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20 novembre 2012
Periodico di approfondimento della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
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Le sfide di Tawadros all’alba del nuovo Egitto La finanza al servizio dei supercomputer Il Novecento in rete
Amedeo ricucci, armato di telecamera per raccontare i conflitti da tutto il mondo
testimone Testimone di guerra
giornalismo
Armato di telecamera per raccontare la guerra Dal Nord Africa all’ex Unione Sovietica fino all’ultimo reportage in Siria. In vent’anni Amedeo Ricucci ha filmato scenari bellici di mezzo mondo. Cominciando da precario di Francesco Mattana
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medeo Ricucci è un viaggiatore instancabile. È un giornalista che continua a consumare le suole delle scarpe in giro per il mondo. Ma non c’è niente di retorico, niente di ‘mitico’ nel suo approccio al mestiere: avendo visto coi propri occhi i più crudeli fronti di guerra, ha sviluppato un sufficiente grado di disincanto per mettere al bando ogni enfasi. Due molle lo spingono da un capo all’altro del mondo: la curiosità e la passione per il proprio mestiere che pratica con l’umiltà di un onesto artigiano dell’informazione. Il narcisismo dell’autocitazione, lo lascia ad altri. «Dopo una laurea in Economia - spiega Ricucci - e un master in Relazioni internazionali mi sono trasferito in Africa, dove sono riuscito a trovare un posto come Jpo nell’ufficio stampa dell’Unicef per l’Africa Occidentale e Centrale: ho passato quattro
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anni a girare il Continente Nero e a farmi un’esperienza preziosa. L’Africa per me è stata una sorta di ‘battesimo del fuoco’. Grazie a quest’esperienza, ho iniziato a collaborare con diverse testate italiane: Il Manifesto, Avvenimenti, L’Espresso e Nigrizia». Come è diventato un reporter televisivo? «Nel 1993 ho cominciato a maneggiare una piccola telecamera ed è iniziata, insieme a Milena Gabanelli, la mia esperienza in Rai. Il programma si chiamava Professione Reporter». Un sogno che si realizzava? «Sì, ma non immaginavo che mi avrebbero atteso dieci anni di precariato. Così, dopo aver fatto l’inviato all’estero per anni (a Professione Reporter, Mixer, TG1), coprendo le crisi internazionali più importanti, decisi di far causa alla Rai, visto che non c’era altro modo per far valere i miei diritti. Nel
2004 un giudice del lavoro ha imposto la mia assunzione: ne vado molto fiero perché ce l’ho fatta da solo, senza l’ausilio esterno di leader politici che mi proteggessero». Da qui, una lunga carriera in Rai e la frequentazione di molti fronti di guerra. «Lavoro dal 2005 nel format La Storia siamo noi continuando a fare inchieste, documentari e reportage soprattutto dal Medio Oriente, dal Nord Africa e dai territori dell’ex Unione Sovietica. L’ultima tappa è stata la Siria. In questo caso ho sperimentato l’interattività sul web. Con un accordo con il quotidiano Repubblica abbiamo sviluppato una mappa interattiva, consultabile anche dal sito de “La storia siamo noi”. In questo modo, tappa per tappa, mentre io, Cristiano Tinazzi ed Elio Colavolpe eravamo in Siria, abbiamo guidato chi ci seguiva dentro una guerra di cui, in Occidente, si sa poco e male». Cosa avete visto in Siria? «Sono arrivato in Siria il giorno del grande attentato del 10 maggio. L’ho ribattezzato “attentatuni”, per le affinità che ho riscontrato con la strage di Capaci. Arrivando dalla Libia, ero convinto che ci fosse una situazione analoga. Ed effettivamente, pur non essendo assimilabili, esistono delle analogie tra ciò che è accaduto in Libia e ciò che sta accadendo ora in Siria. In entrambi i casi parliamo di regimi oppressivi. E in tutti e due i casi assistiamo a due 'narrative' contrapposte: bisogna provare a scavare la verità dei fatti dietro i racconti sia del regime che dell’opposizione armata. Detto ciò, per quanto non condivida la scelta armata, la mia simpatia va all’opposizione siriana scesa in piazza nel marzo 2011. È deplorevole il comportamento del regime di Assad: parla di “gruppi terroristici” , mentre questa è prevalentemente una rivoluzione di piazza. Considero le reazioni violente dell'opposizione peccati veniali rispetto alla repressione del regime. Non è facile arrivare alla verità dei nudi fatti in Siria: le persone non si sfogano apertamente perché hanno paura del governo Assad. Ho cercato di restituire quel che ho visto in un documentario per La storia siamo noi, appena andato in onda».
Per saperne di più Amedeo Ricucci, La guerra in diretta, Bologna, Pendragon, 2004 Gli ultimi reportage realizzati per “La storia siamo noi” "La guerra di Gheddafi e le bombe della Nato" (2011) "Muhammar Gheddafi: Tutti i volti del potere" (2011) "I fiori di Sidi Bouzid" (2011) "I fantasmi della nuova Libia" (2012)
Foto di Elio Colavolpe
Nel caso del conflitto siriano, come è possibile barcamenarsi, tra la propaganda e le testimonianze on the fields? «Molti colleghi soffrono di seri disturbi della vista: 'miopi' sono quelli che restando a casa non riescono a vedere al di là dei propri occhi; 'presbiti' sono quelli che restano appiattiti sulla cronaca e non colgono il quadro generale; 'ipermetropi' o 'astigmatici' quelli che, ovunque siano, fanno fatica a mettere a fuoco gli avvenimenti che dovrebbero raccontare al loro pubblico. Bisogna tener conto poi che le testate, con approccio
Chi pensa che i giornalisti debbano essere degli eroi votati al martirio dice una grande sciocchezza
superficiale, chiedono il pezzo di colore. Invece, per occuparsi di alcune crisi internazionali, ci vuole la perizia di un chirurgo». Quanto è stato importante per la sua formazione professionale l’essere cresciuto negli anni Settanta? «La mia generazione aveva l'impegno politico scritto nel dna. Nel mio caso personale, si è unita alla passione per i fronti di guerra che è nata da bambino: guardavo l'inviato Marcello Alessandri dal Vietnam sognando un giorno di seguire le sue orme». Quali sono state le chiavi di volta della sua carriera professionale? «Senza dubbio il primo momento in cui ho avuto in mano una telecamera. Ma non posso dimenticare il momento più drammatico: vedere il mio amico e collega Raffaele Ciriello morire davanti ai miei occhi mi ha spinto a interrogarmi sul senso di questo mestiere. Tutto quello che posso dire su quella storia è che mi ha segnato profonda-
mente. Chi pensa che i giornalisti debbano essere degli eroi votati al martirio dice una grande sciocchezza». Non tutti i giornalisti sono tagliati per fare questo mestiere viaggiando in luoghi ostili. Ci sono delle controindicazioni? «Lo 'choc da sbarco' colpisce i viaggiatori solitari e soprattutto quelli che frequentano mete poco battute, dove non ci sono regole che tengano. Ci sono posti dove devi inventarti soluzioni inedite per poter arrivare alla tua vera destinazione: fare l’autostop, oppure aspettare una giornata intera che qualcuno venga a cercarti, come è capitato a me in Uganda. Ad ogni modo, è sempre meglio lo 'choc da sbarco' che la sicurezza artefatta dei viaggi stampa in gruppo, all inclusive e senza emozioni». È cambiato il modo di raccontare il mondo? «L'informazione contemporanea ha un forte bisogno di immediatezza a scapito della qualità. Però attenzione a non attribuire alla modernità tutte le colpe: la manipolazione delle notizie, ad esempio, esiste da quando esiste il potere. Diciamo che il lato più negativo rispetto al passato è questa progressiva riduzione di importanza della classe dei giornalisti. Ed è una strada molto rischiosa». I 'ferri vecchi' del mestiere, cioè penna e taccuino, valgono sempre? «La curiosità, l’onestà, la passione, la competenza, il rispetto degli altri e l’etica del vero servizio pubblico sono le basi della nostra professione, sono evergreen. Per me il giornalismo si fa così. In tasca mi porto sempre i miei ferri vecchi. Pesano, sì, ma aiutano a risolvere le situazioni più difficili». MAGZINE 20 | novembre 2012
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esteri
Le sfide di Tawadros all’alba del nuovo Egitto di Matteo Menghini
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IMOSTRARE CHE IL DIALOGO interreligioso in Egitto è possibile: è questa la sfida che attende il nuovo papa copto-ortodosso Tawadros, eletto al Cairo nella cattedrale di San Marco ed entrato in carica il 18 novembre scorso. È succeduto a Shenouda III, al secolo Nazeer Gayed Roufail, che fu papa dal 1971, dai tempi di Sadat, e morto nel marzo scorso. Tawadros è il 118esimo papa di Alessandria nonché Patriarca della Santa Sede di San Marco, scelto da 2400 membri del clero copto tra i tre candidati: insieme a Tawadros c’erano il vescovo Raphael e frate Raphael Ava Mina. «Tawadros proviene dal cuore della comunità copta, il Delta del Nilo, che è pure la
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zona più ricca del Paese e il centro industriale dell’Egitto. Non è un caso che molti dei leader del Paese, sia del vecchio che del nuovo regime, provengano da qui». Lo afferma Paola Caridi, giornalista free lance e direttrice del blog Invisiblearabs.com, esperta del mondo politico e religioso egiziano. Il Delta del Nilo è anche il cuore di nuove istanze sociali e religiose che si declinano in politica: non è un caso che i leader salafiti qui abbiano il maggior numero di seguaci. Così il ruolo di Tawadros si profila decisivo tra le comunità religiose come in politica. «Il conformismo religioso - spiega Caridi - fa parte del dna del Paese, e questo vale sia per i copti che per musulmani». Ma la comunità copta è una minoranza e Tawadros dovrà gioco-forza confrontarsi con l’istanza più impellente: favorire il dialo-
go con la maggioranza musulmana-sunnita nel Paese. «Per lungo tempo i copti - dice Caridi - pari al 10% della popolazione egiziana, si sono rapportati con l’establishment governativo trattando come comunità “a parte”, senza alcuna richiesta di integrazione. Di contro, i regimi precedenti hanno difeso i copti ma li hanno anche usati: si veda il caso di Boutros-Ghali». Boutros-Ghali divenne Segretario Generale delle Nazioni Unite: la sua figura è stata spesso tirata in ballo dal governo Mubarak come esempio lampante dell’integrazione della comunità copta in Egitto. Secondo Caridi, Tawadros ha un’idea diversa su come venire a patti con la nuova dirigenza egiziana: «Tawadros vuole difendere i diritti di tutti gli egiziani. E della stessa idea sono i copti che sono scesi in piazza con i sunniti a piazza Tahrir. Su queste basi, Tawadros non insisterà più sul dialogo coptimusulmani (inteso come minoranza che chiede udienza alla maggioranza) ma difenderà la convinzione che i copti siano essi stessi parte del popolo egiziano. Il tutto, in continuità con le richieste provenienti dal popolo di Piazza Tahrir. Proprio qui si vede il più grande punto di rottura con il suo predecessore». Più importante ancora è la visione di Tawadros nei confronti della Costituzione egiziana, annunciata dal neo-presidente Mohamed Morsi e che ha fatto scoppiare disordini e proteste . «Il papa copto - dichiara Caridi – sostiene che non si può fare dell’Egitto un Paese con un’impronta religiosa così forte. Nella precedente costituzione del 1971 si parlava vagamente dell’Islam in Egitto ma senza forzare la mano sul Corano. Questo è sempre stato il timore fondato della comunità copta» che ha sostenuto alle ultime presidenziali (maggio-giugno 2012) un candidato del vecchio regime come Ahmad Shafiq, sconfitto dal dirigente dei Fratelli musulmani Mohammed Morsi». Nell’Egitto del dopo Tahrir, in cui la paura di una deriva letteralista e intransigente della rappresentanza salafita è ormai comune a laici, copti e islamici moderati, «Tawadros dovrà dialogare con il Parlamento, con i Fratelli Musulmani e con l’autorevole università al-Azhar, centro teologico sunnita e progressista di primaria importanza». Con il suo equilibrio, il nuovo papa si è già attirato le simpatie dei “figli di Tahrir”: vale a dire di tutti coloro che - dopo la protesta di Maspero del 9 ottore - hanno disperso il loro voto nell’universo dei partiti laici e si sono sentiti “traditi” dagli esiti della rivoluzione. Da questo punto di vista, una parte della “sfida” di Tawadros è già vinta.
La finanza al servizio dei supercomputer I sistemi “High frequency trading” sono in grado di compiere migliaia di operazioni al secondo. Anche con esiti devastanti, come il “Flashcrash” del 6 maggio 2010 di Alessio Schiesari
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’UOMO SI RITROVA IN BALIA dei computer che ha creato. Secondo il belga Paul Jorion, antropologo, analista finanziario ed ex programmatore specializzato in intelligenza artificiale, questa è molto più che fantascienza. Il mondo della finanza si ritrova in balia dei sistemi di scambio ad alta frequenza: robot che stanno portando i mercati al suicidio. L’acronimo di questi sistemi è Hft, “high frequency trading”, cioè scambio ad alta frequenza. I potentissimi computer che utilizzano questi software sono in grado di realizzare migliaia di operazioni al secondo. Una velocità impossibile da pareggiare non solo per qualsiasi umano, ma anche per qualsiasi computer comune. Perché c'è questo impellente bisogno di velocità? La risposta è semplice: perché velocità significa leggere il mercato per primi e lucrare su questo vantaggio. Ovviamente, a scapito di tutti gli altri. Per capire come funzionano questi computer, e come sono in grado di guadagnare dalle transazioni, Jorion utilizza un esempio: «Immaginiamo che un investitore sia pronto a comprare un milione di azioni di una data azienda fissando il prezzo limite a 30,50 euro. Questo prezzo non è visibile ai normali operatori. I terminali ad alta frequenza, con la loro capacità di dialogare ai mercati più velocemente, scoveranno l’ordine di acquisto prima degli altri operatori. Una volta in possesso di questo dato, il trader Hft farà incetta di azioni al prezzo di mercato di 30,10 euro, comprandone piccolissime quantità a ogni transazione, così da non farne crescere il prezzo. A questo punto le rivenderà tutte all’investitore reale al prezzo limite di 30,50 euro, con un guadagno di 40 centesimi per ogni azione e 400mila euro complessivi, per un lavoro durato poche frazioni di secondo». Questo
spiega perché, secondo le analisi, sui mercati americani le azioni vengano mediamente rivendute dopo 22 secondi. Quella appena descritta è solo una delle tecniche utilizzate dai computer Hft: «I computer più potenti, come quelli di Morgan Stanley e Goldman Sachs, sono anche capaci di sviluppare dei trend, cioè far lievitare o scendere il prezzo di un determinato contratto, sfruttando il fatto che il prezzo viene fissato ad ogni nuova transazione, indipendentemente dalla sua entità. Quindi comprano piccole quantità di azioni a un prezzo crescente, per poi rivenderle in blocco quando il prezzo è mutato abbastanza da garantire enormi profitti». L’attenzione degli organismi di controllo sull’Hft sulle conseguenze che questa macchina può avere sui mercati si è intensificata dopo il 6 maggio 2010, il giorno del “Flashcrash”. Quel 6 maggio, nel giro di pochi secondi, l’indice Nyse della borsa di New York crollò di quasi dieci punti in meno di dieci secondi, per ragioni apparentemente inspiegabili. Il crollo misterioso fu generato da un'imponente vendita di futu-
res da parte di un hedge fund, inizialmente bilanciata dagli acquisti effettuati dai traders ad alta frequenza. Ma un volta presa coscienza del rischio, i computer iniziarono a sbarazzarsi dei titoli a un ritmo vertiginoso (oltre 2mila operazioni al secondo), innescando un meccanismo a cascata che portò alla chiusura delle contrattazioni per eccesso di ribasso. Quel giorno apparve chiaro a tutti che «gli investitori istituzionali non possono competere con questi robot. Nei mesi successivi gli scambi alla borsa di New York crollarono del 30 per cento, perché molti investitori si spostarono su mercati che proibiscono l’accesso a queste macchine», spiega Jorion. I sistemi Hft possono avere effetti imprevedibili e devastanti sui mercati, oltre a farne crollare la profittabilità. Perché, però, non sono state adottate le misure draconiane promesse in un primo momento? Il problema è che si trovano in una posizione dominante gestendo il 73% delle transazioni azionistiche negli Stati Uniti e il 40% nel mercato europeo. Le previsioni di Jorion sono funeste: «I mercati si stanno autodistruggendo, e nessuno li sta fermando. Il controllo dei programmatori su quello che fanno è sempre più debole: gli algoritmi genetici che li guidano sono sempre più indipendenti dall’azione umana. E, a differenza dell’uomo, un computer non si preoccupa delle conseguenze perché non ha paura».
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multimedia
Il Novecento in rete Al via Cultural Institute, un progetto di Google che raccoglie su una timeline foto, documenti e video tra i più importanti del secolo scorso. Tutto gratuito, fruibile e globale di Luca Pierattini
Periodico realizzato dal Master in Giornalismo dell’Università Cattolica - Almed © 2009 - Università Cattolica del Sacro Cuore
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PRE IL PRIMO MUSEO del Novecento “virtuale” della storia. È Cultural Institute, un progetto multimediale di Google (http://www.google.com/culturalinstitute/?hl=it #!home) che dà vita a un racconto lungo un secolo, grazie all’esperienza di venti partner mondiali tra musei, archivi, fondazioni e istituti. Questo museo virtuale interattivo raccoglie foto, video e documenti che ripercorrono gli avvenimenti più importanti del secolo scorso su una timeline, una sequenza di foto, testi e materiali d’archivio straordinari. Dopo la realizzazione di progetti come “World Wonders” (http://www.google.com/intl/it /culturalinstitute/worldwonders/) e la digitalizzazione degli “Archivi Nelson Mandela”, Google ha pensato di realizzare oltre 40 esposizioni partendo dai ritratti degli imperatori dell’estremo Oriente raccolti da Alice Roosevelt Longworth. Non solo: in questo archivio digitale è possibile ripercorrere tutte le fasi della guerra civile spagnola; vivere nell’appartamento di Anna Frank; ricordarsi com’era l’Europa prima della caduta del muro di Berlino; fino agli anni dell’apartheid, raccontati seguendo la vita di Nelson Mandela. Ogni pagina del Cultural Institute mette insieme il materiale d’archivio, tra immagini ad altissima definizione e approfondimenti testuali per fornire prospettive inedite sugli eventi storici. Per l’Italia Google ha inaugurato la
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direttore Matteo Scanni coordinatori Laura Silvia Battaglia, Ornella Sinigaglia
collaborazione con l’Istituto Luce di Cinecittà: il risultato è una pagina ricchissima sugli anni della Dolce Vita romana. Grazie al Cultural institute è possibile ripercorrere tutti gli avvenimenti italiani dell’Italia del boom economico: dall’apertura del primo supermercato a Roma al lancio della Fiat 500, fino alle immagini di Lascia o raddoppia con Mike Bongiorno. Tutte le “mostre” del Cultural Institute sono disponibili in più lingue. Non tutte sono state tradotte in italiano. L’obiettivo finale è rendere disponibili queste informazioni - fino a poco fa custodite solo in archivi fisici, cartacei e fotografici sparsi in parecchi e lontani Paesi del mondo - in un grande archivio globale accessibile gratuitamente da tutte le parti del mondo. Il progetto è stato pensato con
l’intento di promuovere e preservare la cultura in rete, divulgandola allo stesso modo, ovvero il più democratico possibile. Google d’altronde, aveva già dimostrato di credere nella “liberalizzazione” della cultura a livello mondiale con “Art project”, un progetto che prevedeva la digitalizzazione delle opere dei più grandi musei del mondo (per l’Italia sono presenti gli Uffizi, i musei Capitolini, il Museo Poldi Pezzoli di Milano e i musei di Strada Nuova di Genova). Altri progetti realizzati dal Cultural Institute sono la digitalizzazione dei manoscritti del Mar Morto (“Dead sea scrolls”), la presentazione dell’esposizione universale di Parigi 2020 (“Pavillon de l’Arsenal”) e la realizzazione di una versione in tre dimensioni della reggia di Versailles (“Versailles 3d”).
redazione Francesco Berlucchi, Sacha Biazzo, Giuseppe Borello, Francesca Bottenghi, Valentina Brini, Enrico Camana, Luciano Capone, Michele Chicco, Francesco Colamartino, Francesco Collina, Alessandro Cracco, Stefano De Agostini, Francesco Durante, Danilo Elia, Arianna Filippini, Luca Aristodemo Gentile, Simone Giancristofaro, Barbara Giglioli, Michelangelo Iuliano, Benedetta Leardini, Ilaria Liberatore, Andrea Lucidi, Andrea Mari, Francesco Mattana, Matteo Menghini, Claudia Mingardi, Giovanni Naccarella, Fausto Nicastro, Roberta Pacifico, Francesco Pandolfi, Chiara Panzeri, Luca Pierattini, Marco Puelli, Diego Rivera, Gianni Rosini, Eleonora Rossi, Alessio Schiesari, Linda Stroppa, Andrea Tundo, Marcella Vezzoli amministrazione Università Cattolica del Sacro Cuore largo Gemelli, 1 20123 - Milano tel. 0272342802 fax 0272342881 magzinemagazine@gmail.com
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