? Per rispondere a queste e ad altre domande sono state svolte delle ricerche e delle riflessioni sui modi attuali di usare la tipografia attraverso il computer e del ruolo che essa ricopre oggi nel mestiere del progettista grafico. La ricerca ha portato alla scoperta di una serie di pareri e di constatazioni, talvolta soggettive o opinabili, ma che comunque noi riteniamo significative.

a cadere in errori già visti e facilmente evitabili con un bagaglio sufficiente di conoscenze. La libertà è sempre un bene, sotto ogni punto di vista, bisogna però saper sfruttare in modo adeguato questa possibilità. Innegabilmente il computer ha ampliato gli orizzonti della tipografia, ha spinto a sperimentare cose nuove e diverse, ma di ogni cosa viene naturale vedere un limite; da qui secondo alcuni bisognerebbe tornare ad utilizzare una serie di regole della tipografia tradizionale, per realizzare degli artefatti originali, liberi dalle mode e con una forte identità. Si avverte la mancanza delle vecchie figure autoriali: si sente la necessità di un ritorno al lavoro riconoscibile, non standardizzato e ripetibile del computer. All’aumento spropositato di “tipografi” e “compositori” è corrisposta un’oggettiva perdita di identità; quelle che erano considerate espressioni artistiche hanno perso la loro natura originaria e si sono tramutate in tecniche globalmente riconosciute, che hanno aspetti sostanzialmente virali: una sorta di globalizzazione degli stili, trend e mode che hanno portato alla depersonalizzazione del progetto tipografico. La rivoluzione digitale è stata anche la causa della scomparsa delle mansioni tradizionali, legate alla realizzazione della pagina tipografica, e della scomparsa degli spazi fisici di progetto, che vanno ora a coincidere con lo schermo del computer. Ma l’aspetto forse più interessante dell’avvento del pc è la nuova concezione del tempo, che ha imposto una visione distorta e appiattita. Viene meno, infatti, quella successione di azioni necessarie alla progettazione: tutto viene realizzato in maniera diretta, con la possibilità di tornare in maniera istantanea allo step precedente in caso di errore. Errore che, una volta, era addirittura parte del processo creativo autoriale o comunque un elemento fondamentale nell’esperienza e nella crescita dell’autore, un passo fondamentale dell’apprendimento. La velocità delle nuove interfacce inibisce la possibilità di imparare dai propri sbagli, sedimentare le esperienze e crescere a livello professionale.

Durante il passaggio da manuale a digitale due cose, fondamentalmente, sono cambiate: la velocità e le regole. La prima è data dal nuovo strumento, il personal computer, che permette di lavorare in modo molto più rapido e con maggiore libertà. La velocità con cui si è passati a questo nuovo modo di progettare ha portato ad un ambiente potenzialmente instabile e imprevedibilmente eterogeneo. Il secondo mutamento, quello delle regole, è dettato direttamente dal primo: la dinamicità con cui il digitale è intervenuto in un contesto consolidato come quello della tipografia tradizionale, ha creato un certo scompiglio e non ha permesso di stabilire in tempo dei criteri di lavoro. Studiare il passato potrebbe voler dire conoscere il futuro: osservando come per centinaia di anni la tipografia si è evoluta mantenendo sempre il suo assetto equilibrato, potrebbe essere utile a capire gli sviluppi della frontiera digitale. La semplicità di realizzazione che apporta il computer ha permesso a molte persone di accostarsi a questo ambiente: sono aumentati in modo esponenziale i type designer e le font circolanti, ma permane il problema della qualità di questi artefatti. Questi nuovi “progettisti” spesso non sono consapevoli della storia e delle regole che questo ambiente ha alle spalle, il che porta spesso

Da queste riflessioni nasce la volontà di ritrarre un quadro generale e cronologico della situazione: abbiamo posto queste problematiche a nove esperti del mestiere, tra pre-digitali e nativi, in modo da conoscere le loro impressioni e idee su quello che l’avvento del digitale ha rappresentato, in positivo o in negativo, e sulle possibili prospettive future. Questo libro può essere un’utile riflessione sul mondo della tipografia, per prendere in analisi degli aspetti di solito ignorati, che esulano dal mero tecnicismo o dall’interpretazione settoriale del tema. Il nostro obiettivo è di dare una prospettiva complessiva, per quanto possibile ampia e circostanziata del soggetto, cogliendone delle sfaccettature che facciano meglio comprendere il fenomeno, forse anche nelle sue proiezioni più future.

Marco Agosta Diego Enrico Barbolini Andrea Castoldi Lorenzo Fantetti

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Tipografia Tipografia è un termine che deriva dal greco e si scompone in topos, che significa segno o carattere, e graphia ovvero scrivere; etimologicamente quindi la tipografia è la scrittura di un carattere. Questo termine ovviamente va oltre il semplice significato letterario e abbraccia un’accezione più ampia: tipografia vuol dire anche stampare, creare caratteri e uilizzarli per comporre la pagina, insomma riguarda tutto ciò che ha a che fare con la parola scritta.


Giancarlo Iliprandi

Leggere il cambiamento

Dialogo esegetico sulla rivoluzione digitale: non tutto è così diverso dal passato Giancarlo Iliprandi Uno dei più importanti progettisti grafici italiani del XX secolo, teorico della comunicazione visiva, docente in molte università prestigiose e artista grafico, ha lavorato per molte importanti aziende a partire dagli anni Cinquanta, occupandosi anche di tipografia con studi di lettering e di composizione.

un contenuto visuale, che noi facciamo vedere ad un’altra persona è un’immagine; per quello si parla in genere di unione tra verbale e visivo, la grafica è sempre fatta da cose scritte e da cose che richiamano immagini. Nel suo lavoro ha avuto un rapporto sempre molto stretto con l’immagine… Tutti i possibili elementi tipografici possono costituire da soli un progetto grafico efficace o è sempre indispensabile l’apporto delle immagini? Come dicevo prima, per me tutto quello che è visivo è immagine. Ho realizzato un libro che si chiama Lettering, dove le immagini lasciano spazio all’uso delle lettere, quindi è chiaro che per me l’elemento tipografico ha un’identità forte. Nella grafica ho usato molte volte foto oppure disegni, però parallelamente ho sempre studiato la tipografia che, di conseguenza, ha sempre fatto parte della mia preparazione culturale, e lo stesso discorso vale anche per molti altri grafici della mia generazione.

Chiamato ad affrontare i cambiamenti tecnologici e di approccio al progetto grafico e tipografico, Giancarlo Iliprandi non si tira indietro e, dopo un’intensa carriera fatta anche di passione per la manualità, di rapporti umani e di coraggio per la sperimentazione, può fotografare lo stato dell’arte da persona perfettamente al passo con i tempi.

Quando lei ha iniziato la sua attività professionale negli anni Cinquanta, quali erano le varie fasi di progettazione e realizzazione di un poster? Le varie fasi sono rimaste sostanzialmente invariate rispetto ad ora, le uniche differenze sono tecniche: in genere si partiva sempre dagli schizzi, bianco e nero o a anche a colori, realizzati solitamente con pennarelli e i più fortunati, che lavoravano in grosse agenzie pubblicitarie, ne avevano addirittura delle scatole piene. Successivamente le idee da presentare al cliente erano realizzate a tempera; adesso i tempi sono completamente cambiati.

Ci siamo accorti di come l’introduzione del computer abbia fatto venire meno alcune figure professionali. Ha instaurato un rapporto umano positivo con alcune di queste? Assolutamente sì: io ho cominciato a fare grafica negli anni Cinquanta, quando in tipografia c’era sempre una figura più brava delle altre che era il prototipografo, il tipografo “preistorico”. Era quello che sapeva maneggiare meglio i caratteri. Se era molto bravo poteva dare anche dei consigli, perché si intendeva di tipografia anche dal punto di vista estetico. Un altro personaggio scomparso è il cromista, l’esperto del colore. Un tempo si facevano le cose senza fare tante prove, solo se una stampa era particolarmente pregiata o se c’erano i soldi si potevano fare le prove a torchio. Fare una prova a torchio in sei colori portava via del tempo e costava parecchio. Per ovviare a questo problema si lavorava per sovrapposizione. Le varie parti della pagina venivano realizzate e poi si decideva come metterle insieme collaborando con il cromista. Era indispensabile anche durante la fase di avviamento della macchina litografica perché suggeriva come dosare i colori. I primi fogli erano molto importanti, da questi si poteva dedurre: «C’è troppo rosso», «C’è troppo giallo», «Mettiamo a posto…», tutte cose che adesso la macchina fa elettronicamente.

Secondo lei, durante la progettazione di un artefatto, il poter correggere istantaneamente gli errori, il poter “tornare indietro” grazie al computer, riduce l’attenzione posta allo sviluppo di un progetto? Ci sono vantaggi e svantaggi: prima era importante avere abbastanza esperienza per decidere cosa fare, si era costretti a riflettere maggiormente sulle proprie azioni. Ora in compenso si possono provare molte soluzioni, sapendo che, avendo a che fare con un progetto, vi sono sempre versioni alternative. Grazie alla tecnologia queste possibilità ora si possono esplorare. Io sono pignolo con la tipografia, ed ancora oggi aggiusto le cose ragionando con la testa di allora, cercando di immaginare il prodotto finale prima di stamparlo. Se dovessi citare un difetto tecnico del pc penso possa riguardare l’impaginazione: il computer fa vedere le cose in una scala diversa dal reale e non ci si rende conto delle proporzioni. Ancora adesso per avere una visione chiara del risultato finale le pagine del Corriere della Sera sono prima schizzate a matita e poi mostrate al caporedattore, solo dopo si passa all’impaginazione al computer.

Secondo lei, l’elemento tipografico all’interno di un progetto può avere una valenza artistico-estetica come le immagini, o deve semplicemente rimanere una componente funzionale? L’elemento tipografico è un’immagine. Indipendentemente dal fatto che sia tipografia o un’altra cosa. Qualsiasi cosa, con

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Il tempo è un elemento fondamentale della crescita del progettista: si tratta di un percorso di sedimentazione dell’esperienza progettuale che, assieme all’esperienza derivata dai propri errori, non può essere trascurato dalle esigenze della contemporaneitĂ ne dalla fredda perfezione della macchina.

I tempi sono cambiati: la gente chiede le cose subito, ma per lavorare velocemente bisogna essere molto concentrati. Andando sempre di corsa si sta perdendo il valore del percorso progettuale.


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Giancarlo Iliprandi

Quanto è importante il progetto su carta? È molto importante, sia per la creazione dei quotidiani che per le riviste. Il contatto diretto che si ha con le dimensioni della pagina è fondamentale. Bisogna considerare anche che c’è una differenza di velocità tra il pensare e il fare: usare la mano e schizzare è un’azione immediata, come si pensa si fa. Quando c’è in mezzo uno strumento tecnico invece il processo diviene più lento. La riduzione dei tempi di realizzazione fisica di un artefatto ha comportato una diminuzione anche dei tempi necessari alla creazione e allo sviluppo primario di un progetto? Il tempo di ideazione non cambia, è giusto che rimanga un processo articolato. Con la macchina si ha il vantaggio di poter semplificare ulteriormente il progetto, lasciando più spazio alla fantasia. Se si cura il layout di una cosa semplice i tempi di realizzazione possono anche essere rapidi, però c’è sempre una preparazione iniziale abbastanza lunga. Bisogna stare attenti. I tempi sono cambiati: la gente chiede le cose subito, ma per lavorare velocemente bisogna essere molto concentrati. Andando sempre di corsa si sta perdendo il valore del percorso progettuale. Prima si aveva il tempo di concentrarsi sui progetti e sui problemi ad essi legati; tutta la fase di progetto, essendo più lunga, arricchiva in vari modi. Per esempio il rapporto con le maestranze, i realizzatori, risultava essere importante, si discuteva e si scambiavano opinioni, c’era più tempo per conversare. Recentemente ha avuto modo di lavorare ancora strettamente con la tipografia? Ha notato un vero e proprio cambiamento rispetto all’era pre-digitale? No, non ho lavorato strettamente con la tipografia, ma conosco alcuni editori come i Tallone che curano ancora le cose come una volta. Lavorando con questo tipo di persone ci si scambiano delle opinioni su questo universo cartaceo. In generale non ho notato un grosso cambiamento, perché tendenzialmente le persone che si accostano al mondo della tipografia sono legate ad una serie di gestualità immutabili.

(Alla pagina a fianco) Giancarlo Iliprandi nel suo studio (Iliprandi Associati) a Milano, 2011. (In alto) Giancarlo Iliprandi, poster promozionale per l’azienda Arflex, in occasione della settimana del design a Milano, 1970.

Nel suo lavoro ha spesso deciso di trattare la tipografia reinterpretando l’alfabeto secondo il suo stile: ritiene che oggi sia ancora possibile trasmettere la propria estetica anche in un contesto saturo di caratteri di tutti i tipi? Sì, secondo me è ancora possibile trasmettere la propria particolarità… facendo comunicazione visiva non si può non far trasparire lo stile che si ha dentro. Il fatto che ci siano molte correnti omologate tra loro succede in tutte le cose, nel cinema, in letteratura. C’è stato un miglioramento in senso orizzontale, ci sono più possibilità per tutti, tutti possono accedere a determinate cose.

Secondo lei quindi non è sbagliato parlare ancora di autori grafici, ma con il pc non vengono meno tante caratteristiche dell’individualità che rendono un autore riconoscibile? Secondo me l’autore viene sempre fuori in qualche modo, o perché istintivamente preferisce lavorare in bianco e nero piuttosto che a colori, o perché usa sempre l’Helvetica, oppure perché privilegia caratteri graziati e via dicendo. Si dice che i pittori tendano sempre ad autoritrarsi, cioè nei ritratti o nelle figure si possono sempre individuare i lineamenti dell’autore. Io credo che questo principio valga anche per la grafica. Per esempio, A.G. Fronzoni lavorava prettamente in 21


Giancarlo Iliprandi

bianco e nero, con caratteri piccolissimi, magari poco leggibili, dando molta importanza allo spazio vuoto. Questo metodo di lavoro è molto personale, si riconosce subito l’autore. La critica che gli si potrebbe fare è che tutti i suoi lavori si assomigliano tra loro. Se però si osserva con attenzione, si nota che in realtà vi è sempre un’attenzione culturale relativa al proprio committente: se lavora per un museo lo stile è diverso rispetto a quando lavora per un’azienda di tessuti. L’importante è riuscire a fare i lavori con calma, avere clienti che lasciano la libertà di esprimersi; con poco tempo a disposizione o richieste molto mirate si finisce a copiare continuamente sé stessi, così salta poco fuori la propria personalità. Oggi si sta diffondendo un ritorno a particolari esperienze indipendenti di creazione e composizione di caratteri con metodi tradizionali. Secondo lei queste esperienze devono essere portate avanti, anche se magari non rispecchiano un’effettiva necessità produttiva e quindi non sono accettabili per la maggior pare delle committenze? Sì, devono sempre essere portate avanti, è come la cucina normale e la gastronomia. Una persona cucina normalmente, però in alcune circostanze, come i giorni di festa, prepara piatti più curati. I metodi tradizionali dovrebbero sempre vivere al nostro fianco, fanno parte di un nostro bagaglio storico. In molti casi non ne avremo mai bisogno, però può capitare che in alcune situazioni tornino utili. Questa è una domanda buffa che poniamo a tutti gli intervistati in chiusura: se lei potesse essere una font, quale sarebbe? Se dovessi identificarmi con una font, o meglio con un carattere tipografico, sceglierei il Torino, disegnato nel 1908 da Alessandro Butti per la Fonderia Nebiolo. Un bodoniano abbastanza sofisticato.

(In alto) Giancarlo Iliprandi, serigrafia a colori per la pubblicazione Letterando - Lettering, di Giancarlo Iliprandi, 2005, Corraini, Mantova. (Alla pagina a fianco) lo studio della Iliprandi Associati a Milano, 2011.

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Enrico Tallone

Il mistero dei caratteri

Una visione del passato che coincide, incontra e si scontra con il futuro Enrico Tallone Erede della più importante tradizione tipografica italiana e figlio del grande editore Alberto Tallone; porta avanti oggi l’attività della tipografia Tallone Editore, presso la storica sede di Alpignano (TO), che realizza pubblicazioni pregiate utilizzando esclusivamente tecniche di stampa tradizionali, basandosi sull’idea di riunire le figure dell’editore e dello stampatore, secondo il concetto di bottega rinascimentale. Il suo lavoro, riconosciuto e apprezzato in Italia e all’estero, ha ormai un’importanza consolidata nella storia dell’editoria e dell’artigianato di alta qualità.

Quindi non lo utilizza nemmeno per cose che non riguardano la tipografia? Preferisco delegare ai miei collaboratori i rapporti con il computer e l’elettronica in generale. Abbiamo visitato anche il vostro sito web: è fatto bene, ci è stato molto utile… Noi per tanti anni non l’abbiamo voluto e alcuni, per questo, ci consideravano uomini della pietra. In realtà, potrebbe essere molto più snob non avere il sito web. Porto questo esempio: se uno ha una bicicletta ma percorre un bel viale da solo è un privilegiato e arriva fino in fondo, se invece siamo tutti in coda, seppur su una Rolls Royce, siamo tutti dei miserabili, perché pur disponendo di un mezzo eccezionale, tardiamo a giungere a destinazione. È quello che è successo con il computer, nel senso che è velocissimo ma convoglia un tale coacervo di cose, per cui alla fine si può rivelare controproducente. Faccio un paragone: al principio del secolo, fino agli anni Cinquanta, in Italia e in Europa la posta veniva consegnata due volte al giorno; si scriveva da Milano a Vicenza o a Roma e la mattina dopo la posta veniva consegnata.Ora, a parte coloro i quali per piacere o per dovere passano la giornata davanti al video, di solito le mail si aprono una volta al giorno, quindi non è cambiato assolutamente nulla. Inoltre, mentre ad una lettera è raro non rispondere, una mail si può ignorare. È anche per questo che, avendo mantenuto quest’idea della tipografia arcaica, lenta, il computer non mi affascina così tanto, anche se forse mi tengo lontano perché lo temo.

Lunga chiacchierata con uno dei più autorevoli tipografi rimasti in Italia e nel mondo. La sua è la storia di una tradizione portata avanti con passione da generazioni, che cerca di preservare l’importanza di un mestiere artigianale nel mondo contemporaneo, di costruire un ponte tra un passato dimenticato e un presente da riscoprire. Qual è il suo rapporto con il computer? Per cosa lo utilizza? Mi definisco a-computerizzato, nel senso che non sono né entusiasta né contrario, semplicemente, ne sono quasi totalmente estraneo! Quindi non so neppure inviare una e-mail; per fortuna i miei familiari lo sanno fare, perché è uno strumento utilissimo. Sono quindi a-computerizzato, ma non sono assolutamente ostile a questo strumento. Del computer, però, temo la dispersività: un domani che io dovessi esserne padrone, temo non mi verrebbe più voglia di fare le prove con i caratteri e le bozze, le farei direttamente al computer. Non sarebbe di certo un dramma, ma essendo io appassionato della cultura tipografica, ho più confidenza con la materialità, ed è meglio che continui a lavorare in questo modo che sento di più. Io rappresento il mondo pratico, fisico, considero una magia comporre, stampare e scomporre, utilizzando gli stessi tipi per interpretare autori, forme e lingue diverse. In questo la tipografia tradizionale con i caratteri “di cassa” (precedente alla meccanizzazione ottocentesca rappresentata dalla Linotype e dalla Monotype) è modernissima essendo basata sul continuo riuso e riciclo dei caratteri e dei materiali.

Esiste un’attitudine che noi non abbiamo dovuto sviluppare nel corso dei nostri studi di grafica editoriale, essendo cresciuti nell’era del computer? La prima è la forma mentis, perché il tipografo sa che il progetto e le verifiche sul piombo gli costano fatica ed impegno e deve sviluppare una grande capacità di previsione. Erano famosi anche i titolisti dei grandi quotidiani; fino a quarant’anni fa leggevano i testi passati loro dai redattori e in un attimo, contando mentalmente le battute, dicevano: «Bodoni 36 stretto, spaziato a 12 punti» ed il titolo calzava a pennello. Mentre col computer si può sempre correggere e giustificare automaticamente, nella tipografia se si dimentica una parola, si deve riprendere tutto fino a un successivo capoverso che può essere trenta o quaranta righe più avanti. Ciò che è andato perduto, è questa idea di calarsi talmente nel mestiere da riuscire a prevedere molto, una progettualità istintiva, anche tecnica, a monte, una forma mentis, appunto, che permetta di evitare la fatica ingrata delle correzioni complesse, con il rischio, sempre presente, di creare altri errori. 24


In un mondo in cui tutto è uguale a tutto perchÊ omologato dagli standard del computer, si sta assistendo ad una riscoperta del mondo artigianale. Le sue caratteristiche e proprio quelli che venivano considerati i suoi limiti, tratto imperfetto, lentezza di esecuzione, sono diventati i suoi punti di forza.

Un punzone d’acciaio, anche ingrandito, risulta magnificamente vivo e calligrafico anche grazie a qualche inevitabile incongruenza legata all’incisione manuale, che la freddezza e la perfezione della tecnologia non avrebbero consentito.


Enrico Tallone

A differenza di una volta, adesso il computer permette di annullare immediatamente gli errori e tornare all’azione precedente. L’errore forse aveva un valore maggiore, anche per la formazione di un tipografo? Sosteneva Eugenio Montale, che un libro non è perfetto se non ha almeno un errore… Nell’arte di comporre i libri, tra i compositori, erano e sono apprezzatissimi quelli che avevano un certo passo, non molto veloci, ma capaci di non fare errori. Per avere un libro senza errori si deve cominciare a non farne già dall’inizio, perché l’errore poi si nasconde ed è difficilissimo da trovare. Perciò, più del compositore che riesce a fare l’exploit componendo la pagina in un’ora, è apprezzabile quello che la fa in due, ma che non commette errori, consegnando un lavoro finito. Da quali scelte occorre partire nella composizione della pagina tipografica? Nel nostro caso si parte da un concetto globale, coniugando i ruoli di editori, tipografi e librai. Quando si pensa a un’opera, a parte tutte le questioni filologiche e letterarie, si parte dal formato. In base al formato e al peso della carta, si considera l’architettura impaginativa e il carattere da usare. Nel nostro caso la scelta del carattere è conseguente all’andamento dell’officina perché, essendo i caratteri in quantità finita e non infinita, spesso abbiamo i tipi adatti ad un libro impegnati in un altro. Certe volte si devono fare dei compromessi o aspettare che quei caratteri si liberino, come in un gioco a incastri. Il fascino delle edizioni dei maestri del passato dipende paradossalmente dal fatto che essi disponevano di pochissimi caratteri. Molti si ingegnavano creando innovazioni straordinarie, indotte da necessità contingenti. Avevano vincoli talmente grandi che spesso erano costretti ad uscire dalle regole: si vedano le ardite troncature nei frontespizi, l’uso dei minuscoli al posto dei maiuscoli o viceversa. Tutto ciò è bellissimo, non è criticabile. Effettivamente nella tipografia antica si sono sbrigliati in trovate grafiche che oggi sarebbero considerate all’avanguardia. Gli avvicinamenti, le famose crenature: ci sono dei libri quattrocenteschi con delle crenature pazzesche! Limavano i fusti dei caratteri, correggendo ad esempio la naturale eccessiva distanza tra una V maiuscola e una A. Tutto si poteva fare, anche se in modo lungo e macchinoso. Oggi, lo smaterializzarsi dei caratteri induce ad evidenti esagerazioni. Ad esempio la T maiuscola spesso viene talmente addossata alla minuscola successiva da creare l’effetto ombrello. Pertanto, l’uso degli avvicinamenti estremi deve avvenire con moderazione perché anche una certa irregolarità dell’alfabeto è bella, e cercare di regolarizzare tutto risulta mortalmente monotono.

Tagliando pubblicitario per il Manuale tipografico II di Alberto Tallone, Alberto Tallone Editore, 2008.

Ci sono state delle modifiche nell’iter di lavorazione rispetto alle azioni che le sono state tramandate dall’opera di suo padre? Esiste nella cultura tecnica e manualistica una frattura rispetto alla pratica sul campo, perché di solito chi scrive i manuali è un teorico, che non ha mai preso in mano un compositoio, o non ha mai stampato. Si tratta di persone colte e appassionate, ma, se si applicassero alla lettera le loro regole, si impiegherebbe molto di più; tutte le officine artigiane procedono per trucchi e segreti di bottega, applicati di volta in volta secondo le caratteristiche e le necessità dei diversi lavori. Certamente delle regole fondamentali ci sono. Il grande cambiamento fu quando si passò dalla composizione manuale con i caratteri mobili di cassa ai caratteri delle compositrici meccaniche Monotype e Linotype. Però, la cosa più importante è che non si interrompa la catena dell’insegnamento da maestro ad allievo nel senso che, dai manuali tecnici si apprende in modo enciclopedico, ma difficilmente si imparerà a lavorare bene perché tutto va commisurato alla propria dimensione, alla propria identità e al proprio stile. Abbiamo visto che i suoi figli sono i suoi “aiutanti”. Le azioni che svolgono corrispondono a quelle di figure professionali che erano implicate nella tipografia tradizionale? 26


Enrico Tallone

Dal Manuale tipografico II di Alberto Tallone, Alberto Tallone Editore, 2008, doppia pagina tratta da una segnatura esemplificativa della pubblicazione Pinocchio di Carlo Collodi, Alberto Tallone Editore, 1994. (Alle pagine successive) Enrico Tallone nella bottega Alberto Tallone Editore, 2011.

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Enrico Tallone

Quando un dattiloscritto o manoscritto, scende in stamperia, sono già state decise moltissime cose: l’elemento principale rimane la composizione, che segue il progetto. Il compositore che assembla i caratteri, deve avere grande sensibilità per l’armonia della spaziatura tra le parole e, di conseguenza, per l’architettura della pagina, le cui dimensioni e l’interlineatura sono state precedentemente definite nel progetto. Inoltre, deve possedere un “passo”, come l’alpino che parte per la montagna, poiché sono apprezzati i compositori lenti, ma che consegnano un lavoro finito, rispetto a quelli veloci che, fatalmente, incorrono in errori. Un’altra figura importante è il revisore, perché chi corregge le bozze deve anche saper distinguere il refuso, oltre all’errore ortografico. Per esempio, avendo diversi alfabeti di corpo 12, può succedere che una O di un carattere si mescoli con un altro per errore ed è difficilissimo da riconoscere. Anche l’impaginazione è fondamentale, poiché determina la cadenza musicale del libro. Si deve stendere sulla carta un testo che visivamente risulti il più leggibile possibile, senza modificare nemmeno una virgola dell’originale. Sia alla composizione che all’impaginazione, quindi, non è sotteso solo un lavoro meccanico, ma anche una grande sensibilità e una conoscenza della lingua letteraria. Le forme tipografiche, essendo composte da caratteri mobili, risultano modificabili fino all’ultimo istante e la storia letteraria ricorda numerosissime modifiche di autori fatte addirittura in macchina, sul piano del torchio. Viceversa, l’immodificabilità della lastra offset è un ritorno alle forme fisse dei libri tabellari precedenti l’invenzione di Gutenberg. Ma la tipografia cela dei misteri: infatti, risultano spesso efficacissimi anche gli stampati progettati da persone prive della necessaria cultura grafica, surrogata da una componente istintiva e dalla stessa forza espressiva dei caratteri.

da chiedersi: perché Einaudi usa il carattere Simoncini, le cui proporzioni richiamano i modelli cinquecenteschi? Perché Adelphi usa il Baskerville, che è un transizionale del 1750? Evidentemente esiste un mistero dei caratteri, altrimenti tutti noi, da secoli, leggeremmo libri stenografici, dato che questa modalità di scrittura veloce fu inventata da Tirone, segretario di Cicerone, per trascrivere le sue arringhe al Foro Romano. Curiosamente, questo non succede, perché il successo degli alfabeti non è stato determinato dai tecnici ma dai lettori, cioè da coloro entro cui abita la memoria storica che permette di collegare le forme al suono. Probabilmente, in questa memoria del popolo occidentale, è fissato l’equilibrio alchemico ed ancestrale tra forma e contenuto. Noi stampiamo testi contemporanei con caratteri di ispirazione cinquecentesca senza suscitare alcun contrasto, perché essi sono più astratti, mentre quelli neoclassici, pur bellissimi nei loro contrasti di ascendenti marcate e grazie sottili, sono più ancorati alla loro epoca. Per questo motivo mio padre fu protagonista del ritorno alla classicità in tipografia, in un percorso letterario ed estetico tra forma e pensiero. Quali pensa siano le differenze tra il rapportarsi con la carta e con il monitor? La carta si piega ma non si spezza, ha una fragilità apparente. Liber, cioè libro, vuol dire “libero”. Il pericolo è rappresentato da questo: se si abituano i bambini alla tavoletta elettronica, può darsi che un domani non sappiano più apprezzare e maneggiare il libro. Secondo me la civiltà ideale è quella capace di inglobare una nuova tecnologia, come l’e-book, (in cui in ogni caso il protagonista sarà sempre il carattere), mantenendo la fisicità dell’universo concreto legato all’oggetto libro. Io credo che i due universi riusciranno a convivere, pur nella differenza sostanziale che il libro lo si paga una volta sola, mentre l’e-book comporta un costo energetico, ogni volta che lo si legge. La tipografia ha una dimensione straordinaria: perderla significherebbe abbandonare una parte importante della nostra civiltà, poiché tutto ciò che omologa facilita, ma, fatalmente, svilisce.

Perché la tipografia Tallone utilizza caratteri classici? Pubblicando opere di lunga lettura, siamo quotidianamente in contatto con il “mistero dei caratteri” che presiede la disciplina; considerando che la modernità e il progresso si basano sul concetto di velocizzazione e di sintesi, viene spontaneo chiederci perché, dopo duemila anni la struttura del maiuscolo non è cambiata: se osserviamo le maiuscole del carattere Futura disegnato da Paul Renner (uno degli esempi più famosi di Razionalismo novecentesco) a parte l’assenza delle grazie, notiamo la sua discendenza estetica dai modelli augustei romani; mentre possiamo notare che gli alfabeti minuscoli censiti come Garamond, sono tuttora tra i più usati nell’editoria, pur essendo le loro proporzioni mutuate dai tipi veneziani che trovarono il loro equilibrio definitivo nel carattere usato da Aldo Manuzio per la stampa del De Aetna di Pietro Bembo, nel 1496. A conferma di questo viene

Parlando invece di leggibilità, perché la tradizione Tallone si è concentrata proprio su questo aspetto? Bisogna partire da questa considerazione: i grandi autori, che ci hanno lasciato le loro opere, sono dei benefattori dell’umanità. Dar loro delle ali per veicolarli nello spazio e perpetrarli nel tempo era l’intento di mio padre ed è il nostro, attraverso l’uso di carte, caratteri e materiali di qualità, che ne permetteranno la durata nei secoli. Se prendiamo oggi un libro di Aldo Manuzio, che ha inventato cinquecento anni fa l’editoria moderna, vediamo un libro perfetto, pieno di bellezza e di 30


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tecnologia. La carta, prodotta con stracci di puro cotone, lino o canapa, e impastata con acqua ricca di calcio antiossidante, rende quei manufatti tutt’oggi perfetti. Dunque, tutto parte dalla letteratura: infatti, mio padre esordì alle Messaggerie del Libro di Milano, veicolando il libro italiano all’estero, e quello estero in Italia, dando una dimensione all’estetica della letteratura, sviluppando una propria scuola e divenendo l’erede di Bodoni, nel senso della purezza della pagina e del rigore: non un rigore minimalista, ma una ricca semplicità. Fu un atto di coraggio e di passione saltare il fosso, passando, all’età di trentun’anni, dal commercio del libro all’apprendistato parigino presso Maurice Darantiere, il cui laboratorio, intatto ed arricchito di molte serie di caratteri, è in attività dalla fine degli anni Cinquanta ad Alpignano. Cosa ne pensa delle sperimentazione tipografiche, che sono nate a seguito dell’avvento del computer, anche in rapporto all’aspetto della leggibilità? Con il computer si apre un mondo sconfinato, per cui la creatività ha potuto trovare un veicolo straordinario. Per quanto riguarda la leggibilità, credo che essa risponda a dei canoni precisi. Certamente, per quanto riguarda certe pagine ad effetto, che devono colpire più che essere lette, ci si può sbizzarrire. Giova ricordare che, più di cento anni or sono, il Futurismo fu un movimento straordinario perché ebbe l’intelligenza di usare i caratteri allora esistenti in modo diverso e creativo. La vera frattura tra due mondi fu la loro, perché la tipografia dell’epoca era soffocata dallo stile “vegetale” del Liberty e dalla stanca imitazione di modelli bodoniani. La tipografia, nata perfetta dal manoscritto, toccò il punto più basso proprio nell’Ottocento (in quel periodo furono prodotti i libri più brutti) e il Futurismo, in un’epoca in cui la speranza nelle “magnifiche sorti e progressive” era in grande auge, dette una goliardica pedata a tutto il ciarpame “Belle Epoque” e, pur nei suoi estremi, nel campo grafico fu un movimento di straordinaria creatività. Dopo la fortuna del carattere Tallone, avete mai sentito la necessità di affrontare il progetto di nuovi caratteri, esclusivi per le vostre edizioni? Più che tentare di creare un nuovo carattere, che sarebbe un sogno, ho tentato di salvare, in diverse tipografie italiane ed estere, i tipi originali di grande valore storico ed estetico che venivano alienati a causa del cambio di tecnologia. Ho creato un archivio, sia di caratteri classici che moderni, modernisti e razionalisti di grande consistenza, preservando questi capolavori assoluti, la maggior parte dei quali incisi a mano su punzoni d’acciaio. Quindi, più che dedicarmi a creare un carattere nuovo, ho cercato di salvare quelli esistenti, di censirli

(In alto) dal Manuale tipografico II di Alberto Tallone, Alberto Tallone Editore, 2008, incipit di Laudi per Eleonora, di Gabriele D’Annunzio, Alberto Tallone Editore, 1986.

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e di attribuirli ai loro veri autori, poiché in questo campo (soprattutto riguardo ai disegnatori italiani) regnava la massima confusione. Per quanto riguarda il carattere Tallone, devo dire che mio padre non è partito da qualche fortunato modello preesistente, per poi personalizzarlo con delle modifiche, ma ha creato un tipo originale, seppur nel solco di un’idea classica, avvalendosi di Charles Malin, grandissimo incisore e punzonista, la cui mano ha contato moltissimo, perché un conto è disegnare un carattere su uno schermo, altra cosa è incidere su un punzone d’acciaio un corpo alto tre millimetri, che successivamente, anche ingrandito, risulta magnificamente vivo e calligrafico anche grazie a qualche inevitabile incongruenza legata all’incisione manuale, che la freddezza e perfezione della tecnologia non avrebbero consentito.

(Alla pagina a fianco) composizione a caratteri mobili di una pagina tipografica presso la bottega Alberto Tallone Editore, 2011.

Oggi c’è un ritorno alla produzione di caratteri mobili e di composizione tradizionale da parte di progettisti e studi nati direttamente dall’esperienza al computer. Si sono interessati a questo mondo e hanno deciso di provare a recuperarlo, almeno in parte, per alcuni lavori. Come giudica queste esperienze? Dopo trent’anni d’impalpabilità digitale, si sta tornando alla concretezza della tipografia. Ho riscontrato anch’io questa tendenza: infatti, non conosco giornalista o grafico che non sia alla ricerca di un tirabozze o di una cassa di caratteri, come se si trattasse di una necessità fisiologica. Inoltre, l’idea del riciclo dei tipi (che è profondamente connessa alla tipografia) è vincente: basti pensare che per comporre i capolavori del Rinascimento è spesso bastata una cassa di caratteri. Questa nuova esigenza può essere interpretata in modo molteplice: potrebbe rappresentare, ad esempio la premessa ad un nuovo Futurismo. Ha riscontrato delle richieste, degli interessi, da parte di giovani progettisti? Ho rilevato un interesse enorme per il carattere. Siccome noi li tocchiamo con le dita, li conosciamo proprio intimamente, possiamo parlarne come se fossero delle creature viventi. Non per niente si chiamano caratteri: noi vediamo dei nasi, delle orecchie, dei volti, delle espressioni, dei veri e propri “caratteri”, che definirei “sculture del Pensiero”. L’ultima domanda è curiosa, bizzarra: se lei fosse un carattere, in quale si identificherebbe? Questa è una bellissima domanda, ma non so davvero cosa rispondere. Quando non possiedi un carattere e lo desideri, lo cerchi, ne sei totalmente conquistato, poi, quando lo possiedi, ti succede di dimenticarlo e di innamorarti di un altro, inseguendo così altre forme, altre utopie…

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RUdY VANDERLANS

Un’epoca di libertà e di “nuove regole” Le motivazioni e l’eredità di un’esperienza esemplare

Rudy VanderLans È il fondatore, assieme alla moglie Zuzana Licko, della rivista di grafica sperimentale e cultura underground Emigre. Ha studiato graphic design alla Royal Academy of Art de L’Aia. Dopo aver lavorato per diversi studi di design in Olanda, si è trasferito in California dove ha studiato fotografia presso l’università Berkeley. Dal 1984, con la rivista Emigre, è riuscito a testare moltissime sperimentazioni grafiche che hanno dato vita ad un ampio dibattito nel mondo del design e della tipografia. Nel bene o nel male queste innovazioni hanno caratterizzato profondamente lo stile grafico dei decenni successivi.

Rudy VanderLans, progetto per il logotipo della rivista Emigre, 1984.

Lo strumento digitale ha una grande responsabilità in ciò che è accaduto nel mondo della tipografia. La realtà di Emigre ha colto immediatamente le opportunità di queste novità e incognite strumentali. Assieme a Rudy VanderLans, protagonista di questa “rivoluzione”, proviamo a riportare uno sguardo agli sconvolgimenti di quel periodo per poterli capire e giudicare nel modo più adeguato.

sa ragione. Come oggi fanno tutti, ci ascolto musica, leggo le mie mail, le notizie, e ci lavoro; sempre sulla stessa macchina. Funziona bene e inoltre rimpiazza altri strumenti di qualità che sono andati perduti. Ho riacquistato da poco un giradischi per riascoltare i miei dischi in vinile. Tutto quel rituale: sfilare il disco e toccare con la puntina quella plastica lucida e nera… è così tattile e bello; è quel che si è perso con iTunes… Il computer comunque è parte indispensabile della mia vita; e so che non ne potrei fare a meno.

Il 1984, anno della nascita della rivista Emigre, non è una data casuale, coincide infatti con l’avvento dei primi personal computer Macintosh; è una semplice coincidenza o la comparsa di questo sistema operativo è stata cruciale per il vostro successo? L’arrivo sul mercato del Macintosh è stato un evento molto importante per la nostra vita professionale. Il fatto di esser stati coinvolti sin dall’inizio con questo strumento appena nato è la vera ragione dell’attenzione che abbiamo ricevuto sui nostri primi lavori. All’epoca a nessuno piaceva quel computer: tutti pensavano fosse una moda passeggera, inadatta per fare del vero design. Ma eravamo al posto giusto e nel momento giusto; l’accettazione di questo nuovo strumento sin dall'inizio, quando tutti lo rifiutavano, ha determinato le nostre carriere.

La diffusione dei computer ha causato quella che oggi potremmo definire un’omogeneità degli stili, è d’accordo? Cosa ne pensa in merito? Difficile a dirsi in termini così generici. È vero, il computer ha prodotto una certa omogeneità; ma non è così con ogni tecnologia? Ed è colpa del computer o di chi lo usa? Con il computer sono stati fatti lavori straordinari. Sinceramente, non pongo molta attenzione alle ultime tendenze. Quando pubblicavo Emigre, sapevo tutto quel che succedeva nel graphic design. Leggevo tutti i libri e tutte le riviste di settore. L’ho fatto fino al 2005, anno in cui ho chiuso Emigre; poi ho smesso di occuparmene. Dopo venticinque anni di profonda immersione in quel mondo, ora mi occupo solo del mio lavoro. Faccio raramente conferenze o lezioni; leggo

Rispetto ai suoi inizi come è cambiata l’opinione che ha nei confronti di questo strumento? È migliorata con il tempo e ho ancora lo stesso sentimento di amore-odio. Lo amo perché fa quasi tutto; lo odio per la stes34


Nel corso del XX secolo il progettista grafico e tipografico poteva essere considerato come un vero e proprio autore visivo; non è sbagliato pensare al computer come principale imputato di quella perdita delle identità alla quale siamo abituati oggi.

Una volta era abbastanza facile riconoscere da dove venisse il graphic design. Ora non piĂš.


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poco di graphic design. Non voglio dire che si debba fare così, ma mi sto occupando di me, senza grande interesse per quel che succede in questo campo. In ogni caso questa omogeneità di stili è un vero peccato, soprattutto per il riconoscimento delle identità, locali e nazionali. Una volta era abbastanza facile riconoscere da dove venisse il graphic design. Ora non più. Quegli stili riconoscibili stanno scomparendo velocemente, perché tutti usano gli stessi computer e, cosa ancora più importante, a causa di internet tutti vedono il lavoro di tutti e l’influenza è reciproca. Qual è il ruolo del graphic designer contemporaneo? Siamo in grado di creare qualcosa di nuovo o siamo solo “follower” di vecchie tendenze? Il ruolo del graphic designer è quello che è sempre stato: comunicare con efficacia. Cosa vi ha spinto a sfidare i principi e le regole della tipografia e dell’impaginazione classica? Secondo lei queste sperimentazioni che valore hanno nel presente? Non abbiamo sovvertito ruoli o regole, ne abbiamo aggiunti di completamente nuovi. Abbiamo ampliato la palette. Non è mai utile porre un limite all’approccio. Parlando in particolare della leggibilità di una pagina, qual è l’eredità di questa esperienza così radicale? Vent’anni dopo la pubblicazione delle nostre prime riflessioni sulla leggibilità pubblicate su Emigre, finalmente si sta recuperando terreno. Ma allora ci guardarono con rimprovero. I nostri layout così poco “neutri” e quella tipografia così forte sono stati criticati e respinti come un esercizio solipsistico; e sono stati giudicati come un’interferenza tra capacità di lettura e comprensione del testo. Il contrasto ai nostri esperimenti fu così forte che la battaglia che ne seguì venne definita come The Legibility Wars. Ora i ricercatori riscoprono le nostre intuizioni di allora: cioè che rallentare la lettura aiuta la concentrazione e aggiunge informazioni; disfluency, così la chiamano. O anche, come ha scritto il New York Times: «Si acquisiscono più informazioni quando le font non solo sono sconosciute, ma anche difficili da leggere». Non voglio essere così assolutista, naturalmente. Siamo piuttosto scettici sulle ricerche di chi ha poca conoscenza della complessità del progetto tipografico. Ma ci è sempre sembrato ovvio che c’è un quid in più nel progetto di una tipografia forte piuttosto che nel semplice “far leggere le cose”. Non so se chiamarla eredità, ma è stato qualcosa che ci ha occupato molto e che ancora oggi ha il suo senso.

(In alto) copertina del n°1 della rivista Emigre, 1984; copertina del n°69 (conclusivo) della rivista Emigre, 2005.

Abbiamo notato che il suo approccio alla grafica, durante l’esperienza di Emigre, è cambiato nel corso del tempo,

(Alla pagina a fianco) Emigre Fonts, pagina pubblicitaria per la font Fairplex, 2002.

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passando da una sperimentazione più spinta ad un maggior rigore; come spiega questo cambiamento? Credo di non essere così rigido. Non credo in una risposta definiva al problema del progetto. Alcuni hanno regole che li tranquillizzano; io no. Del resto, se si guarda al mio lavoro di oggi, non sembra poi così diverso da quello che facevo vent’anni fa. Se comparate le copertine del n°1 e del n°69, l’ultimo numero di Emigre, non mi sembrano così diverse… Questa patente di “radicali” invece ha molto a che fare con il fatto che abbiamo cercato di incorporare nel progetto nuovi strumenti, questo sì. Quella tecnologia agli albori ci spinse a pensare le cose in modo diverso. Non aveva senso cercare di produrre progetti “classici” quando avevi a disposizione font a bassa risoluzione. E in questo abbiamo intravisto un’opportunità: creare un graphic design totalmente diverso, che utilizzasse la tecnologia del momento a suo vantaggio. Questo non lo chiamerei “radicale”; è piuttosto un’attitudine modernista. Era un momento di grande libertà creativa perché nessuno aveva ancora lavorato in quel nuovo “ambiente”. Non ci si poteva rifare a esempi esistenti, per copiarli. Abbiamo creato un nostro linguaggio, caratterizzato dal bitmap. Fu un periodo divertente! Si lavorava con molte restrizioni, ma non rifacendo il già visto. Si dovettero abbandonare molti preconcetti e ripensare le cose “fuori dal seminato”. Oggi il computer non da più questi problemi; è diventato così sofisticato che puoi fare tutto quello che ti viene in mente. Tutto è possibile. Per Emigre sono stati creati diversi caratteri pittogrammatici e calligrafici. Da cosa è nato questo approccio alla tipografia pittorico e fumettistico? Scaturì dal fatto che una font avrebbe potuto essere qualsiasi cosa. Invece che una serie di lettere, poteva essere una serie di illustrazioni. Può sembrare ovvio adesso, ma non lo era quando si cominciarono a realizzare font digitali, nel 1984. In più, ci divertivamo.

Copertina della rivista Emigre n°15 - Do you Read Me?, 1990. (Alla pagina a fianco) pagina pubblicitaria della Emigre Fonts dalla rivista How magazine, 2002.

Portando avanti la memoria della rivista Emigre, attraverso mostre ed esposizioni, nota un cambiamento nella percezione del suo lavoro oggi? Difficile valutare come gli altri percepiscono il tuo lavoro. Molti studenti di oggi non erano nemmeno nati quando iniziammo Emigre e, sempre che lo conoscano, sono sicuro che lo vedono in modo molto diverso dalla nostra generazione. Oggi non pubblichiamo più riviste né produciamo musica, perché focalizziamo il nostro lavoro sul type design. E da quando ci occupiamo del progetto di famiglie di font complesse, che è un lavoro molto intenso, la nostra produzione è molto più sporadica. Teniamo un profilo molto più basso: Zuzana (Licko, la moglie, ndr) sta lavorando a ridisegnare le sue vecchie font, perfezionandole, e sta applicando ciò che ha

appreso in precedenza. Questo fa pensare a una produzione meno incisiva. In realtà siamo molto impegnati, è solo meno evidente. E grazie a questa rinnovata attenzione alle nostre font, la fonderia di Emigre sta funzionando bene. Questa è una domanda buffa che poniamo a tutti gli intervistati in chiusura: se lei fosse una font, quale sarebbe? Mi piacerebbe essere l'Helvetica, perché sarei ovunque.

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JAMES CLOUGH

Safari tipografico

La passione per la lettera, in uno “zoo” di insegne, affissioni e gestualità James Clough Londinese, ha studiato typographic design al London College of Printing. Da più di quarant’anni vive e lavora in Italia come progettista grafico e calligrafo. Insegna calligrafia nonché storia e teoria della tipografia in alcune università italiane e svizzere. Scrive di scrittura, storia della tipografia e di arti grafiche per pubblicazioni inglesi e italiane.

designer. In un secondo momento si chiamava il fattorino dalla casa di composizione e gli si affidava una busta con il dattiloscritto con le nostre indicazioni per la composizione. Il giorno dopo questo tornava con le prime bozze e noi dovevamo controllare se ci fossero errori. La filiera era molto lunga. Poi inevitabilmente qualche cosa all’ultimo minuto veniva cambiata. Con la fotocomposizione (quell’interregno tra la tipografia metallica e quella digitale), quando si faceva l’esecutivo per la stampa offset, spesso si usava il bisturi per tagliare un numero o una parola e sostituirlo incollandolo a mano nella posizione giusta sopra l’errore.

Ci immergiamo nelle riflessioni di James Clough sulla convivenza a volte turbolenta, a volte pacifica tra la tradizione e le nuove tecnologie del mondo della tipografia. È affascinante la passione che dimostra per la bellezza dei caratteri o, a volte, per la loro affascinante bruttezza.

Lei ha lavorato molto con la calligrafia, specialmente per la realizzazione di logotipi e marchi. Che cosa è cambiato in questo mondo con l’avvento del digitale? Mi chiedo molto spesso se gli strumenti che uso, penne, pennelli, pennarelli, che lasciano un segno irregolare e senza un contorno pulito e vettoriale, possano essere considerati “antichi”. In parte credo di sì. La maggior parte dei lavori che svolgo con questi strumenti sono logotipi riguardanti cibi o vini, dove l’aspetto “materico” è una qualità. Talvolta ai grandi produttori industriali di minestre piace dar l’idea (falsa) di realizzare prodotti artigianali e genuini, cucinati dalla nonna; e richiedono un segno grafico per il packaging che riconduca a questo tipo di atmosfera. Quelli della mia generazione hanno avuto il problema di dover imparare ad utilizzare Photoshop, la differenza tra un tiff e un jpeg, e così via. Io, personalmente, mi considero un po’ un profugo della rivoluzione digitale; però, certe cose, per poter continuare a lavorare, inevitabilmente bisogna impararle. Rispetto agli anni Settanta, non ci sono dubbi che il mio lavoro sia cambiato; sebbene ci sia meno domanda per questo tipo di espressività calligrafica, direi che progettisti che hanno una cultura tipografica sono più consapevoli del potere espressivo di un logotipo fatto a mano rispetto ad uno fatto con un carattere. Ciò nondimeno, non posso dire che un marchio composto con un carattere sia inferiore a un altro calligrafico, perché ci sono colleghi che usano il carattere in maniera stupenda e molto originale. Uno splendido esempio è lo Stefanel di Felix Humm. Non penso che ci sia una concorrenza tra tipografia e calligrafia in quel settore, anche se certamente io come calligrafo sono sempre in concorrenza con un carattere a stampa!

Il mestiere della tipografia è molto antico e strutturato, per ogni compito esistono professionisti specializzati. Ritiene che il digitale abbia cambiato questa situazione? Quali figure professionali sono scomparse? Il principale professionista scomparso è il compositore tipografico, che aveva un ruolo di specializzazione già nel Quattrocento; era un personaggio in grado di leggere e scrivere, quindi colto, per quei tempi. Questa figura, insieme al correttore di bozze, che pure è scomparso, aveva una grande responsabilità, era rispettata ed anche ben pagata. In Inghilterra il compositore tipografico doveva fare cinque o sei anni di apprendistato per conoscere la cultura tipografica: come articolare i testi, i criteri di leggibilità, l’estetica della tipografia e via dicendo. Oggi non esiste più questa figura professionale, la responsabilità è dei grafici e dei progettisti e pertanto è importante che abbiano anch’essi un po’ di cultura tipografica. Un tempo tutto era più lento e più difficile; non si poteva cambiare carattere, corpo e interlinea con un semplice click del mouse. Le nuove tecnologie hanno cambiato molte parti della filiera produttiva dell’artefatto grafico. Quali erano i vari passaggi della composizione nell’era pre-digitale? Negli anni Ottanta, in uno studio grafico il procedimento era assai lungo. Se avevamo uno spazio dedicato per un annuncio dovevamo calcolare precisamente quante battute potevano stare dentro una determinata area. Se sbagliavamo era necessario talvolta anche ribattere l’intero testo, con un conseguente aumento dei costi. Non c’era il modo di cambiare automaticamente il corpo di un carattere e ne conseguiva una responsabilità economica maggiore sulle spalle del

Parlando di una certa passione sensoriale per l’oggetto tipografico, che sia un libro, un carattere mobile o un tipo di carta. Secondo lei questa passione va sparendo col tempo o possiamo essere ottimisti sulla permanenza di questa sensibilità? Io sono convinto, da quello che ho visto recentemente negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Italia, che ci sia un ritorno 40


Le esperienze di composizione tradizionale oggi stanno attirando la curiositĂ di alcuni grafici. La voglia di una maggiore conoscenza delle techinche di impaginazione e di stampa porta ad un bisogno di manualitĂ , di toccare con mano le tecniche che hanno fatto grandi gli autori del passato.

Oltre ad essere un antidoto alle ipertecnologie che dominano le nostre vite, alcuni giovani cominciano a considerare la tipografia tradizionale in una maniera piĂš seria di un semplice hobby.


JAMES CLOUGH

di interesse per la calligrafia e per la tipografia tradizionale. L’Associazione Calligrafica Italiana quest’anno compie vent’anni; dal 1990 si sono aperti molti musei della stampa in Italia e sono nate realtà come l'Officina Tipografica Novepunti che hanno riscoperto la tipografia tradizionale. L’altro giorno ero in un piccolo paesino nel veronese, presso la stamperia di Alessandro Zannella. Eravamo una quarantina di stampatori, appassionati di tipografia, calligrafi e docenti, a un pranzo conviviale, per conoscerci meglio e cercare di costituire qualche cosa. L’entusiasmo era straordinario. Oltre a sviluppare un antidoto alle ipertecnologie che dominano le nostre vite, alcuni giovani cominciano a considerare la tipografia tradizionale in una maniera più seria di un semplice hobby. Insomma, stiamo vivendo un po’ una Renaissance della tipografia proprio nel paese del Rinascimento!

manda ufficiale a chi detiene la proprietà intellettuale di quel carattere, io non lo so. Quello che mi dispiace è che tutto questo lavoro venga fatto all’estero. Non c’è in Italia qualcuno interessato a riesplorare e ripresentare in formato digitale i caratteri italiani, specialmente quelli della grande stagione di Aldo Novarese e Alessandro Butti? Magari non solo caratteri: forme di lettere incise di tutti i secoli, insegne dei negozi degli anni Cinquanta, tante cose del passato remoto e recente che possano ancora ispirare. Questa primavera abbiamo fatto un giro di Milano in bicicletta; eravamo in più di venti e abbiamo fatto un “safari”, fotografando scritte varie, come le iscrizioni, insegne dei negozi, tombini ecc. Lo abbiamo chiamato Biciclettering. Da anni cerco di documentare esempi di scritte nelle città italiane. Questa potrebbe essere un’area in grado d’ispirare i progettisti di caratteri. Ad esempio, le insegne che ci sono rimaste del periodo Liberty esistono ancora dappertutto nel paese, dal nord al sud. Alcuni mostrano certe qualità formali e in nessun caso si tratta di riproduzioni di caratteri tipografici dell’epoca.

Ci siamo chiesti se, con la nascita del computer, l’errore abbia sempre meno importanza, dato che si può subito annullare uno sbaglio con un tasto, mentre una volta l’errore costringeva a rifare molte ore di lavoro. Lei cosa ne pensa? Mi ha raccontato un linotipista in pensione che lavorava a La Stampa, che lì a Torino, quando un compositore faceva per la terza volta lo stesso genere di errore lo mandavano via. Un paio di settimane fa abbiamo fatto un errore in un libretto realizzato alla scuola CFP Bauer: avevamo una citazione in francese di Guy de Maupassant e in qualche maniera, non sappiamo neanche come, in tre righe c’erano ben cinque errori! Nessuno aveva controllato il testo e non avevamo neanche previsto che quel testo in francese venisse inserito, ci bastava la traduzione in italiano. Il foglio ormai era stampato e non c’era più carta per ristamparlo corretto. Insomma, c’era in gioco la nostra reputazione e dovevamo intervenire in qualche maniera. Io ho pensato che ci volesse un errata corrige: inserire un foglio, chiedendo scusa ai lettori, magari anche in maniera simpatica. Invece, un nostro studente, laureato al Politecnico di Milano, ha avuto la brillante idea di comporre, nella stessa posizione della citazione, una serie di fregi decorativi e stamparli in modo che si sovrapponessero esattamente sopra quelle tre righe. È riuscito alla perfezione, perfino al punto di aggiungere qualità alla pagina.

Secondo lei potrebbe avere un senso fondere in metallo, o realizzare in legno, un carattere nato in digitale? Lo stanno già facendo. Negli Stati Uniti al Hamilton Wood Type Museum hanno realizzato almeno tre caratteri in legno, progettati per produzione sia in digitale che in legno. Juliet Chen ha creato un carattere per una tribù americana a rischio di perdere il proprio patrimonio linguistico. È riuscita a crearne la controparte digitale, appositamente studiata per questa lingua. Successivamente il carattere è stato prodotto dal Hamilton Museum anche in legno, per invogliare i ragazzi della tribù a riappropriarsi del loro patrimonio linguistico, ad imparare la lingua, che stava scomparendo, con i caratteri in legno. I ragazzi compongono e stampano con un torchio tiraprove e, con l’aiuto di questo “gioco tipografico”, riprendono possesso della lingua dei loro nonni. Che splendida idea di legare la cultura della tipografica tradizionale ad una funzione antropologica! Matthew Carter ha progettato un carattere in legno specificamente per l’Hamilton Museum e Nick Sherman ne ha realizzato un altro, sempre con gli attrezzi del Museo con l’aiuto del typecutter Norb Brylski, che tagliava caratteri in legno sulla stessa macchina, nello stesso luogo, fino a trent’anni fa.

Qual è la prassi per tradurre in digitale un carattere? In Germania, Inghilterra, Olanda e negli Stati Uniti ci sono fonderie digitali, gruppi che lavorano ormai da diversi anni, mentre in Italia ci sono solo individui (forse il popolo italiano è più individualista) ed è sicuramente più faticoso, anche perché c’è un minor giro di soldi. Molti miei amici progettano caratteri nei ritagli di tempo, ed alcuni sono bravissimi. Ho degli amici negli Stati uniti che hanno prodotto versioni digitali dei caratteri della Nebiolo. Se loro abbiano fatto do-

Per quanto riguarda la classificazione dei caratteri, ritiene abbia ancora senso continuare ricerche di sistematizzazione di fronte all’avvento del computer e a questa proliferazione incontrollata di font? Penso che la classificazione dei caratteri sia utile per una conoscenza di basic typography. Tuttavia non ritengo che sia fondamentale fare una tassonomia ripetuta, sempre aggiornata 42


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con i quotidiani arrivi di nuovi font. L’ultima ondata di caratteri sorprendenti erano quelli che sono stati chiamati postmoderni, per mancanza di una parola descrittiva più soddisfacente. Quelli degli anni Novanta, di Emigre in particolare, sono stati una fantastica curiosità per me e in futuro magari saranno argomento di studio. Questo stacco dalla tradizione, un’autentica “insolenza” nei confronti delle forme tradizionali delle lettere, ha avuto una durata breve, come tutte le mode. Caratteri come il Template Gothic e il Blur sono plateali, sembrano gridare: «Guarda come sono diverso». Magari potranno essere riutilizzati tra cinquant’anni per rievocare proprio gli anni Novanta. In ogni caso a me piacciono queste “fiammate” di libertà tipografica. Le circostanze che hanno favorito quell’ondata di font postmoderni sono ben comprensibili: alla fine degli anni Ottanta si stava sperimentando la progettazione di caratteri sul computer. Poi sono nati i programmi appositi, come Ikarus, FontStudio ecc. La possibilità di progettare font col computer ha attirato tanti grafici; alcuni, che avevano poca conoscenza delle forme tradizionali o comunque non ne erano condizionati, si sentivano liberi di inventare forme completamente inaudite… scandalose in un certo senso. Però non c’è niente di nuovo; esistevano già lettere “scandalose” nell’Ottocento che hanno avuto una grande diffusione. C’è il caso dell’Italian; ho scritto un articolo (per il n°1 della rivista Tipoitalia) su questo particolare carattere che ha avuto un successo internazionale, dagli anni Venti agli anni Settanta dell’Ottocento. Italian è stato ridicolizzato e considerato perverso da diversi studiosi inglesi e americani, invece noi oggi riusciamo ad apprezzarne l’originalità “perversa”. Cosa ne pensa delle font che vengono create partendo dal logotipo di una marca diffusa? A mio avviso un logotipo è una cosa unica. Ho qualche dubbio sull’utilità di un carattere che “scimmiotta” un logotipo, o ne riprende l’idea. Ci possono essere alcuni casi in cui funziona bene ma ne conosco diversi che funzionano male come Coca-Cola e Davidoff. In parte dipende dalla qualità del logotipo originale, che non è granché in questi due casi. Per quanto riguarda la didattica, invece, quale sarebbe l’approccio da seguire per un’educazione alla tipografia che trasmetta uno spirito critico nei confronti del computer? Quando ero ancora uno studente, più di quaranta anni fa a Londra, il primo progetto che ho realizzato era un modulo in A4 per un passaggio transatlantico. Una prima considerazione era la necessità di lasciare lo spazio sufficiente per la scrittura a mano di un cognome che potesse essere anche molto lungo. Dovevamo rappresentare il modulo usando una matita ben temperata e un foglio di detail paper (carta leggerissima), con caratteri e corpo a nostra scelta, basandoci sul campionario 43


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tipografico della scuola. L’intero foglio doveva essere la più precisa rappresentazione possibile di come sarebbe venuto una volta stampato. Con la carta sopra il carattere scelto dal campionario, disegnavamo lettera per lettera (anche in 6 punti) tutti i dati, con l’esatta interlinea e i margini giusti. A lavoro completato, seguendo il foglio con tutte le indicazioni a matita, un altro ragazzo doveva comporre a mano e stampare il modulo. La sala di composizione della scuola era frequentata non solo da noi del corso di Typographic Design ma anche dagli apprendisti compositori. L’esperienza di lavorare davanti alla cassa tipografica e di stampare era una parte fondamentale dei nostri studi. Oggi a Milano alla CFP Bauer, il corso serale di Design tipografico continua ad offrire questa esperienza. Per tornare alla domanda, va detto che la precisione che si può ottenere con il computer è una cosa che nessuno si sognava neanche lontanamente in quei tempi. Oggi riusciamo a calibrare ogni cosa fino a meno di un decimo di un punto. Chi ha una cultura tipografica basata su un ideale di perfezione riesce a controllare ogni dettaglio. La tipografia tradizionale non permetteva niente di simile a questo grado di precisione e in questo senso la “nuova” tecnologia è una meraviglia. Dall’altra parte offre un’infinità di possibilità: dal fare le scritte sulle curve, comporre lettere con ombrate in corpo 12, a distorcere le lettere a piacimento. Il computer ha sia le possibilità creative di una tipografia eccellente, sia quelle di una tipografia carnevalesca, di cattivo gusto; ma quest’ultima è un problema solo dove manca la cultura tipografica. Secondo lei ha ancora senso parlare di autorialità nel mondo del progetto tipografico? L’idea di chiamare un carattere con il proprio nome è un fenomeno Novecentesco. Bodoni non ha mai applicato il suo nome ad un suo carattere. Il fenomeno è iniziato negli Stati Uniti forse con Frederic Goudy, designer che lavorava in proprio e aveva messo il suo nome ai suoi caratteri per farsi conoscere. Poi il fenomeno è continuato, ad esempio con Eric Gill, Hermann Zapf o con Adrian Frutiger, ecc. Oggi forse c’è anche un po’ di reticenza; dopo nomi di quel calibro ci si pensa magari due volte a chiamare un carattere col proprio nome. C’è un’abbondanza incredibile di caratteri. Mi ricordo una conferenza sulla tipografia, tenuta a Parma dieci anni fa, esattamente nel 2001, dove è stato detto che esistevano dodicimila caratteri. Chissà quanti ce ne sono oggi, gratis oppure in vendita. Mezzo milione? Forse anche di più… I nomi di progettisti di qualità sono aumentati tantissimo: in Sud America, in Est Europa, in Italia, in Russia… In Italia trent’anni fa c’erano soltanto Aldo Novarese e il suo allievo Umberto Fennocchio: quindi soltanto due potevano essere chiamati “autori”, progettisti di caratteri. 46


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Se lei potesse essere un carattere, una font, in quale le piacerebbe identificarsi? Che bella domanda! Qua entra in gioco la mia passione per la storia della tipografia. Forse mi piacerebbe essere un Mistral su un camion di traslochi per vedere il mondo. Oppure essere un Mistral su di un menù per poter studiare le facce di tutti quelli che scelgono i piatti. Mi affascina molto la tipografia vernacolare perché a volte nasconde qualità ignorate dai grafici professionisti. Mi ricordo che fino a trent’anni fa il professionista era sempre e solo interessato ai caratteri che pensava di poter utilizzare nei propri progetti. Oggi c’è molta più curiosità da parte dei professionisti. Io ad esempio, quando esco, porto sempre con me una macchina fotografica digitale: come una volta nel Far West si poteva tirare fuori dalla fondina la pistola e sparare, adesso, all’occorrenza, tiro fuori dalla tasca la fotocamera e faccio uno scatto. Così appena si nota qualche scritta particolare la si può riprendere e tenere nel proprio archivio; io ne ho uno con migliaia di immagini che riguardano l’Italia. Il fatto che questo sia un paese anarchico si riflette anche nelle insegne. Nel mio paese invece (Regno Unito, ndr), se cammini in una qualsiasi città, sebbene esistano alcune iscrizioni e insegne realizzate da professionisti di rango, tutto è molto più prevedibile e borghese. Invece in Italia si trovano sorprese dappertutto, a volte incantevoli, a volte terrificanti, ma comunque interessanti. La tipografia affascina proprio per questo, non solo per le sue qualità, ma talvolta anche per le sue stupidità divertenti. Al contrario del pittore di insegne del passato, oggi i professionisti che fanno questo lavoro in Italia non hanno una cultura tipografica. Ma per fortuna, se hai un negozio o un bar e vuoi un’insegna, non sei obbligato a rivolgerti a loro, e nemmeno ad un progettista grafico. A volte ci imbattiamo in idee “vernacolari” davvero originali. Fra tanti esempi mi piace ricordare l’insegna di un bar a Sarzana con lettere stencil tagliate con una fiamma ossidrica su una lastra d’acciaio. Dietro la lastra era stata posta una luce, che creava un effetto originale e particolarmente attraente. L’uso di materiali insoliti per insegne, come una lastra d’acciaio (proveniente da un cantiere navale nelle vicinanze) difficilmente verrebbe in mente ad un grafico professionista. (A pagina 41) James Clough nel soggiorno della sua abitazione a Milano. (Alle pagine precedenti) James Clough, scatti fotografici di elementi tipografici catturati nelle città italiane. (Alla pagina a fianco) James Clough, studi calligrafici per la titolazione di un cd musicale, 2009. (In Alto) James Clough, scritta calligrafica realizzata per Coop Italia.

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Giangiorgio Fuga

Coltivare e trasmettere la manualità La professione, l’insegnamento della tipograſia e tutto ciò che deve venire prima della macchina

BSA, la Business System Alliance, un organo di controllo informatico sulla pirateria. Lavoro ancora con Adobe CS3: sono stato per anni beta tester di InDesign. Continuavo a mandare indicazioni di togliere certi comandi, ma non mi hanno mai risposto, quindi ho rinunciato all’incarico. Era vantaggioso perché avevo notevoli sconti sull'acquisto della suite, ma era una questione di principio.

Giangiorgio Fuga Docente di type design al Politecnico di Milano, ha iniziato la carriera didattica nel 1990 presso l’Accademia di Comunicazione di Milano. Type designer dal 1985, si occupa anche di grafica editoriale e di immagine coordinata.

Entrando nel merito della tipografia: in cosa consiste per lei il processo di creazione di un carattere? Quali sono le varie fasi che lei affronta nella progettazione? Io ho avuto un grande maestro: Aldo Novarese. Quando gli parlavo dei primi computer era terrorizzato, ma allo stesso tempo ne era affascinato. Rappresentava quello che in un certo senso è anche il mio rapporto con il computer: io sono di mezza età, sia anagrafica che progettuale; rappresento una via di mezzo tra l’approccio tradizionale e quello contemporaneo-digitale. Quando devo fare un progetto inizio sempre a matita facendo gli schizzi, perché il computer va a sostituire certi strumenti, ma non il cervello; questo vale non solo per il progetto del carattere, ma anche ad esempio per il marchio, e per l’impaginazione. Non importa se lo schizzo è fatto bene o fatto male, l’importante è che si capisca l’impostazione, cioè se un’immagine la voglio in una certa posizione ecc. L’importante è che si parta sempre dalla carta; l’origine è sempre lì, non importa come, ma va fatto. Il computer è l’esecutore della situazione, quindi nel caso di una font, prima deve essere progettata a mano, poi si passa alla scansione e alla digitalizzazione definitiva. Certo il computer aiuta moltissimo perché per alcune lettere io posso prendere delle parti già digitalizzate e copiarle per altre lettere, anche se comunque il disegno deve rimanere diverso per ogni glifo. Una volta il buon Novarese e i suoi discepoli-schiavi (lui era tremendo), progettavano interamente con il tiralinee, pennelli, tempera ecc, quindi si può immaginare il tipo di lavoro. Anche io avevo iniziato con questo approccio, ma vi assicuro che se avessi continuato così non sarei diventato un type designer.

Dopo aver vissuto “l’ascesa al potere” dei computer nella progettazione del carattere tipografico, Giangiorgio Fuga racconta la necessità di una fondamentale indipendenza dalla macchina; un concetto da trasmettere sempre, soprattutto se si è chiamati alla responsabilità di formare i nuovi designer. Qual è il suo rapporto complessivo con il computer? Uso moltissimo il computer: mi si trova da tutte le parti, da Facebook a Linkedin ecc. Ho un blog tipografico che è molto seguito e quindi il rapporto è ottimo. Come molti altri, pero, ogni tanto lo prenderei e lo butterei fuori dalla finestra! Come ha iniziato a lavorare al computer? La mia esperienza è iniziata con Windows, i miei primi computer li ho utilizzati quando lavoravo per un grosso studio di architettura, poi chiuso per tangentopoli… Inizialmente si lavorava su DOS, poi ho utilizzato la prima versione di Windows e i primi Autocad, con dei processori di una lentezza tremenda; mi occupavo delle presentazioni dei loro progetti. Avevano bisogno di un grafico; sono andato a lavorare da loro proprio perché speravo di iniziare a trovare incarichi nell’ambito dell’immagine coordinata, presso i vari clienti dello studio. Ho iniziato quindi a lavorare con Ventura Publisher, un bellissimo programma, molto robusto, che per fare libri era meglio di altri software come Pagemaker. Già allora, siamo a fine anni Ottanta, gestiva facilmente gli indici in automatico. Quindi lavoravo con Windows, dicendo un sacco di parolacce perché ogni tanto si bloccava. Il passaggio al Macintosh è avvenuto all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Urbino, dove ho insegnato per dieci anni.

Da questo punto di vista il computer le ha facilitato molto il metodo lavorativo? Il computer indubbiamente ti aiuta, soltanto che bisogna saperlo usare. Saperlo usare nel senso di conoscere ovviamente i programmi, ma anche di avere un rapporto con esso del tipo “tu sei uno schiavo”. Il protagonista sono io e il cervello è il mio, non quello elettronico. È uno strumento, devo potergli dare degli input e dei dati corretti per lavorare bene, altrimenti mi fa delle porcherie.

Le capita di utilizzare il computer anche al di fuori del suo contesto lavorativo? Sì, lo uso moltissimo anche per intrattenimento. Utilizzo Youtube o la TV in streaming. Tutti i programmi sul mio computer sono regolarmente acquistati, sia perché ovviamente li utilizzo per l’attività lavorativa, sia perché ho fatto parte della

Facendo pratica con Novarese comunque iniziò a lavorare prettamente a mano? 48


Il progetto del carattere è lungo e complesso. Il digitale ne ha abbreviato il percorso, ma alcune tappe importanti non vanno eliminate. Il rapporto con il disegno manuale è fondamentale per averne una visione concreta ed una conoscenza profonda.

L’importante è che si parta sempre dalla carta; l’origine è sempre lì, non importa come, ma va fatto.


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Sì, con Novarese lavoravo a mano. Ogni tanto gli facevo vedere le prime prove a computer, per cercare di convincerlo (impresa difficile) su ciò che di buono ne veniva fuori. Allora non c’erano ancora i software. Il primo programma su cui ho lavorato si chiamava SoftFont e poteva realizzare le font nel formato Type3, il disegno a pixel, che era un disastro. Ho ancora il pacchetto di questo software; non posso più installarlo perché è su un supporto vecchissimo e funzionava solo su Windows. Mi era costato un milione di lire di allora, una cosa pazzesca! E per me è rimasto un monumento. Quindi è ovvio che veniva utilizzato poco il computer, perché la grande evoluzione per la creazione di caratteri è stato il formato PostScript e la prima versione di Fontographer. Ero al settimo cielo quando è arrivato! Lei sembra molto affezionato al ricordo di particolari aspetti tecnologici del passato… Parlando invece della parte manuale, ricorda delle gestualità specifiche che secondo lei sarebbero importanti da “tramandare” nell'ambito tipografico? La manualità è importantissima. Io purtroppo non sono un calligrafo perché sono una persona troppo nervosa, sono un falso calmo. Però nella mia attività didattica cerco di dedicare del tempo alla calligrafia, facendo fare l’esercizio più semplice cioè quello della doppia matita: si prendono due matite legate assieme tra loro e si disegnano le lettere per riuscire a creare gli spessori che successivamente vengono riempiti. Gli esercizi di calligrafia servono moltissimo. Permettono di interiorizzare la base manuale del disegno della lettera e il senso delle proporzioni che con il computer non si riescono a percepire. Una tempo il geometra e l’architetto progettavano a mano e questo consentiva una cura molto maggiore dei particolari. La stessa cosa vale per il progetto del carattere, quindi il grosso difetto del computer è che si perde la sensibilità al bello; si riesce ad essere più efficaci sull’aspetto pratico, ma si perde ogni ricerca della finezza che è molto importante. Per quanto riguarda le tempistiche per la creazione di un carattere. Secondo lei, partendo dal primo schizzo fino alla resa operativa di una font, la quantità di tempo necessaria è cambiata con l’avvento del computer? Ovviamente è tutto molto più velocizzato. Ma dipende dal fatto che è cambiato proprio il prodotto finale, visto che una volta non si facevano le font. Era un processo molto laborioso: dopo aver progettato i caratteri su carta, si passava al ripasso a china (su dimensioni medie standardizzate di 10 cm), poi si provava l’avvicinamento delle lettere su apposite lavagne… un passaggio molto importante. Successivamente, se le lettere andavano bene, si scattava la fotografia di ogni singola lettera con un ingranditore che arrivava fino al soffitto, per poter produrre i singoli clichés in ottone. Questi ultimi servivano

(Alla pagina a fianco) Giangiorgio Fuga, poster dimostrativo per la font GFT Venexiano Square, 2011. (In alto) Giangiorgio Fuga, poster dimostrativo per la font GFT Lespresso Sans, 2011. (A pag 51) Giangiorgio Fuga, scatto fotografico del suo studio, 2011.

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a tracciare la forma con un pantografo per poter poi ottenere il singolo carattere mobile con apposite macchine fresatrici, senza più scolpire a mano come si faceva una volta. Per i corpi grandi si tracciava su matrici in legno mentre per quelli più piccoli si effettuava una preincisione sul punzone d’acciaio.

si guadagna a livello progettuale lo si occupa poi per svolgere tutte le mansioni necessarie al prodotto finito. Cosa ne pensa delle sperimentazioni tipografiche degli anni Novanta, nate in seguito all’entusiasmo legato alle potenzialità dei computer? Io dico sempre: se tu sai fare puoi sperimentare; se tu non sai fare non puoi sperimentare; se io sono a conoscenza di tutte le regole posso permettermi di sovvertirle, altrimenti no. Secondo me vanno benissimo le sperimentazioni, ma ci deve essere una conoscenza approfondita alla base. E quindi anche in questo caso il discorso del tempo diventa relativo. Quando ci sono necessità di leggibilità, come per un carattere da testo, il lavoro diventa molto lungo ed estenuante; per un carattere fantasioso headline può bastare anche un attimo.

Tutto questi processi di realizzazione del carattere venivano svolti da una sola persona? No, erano varie persone che se ne occupavano. Ad esempio alla fonderia Nebiolo era un lavoro eseguito spesso dalle donne. Poi alla fine degli anni Settanta c’è stato l’avvento della fotocomposizione che è stata una grande rivoluzione perché si poteva già parlare di font e non più di carattere. Certo non ancora con il computer: sempre fotografando, venivano fatte delle pellicole tipo radiografie in cui sono presenti tutti i glifi, che venivano poi calibrate per la fotocomposizione, quasi sempre ad opera delle fonderie più importanti come la Berthold o la Linotype. Per parlare di vere e proprie font bisogna aspettare l'inizio degli anni Novanta, anche perché erano pochissimi che sapevano usare Fontographer in modo corretto. E infatti diverse regole venivano applicate male dai più, come ad esempio la giusta crenatura. Aldo Novarese giustamente era molto dubbioso sulle prime font perché riscontrava la mancanza di un adattamento alla grandezza del corpo: la storia della tipografia insegna che al variare della grandezza del carattere deve cambiare il disegno. Fortunatamente con la recente comparsa del formato OpenType la font ha superato il carattere di piombo: in un unico file c’è la possibilità di inserire le differenziazioni di corpo; inoltre l’OpenType è ottimo per le font calligrafiche perché si possono inserire più versioni della stessa lettera, in modo da rendere meglio l’effetto realistico della scrittura.

Secondo lei, questa libertà di creazione della font, che chiunque abbastanza facilmente può avere, è positiva per la tipografia in generale? Io sono molto contrario a chi si alza la mattina pensando di essere un tipografo. È giusto che chiunque possa produrre un carattere, anche sperimentale, ma solo con alle spalle una base culturale, la consapevolezza del mondo in cui ci si muove. Lei insegna type design e grafica dall'inizio degli anni Novanta. Per quanto riguarda la didattica l’avvento del computer ha cambiato radicalmente i metodi di insegnamento? Ci sono degli aspetti che sono andati persi o altri che invece sono venuti avanti? Io ho iniziato ad insegnare nello stesso periodo di diffusione dell’uso del computer, ma essendo stato studente in precedenza, posso dire di aver vissuto in pieno il passaggio. Il computer ha rovinato molto della didattica, in particolare perché si è persa la gestualità; quando sono arrivato qui al Politecnico di Milano, a disegno industriale, ho potuto comunque far lavorare manualmente nei laboratori del primo anno. Toccando la materia gli studenti capiscono di più. Invece l’aspetto “nuovo” più importante è quello legato all’insegnamento pratico dei programmi di grafica e progetto tipografico. In proposito io penso che si debba far fronte ad un approccio spesso sbagliato che si è diffuso nell’insegnamento dei software: di solito si insegnano i funzionamenti solo dal punto di vista informatico, cioè viene illustrato l’utilizzo dei comandi. Invece bisognerebbe trasmettere il valore pratico delle varie funzioni, cioè focalizzarsi sul fine del loro utilizzo. In ogni caso la cosa più importante da mantenere è la gestualità e fare molto esercizio di disegno manuale; continuare a concepire il progetto secondo delle fasi che vanno da quella più preliminare a quella definitiva. Personalmente tendo addirittura a focaliz-

Se un progettista volesse sfruttare queste nuove potenzialità, avrebbe bisogno comunque di un tempo molto lungo. Se prima si rimaneva molto sulle fasi manuali, ora c’è la possibilità di dedicare un tempo maggiore alla progettazione vera e propria… Ovviamente, volendo fare una font OpenType vi si deve dedicare molto tempo. Ad esempio, per progettare la font Lespresso Sans ho impiegato relativamente poco perché era in formato PostScript. Mentre per la font GFT Yamaha Motor, in OpenType, ho impiegato mesi perché l’ho fatto anche in versione cirillica, greca ed ebraica. Per il progetto grafico in generale, i tempi di realizzazione non sono poi così diminuiti: una volta il progettista si occupava del progetto della pagina e ad una pre-impaginazione da zero, dopodiché lasciava ad altri il resto del lavoro. Ora il designer deve ricoprire da solo molti di questi ruoli, guadagnando pure meno. Il tempo che

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zare molto i miei studenti sulle fasi iniziali. Non mi interessa che arrivino ad un prodotto per forza finito, voglio vedere innanzitutto l’evoluzione graduale e sistematica attraverso gli schizzi. La cosa più importante che devono imparare gli studenti è il procedimento e quindi il valore di ogni singolo passaggio per arrivare al prodotto finale.

signer e il graphic designer hanno la stessa importanza degli architetti… non volevo più tornare indietro. Noi designer italiani all’estero siamo visti molto bene perché il design italiano è creativo. La tipografia qua è solo ciò che riguarda la stampa, non è radicato il concetto anglosassone di Typography. Oggi in Italia il grafico è quello che fa i siti web. L’Italia è il paese del design ma non si sa cosa facciano i designer.

Parlando della trasformazione di caratteri tradizionali in font digitali. Secondo lei qual è la responsabilità del progettista che deve occuparsi di questo “trasferimento”? Interessante… Io e Claudio Rocha stiamo trasformando in digitale il carattere Paganini, disegnato da Alessandro Butti per la Nebiolo, dato che dopo cent’anni, teoricamente, non c’è più il copyright. L’oggetto del nostro lavoro sarà una font inevitabilmente diversa nel disegno dal vero Paganini, quindi gli cambieremo il nome. È importante sapere che sarebbe sempre più corretto parlare di font basate su piuttosto che trasformazioni vere e proprie. La responsabilità sta nell’adattare e trasformare nel modo giusto e fedele al progetto originario, anche se non sarà mai la stessa cosa. Molti caratteri in piombo, che avevano una certa resa, non potranno più averla in digitale, anche perché spesso bisogna basarsi su stampati anziché su tipi fisici. Il problema maggiore risiede quindi nella fedeltà del disegno. Si vedono molte font che sono dei veri e propri plagi perché riprendono il carattere originale, ma lo stravolgono con alcuni particolari tremendi.

Ci sono oggi alcune esperienze di produzione di caratteri mobili e di stampa tradizionale anche a Milano… Qual è secondo lei il merito di queste esperienze? Sicuramente sono bellissime esperienze che portano ad un risultato non più professionale, ma artigianale e di scoperta per chi non ha mai conosciuto una certa manualità. È positivo che ultimamente stia nascendo un nuovo interesse per i metodi tradizionali in Italia. Concludendo, vuole raccontarci un episodio a lei caro del rapporto con Aldo Novarese? Aldo Novarese l’ho conosciuto per caso: avevo come insegnante un suo collega, Umberto Fenocchio, che lo odiava e che mi aveva trasmesso questo odio. Fenocchio insegna ancora, ha una mano fenomenale, ma odiava davvero Novarese e la cosa era reciproca: si accusavano di rubarsi a vicenda i progetti! Mi parlava talmente male di Novarese che mi era venuta voglia di conoscerlo. Nel 1992 mi è venuto in mente di organizzare una mostra sul lavoro di Novarese all’Aiap e quindi sono riuscito a contattarlo per proporgli l’iniziativa. Durante il nostro incontro ha iniziato ad interessarsi ai miei progetti tipografici. Tra di noi è nata soprattutto un’amicizia, così ho iniziato ad andarlo a trovare a Torino una volta a settimana per due, tre anni, durante i quali mi ha insegnato tantissimo. Ho iniziato a mostrargli i primi risultati con il computer, ma mi diceva sempre di rifare tutto a mano! Era severissimo, ma mi ha fatto innamorare della tipografia e soprattutto dell’approccio manuale. Ha risvegliato la passione che avevo già da bambino, quando mi piaceva l’odore dell’inchiostro che arrivava dalla tipografia sotto casa mia a Venezia.

Data la sua esperienza di progettista di caratteri le sembra che negli ultimi tempi la sua attività sia stata valorizzata, oppure, nell’insieme del progetto grafico, la figura del progettista di caratteri è venuta meno? La situazione è un po’ ingarbugliata: in Italia la tipografia è stata riscoperta non da molto… da circa una decina d’anni, ovvero da quando è stata fatta la mostra Italic 1.0 a Roma, con l’idea di scoprire lo stato dell’arte in Italia. Finalmente l’Italia si è svegliata, però solo da poco e comunque solo per una nicchia di addetti ai lavori, quindi siamo indietro anni luce rispetto ai tedeschi, agli olandesi e agli inglesi, per i quali il type design resiste dal Settecento. Infatti ho molti studenti erasmus che mostrano notevole attitudine alla tipografia. La responsabilità è anche accademica, visto che, come da noi al Politecnico di Milano, purtroppo si è ancora legati alle vecchie cattedre di architettura e quindi non c’è un piano di studi adatto all’insegnamento della tipografia. Invece all’Istituto Europeo del Design di Milano, per esempio, il piano di studi è impostato in modo corretto: si inizia a fare tipografia e preimpaginazione dal primo anno, cioè il fondamento del basicdesign. Quando sono andato in Olanda per progettare il carattere per la Yamaha mi sembrava di stare in paradiso: il mio lavoro e la mia professionalità erano riconosciuti; il type de-

Immagini per un attimo di poter essere una font; quale le piacerebbe impersonare? Io sarei… il GFT Venexiano.

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Giangiorgio Fuga

Giangiorgio Fuga, specimen della font GFT Venexiano.

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JONATHAN BARNBROOK

Lucida ribellione

Sovvertire le regole per capirne e trasmetterne l’importanza Jonathan Barnbrook Graphic e type designer inglese. Ha fondato lo studio grafico Barnbrook Design nel 1990, con il quale ha lavorato per per diversi clienti di ogni settore, tra cui David Bowie e Damien Hirst. Ha progettato diversi caratteri per la fonderia Emigre e nel 1997 ha fondato la propria fonderia VirusFonts. È stato uno dei protagonisti della stagione di rottura delle regole tipografiche degli anni Novanta.

ho anche lavorato ogni tanto con il pennello per creare le mie font. Questo tipo di approcci influenzano ancora il design della lettera, quindi è importante conoscere i metodi tradizionali. Lei è un grafico che si è discostato molto dalle tradizioni tipografiche, per quale motivo dunque oggi lei insegna le regole della tipografia? Cosa l’ha portata a infrangerle? In tutto questo che ruolo ha avuto il computer? Se non si hanno regole non si ha niente contro cui ribellarsi, si vaga senza una ragione. Inoltre le regole della tipografia non sono cambiate dalla nascita della stampa, quindi è ancora necessario questo tipo di struttura per creare nuovi tipi di lettura o per sovvertirli. Il computer rende questo processo più semplice, ma la cosa importante è che l’intelletto lo controlli. Se si pensa ad un’idea particolare si può usare il computer per realizzarla, il problema è quando la gente non pensa minimamente. Molti si limitano ad usare comandi di default senza sapere quando smettere.

Anche oltremanica le esperienze di scoperta delle potenzialità digitali, di rottura radicale dei canoni del progetto tipografico tradizionale hanno prodotto una nuova consapevolezza e un nuovo approccio alle regole. Ora si tratta di trasmettere alle nuove generazioni quanto sia fondamentale conoscere tutti i limiti possibili per poterli superare.

Ritiene che abbia ancora senso parlare di “autori di caratteri”, nel senso tradizionale del termine, o crede che oggi l’autore perda inevitabilmente la paternità del suo progetto tipografico? Produrre delle font e vedere cosa ne fa la gente è una delle

Il suo lavoro, come grafico e come tipografo, è sempre stato legato al computer o ha potuto assistere al passaggio dal “manuale” al “digitale”? Ho avuto esperienze di lavoro anche in ambito pre-digitale. Prima del Macintosh ho imparato come usare il tavolo di composizione a caratteri mobili, in quanto ho percepito la diretta manipolazione del testo come un passo da compiere solo successivamente per il progettista grafico. Io stesso ho eseguito una stampa con il torchio; bisogna essere capaci di controllare il layout al millimetro e realizzarlo da soli è il modo migliore per farlo. Che rapporto ha oggi con questo strumento? È difficile dire qualcosa di originale a riguardo… Lo considero come un’estensione del mio cervello, un fantastico posto dove posso imparare tutto della musica particolare che voglio ascoltare, dei film che non ho mai visto prima. Ma l’accesso alle informazioni che il computer ti da non è sempre vantaggioso: la maggior parte delle notizie sono di parte in modo negativo. Ogni tanto è meglio prendere decisioni basate sull’istinto o interagire di più con le persone intorno a te, piuttosto che basarsi sulla rete. Ha mai avuto esperienze di progettazione e creazione di caratteri con i metodi tradizionali? Ho imparato a scolpire e ho spesso disegnato caratteri a mano; 56


Creatività non significa necessariamente rifiutare le regole. Benché queste possano essere un vincolo, sono comunque una traccia da seguire. È dal superamento di queste regole che scaturisce l’idea originale.

Se non si hanno regole non si ha niente contro cui ribellarsi, si vaga senza una ragione.


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Parlando del progetto grafico, ritiene che il suo lavoro possa essere anche espressione di una ricerca artistica? Non saprei, sono confuso su cosa siano arte e design. A me non piace la “snobberia” del mondo dell’arte contemporanea. Sta nascendo dell’ottimo design, molto più creativo di qualche forma d’arte attualmente in circolo, solo che la gente la valuta (letteralmente a livello economico) di più e io lo trovo stupido. Ho incontrato molti artisti che pensano in modo più commerciale rispetto ai designer. C’è un sacco di gente che ha una visione veramente limitata e confusa del design. Quindi chiamiamolo soltanto “essere creativi”, la cosa importante da capire è che entrambe le cose possono cambiare la società a loro modo. Come stanno cambiando le possibilità di sperimentazione da quando si è diffuso l’uso del personal computer? Ci può fare qualche esempio? Non ho idea di come stiano cambiando le possibilità di sperimentare e trovo la cosa molto entusiasmante. Un’ultima domanda, decisamente più simpatica: in quale carattere tipografico le piacerebbe identificarsi? Un carattere è un particolare tono di voce, quindi esserne uno specifico significherebbe parlare con la stessa voce e dire le stesse cose per tutta la propria vita. Questo succede solo se non si impara mai qualcosa di nuovo, quindi vorrei essere contemporaneamente ogni carattere mai prodotto.

cose più importanti e interessanti per me. Sono così tanto parte del mio vocabolario visuale che è sempre interessante come la gente le interpreta o le fraintende. Quando si decide di realizzare una font di tipo cosiddetto fantasia, ci si pone dei limiti in termini di leggibilità? Io penso sia sbagliato parlare di caratteri fantasia, per me tutte le mie font sono chiaramente leggibili, vengono da un mondo interiore, dal mio essere. Quindi il loro significato è chiaro e il linguaggio per i quali dovrebbero essere usati è chiaro. Sul suo sito si legge: «The computer virus is a metaphor for the subversive power of typography. Small foundries were springing up and producing fonts which were directly commenting on society». Visto che questo concetto è stato alla base della sua fonderia (Virusfot, ndr), pensa tuttora che la diffusione del computer sia ancora un accadimento positivo? Il fatto che abbia permesso la nascita di molti type designer ha portato ad una proliferazione incontrollata di fakefonts? Ci sono buoni lavori e cattivi lavori, questo non cambia mai; potranno essercene di più perché la gente ha più accesso alla tecnologia, ma in ogni caso il modo in cui essa influenza la creatività è un meccanismo complesso che non può essere spiegato in poche frasi, è legato ad un tema più ampio che riguarda in generale l’educazione della società.

(A pag 54) Jonathan Barnbrook, poster dimostrativo per la font Exocet, VirusFonts, 2003. (Alle pagine precedenti) Jonathan Barnbrook, manifesto per la XVII Biennale di Sidney, 2010. (Alla pagina a fianco) Jonathan Barnbrook, Technology is Nothing More than a Process, Not an End in Itself , pietra scolpita meccanicamente, 1990. (In alto) Jonathan Barnbrook, poster dimostrativi per le font (dall’alto) Priori Sans e Priori Serif, VirusFonts, 2003.

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MICHELE Patanè

Vecchie e nuove possibilità

Far convivere l’esperienza fisica e le potenzialità digitali Michele Patanè Typeface e graphic designer, lavora in ambito tipografico dal 2003 come collaboratore e freelance per studi e altri progettisti, nello sviluppo e nell’ingegnerizzazione di font. Ha contribuito a fondare il gruppo di ricerca EXP, per il quale si è occupato di studi sulla lettura e sulla leggibilità dei caratteri. Ha conseguito la laurea al Politecnico di Milano nel 2006 con una tesi sui caratteri per le sottotitolazioni dei film. Recentemente il suo lavoro verte su ricerche di parametrizzazione delle font come un possibile strumento di innovazione e risorsa per l’insegnamento.

Oggi il computer è uno strumento praticamente vitale anche nel type design; ritiene di aver mantenuto nella fase di progettazione una certa manualità indipendente dalla macchina? Assolutamente sì. Penso sia rilassante e piacevole disegnare a mano le forme delle lettere. Durante miei primi anni di università il computer non era uno strumento così diffuso e metà dei progetti erano fatti con tecniche manuali: pennarelli Pantone, acquarelli e via dicendo. Personalmente, il mio primo computer Apple ha segnato un po’ un cambio di rotta; ho iniziato ad appassionarmi al progetto tipografico e allo sviluppo delle font. Ma ho sempre mantenuto un profondo affetto nei confronti del lavoro manuale, anche dopo la laurea. Tracciare forme a mano libera è naturale, lo puoi fare dove vuoi ed è molto veloce rettificare e puntualizzare le idee che ti vengono. Anche lavorando con colleghi, lo schizzo diventa una forma di dialogo; è molto importante. Anche con il solo utilizzo del computer si ha una successione precisa e necessaria di fasi di lavoro? Il computer rischia di essere onnicomprensivo e di farti perdere l’idea del flusso di progettazione. Io ho la fortuna di spendere parte del mio tempo insegnando e in tanti casi osservo la tendenza da parte degli studenti a buttarsi direttamente sullo sviluppo al computer. A mio avviso, questo è rischioso perché si azzera il tempo di riflessione che è necessario in qualsiasi progetto. Quindi, tornando alla domanda, la mia personale risposta è che il computer necessiti di una successione precisa di fasi di lavoro, anche se la macchina si adatta perfettamente alle inclinazioni dei progettisti. È il designer che deve strutturare un percorso progettuale preciso e avvalersi del computer come strumento. Non possiamo pretendere che sia lui a definire tempi e metodi.

Il giovane type designer racconta un’esperienza personale che parte dalla bellezza dei metodi analogici, un bagaglio di saperi da tramandare, per arrivare alla conoscenza professionale e alla padronanza delle nuove tecnologie; una buona dose di certezze da cui partire per affrontare il nuovo. Ha avuto esperienze di progettazione di caratteri o di composizione con i metodi tradizionali pre-digitali (anche semplicemente formative)? Esperienze di progettazione e composizione tradizionale ne ho fatte, e continuo a farne quando ne ho l’occasione: penso ci sia molto da imparare da quel tipo di approccio al lavoro; e lo trovo anche molto rilassante. Ho fatto un workshop di due giorni a Parma con Giovanni De Faccio. Indimenticabile è stato il corso serale annuale di Design tipografico alla scuola CFP Bauer di Milano; tutti gli appassionati di tipografia dell’area milanese prima o poi lo frequentano. Questo corso, condotto da ottimi maestri come James Clough e Lucio Passerini, si propone di progettare e lavorare con tecniche tradizionali. A metà anno abbiamo stampato un libretto fatto di immagini che avevamo inciso su linoleum e stampato con un tirabozze Vandercook. Esito finale del corso è stata poi la produzione di un secondo libretto, più complesso, composto a mano, stampato con una Heidelberg a stella e rilegato a mano. Poco tempo fa ho ripreso in mano pennini e inchiostro per un corso di calligrafia sul corsivo inglese con Francesca Gandolfi. Una volta colpiti dal virus della scrittura si innesca una sorta di dipendenza.

Secondo lei la tecnologia vettoriale è stata in grado di sviluppare nel modo migliore le caratteristiche visive più caratterizzanti degli elementi tipografici? Sicuramente l’introduzione delle Curve di Bezier ha consentito di affrancarsi da costruzioni eccessivamente geometriche elevando la creazione delle curve a forme più naturali. Non saprei dire se questo è il modo migliore per descrivere gli elementi tipografici; sicuramente è funzionale al formato digitale e al flusso di produzione che si è definito negli ultimi decenni. C’è stata un'evoluzione, nel corso degli anni di diffusione del computer, delle problematiche da affrontare legate alla leggibilità del testo a monitor? È un tema fondamentale, già da tempo. Si pensi al Verdana e al Georgia, due caratteri perfetti per la visualizzazione a monitor disegnati da Matthew Carter, uno dei più notevoli type 62


Il digitale ha incrementato notevolmente il numero di font realizzate, ma il vero problema è la qualità. Non si diventa type designer dall’oggi al domani, ci vuole una certa sensibilità e una buona conoscenza dei canoni tipografici per realizzare un prodotto completo.

Un tipografo, oggi, dovrebbe girare con i paraocchi per non subire ad ogni passo qualche piccola frustrazione visiva.


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Michele Patanè

designer. Un progettista che ha iniziato ad incidere i caratteri a mano e ora lavora con il computer. È un esempio vivente di come sia la capacità di progettazione a contare, più dello strumento. Nel progetto si tiene conto dei mezzi di produzione e riproduzione dei testi, sarebbe un errore non farlo, ma sempre con l’idea che lo strumento deve essere tale e il progetto nasce nella testa del progettista. Da non dimenticare le nuove tecnologie di fruizione che sono e saranno un campo di applicazione dei testi molto importante: iPhone, iPad, Kindle, e-book reader ecc. E, infine, pensiamo allo sviluppo rapidissimo che stanno avendo librerie di webfonts come quella di Google o Font Squirrel. Librerie di font scaricabili ed utilizzabili gratuitamente; indice di un modo diverso di contemplare le necessità di comunicazione attraverso la scrittura a monitor, non solo legata alla sua leggibilità.

Per lei la creazione di un carattere, anche se commissionato per un utilizzo prettamente funzionale, rappresenta il risultato di un percorso artistico e di ricerca personale? Il termine artistico non mi va molto a genio e del suo significato medierei solo l’attenzione alla forma, ai particolari e all’equilibrio delle forme, perché per il resto si porta appresso un valore autoriale troppo forte dal mio punto di vista. La ricerca personale nel progetto di una font è tantissima. La tipografia è inevitabilmente un continuo relazionarsi tra forme che devono essere riconosciute, a partire da quella che si potrebbe definire la struttura funzionale di una lettera, e le tensioni espressive che maturano dalla ricerca progettuale

Il web sta cambiando l’approccio del progettista tipografico? In che misura? Credo che il web in primo luogo rappresenti un immenso bacino di informazioni e un’ottima vetrina per i progettisti. Ogni tanto rifletto sul fatto che, nelle mie ricerche online, mi soffermo più sui progetti che sul progettista. E mi sembra assolutamente giusto. Il web ha questa capacità di livellare tutto quanto e di rendere necessaria l’acquisizione di strumenti critici con cui analizzare tutte le informazioni che possiamo recuperare. Le cose buone emergono in modo naturale a seconda del successo reale che hanno tra coloro che navigano in rete. Gente sconosciuta ha centinaia di modi per far conoscere i proprio progetti e discuterne all'interno di una comunità molto attiva.

(Alla pagina a fianco) Michele Patanè, bozzetti. Michele Patanè, variabili medium e light della font Noorda, 2010, digitalizzazione del carattere di Bob Noorda del 1962 per il sistema segnaletico della Metropolitana Milanese.

Ritiene che l’accesso ai software di progettazione abbia portato ad un miglioramento progressivo del type design o siamo di fronte all’acutizzarsi di una situazione di progetto tipografico massificato senza alcuna regola rimasta? Personalmente sono a favore dell’open source e della condivisione totale di mezzi di produzione e studio. Non solo applicazioni ma anche banche dati di immagini con riproduzioni fotografiche di vecchi libri e altri prodotti editoriali. Sono convinto di una cosa: la conoscenza non può essere mercificata. Deve essere libera e accessibile a tutti quanti. In condizioni paritarie di partenza è il cervello delle persone che conta. Quindi penso che il problema non sia quanta gente possa fare caratteri più o meno funzionanti. Il problema semmai è quanta gente capisce che sono buoni caratteri. Devo dire che è piuttosto diffusa una certa inconsapevolezza di fronte alle problematiche tecniche ed espressive di un alfabeto. La mia idea sarebbe quella di aumentare l’educazione, non limitare il software a pochi eletti. Poi ognuno è libero di scegliere ed utilizzare i caratteri che preferisce. E se non ce n’è uno che lo soddisfa è sempre libero di farselo da sé.

abcdefghijklmn abcdefghijklmn opqrstuvwxyz opqrstuvwxyz abcdefghijklm abcdefghijklm nopqrstuvwxyz nopqrstuvwxyz 0123456789 0123456789 abcdefghijklmn abcdefghijklmn opqrstuvwxyz opqrstuvwxyz abcdefghijklm abcdefghijklm nopqrstuvwxyz nopqrstuvwxyz 0123456789 0123456789 Noorda font medium

Noorda font medium

Noorda font light

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Noorda font light


Michele Patanè

Secondo lei il type design italiano ha un margine di indipendenza e valorizzazione che lascia ancora trasparire le nuove personalità autoriali? Esista ancora all'interno del mercato l’“autore” tipografico? Penso che l’epoca degli autori sia finita negli anni Novanta. Non ha più senso parlare di autorialità se non rispetto ad alcuni stilemi che possono emergere nella produzione di ciascun designer. Ogni progettista ha delle sue preferenze e un proprio modo di interpretare le forme. Ma oggi, grazie a internet e alle nuove tecnologie, fare caratteri è sempre più facile, ce ne sono migliaia con temi espressivi molto vari. Rimane difficile poi farli funzionare perché è lì che entrano in gioco tutti gli aspetti più tecnici legati al type design. È una disciplina in cui le cose devono essere fatte bene e non fa sconti all'imprecisione. Non bisogna essere degli esperti per subire visivamente una spaziatura fatta male. Lo percepisco io come qualsiasi altra persona, indistintamente dal background culturale e professionale. Quello che cambia è la sensibilità rispetto alle cose fatte male; può essere che la maggior parte delle persone subiscano il panorama testuale che ci circonda senza accorgersene. Mentre un tipografo, oggi, dovrebbe girare con i paraocchi per non subire ad ogni passo qualche piccola frustrazione visiva. Come ultima domanda… una richiesta curiosa: immagini di essere una font, in quale le piacerebbe identificarsi? Non mi piace essere inquadrato con etichette precise e vorrei lasciarmi una porta sempre aperta per poter cambiare. Ad ogni modo, per non evadere la domanda, direi che mi piacciono i caratteri da testo e amo la programmazione, quindi il Beowolf di LettError è la font che mi piacerebbe essere. L’esserlo è cosa ben diversa. È una font nata per non essere mai uguale a se stessa. Il risultato è ottenuto programmando direttamente una routine di randomizzazione che sfrutta il linguaggio Postscript (forse non tutti sanno che il Postscript è un vero e proprio linguaggio di programmazione). In questo modo, i tracciati delle lettere vengono modificati in modo casuale direttamente dalle periferiche di stampa. Una cosa fondamentale è che lo spazio entro cui ciascun nodo si muove è stabilito dal designer dando la possibilità di scegliere tra diverse “forze” di distorsione. Adoro il concetto di casualità gestita, penso si addica molto bene al ruolo registico che il progettista deve avere.

Michele Patanè, stampa rilievografica del marchio dello studio Cinetype di Milano, 2010. (Alla pagina a fianco) telaio serigrafico di Michele Patanè, 2010.

e dall’esperienza di ciascun progettista. In un alfabeto si sedimentano elementi che fanno parte della cultura visiva del nostro tempo. Non è un caso che tante volte la progettazione di caratteri viene paragonata alla progettazione architettonica. Entrambe hanno la capacità di innestarsi nel tessuto culturale e visivo del proprio tempo in maniera molto forte e che perdura nel tempo. Pensiamo a quanto il Simoncini Garamond abbia influenzato il panorama editoriale italiano. Sono cinquant’anni che Einaudi lo usa, e così tante altre case editrici. È inevitabile che sia entrato a far parte di quelle consuetudini visive in cui cresciamo.

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OFFICINA TIPOGRAFICA NOVEPUNTI

Ritorno alla fisicità

L’utilizzo di tecniche meccaniche tradizionali per una sperimentazione contemporanea Officina Tipografica NovePunti È un’associazione culturale fondata nel 2010 da otto giovani designer e un’architetto. La particolarità dell’officina sta nell’utilizzo esclusivo di caratteri mobili per la stampa di manifesti e artefatti grafici dallo stile contemporaneo. L’associazione organizza periodicamente seminari, mostre e workshop per far riscoprire la realtà della composizione tradizionale.

to ad un tipografo, c’è quindi un passaggio tra la mia progettazione e l’artefatto. In questa fase il grafico, ora come ora, ha un controllo parziale, perché demanda tutta la fase produttiva ad un terzo soggetto. Il riavvicinarsi al processo produttivo consiste nell’intrecciare l’idea progettuale con l’oggetto fisico. Spesso il nostro lavoro è quasi come quello di un operaio, visto che nel momento in cui si progetta si deve tener conto di una serie di problematiche tecniche molto specifiche. Sono cose da considerare al momento della progettazione, cosa che non succede nella grafica digitale. Il fatto di dover rispettare dei vincoli può essere per voi considerato un valore aggiunto? Sì, perché si devono trovare soluzioni con meno possibilità. Ci vengono sempre in mente i volantini delle pizzerie! Vengono creati con delle scelte tra le più disparate: sono la fiera dell’eccesso e dell’abuso delle possibilità concesse dalla grafica digitale: miscugli di colore, fotografie sfumate, sovrapposizioni… Insomma cose che difficilmente noi possiamo realizzare. Ci dobbiamo confrontare su una grafica che rimane sempre molto bidimensionale, se non con effetti 3D da offset, voluti o casuali. Molti effetti non si possono fare e dobbiamo muoverci dentro questi vincoli che, se da un lato ci limitano, dall’altro ci consentono di crescere dal punto di vista professionale. Ci si rende conto di come si possa raggiungere la compiutezza di un progetto anche senza abusare di effetti e filtri. Nella stampa a caratteri mobili bisogna muoversi all’interno di vincoli numerici che il computer permette di smussare. Noi non possiamo scendere sotto una determinata misura per dividere lo spazio, non si possono fare interlinee negative, non si può modificare il kerning, o meglio, si potrebbe cambiare a costo di danneggiare il carattere limandolo. D’altro canto abbiamo la possibilità di verificare come, anche nel lavoro di tutti i giorni, si possa cercare di mantenere una correttezza formale legata ai vincoli storici, conservando allo stesso tempo la qualità della comunicazione.

Siamo stati all’Officina Tipografica NovePunti dove tre dei membri dell’associazione ci hanno accolto amichevolmente e ci hanno raccontato, a nome del gruppo, cosa voglia dire oggi, per dei “grafici digitali”, tornare a sporcarsi le mani con i vecchi metodi di stampa: i pro e i contro di una serie di tecniche che un tempo facevano parte di un processo industriale e che oggi possono essere considerate artigianali. Come mai un gruppo di giovani designer ha deciso di lavorare con un sistema di stampa per molti ormai in disuso? Dire che lavoriamo con queste tecniche è eccessivo (ride, ndr). Noi con queste tecniche di stampa ci divertiamo e diamo sfogo a una passione. Ognuno di noi fa un altro lavoro, siamo qua nei weekend. Durante la settimana, se non la sera, difficilmente veniamo a stampare. In genere lo facciamo se abbiamo una consegna, perché anche se non è un lavoro ci siamo dati dei ritmi da seguire per le nostre produzioni. Cerchiamo di organizzarci come se fosse un lavoro ma con delle scadenze morbide. Abbiamo scelto queste tecniche per passione; sicuramente non è stata una motivazione economica, perché stampare in tipografia ha i suoi costi e rende poco. Questa è l’occasione di esprimere il nostro gusto grafico, il nostro interesse per la materia attraverso una tecnica divertente da utilizzare. Al contrario il computer non è così piacevole da usare per otto ore al giorno, anche se probabilmente anche otto ore al giorno di quest’attività non sarebbero così divertenti (ridono, ndr). La cosa interessante di questo nostro progetto è che, per persone che si sono formate con il computer, rivalutare una tecnica tradizionale, legata a vincoli fisici e materiali, dà un valore aggiunto a quello che facciamo. La scelta del mezzo di produzione riguarda un discorso di avvicinamento alle tecniche produttive, cioè una sorta di reazione nei riguardi di un’eccessiva virtualizzazione del progetto. Lavorando tutti i giorni davanti al monitor produco un file che viene poi passa-

Queste tecniche hanno qualcosa in più rispetto al computer? Qualche possibilità che quest’ultimo non può darvi? Il valore che la stampa tipografica riesce a conferire all’artefatto grafico è legato ad un aspetto materico verificabile sul risultato finale; la pressione, l’inchiostro, la carta contribuiscono a caratterizzare ogni progetto. Inoltre lavorando con lettere fisiche, quindi non qualcosa di virtuale sempre uguale a se stesso, ciascun artefatto è particolare. Mentre componi la pagina utilizzi una combinazione di lettere che la rende assolutamente unica. La lettera A, posizionata male, è diversa da quella successiva, inoltre i caratteri possono essere fra loro imprecisi e il bello è proprio questo. Tante volte è l’imperfezione stessa il valore aggiunto visto che le nostre stampe 68


L’ errore era parte del processo creativo autoriale e spesso da questo poteva nascere una nuova idea e da lì un progetto. Una macchia o una piccola sbavatura potevano dare un’identità ad ogni artefatto. La macchina invece è esente da errori, ogni linea nella sua imperfezione sarà sempre perfetta.

C’è un’estetica dell’errore; spesso capitano stampe inattese le cui imprecisioni arricchiscono il lavoro. Noi vediamo l’errore esistere, avere una fisicità e assumere un carattere.


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OFFICINA TIPOGRAFICA NOVEPUNTI

raramente sono uguali l’una con l’altra. Si tratta in un certo senso di valorizzare la nostra inesperienza, perché è chiaro che la stampa a caratteri mobili di per sé punta alla massima riproducibilità, non è nata come produzione artistica, ma come produzione industriale. Il fatto di riprendere una tecnica creata inizialmente per la massima riproducibilità e cercare di nobilitarne un aspetto non apprezzato, la sua imprecisione, le conferisce una nuova ragion d’essere. Rispetto all’artefatto stampato offset, i nostri prodotti hanno tanto più valore quanto più diventano unici. Da qui la scelta di realizzare le tavole numerate su serie limitate molto ristrette.

tempo, però poi la direzione presa ci convince tutti. Questa lentezza in qualche modo fa parte della bellezza di questo lavoro. Ogni cosa che facciamo è il risultato di tantissime piccole decisioni prese per arrivare al progetto finale: quale formato dobbiamo utilizzare, il colore, il carattere… Il nostro renderci indipendenti ci permette di lavorare con tempistiche nostre, ci permette di poter continuamente tornare indietro e rimettere tutto in discussione. Il computer, in presenza di un errore, permette di tornare indietro istantaneamente. Voi invece come affrontate di solito queste situazioni? Nel nostro campo l’errore tante volte lo vedi solo una volta fatto. Sul computer hai più margine d’azione. Vedi quello che fai in tempo reale, sposti gli oggetti, li cambi. Noi dobbiamo fare le stampe di prova. L’esperienza ti porta ad immaginare prima quello che stamperai, ma la stampa è sempre una sorpresa. C’è anche un’estetica dell’errore, spesso capitano stampe inattese, le cui imprecisioni arricchiscono il lavoro. Rispetto alla grafica a computer, dove l’errore lo visualizzi e riesci a correggerlo, qua l’errore esiste, ha una fisicità e assume il suo carattere; abbiamo anche realizzato un libro rilegando tutti quei fogli con campiture di colore e texture nate da errori.

Abituati ai tempi di realizzazione accelerati dalla macchina, come vi relazionate ad una tecnica che richiede non solo precisione, ma anche tempi molto lunghi? Lavoriamo con i nostri tempi, non abbiamo scadenze serrate come un lavoro normale, ma cerchiamo comunque di darci dei termini adatti alla lentezza di questo processo. In realtà spesso il rallentamento è dovuto più al gruppo di lavoro democratico, che alla tecnica di produzione: nel lavoro c’è sempre un cliente o comunque un capo che, in base ai suoi gusti, imporrà delle decisioni nel progetto e tu, volente o nolente, le dovrai eseguire. Invece qua siamo un gruppo, ci confrontiamo, discutiamo, e per prendere una decisione ci vuole molto

L’errore con questo tipo di stampa costa caro… In fase di composizione si cerca di non commettere errori e di ottenere un output fedele a quello immaginato, ma difficilmente accade. Spesso mettiamo in discussione la forma, anche dopo averci lavorato per giorni. Gli errori possono essere dei refusi tipografici, colori sbagliati, dovuti ad una taratura errata della macchina. Inoltre bisogna considerare la conoscenza della macchina, sapere cosa regolare e cosa cambiare. Abbiamo tanti poster non terminati perché non ci convinceva la grafica, la composizione. Nel momento in cui ci rendiamo conto di aver sbagliato ci girano un po’ le balle, ma non avendo i clienti che ci rincorrono possiamo permetterci il lusso di smontare tutto.

(Alla pagina a fianco) Matteo al lavoro presso l’Officina Tipografica NovePunti, Milano 2011. (In basso) Officina Tipografica NovePunti, doppia pagina da Libro degli errori, Milano, 2010. (Alle pagine successive) matrice di un manifesto in corso d’opera, Officina Tipografica NovePunti, Milano, 2011.

Avete mai provato a utilizzare il computer per migliorare una stampa non riuscita o per una prima fase di progetto? Le poche volte che abbiamo provato ad usare Photoshop ci siamo resi conto che non è una tecnica adatta. Spesso e volentieri è più utile lavorare con i caratteri che hai nei cassetti. L’unico esempio è un nostro manifesto in cui le campiture di colore le abbiamo viste prima in Illustrator. Ma questa è stata un’elaborazione particolare, per una tecnica atipica, quella di stendere il colore direttamente col rullo sulla carta: prima abbiamo fatto gli sfondi e poi abbiamo stampato gli elementi tipografici. Un passo successivo potrebbe essere lavorare all’integrazione delle due cose. Comunque sono tecniche tipografiche degli 71


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anni Ottanta, in futuro ci piacerebbe sperimentare con altre tecniche, ma per ora siamo fermi sui caratteri mobili. La vostra officina non è solo un luogo di lavoro, realizzate anche esposizioni e workshop. Il vostro obiettivo è quello di riportare nel mondo la manualità? Sì, fa parte dei valori di questa officina, che è in realtà un’associazione di promozione culturale. Cerchiamo di trasmettere questa passione e di raccontare le tecniche che molti non conoscono. Sono metodi che non avevamo mai visto applicati fino a quando non abbiamo iniziato a interessarci. È stato un percorso graduale, siamo partiti dal corso di tipografia che abbiamo seguito insieme alla CFP Bauer qui a Milano, poi abbiamo visitato numerose stamperie ed infine abbiamo cominciato l’attività di recupero dei materiali. Il bello di questo spazio sta nel dare la possibilità di osservare da vicino questi antichi macchinari in funzione, manovrati da persone che sanno come usarli. I nostri workshop infatti servono a fare entrare in contatto le persone con questo mondo. I risultati arrivano: gente come Antonino Benincasa, per il quale abbiamo fatto il manifesto Sopra la stampa l’Italia campa, ha visto nel nostro lavoro un approccio tradizionale diverso, sia dal punto di vista estetico che dal punto di vista grafico, e ci ha considerati come un’avanguardia. Siamo grafici, designer e architetti che lavorano nel mondo contemporaneo, siamo influenzati da ciò che ci circonda e da ciò che poi cerchiamo di adattare a questo contesto. Per il momento i nostri lavori si pongono in un discorso separato dalla comunicazione: i nostri manifesti sono a sé stanti, non vogliono veicolare qualche altro messaggio, non vogliono vendere niente, anche se sarebbe interessante lavorare nella promozione di eventi, concerti teatro o promozione politica. Quando tornate a lavorare al computer, questa esperienza cambia in qualche modo il vostro metodo di lavoro? Lavoriamo con maggiore consapevolezza sulle cose, progettiamo molto prima di iniziare a lavorare, invece di sperimentare mille cose diverse; sappiamo già che direzione prendere. Questo non vuol dire che sia buona la prima, si possono e si devono fare tante prove, ma sappiamo che quei tentativi hanno un’impostazione affidabile, basata su regole rigide. L’importante non è circondarsi di limiti, ma saperli interpretare.

versioni digitali; per esempio il Semplicità, un carattere creato dalla fonderia Nebiolo. Ci siamo trovati davanti questo carattere bellissimo e ci siamo chiesti: «Questo che carattere è? Un carattere de merd» (ridono, ndr). Il De Merd nasce così. Abbiamo anche fatto la pagina di Wikipedia su un ipotetico Gian Battista De Merd, nella quale c’era tutta la storia… la pagina è durata tre giorni. Ormai è diventato il nostro carattere istituzionale, ci abbiamo fatto i biglietti da visita, la firma dei poster e integra anche il logotipo. È un carattere completo, ha tutti i glifi, cosa non indifferente. Ci capita spesso di non avere neanche gli accenti e se dobbiamo mettere una parola con l’accento e non l’abbiamo come facciamoi? Si cambia laparola! È sempre meglio prima comporre e poi fare le spaziature, per evitare di arrivare alla fine senza lettere e dover buttare tutto. Quindi scegliamo il De Merd, alias il Semplicità.

Domanda “strana” posta in chiusura a tutti gli intervistati: se voi foste una font o un carattere, quale scegliereste? Il De Merd (ride, ndr), l’ho detto così per ridere, ma c’è una storia dietro. Abbiamo rinominato tutti i nostri caratteri in modo da poterli riconoscere, perché non sapevamo che carattere fossero, tranne l’Helvetica. Molto spesso i caratteri che troviamo non li abbiamo mai visti perché non ne esistono 74


OFFICINA TIPOGRAFICA NOVEPUNTI

(Alla pagina a fianco) Officina Tipografica NovePunti, manifesto Sopra la stampa l’Italia campa, Milano, 2011. (In alto) caratteri in legno presso l’Officina Tipografica NovePunti, Milano, 2011. (Qui sopra) cassettiera dei caratteri presso l’Officina Tipografica NovePunti, Milano, 2011.

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PAUL FELTON

Tipografia dal purgatorio Un incontro tra l’anarchia e le regole

Paul Felton È un giovane progettista grafico londinese. Per la tesi di laurea alla Staffordshire University ha realizzato The Ten Commandments of Typography and Type Heresy, un libro, successivamente pubblicato, che spiega in maniera ironica i principi della tipografia. Volevamo conoscere un designer che si è divertito a stilare un decalogo in cui contrappone ereteci e ossequiosi delle regole tipografiche. Paul Felton ci parla del rapporto tra nuove tecnologie e artigianato e di come pixel e piombo, convenzioni e sperimentazioni, possano convivere in modo proficuo.

Paul Felton, doppia pagina tratta da The Ten Commandments of Typography, and Type Heresy, 2006, Merrel Publishers, Londra.

Come mai un giovane designer come lei si è ritrovato a scrivere un libro sui “dieci comandamenti” della tipografia e sulle dieci eresie? Nel libro ha fatto anche l’elenco degli “apostoli” e degli “angeli caduti”, lei dove si inserirebbe? La ragione principale per scrivere il libro era basata sul mio personale avviamento alla tipografia. Quando mi sono inizialmente imbarcato nel campo del design, ho cominciato a sentire spesso la parola tipografia, così ho deciso di iniziare a fare ricerca in tal senso partendo da diversi vecchi libri “polverosi” come Sulla tipografia di Eric Gill e da testi moderni sulle regole della tipografia, pieni di frastornanti «si deve» e «non si deve»; dopo un po’ di pratica, vari esperimenti e alcuni buoni insegnamenti, ho iniziato ad innamorarmi della tipografia. Tre anni dopo ho avuto il compito di dover creare un brief personale per il mio progetto finale per l’università, e ciò mi ha spinto ad una riflessione sul mio tempo dedicato allo studio e su ciò che avevo imparato. Una cosa molto importante che avevo appreso era l’artigianalità del lavoro coi caratteri e mi ricordai quanto fosse un tema insidioso per un nuovo arrivato. Quindi scelsi di scrivere e progettare un’introduzione alla tipografia che fosse più accessibile. La mia intenzione non era quella di divulgare tutto ciò che occorre conoscere, ma di fornire sufficiente conoscenza e confidenza per iniziare a capirne di più. Ma più di ogni altra cosa volevo ottenere un risultato divertente e che facesse sentire le persone come mi sento io nei confronti della tipografia. Senza lo scopo di mettermi su un podio, mi posizionerei nel “purgatorio” della tipografia, visto che mi spingo fuori dalle regole, ma non mi avvicino mai al livello di progettisti come Neville Brody e David Carson. Invece sono un enorme ammirato-

re di autori svizzeri e tedeschi come Josef Müller-Brockmann e Wim Crouwel e vorrei dire che il mio lavoro si avvicina molto a queste linee, con un pizzico di mix “oscuro” nella giusta misura. Ritiene di poter considerere il computer come responsabile dello scardinamento delle regole tipografiche classiche? Il computer è un semplice strumento, sono gli umani a causare la rottura delle regole. La macchina ha la possibilità di rompere in modo più semplice, ma io penso sia più profonda la nostra naturale curiosità e voglia di sperimentare e esplorare cose nuove. Le regole in realtà esistono solo per guidare, fino a quando non si è veramente in grado di utilizzarle e non arriva il momento per poterle infrangere. La rottura delle regole si trasforma in un caos illeggibile solo quando non hai rispetto per esse, o per la loro conoscenza. Negli anni Novanta vi è stata una tendenza di rottura totale, oggi invece sembra ci sia un ritorno al rigore, secondo lei quali sono i motivi? Negli anni Novanta, designer come Neville Brody e David Carson, appunto, erano schiaccianti, tutti provarono a imitare il loro stile, il design anarchico e l’uso espressivo della tipografia e delle immagini erano ovunque. Ritengo che tutto ciò abbia portato il design grafico ai suoi estremi; fu un pezzo importante della storia della comunicazione. Ma questo stile 76


La leggibilità è una qualità fondamentale di un testo o di un carattere tipografico; è la caratteristica che ne denota la decifrabilità “visiva”, ovvero determina la facilità con cui può essere letto. Il termine quindi si riferisce sia alla composizione che al carattere, mentre in inglese esistono due termini distinti, rispettivamente legibility e readability, per indicare i due campi distinti.

Il design grafico è la pratica della comunicazione visiva. Quindi la leggibilità dovrebbe essere il cuore di tutto ciò che fa un progettista.


PAUL FELTON

di design, successivamente, iniziò a invecchiare, la reazione naturale dei progettisti fu di distinguersi e quindi inevitabilmente di tornare alle regole, alle strutture stabili e durature del design. Penso che oggi si sia giunti ad un felice punto intermedio: ci sono grandi studi che usano la tipografia in modo interessante ed espressivo mantenendo la leggibilità, che è il cuore del design. Secondo lei, che rapporto ha oggi un graphic designer con la leggibilità? Essa ha quindi un ruolo nuovamente importante nel progetto grafico? Il design grafico è la pratica della comunicazione visiva; in qualunque settore, medium o paese si possa lavorare come grafici, si è sempre occupati a comunicare un messaggio in modo innovativo e accattivante. Quindi la leggibilità dovrebbe essere il cuore di tutto ciò che fa un progettista. Ovviamente, in base alla natura del progetto, può essere più o meno cruciale: la custodia di un disco per esempio può essere più intrigante di un rapporto annuale o di un manifesto pubblicitario che deve comunicare il suo messaggio istantaneamente. Comunque una minor leggibilità non è mai la chiave. Le è mai capitato di lavorare con metodi di composizione classica? Se no, ha mai pensato di farlo? Ho usato caratteri di legno e le vecchie tecniche di stampa a blocchi; non quanto avrei voluto, ma abbastanza per accorgermi che sia un bene tornare indietro ai metodi tradizionali, per imparare veramente molto dell’artigianalità del design. Risulta più facile dare attenzione ai veri dettagli dell’impostazione tipografica quando si deve sviluppare a mano. Lo sviluppo di software per creare font sempre più semplici e sempre più reperibili ha portato alla realizzazione di caratteri spesso incompleti o illeggibili. Cosa ne pensa? L’era digitale sfortunatamente ha reso il design molto accessibile a tutti. Oggi chiunque con una versione di Word o di Photoshop pensa di essere un designer (molti possono iniziare una carriera come progettisti senza alcun apprendimento corretto). L’idea che il design sia soltanto realizzare cose “carine” è troppo facile, sia per il progetto grafico che per la creazione di caratteri. In passato progettare caratteri era molto difficile, quindi solo i grandi maestri lo facevano, persone che avevano studiato per anni. Ora esistono così tanti caratteri disegnati male che è sconcertante, sembrano stati creati in pochi minuti. Dobbiamo stare attenti a non perdere l’artigianalità. Fonderie come Hoefler & Frere-Jones sono grandi esempi di come queste abilità siano ancora in vita: progettano grandi font con set completi e molto ben disegnati. Purtroppo il costo di progetti complessi come questi rende queste font molto care, ma fortunatamente i loro autori hanno un occhio che li aiuta a

(In alto) Paul Felton (Purpose), doppie pagine da Simon Beattie –Shortlist Catalogue n°3, 2011. (Alla pagina a fianco) la copertina di The Ten Commandments of Typography, and Type Heresy, 2006, Merrel Publishers, Londra.

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PAUL FELTON

realizzare dei prodotti che valgono il loro costo. I grandi progettisti hanno lasciato il loro segno nella storia della grafica. Ritiene che oggi la figura autoriale abbia un ruolo importante come in passato? Sì, ma in modo diverso, senza lo scopo di giocare un ruolo da riferimento biblico; i grafici della vecchia scuola hanno realizzato la maggior parte delle regole che usiamo ancora oggi. Mentre gli autori di oggi sono più i discepoli di queste regole, quelli del passato offrono sempre un orientamento guida su come inserire il design in differenti medium. Per noi sono modelli di ispirazione e assicurano che le persone comuni continuino ad apprezzare il valore del design. Hanno anche il grande compito di educare migliaia di nuovi designer che proseguiranno negli studi di anno in anno. Per concludere, una domanda “personale”: se potesse scegliere una font con la quale identificarsi, quale sarebbe? Sceglierei il Baskerville perché è stato creato nella mia città natale e perché sono un designer contemporaneo, con un che di classico, originario di Birmingham!

(Qui sopra) Paul Felton (Purpose), doppie pagine da Design Council – Industry Insights Supplement, 2010. (Alla pagina a fianco) Paul Felton, pagina interna da The Ten Commandments of Typography, and Type Heresy, 2006, Merrel Publishers, Londra.

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Fonti bibliografiche Felton Paul, The Ten Commandments of Typography, and Type Heresy, 2006, Merrel Publishers, Londra. Iliprandi Giancarlo, Letterando - Lettering, 2005, Corraini, Mantova. VanderLans Rudy, Emigre n°70, The Look Back Issue â€? Selections from Emigre Magazine 1-69, 2009, Gingko Press, Berkeley, California. Tallone Alberto, Manuale tipografico II, 2008, Alberto Tallone Editore, Alpignano (TO).


Stampato presso Copying Office, Milano, luglio 2011.






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